Pasolini, 5. Omaggio poetico-artistico, a Palazzo Incontro

Ci avviamo alla conclusione della nostra celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini ripubblicando oggi il primo dei nostri due articoli del 2012 sulla  mostra romana al Palazzo Incontro in cui furono presentate le opere di 22 artisti ispiratisi a 11 sue poesie, domani rpubblicheremo il secondo. I 4 articoli precedenti, usciti in successione su questo sito dal 5 marzo, giorno del centenario,  riguardano il primo la  mostra fotografica di Monica Cillario del 2012, i due scguenti la mostra “Pasolini Roma” del 2014 al Palazzo delle Esposizioni, il quarto la mostra “I tanti Pasolini”  di “Spazio 5” nel 2015. Il poeta e lo scrittore, il saggista e regista e anche la sua vicenda umana conclusa tragicamente vengono riproposti nella nostra narrazione di allora.

Postato da arteculturaoggi.com [11/11/2012 00:42]

di Romano Maria Levante

Una mostra  il cui titolo  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini” è in carattere con la natura del personaggio indomito e controcorrente, scomparso tragicamente nel 1975.  Promossa dalla Provincia di Roma su progetto di “Teorema”, in collaborazione con “Civita”, catalogo di Fandango libri, aperta al Palazzo Incontro di Roma dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012. La mostra, che comprende anche due giornate di approfondimento sulla sua poetica,  presenta le interpretazioni di 22 artisti su 11 sue poesie affiancate alle opere, 2 artisti ogni poesia.

Zingaretti, alla sua sinistra Alivernini,  Borgna e Bonito Oliva

Avevamo visto nel 2011 la mostra fotografica di Monica Cillario sull’abitazione di Pasolini a Roma, dall’atrio al gabbiotto del portiere, dalla tromba delle scale al campanello, fino al Cimitero degli inglesi che ispirò “Le ceneri di Gramsci”: sembrava di sentire i suoi passi.

Questa mostra ci riporta di nuovo la sua memoria attraverso  una selezione delle sue poesie e le opere che hanno ispirato ad artisti di due generazioni: quella che ha vissuto il suo stesso periodo e quella successiva che lo ha conosciuto per fama. Gli artisti hanno interpretato il suo pensiero poetico nel 2012 o  pochi anni addietro, quindi le loro opere sono uno segno di cosa è rimasto oggi della sua lezione civile quale alimento dell’arte contemporanea con motivi forti.  Sono i motivi della sua poesia civile che ha affiancato le altre forme artistiche e letterarie in cui si è cimentato.

Ne hanno parlato con accenti commossi alla presentazione il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, che ha promosso la mostra, e i realizzatori:  Gianni Borgna, per la selezione poetica, il curatore Flavio Alivernini dell’associazione “Teorema”  nel cui  nome si ritrova  un suo film scomodo e inquietante, e il critico Achille Bonito Oliva che si è soffermato sulle diverse forme nelle quali Pasolini ha manifestato i sentimenti e la rabbia. E  una ricostruzione del film “La rabbia di Pasolini”, curata da Giuseppe Bertolucci da un’idea di Tati Sanguineti,  è in visione alla mostra.

Le forme artistiche di Pasolini per Bonito Oliva

Bonito Oliva trova nella forza della sua passione civile il motivo per esprimersi nei campi più disparati, dalla poesia al cinema, dalla narrativa alla pubblicistica, fino alle arti figurative. E questo per trovare spazi dove far passare le proprie istanze esistenziali prima che culturali, in una continua  sperimentazione che implicava la contaminazione e lo sconfinamento  tra varie forme espressive.

Forme diverse ma rivolte allo stesso obiettivo: marcare la propria presenza e la propria denuncia di una realtà afflitta da contraddizioni da decifrare con una ricerca instancabile esercitata su se stesso e con lo strumento della cultura come lente d’ingrandimento che ne rivelasse i guasti anche prima che fossero visibili. La sparizione delle lucciole è un’immagine simbolo di questa sua spasmodica attenzione nella quale non si è mai risparmiato ponendosi così come un “bersaglio emblematico”.

Delle forme artistiche utilizzate da Pasolini quella meno nota, la pittura e il disegno, viene analizzata da Bonito Oliva quasi a creare un collegamento con i dipinti esposti nella mostra in suo omaggio. Il critico lo associa al manierismo, “che esprimeva la posizione dolorosa e decentrata dell’artista”  il quale viveva in una realtà attraversata da “crisi religiose, economiche, scientifiche e morali che segnavano la fine del Rinascimento”; e questo perché sono “quelle crisi che attanagliano anche la nostra società contemporanea, ponendo l’artista fuori da qualsiasi certezza e portandolo ad adoperare l’arte come strumento d’affermazione della propria identità”.  Di qui un excursus sulla sua opera pittorica, dalle prime opere con un segno vicino a De Pisis, agli autoritratti, da quello con il fiore in bocca  alla Van Gogh, a quello dal volto verde marcio nello stile di Pontorno. In tutti deformava i propri tratti somatici mentre nei ritratti degli amici li ingentiliva. Pochi paesaggi o nature morte, nei ritratti non coglieva l’attimo ma ritraeva in posa per dare la “rappresentazione di uno stato interiore”  cioè “questa sorta di rallentamento e dilatazione di uno stato d’animo”.

In modo analogo nel suo cinema, legato alle arti figurative come lui le intendeva:  una narrazione lontana dal naturalismo per estraniarsi dalla realtà e soddisfare il suo “desiderio di contemplazione”; realizzata mediante “una sequenza di quadri staccati , di immagini splendidamente isolate tra loro”.

La sua poesia civile proposta agli artisti per il curatore Alivernini

E la poesia?  Una poesia civile come i suoi romanzi e la sua coraggiosa pubblicistica. Flavio  Alivernini parla di “totale immedesimazione fra la dimensione soggettiva, personale, oggettiva, storico culturale”.  Si tratta di “confessioni e testimonianze, psiche e realtà, poesia e storia: la ricerca spasmodica della verità, condotta con una ‘sincerità crudele'”.

Il suo è un “procedimento maieutico” in cui mette in gioco se stesso, l’immedesimazione diventa sofferenza: “Una poesia che è vita, ma lega l’esistenza alla realtà e si fa poema civile,  cercando il riscatto nella storia”.   Pasolini “bersaglio emblematico”, come lo ha definito Bonito Oliva,  per il curatore si espone a  “reazioni ostili, non solo dal punto di vista prettamente ideologico”,  e se ne rende conto lui stesso nell’introduzione del 1967 a una raccolta di poesie in cui commenta amaramente l’ “ingenuità” nello scrivere  versi “per chi non potesse volermi che un gran bene. Adesso capisco perché sono stato  tanto sospetto e odiato”.

Si è rivelato preveggente non solo con le lucciole, ma anche nella denuncia della violenza che si annidava nelle borgate e di questo odio verso la sua persona: vengono i brividi nel ripensare alla sua tragica fine in cui convergono queste sue sofferte visioni.  Nelle quali spicca la massificazione spietata che annulla l’autentica cultura.

Le visioni profetiche sono espresse nella sua poesia civile, e perciò proporre una scelta dei suoi componimenti poetici a un gruppo di qualificati artisti contemporanei è stato un modo magistrale di “tracciare un bilancio generazionale del lascito di Pasolini  alla nostra epoca”: così la sua  ispirazione poetica si incrocia con la creatività artistica dei contemporanei “in un continuo rimando di suggestioni, simboli, concetti  e creazioni estetizzzanti che si fanno impressioni e visione”.

L’opera di Maurizio Savini

Le prime 4  poesie con 8 artisti: da “Le ceneri di Gramsci” a “La religione del mio tempo”

E allora  guardiamo le 22 opere della mostra che rimandano alle 11 poesie esposte nelle rispettive stanze, nei due livelli espositivi di Palazzo Incontro, gli abbinamenti rispondono ai loro linguaggi. Il Catalogo di “Fandango libri”  riporta le une e le altre, con il “Punto di vista non autorizzato” di Elisa Santinelli, che le mette a raffronto, e la “Biografia degli artisti”, una documentazione preziosa.

Si inizia con “Le ceneri di Gramsci” del 1954, 5 ampi  testi poetici  accorati e sofferti in cui il pensiero rivolto alla memoria del personaggio dinanzi alla sua tomba  suscita profonde riflessioni su se stesso e sull’umanità. Già l’ideale al quale l’uomo politico ha sacrificato la vita, fortemente condiviso – “noi morti ugualmente con te”- sebbene “illumini questo silenzio” trova il vuoto intorno a sé, anche se il Cimitero degli inglesi, confinato e negletto dalla città, è l’ambiente adatto per questo isolamento non solo rispetto alla “noia patrizia” ma anche al lavoro operaio.

Del resto “caparbio l’inganno che attutiva la vita resta nella morte”, tutto è caduco , “scelte, dedizioni… altro suono non hanno che questo del giardino gramo”, dove aleggia un’atmosfera di malinconia che stempera le passioni: “Qui il silenzio della morte è fede di un  civile silenzio di uomini rimasti uomini, di un  tedio  che nel tedio del Parco, discreto muta”.

Ma presto si immerge in una sofferta introspezione sulle proprie esitazioni e contraddizioni: “Eppure senza il tuo rigore, sussisto perché non scelgo, vivo nel non volere: amando il mondo che odio”; fino al confronto impari:  “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere”.  E alla vitale affermazione “Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato”, segue l’interrogativo: “Ma a che serve la luce?”.

Non è solo nelle sue ambasce sul senso della vita, ripensa a Shelley, esclama “io vivo, eludendo la vita, con nel petto il senso di una vita che sia oblio accorante, violento”. Scorrono immagini  della Maremma e della Versilia, delle “torride Apuane” e della Riviera che lo portano a dire: “Mi chiederai tu, morto  disadorno, d’abbandonare questa disperata passione d’essere nel mondo?”.

Fino all’ultimo brano in cui si accommiata: “Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi”. E si rivolge di nuovo alla vita cittadina nelle sue miserie che descrive impietoso e nelle sue illusioni: “E’ un brusio la vita, e questi persi in essa la perdono serenamente” per concludere con un dubbio esistenziale lacerante: “Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?”. E’ un  compito da far tremare le vene e i polsi esprimere nell’arte questa valanga di sentimenti.

Maurizio Savini  con “Il cammino è iniziato e il viaggio è già finito”  la traduce nel corvo di “Uccellacci e uccellini”, nell’ombrello e cappello con l’assegno che firmò al ristorante poco prima di trovare la morte nella desolazione dell’Idroscalo, evocazione di un evento angoscioso.  Invece Gianfranco Baruchello, con “Enfatiche ceneri”,  rimanda al poema con scritture e segni enigmatici.

L’excursus poetico passa a “La religione del mio tempo”, 1955-59, con cinque componimenti. In “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano” descrive in modo impietoso nella loro miseria corporea prima che morale “questi uomini, educati ad altra vita che la mia: frutti di una storia tanto diversa, e ritrovati, quasi fratelli, qui, nell’ultima forma storica di Roma”.

 L’opera di Pietro Ruffo

In “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano” descrive nella loro miseria corporea prima che morale “questi uomini, educati ad altra vita che la mia: frutti di una storia tanto diversa, e ritrovati, quasi fratelli, qui, nell’ultima forma storica di Roma”.

La prima loro passione è “il desiderio di ricchezza,: sordido come le loro membra non lavate, nascosto, e insieme scoperto, privo di ogni pudore”.  E lo paragona al rapace “che svolazza pregustando chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno; così bramano soldi come zingari, mercenari, puttane”.  Ma poi sconsolato conclude: “Il loro desiderio di ricchezza è simile al mio. Ognuno pensa a sé, a vincere l’angosciosa scommessa, a dirsi: ‘E’ fatta’, con un ghigno di re…”.  Nella comune ossessione c’è solo una differenza: la speranza è “estetizzante in me, in essi anarchica”, il raffinato e il sottoproletario sono “entrambi fuori dalla storia”. Gli unici “varchi” sono “nei sensi. In cui la gioia è gioia, il dolore dolore”. Altra complessità dolente che è veramente arduo rappresentare.

Carla Accardi con “Bianca Ombra” traspone in forme e segni dai forti colori l’intreccio tra sete di ricchezza e sentimenti fino alla gioia e al dolore che trovano il loro equilibrio compositivo.   Sten & Lex, in “Ritratto anonimo”  danno un viso grigliato di donna, un grigio identikit dell’anonimato.

“Alla Bandiera rossa”  è un epigramma  che inizia con una forte legittimazione: “Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa, tu devi realmente esistere perché lui esista”.  Ma dinanzi alle sofferenze dei miseri “chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi”.  Di qui l’esortazione: “Ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.

Un tema preciso, lo visualizza Giuseppe Capitano che in “Bandiera”  presenta un panno rustico senza colore su un’asta orizzontale, al centro un grumo di stoffa rappreso,  forse un simbolo di emarginati in lotta.  Michelangelo Pistoletto con “Presentazione” espone una stoffa a scacchi chiari e scuri tenuto da due mani, segno che  quando c’è chi lo agita tutto può diventare un simbolo.

Un  epigramma, “A un papa”, del 1958, suscitò forti reazioni, dopo la morte di Pio XII cui chiede ragione di una morte senza nome e di vite miserevoli “in vista della bella cupola di San Pietro”. Gli si rivolge così: “Pochi giorni prima che tu morissi, la morte aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo”,  Zucchetto; e gli chiede il perché di tanta indifferenza rispetto alle intollerabili condizioni di vita degli emarginati: “Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente di tanti mille e mille cristi come lui”. Fino a confessare: “Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore”.  Infine l’invettiva, dura come una maledizione o una bestemmia: “Lo sapevi, peccare non significa fare il male; non fare il bene, questo significa peccare. Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto: non c’è stato un peccatore più grande di te”.

Dinanzi a questa eretica sacra rappresentazione si aspettavano opere altrettanto trasgressive. Invece  Pietro Ruffo con “Pasolini” ha reso i due aspetti contrastanti di Roma incarnati nel volto del poeta su una pianta cittadina plastificata dai segni marcati, con dei chiodi di sofferenza conficcati nel suo volto. Il “Senza titolo” di Jannis Kounellis va oltre la dissacrazione e la denuncia evocando  la morte senza rispetto e senza nome con una casacca nera sdrucita a terra su una portantina di ferro, con a lato alcune rose appassite, uno struggente monumento funebre misero e intenso non solo a Zucchetto pianto dal poeta ma forse allo stesso Pasolini, alla cui tragica fine  da solo nel posto più desolato e inospitale fa ripensare,  come le rose fanno sentire il calore dell’amore di tanti per lui.

Altre salette, altre poesie, altre opere d’arte. La visita continua,  ne parleremo prossimamente.

Info

Palazzo Incontro, Roma, via dei Prefetti, 22, dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,  da martedì a domenica ore 11,00-18,00,  entrata fino alle 17,30, lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel.  Palazzo Incontro  06.97276614; “Teorema” 392.2984.600. Info@teoremacultura.com  –  http://www.teoremacultura.com/ Catalogo:  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”, a cura di Flavio Alivernini, Fandango libri, Roma  ott. 2012, pp. 126 euro 20,00.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Palazzo Incontro, si ringrazia la Provincia di Roma, “Teorema ” con Civita, Fandango e i titolari dei diritti, in particolare gli artisti, per l’opportunità offerta. In apertura, Zingaretti, alla sua sinistra Alivernini,  Borgna e Bonito Oliva; seguono le opere di Maurizio Savini, Pietro Ruffo e Jannis Kounellis.

 L’opera di Jannis Kounellis

Pasolini, 4. “I tanti Pasolini”, di Carlo Riccardi, canzoni e film, a “Spazio 5”

La nostra celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini il 5 marzo 2022 – iniziata con la ripubblicazione dell’articolo sulla mostra del 2012 di Monica Cillario che ha fotografato la sua prima abitazione a Roma, e proseguita il 6 e il 7 marzo ripubblicando l’articolo sulla mostra “Pasolini a Roma” del 2012 al Palazzo Esposizioni dedicata alla sua figura e alla sua attività di poeta e scrittore, regista e saggista – presenta oggi 8 marzo i “Tanti Pasolini” delle istantanee del celebre fotografo Carlo Riccardi e delle testimonianze di vari personaggi nel nostro articolo pubblicato nel 2012 sulla mostra a “Spazio 5”. Domani e dopodomani 9 e 10 marzo 14 artisti ispirati a 7 sue poesie in una mostra del 2012 a Palzzo Incontro.

Postato da arteculturaoggi.com [02/11/2015, 11,30]

di Romano Maria Levante

La  “maratona”  “I tanti Pasolini” a “Spazio 5”,  sede dell’Istituto Quinta Dimensione, nei pressi di piazza Risorgimento a Roma, dal 24 ottobre al 4 novembre 2015, a quarant’anni dalla morte,  espone 30 fotografie dei primi anni ’60 di Carlo Riccardi, con 30 testimonianze di personaggi di varia estrazione nel Catalogo. Nella serata inaugurale un concerto con le sue canzoni a cura di Irene Toppetta, voce di Marta la Noce, chitarra di Fabio Micalizzi. Sono intervenuti Luigina di Liegro assessore al Turismo di Roma Capitale,  Sabrina Alfonsi e Andrea Valeri del I Municipio. Nei giorni 27-29 ottobre  in programma a “Spazio 5”, i film di Pasolini regista “Uccellacci e uccellini”, “Accattone” e “Mamma Roma”, “Il gobbo” di Carlo Lizzani  con Pasolini attore e “Pasolini, la verità nascosta” con il regista Federico Bruno, e un incontro con Silvio Parrello, del film “Ragazzi di vita”, con Ilaria Parisella. Organizzato da “Archivio Riccardi” e  I Municipio, presentato dall’Istituto Quinta Dimensione  a “Spazio 5”. Mostra e Catalogo a cura di Maurizio Riccardi e Giovanni Currado.

La locandina della mostra con una foto del 1961,
alla conferenza stampa del Premio Strega

Abbiamo dato conto a suo tempo di altre mostre su Pierpaolo Pasolini,  da quella del 2011 di Monica Cillario, un reportage fotografico  sui luoghi della sua vita,  alla mostra al Palazzo Incontro del 2012  con le opere di 22 artisti ispirate alle sue poesie, fino alla grande mostra del 2014 al Palazzo Esposizioni su “Pasolini Roma”. La mostra organizzata da “Spazio 5″  nel quarantennale evoca, con una selezionata sintesi fotografica, i “tanti Pasolini”  nelle sue relazioni in vari momenti di quotidianità.

Prima dei “tanti Pasolini” non possiamo non accennare ai “tanti Riccardi”, anch’essi evocati. In realtà  sono due, Carlo Riccardi e Maurizio Riccardi che ne prosegue l’opera, ma ci riferiamo a Carlo, il maestro che in sessant’anni di attività ad alto livello si è moltiplicato nelle vicende della storia e del costume che ha documentato così da dar vita a “tanti Riccardi”, innumerevoli come gli eventi di cui ha fissato le testimonianze irripetibili negli “attimi fuggenti”  in cui si sono verificati.

I “tanti Riccardi”  e una sorpresa

Già da ragazzo Carlo Riccardi era vicino al fotografo di Mussolini, ricorda lui stesso, e non smetteva di scattare foto, poi si scatenerà  nella “Dolce vita”. Di lì tutti gli eventi: c’è il Riccardi del cinema e il Riccardi del  costume, il Riccardi delle  dive e il Riccardi  dei Pontefici, e potremmo continuare a lungo,  tutto e tutti troviamo nei milioni di fotografie dell'”Archivio Riccardi”, qualificato come Patrimonio di interesse nazionale dalla Soprintendenza archivistica del Lazio. 

Dall’archivio vengono  “i tanti Pasolini” .presentati nella mostra a ” Spazio 5″ dall’Istituto Quinta Dimensione,  una sede aperta alle iniziative culturali di cui Carlo con orgoglio ci racconta che era la libreria del padre, che fu chiusa per l’invadenza delle grandi librerie facenti capo alle case editrici, finché Maurizio non le ha dato la nuova destinazione. E’ un prezioso punto di riferimento, raccolto e accogliente, di un’istituzione che svolge un’attività meritoria di diffusione della cultura utilizzando in modo innovativo il linguaggio dell’arte come forma di comunicazione. 

A casa Bellonci per le cinquine dei finalisti del Premio Strega e
mentre depone la scheda nell’urna alla serata finale

Tanti Riccardi, dunque, ma la serata per Pasolini  ce ne ha presentato uno sconosciuto ai più, il Riccardi pittore,  una qualifica a cui tiene molto dicendoci che  ha dipinto da sempre anche se la fotografia è la sua forma espressiva più nota. E che pittore! Al termine dell’incontro la sorpresa: all’uscita, un “tazebao” su tela lungo quindici metri e alto un metro era disteso a terra sul marciapiede davanti all’ingresso, una specie di affresco di un cromatismo intenso, con una sequenza di immagini celebrative del Giubileo dall’apertura della Porta Santa, molte mani aperte nelle quali il riferimento ai graffiti primordiali si unisce all’espressione della fede. E’ stato il modo da lui scelto per celebrare i suoi novant’anni, realizzato  la sera prima, un miracolo incredibile di arte ed energia.

“I tanti Pasolini” nelle immagini scattate da Carlo Riccardi

“I tanti Pasolini” presentati nella mostra attengono alle diverse incarnazioni del poliedrico uomo di cultura di cui si celebra il quarantennale della morte violenta, sulla quale Carlo Riccardi ha delle idee ben precise, in controtendenza rispetto a quanto si ritiene generalmente sulla matrice dell’orrendo assassinio.  Ma il suo ricordo è sereno, nel rievocare il primo incontro sul set del “Gobbo” di Lizzani, in cui gli riservò “un interrogatorio particolare: condotto per tutto il tempo con il sorriso”; e aggiunge: “Pasolini parlava con chiunque. Era curioso, sempre interessato a qualsiasi cosa. Per me era come parlare con un amico sempre disposto a sapere cosa mi accadesse”. 

La selezione di 30 fotografie  coglie Pasolini in  diversi momenti in cui si è manifestata la sua multiforme attività di scrittore  e regista, attore e giornalista, poeta e drammaturgo.  L’obiettivo di Carlo Riccardi  ce lo mostra soprattutto agli inizi, perché il grande fotografo sa puntare su chi esploderà in seguito. Le immagini esposte risalgono alla prima metà degli anni 60, tranne due del 1969, ne documentano la partecipazione a diversi eventi relativi alla sua multiforme attività.

Nel 1960  vediamo Pasolini scrittore al Premio Strega con Laura Betti; Pasolini attore sul set  del “Gobbo” in 4 immagini, una con il registra Carlo Lizzani, due premonitrici, la morte violenta del personaggio di Leandro da lui interpretato; Pasolini sceneggiatore sul set del film  “Il bell”Antonio”  con Marcello Mastroianni e Pierre Brasseur.

Nel cinema nel 1960 già due Pasolini, nel 1961 il terzo e principale Pasolini  regista, Carlo Riccardi lo riprende in due immagini alla prima di “Accattone”, una con Franco Citti;  il Pasolini scrittore lo vediamo nello stesso anno al Premio Strega con Goffredo Parise e una dolcissima Laura Betti che si stringe affettuosamente a lui, l’istantanea  è riuscita a cogliere un momento di tenerezza; poi l’abile fotografo lo riprende mentre deposita  la scheda nell’urna e nella conferenza stampa.

Lo ritroviamo al Premio Viareggio nel 1962, seduto tra Giuseppe Ungaretti e Adriana Asti; e nel 1963 alla presentazione di un libro alla Libreria Einaudi a Roma.  E’ l’anno della foto di  Pasolini regista al Festival internazionale del cinema di Venezia  e del Pasolini perseguitato per i suoi film, lo documentano due immagini, la prima mentre si difende davanti al giudice  del Tribunale di Roma dall’accusa di vilipendio della religione per il film “La ricotta”, la seconda liberatoria all’uscita da Palazzo di Giustizia  scortato dagli amici Alberto Moravia e Dacia Maraini, Enzo Siciliano e Laura Betti; forse nella stessa occasione altre due immagini serene, al bar con Alberto Moravia e Laura Betti e un intenso primo piano con  questa sua grande amica, questa volta dall’espressione assorta.

Siamo nel 1964, ecco il Pasolini drammaturgo alla prima di uno spettacolo teatrale e il Pasolini scrittore e figliodurante la serata finale del Premio Strega con la madre Susanna Colussi.

Ancora al Premio Strega nel 1965 in quattro immagini, due a Casa Bellonci alla votazione della cinquina, con Arnoldo Mondadori e Maria Bellonci, due alla serata finale  in un insolito completo bianco, una con Paolo Volponi, l’altra con Isabella Barzini in abito da sera bianco a riquadri.

Del 1969 le due ultime foto,  all’aeroporto di Ciampino, in una bacia Maria Callas, la sua Medea.

Una galleria essenziale ed espressiva, alcuni dei “tanti Pasolini” ripresi con immediatezza.

Una foto del 1962 a Viareggio con Adriana Asti

La figura di Pasolini nelle testimonianze che accompagnano le immagini

Insieme a queste immagini  fissate dalla fotocamera  di Carlo Riccardi,  l’iniziativa di “Spazio 5” ha presentato anche i giudizi  di tanti personaggi che operano nei vari settori dei “tanti Pasolini”: alla galleria fotografica il Catalogo associa questa raccolta di testimonianze,   ciascuna  delle quali accompagna ogni singola fotografia.

Iniziamo con  la testimonianza del produttore cinematografico Manolo Bolognini, che ricorda la prontezza con cui, dopo soli venti giorni, consegnò l’intera sceneggiatura del “Bell’Antonio” diretto dal fratello Mauro Bolognini: “Era un uomo straordinario, uno scrittore, un poeta, un pittore e poi diventò anche un grande regista. I suoi problemi sono tutt’altra cosa”. E con la testimonianza di  Ilaria Parisella, Heritage manager: “Curiosità, passione, competenza, diversità sono le parole chiave con le quali Pasolini ha intrapreso sempre nuove incursioni in campi espressivi diversi, integrandoli  tra loro. Un uomo unico, dalle mani sempre ‘fredde’ e ‘sudate’, dalla voce sottile e soave, emaciato come se avesse già incise sul volto le ferite della vita e della morte”.

Innocenzo Cipolletta, ora commissario dell’Azienda speciale Palaexpo, ci riporta alla sua visione: “Da un lato ha provato nostalgia per un mondo ormai passato, ma dall’altro si è totalmente proiettato verso il futuro”. E aggiunge: “Per me la figura di Pasolini ha rappresentato l’occasione per riflettere sulla capacità di guardare alle cose nuove , valutandone, però, l’effettiva utilità”.

E’ una chiave per interpretare l’interesse unanime scattato oggi per un intellettuale ai suoi tempi molto  controverso , che lo storico dell’arte Costantino D‘Orazio  vede così: “Pasolini ha lasciato innumerevoli tracce del suo passaggio nella cultura contemporanea, forse anche più  di quanto lui stesso avrebbe immaginato… Ha creato un immaginario a cui l’arte contemporanea attinge continuamente, correndo spesso il rischio di tradire le sue idee, eppure attratta dalle sue atmosfere irrisolte e dalle sue provocazioni”.

Nel 1963 alla presentazione di un libro con Laura Betti

Altra chiave interpretativa è la sua capacità di anticipare gli eventi, la mostrò fin dal  1962 nella poesia “Alì dagli occhi azzurri” sugli arrivi degli africani in Calabria, tappa verso Marsiglia, come oggi con Lampedusa, tappa verso  la Germania, lo evoca il regista Enzo De Carolis: “E’ impossibile non ammirare la sua lungimiranza  che tutt’oggi ci aiuta a riflettere e per la quale non possiamo non essergli grati”. Il filosofo ed epistemiologo Giulio Giorello aggiunge: “Pasolini è stato un grande testimone del nostro tempo, che ha saputo cogliere con largo anticipo le contorsioni della politica, il ‘problema del palazzo’, la difficile condizione dei diversi. Ora sembra più facile, ma allora erano momenti duri, di censura della libera espressione”.  

Dallo scrittore Roberto Ippolito un’ulteriore angolazione, mentre ricorda  la risposta a Italo Calvino sulla vita  di studio, lavoro e relazioni di un intellettuale: “Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita’. E spiegò che quest’altra sua vita si svolgeva in mondi diversi, fra i contadini, i sottoproletari, gli operai”. Questo il commento: “Pasolini non è dunque e non vuole essere l’uomo di cultura  distaccato dalla realtà quotidiana. Non è arroccato nella cittadella di un’èlite che ostenta la propria superiorità, con un comportamento dannoso anche oggi.  Tocca invece con mano la diversità, è immerso dentro. la vive, anche esageratamente… Lui non si limita a guardare il panorama dalla torre, dall’alto in basso. In basso c’è.

E da quella posizione non si può restare nell’ortodossia, lo dice il maestro della fotografia  Ferdinando Scianna: “Pasolini è stato un personaggio di snodo della società italiana perché è stato quello che si definisce un ‘eretico’. Era, infatti, ‘eretico’ da diversi punti di vista: da quello della cultura religiosa, da quello della cultura italiana, dal partito comunista, dalla sessualità, dalla sua maniera di vivere le cose. In quanto tale, è stato un personaggio  portatore di scandalo”.

 All’esterno del Palazzo di Giustizia a Roma
con Dacia Maraini e Alberto Moravia, Enzo Siciliano e Laura Betti

Queste le conclusioni che Filippo La Porta trae dalla carrellata di giudizi e dalla galleria  di fotografie “che lo ritraggono nei contesti più diversi e stranianti” nel piccolo ma denso Catalogo: “Ecco, la cosa che bisognerebbe dire di Pasolini è che amava la vita… Certo, la amava a modo suo, con quella furia e tensione totale, e a volte in modi decadenti, ma la amava, e amava di un amore straziante la cultura, la tradizione, la grande civiltà del  nostro paese, la felicità reale, e ancor di più le persone umili del popolo, quelle  che non sanno nemmeno di avere dei diritti”.

E’ un’immagine di vita che ce lo fa sentire vicino, come nel delicato pensiero della scrittrice Dacia Maraini che – con Alberto Moravia il quale pronunciò una commossa orazione funebre  alle sue esequie dopo la tragica fine nel giorno dei morti di quarant’anni fa – gli fu sempre vicina:  “Pasolini sarebbe ora qui al Premio Strega e avrebbe uno sguardo sempre più attento verso la realtà. Però avrebbe anche un sorriso dolcissimo, perché lui era così, un uomo mite e sorridente. Nonostante avesse dentro di sé vigore, sicurezza, decisione, determinazione, era poi anche molto capace di grande affetto”.

All’interno del Palazzo di Giustizia nell’interrogatorio davanti al giudice

Le sorprendenti canzoni di Pasolini in un concerto per voce e chitarra

Una commemorazione  con queste immagini e con queste parole sarebbe già di per sé meritevole. Ma a “Spazio 5” si è andati anche oltre. Per i prossimi giorni sono previste le proiezioni di alcuni film-cult con lui regista, “Uccellacci e uccellini”, “Accattone” e “Mamma Roma”,  con lui attore,  “Il gobbo” di Carlo Lizzani, con l’intensa ricerca diFederico Bruno,“Pasolini, la verità nascosta”.

E nella serata di inaugurazione della mostra e presentazione del Catalogo con  30  testimonianze tra le quali abbiamo colto fior da fiore quelle citate, c’è stata una sorpresa straordinaria, un altro Pasolini in aggiunta ai “tanti” evocati, scrittore e giornalista, regista e attore, poeta e drammaturgo: il Pasolini autore dei testi di canzoni musicate da alcuni dei più  famosi cantautori dell’epoca, come Sergio Endrigo e Domenico Modugno, e da musicisti del calibro di Piero  Umiliani, Piero Piccioni  ed Enni o Morricone.  

Le canzoni non solo sono state evocate, ma eseguite dal vivo in unvero concerto,  introdotte da Irene Toppetta, una studiosa colta e appassionata che si è dedicata alla riscoperta del repertorio musicale di Pasolini, sconosciuto anche ai tanti  che ne hanno seguito sia pure da lontano, sin dal suo nascere,  l’escalation culturale e artistica nonché le polemiche che l’hanno accompagnata.  La Toppetta ha sottolineato come le sue canzoni impegnate e di denuncia  fossero lontane dal clichè musicale sanremese e in un caso la Rai ne impedì la trasmissione per alcune immagini forti; e le ha presentate con  accuratezza e discrezione, affidandole alla voce di Marta La Noce accompagnata alla chitarra da  Fabio Micalizzi.

Così abbiamo ascoltato canzoni allora cantate da Laura Betti, che fu attrice nei suoi film .  “Macrì Teresa detta Pazzia”, dal tono sommesso che si eleva in un grido, i suoi versi musicati da Piero Umiliani,  “Cristo al Mandrione”,  dedicata alla vita di borgata con musica di Piero Piccioni, e “La sbronza” con la prostituta ubriaca che si illude di aver ritrovato la verginità. Fino a “Il soldato di Napoleone” con un’immagine forte che la Rai chiese di eliminare e ne ricevette un rifiuto, da Pasolini e da Sergio Endrigo, autore della musica;  e  alla canzone “Che cosa sono le nuvole?”, musica di Domenico Modugno: entrambe le canzoni con l’inconfondibile quanto diverso timbro musicale dei due cantautori  e l’altrettanto inconfondibile sigillo poetico di Pasolini. L’ultima canzone del concerto è stato un  pezzo difficile, “Danze della sera”, musica di Ettore de Carolis, un virtuosismo.  Non sono le uniche di Pasolini, ve ne sono altre, da “Valzer della toppa” e “Marylin”, cantate da Laura Betti,  a “Uccellacci e uccellini” cantata da Domenico Modugno. Vi sono delle raccolte in CD, anche con la consulenza artistica di Laura Betti,  contenenti  15 canzoni, il libretto dei testi poetici  e una “Meditazione orale” di Pasolini, .Sono stati fatti in passato dei concerti tra cui quello all'”Auditorium Parco della Musica”  con Aisha Cerami e Nuccio Siano.

Nel 1960,  la sequenza di “Il gobbo”  di Carlo Lizzani
in cui viene ucciso Leandro, da lui interpretato

Pasolini si cimentava anche in questo genere  ritenuto minore,  per la  penetrazione popolare che aveva la canzone e arrivava dove non  entravano  romanzo e poesia, cinema impegnato e  teatro. Perciò nel 1956 sulla rivista “Avanguardia” aveva scritto che era “sollecitabile e raccomandabile” l’intervento di un vero poeta nel campo della canzone. “Non vedo perché sia la musica che le parole delle canzonette non dovrebbero essere più belle”, aggiungendo: “Personalmente non mi è mai capitato di scrivere versi per canzoni…, non mi si è presentata l’occasione…, credo che mi interesserebbe e mi divertirebbe applicare dei versi a una bella musica”.   A questa prenotazione vera e propria  seguirono le canzoni cantate da Laura Betti in romanesco, poi negli anni ’60 le altre.  

Marta la Noce, con il magistrale accompagnamento “a memoria” di Fabio Micalizzi alla chitarra, ha interpretato con intensa immedesimazione il difficile repertorio creando un’atmosfera veramente suggestiva. L’impegno dei due interpreti e della “voce narrante” di Irene Toppetta, curatrice dello spettacolo, e la resa artistica inseriscono di diritto  la “performance” nel programma di celebrazioni dell’apposito Comitato  presieduto da Dacia Maraini costituito dal Ministero per i Beni e le Attività culturali, e presentato il 20 ottobre al Teatro India dal ministro Dario Franceschini che ha  lamentato “il colpevole ritardo nell’aver capito l’artista , cosa che invece ha fatto da subito il popolo italiano”,  affermando  esplicitamente che per questo la celebrazione “è anche un atto di scusa”. 

L’ultima immagine della mostra, nel 1969 all’Aeroporto
di Ciampino a ricevere la Callas, che bacia in un’altra immagine

E’ un programma sterminato, che si protrarrà per un intero anno:  comprende anche Bologna, Casarsa e Pordenone, città della sua biografia, e soprattutto Roma con la mobilitazione di primarie istituzioni culturali, come le Biblioteche e la  Casa della letteratura, teatrali e cinematografiche, compresa la Festa del cinema: sono previste tutte le forme di manifestazioni, readings  di poesie e prose, film e documentari, spettacoli teatrali e convegni, perfino installazioni e street art, una partita di calcio e un treno celebrativo, la Rai manderà in onda circa 30 trasmissioni nei diversi canali a tutte le ore, anche notturne.

Auspichiamo che in questo programma  altamente apprezzabile, ai concerti con le sue canzoni sia dato lo spazio che meritano, e vi  trovino posto  gli interpreti  ascoltati allo “Spazio 5”.  Così potrà essere valorizzata anche questa angolatura sorprendente e meno nota quanto preziosa nel rutilante caleidoscopio di espressioni culturali e artistiche dei  “tanti Pasolini”.

In questo modo viene celebrato a 360 gradi  un uomo di cultura, grande  artista  sensibile e ispirato, anticonformista e anticipatore coraggioso,  che subì l’aggressione di 33  processi penali  contro la sua libera espressione artistica, prima dell’aggressione mortale;  tutto questo gli è dovuto, è l'”atto di scusa” di cui ha parlato il Ministro, riparazione purtroppo tardiva, tanto alto è il prezzo che ha dovuto pagare alla violenza assassina. La sua eresia era a 360 gradi, non risparmiava nessuno nel dare “scandalo” rispetto al perbenismo corrente e alle ideologie,  anche a quelle ammiccanti al proletariato. 

Ha ragione Ferdinando Scianna  a concludere la sua testimonianza che abbiamo riportato, con le parole: “I portatori di scandalo hanno una tendenza a essere sacrificati: è successo anche a Cristo e a quasi tutti gli altri, le cui personalità sono state poi recuperate e divinizzate”. 

E’ venuto il momento di farlo, e farlo bene, con  impegno e convinzione, e sembra che ci siano tutte le premesse nella mobilitazione su un programma  ampio e coinvolgente. Non è mai troppo tardi viene da dire con commozione.

Un momento della serata, in controluce, al termine del loro concerto,
da sinistra Fabrizio Micalizzi, Marta La Noce, Irene Toppetta

Info

“Spazio 5”, via Crescenzio 99, Roma, pressi Piazza Risorgimento. Dal martedì alla domenica ore 15,00-20,00, ingresso gratuito, fino al 4 novembre.  Tel. 06.6876251, cell. 348.4814089; info@spazio5.com; www.spazio5.com. Catalogo: Maurizio Riccardi – Giovanni Currado, “I tanti Pasolini”, Fotografie di Carlo Riccardi, Archivio Riccardi, settembre 2015, pp.  80, formato 14,5 x 16. Il programma della “Maratona” di “Spazio 5” prevede alle ore 17 e 19 di martedì 27 ottobre i film “Uccellacci e uccellini” e “Pasolini, la verità nascosta” con il regista Federico Bruno; di mercoledì 28 ottobre  il film “Accattone” e l’incontro con Silvio Parrello, “er  Pecetto” di “Ragazzi di vita”. Alle ore 16 di giovedì 29 ottobre “Il gobbo” con lui attore e alle ore 18 “Mamma Roma”.  Per le altre mostre su Pasolini citate nel testo cfr.i nostri articoli: in questo sito, “Pasolini, la vita e l’arte al Palazzo Esposizioni”, 27 maggio 2014, e  “Pasolini, al Palazzo Esposizioni il suo rapporto con Roma”, 15 giugno 2014; “Pasolini, omaggio poetico-artistico a Palazzo Incontro”, 11 novembre 2012, e  “Pasolini, altri 14 artisti per 7 sue poesie a Palazzo Incontro”, 16 novembre 2012; in “fotografia.guidaconsumatore” “Pasolini, commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario”, maggio 2011, il sito ora citato non è più raggiungibile, l’articolo sarà trasferito prossimamente su questo sito. Cfr. anche, per le mostre fotografiche a “Spazio 5” ,  in questo sito il nostro articolo “Esposito, Carlo e Maurizio Riccardi ricordano i due Papi santi”, 4 luglio 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella serata di inaugurazione della mostra con il concerto di canzoni di Pasolini, si ringraziano gli organizzatori con i titolari dei diritti,  l'”Archivio Riccardi” e in particolare il maestro Carlo Riccardi, anche per la disponibilità  nel rendere possibile la nostra difficile foto notturna sul  suo “tazebao” pittorico. In apertura, la locandina della mostra con una foto del 1961, alla conferenza stampa del Premio Strega; seguono un gruppo di immagini del 1961, 1964 e 1965  che lo vedono, tra l’altro, a casa Bellonci per le cinquine dei finalisti del Premio Strega e mentre depone la scheda nell’urna alla serata finale, e una foto del 1962 a Viareggio con Adriana Asti; poi nel 1963 alla presentazione di un libro con Laura Betti, all’esterno del Palazzo di Giustizia a Roma con Dacia Maraini e Alberto Moravia, Enzo Siciliano e Laura Betti, e all’interno del Palazzo di Giustizia nell’interrogatorio avanti al giudice; quindi, nel 1960,  la sequenza di “Il gobbo”  di Carlo Lizzani in cui viene ucciso Leandro, da lui interpretato; infine l’ultima immagine della mostra, nel 1969 all’Aeroporto di Ciampino a ricevere la Callas, che bacia in un’altra immagine; infine un momento della serata, in controluce, al termine del loro concerto, da sinistra Fabrizio Micalizzi, Marta La Noce, Irene Toppetta; in chiusura, Carlo Riccardi, “Il Giubileo”, “tazebao” pittorico di 15 metri dipinto il giorno prima: l’autore sta in piedi sulla lunga tela  piegandosi in avanti e verso il basso per cercare la luce e consentire la nostra difficile ripresa notturna. 

Pubblicato in www.arteculturaoggi.com il 10 ottobre 2015

Carlo Riccardi, “Il Giubileo”, “tazebao” pittorico di 15 metri dipinto il giorno prima: l’autore sta in piedi sulla lunga tela  piegandosi in avanti e verso il basso per cercare la luce e consentire la nostra difficile ripresa notturna

Pasolini, 3. Il suo rapporto con Roma, al Palazzo Esposizioni

Il 5 marzo 2022, nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, con l’articolo sulla mostra di Monica Cillario che ne ha fotografato la prima abitazione, abbiamo iniziato a ripubblicare i nostri 6 articoli usciti nel decennio scorso, questo articolo è il secondo sulla mostra “Pasolini Roma” del 2014 al Palazzo delle Esposizioni. Seguiranno 3 articoli, il primo sempre sulla figura di Pasolini nelle fotografie di Carlo Riccardi nel 2015, gli ultimi due su 14 artisti ispiratisi a 7 sue poesie nella mostra a Palazzo Incontro del 2012.

Postato da arteculturaoggi.com [15/06/2014, 11,30]

di Romano Maria Levante

La mostra “Pasolini Roma”, aperta al  Palazzo Esposixzioni di Roma dal 15 aprile al 20 luglio 2014, un’iniziativa europea che vede insieme all’Azienda speciale Expo istituzioni culturali e cinematografiche di Barcellona, Parigi, Berlino,  ed è sostenuta dal  programma Cultura dell’Unione Europea. Curatori Alain Bergala, Jordi Bailò e Gianni Borgna, consulenza scientifica di Graziella Chiarcossi. Il  catalogo Skira-Palazzo Esposizioni contiene una vasta documentazione con testi di Pasolini, fotografie e documenti sulla sua vita, e un a serie di interviste sulla sua figura. E’ intervenuto alla presentazione, con l’assessore alla cultura della Regione Lazio Lidia Ravera, il nuovo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo, Franco Bernabè, con un saluto e un impegno.

Pasolini a Chia con la esidenza presso la torre di sfondo, 1973

Abbiamo ripercorso la prima parte del rapporto tra Pasolini e Roma, il suo arrivo con la madre e l’alloggio di fortuna vicino al ghetto, poi l’abitazione a Monteverde in via Fonteiana. In questo periodo scrive il poema “Le ceneri di Gramsci” e trova i primi successi letterari  con il romanzo “Una vita violenta” e poi  “I ragazzi di vita”, quindi quelli cinematografici  con “Accattone”  e “Mamma Roma”, fino alla trasgressione religiosa di “La ricotta” . Continuiamo a far scorrere  i fotogrammi della sua vita e della sua arte nell’allestimento della mostra, tra mappe e fotografie,  testi e documenti.

Iniziamo citando l’intensa poesia dedicata a “Marilyn”, si rivolge a lei “impudica per passività, indecente per obbedienza” commiserandola: “Fra te e la tua bellezza posseduta dal potere si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente”. E quindi “la tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne così un male”,  per questo “sei tu  la prima oltre le porte del mondo abbandonato al suo destino di morte”. C’è una grande tenerezza, come verso l’emarginato della poesia “A un papa” che contrappone al pontefice, perché era anche questo l’aspetto saliente della sua sensibilità, al di là di ogni apparenza.

Dopo la trasgressiva “Ricotta” affronterà il tema religioso direttamente in “Il Vangelo secondo Matteo”, confrontandosi  con la figura di Cristo in modo rispettoso e suggestivo. 

 “Autoritratto con fiore in bocca”, 1947

1964, “Il Vangelo secondo Matteo; 1965 “Uccellacci e uccellini”

Nel 1963 torna in Africa, visitando il Kenya e il Ghana, va  nello Yemen e in Nigeria, poi compie un sopralluogo in Palestina per l’ambientazione del “Vangelo secondo Matteo”, il terzo mondo lo affascina, ma sceglie il Sud per le riprese, le grandi carte geografiche all’inizio della sezione evidenziano questa fase movimentata della sua vita. Ma percorre in lungo e in largo anche l’Italia in automobile  per il film-inchiesta “Comizi d’amore“, al microfono intervista la gente sulla propria idea di sessualità confrontando mentalità e pregiudizi e attirandosi violenti attacchi, nella mostra sono esposte le fotografie che lo vedono in azione come reporter in varie località, dal nord al sud.

Le maggiori possibilità economiche dopo i successi cinematografici gli consentono di acquistare un appartamento, lascia il centro, vuole avvicinarsi alla campagna romana pur se si rende conto che sta sparendo.  Nella poesia “Ricerca di una casa”, del gennaio 1962,  parlava della “casa della mia sepoltura”, dicendo “mi era sembrata sempre allegra questa zona dell’Eur, che ora è orrore e basta. Mi pareva abbastanza popolare”, e dinanzi alle “palazzine ‘di lusso’ per i dirigenti transustanziati in frontoni di marmo”, si chiede: “E dove, allora, trovarlo, il mio studio,calmo e vivace, il ‘sogno nitido dei miei poemi’ che curo in cuore come un pascoliano salmo?”-

Lo troverà proprio all’Eur, un appartamento col giardino per la madre che ama coltivare i fiori,  in via Eufrate, vicino alla basilica di san Pietro e Paolo,  da cui si vede il “Colosseo quadrato”, con le arcate alla De Chirico:  significativamente è esposto in mostra il quadro del pittore metafisico “Arrivo del trasloco”, riferito a quel periodo, precisamente il 1965 anche se è retrodatato 1951. La poesia “Supplica a  mia madre” dell’aprile 1962  rivela un  groviglio di sentimenti: “E’ dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai dato…. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia sc hiavitù”.  Scriverà anche una poesia alla morte di Pio XII, in cui l’intensità di contenuto è pari alla temeraria dissacrazione.

Pasolini con Totò

Dalla nuova abitazione, oltre all’edilizia littoria a alla campagna  si vedono anche i cantieri della periferia, metafora del rivolgimento urbanistico di quegli anni per i raccordi autostradali e le altre infrastrutture,  nonché  l’edificazione dei “palazzinari” romani.  In uno scenario simile è ambientato “Uccellacci e uccellini”, del 1965-66, con Totò e Ninetto Davoli, un film socio-politico  con metafore ideologiche sul marxismo impersonato da un  corvo: in uno scritto esposto in mostra  afferma di aver voluto “far coincidere il mio nuovo marxismo e il suo, ma al di là della mia inerte, e puramente negativa, esperienza degli ultimi anni”. Le foto di scena con Totò e a Totò sono  molto espressive, ma ve ne sono anche di tono familiare all’interno della sua casa all’Eur.

Nel 1964 aveva girato “Il Vangelo secondo Matteo”, ambientato nel sud,  per la figura di Cristo si era rivolto invano al poeta russo Evtuschenko, lo impersonò  lo spagnolo  Irazoqui, uno studente antifranchista a Roma per raccogliere fondi contro la dittatura del suo paese, dopo il film gli sarà ritirato il passaporto.

E’ esposto un testo in cui descrive l’errore iniziale nel girare la prima scena con la tecnica di “Accattone”: “Era chiaro che la sacralità tecnica, la figliale semplicità che scardinava dalla sua usuale (e convenzionale) semanticità la ‘materia’ delle borgate romane, diventava di colpo retorica e ovvia se applicata alla ‘materia’  di per sé sacra che stavo raccontando”.  Al punto da dire: “Quando, ora, quella scena  passa sullo schermo – per quanto corretta e accomodata in montaggio – me ne vergogno selvaggiamente”.  Si corregge e alla fine ottiene un film “dall’inaspettata purezza  di tratti, che livella beatamente tutte le mie punte magmatiche, espressionistiche, casuali, arbitrarie, asimmetriche, tutte le libertà di montaggio,tutte le mie irregolarità”.

Ha raggiunto quello che voleva, “una specie di normalità fatta di distacco e silenzio” . La sua appassionata descrizione si conclude così: “L’evocazione ora stranamente prevale sulla rappresentazione. Il caos ha ritrovato una imprevista pacificazione tecnica e stilistica. Me ne sto chiedendo il perché”. E in un colloquio con Sartre rivendica di aver ottenuto e accettato il Pemio dell’Ufficio cattolico per il Cinema.  Il film vince il premio della Giuria al Festival di Venezia, e viene proiettato anche nella cattedrale di Notre- Dame: è un periodo in cui sente molto vicino il mondo intellettuale parigino, è in  contatto con Sartre e Barthes, Metz e Godart, il regista che gli “presterà” gli attori per il film “Porcile”.

Un riquadro con tanti volti ripetuti di “Il Vangelo secondo Matteo” 

1966-68, dalla disillusione alla sfida ai borghesi nella contestazione studentesca

Nel 1966 diventa autore teatrale, sei tragedie in  versi scritte in un mese di convalescenza a casa. Ma vede Roma con occhi diversi, il sottoproletariato romano ha perduto l’ “innocenza”  che aveva descritto nei romanzi e nei film, corrotto dal consumismo piccolo borghese, gira il film “Edipo re” in Marocco, ambienta in  Lombardia le scene  autobiografiche del prologo. Eccolo a New York, in una foto davanti a un cinema dove si proietta “La gatta sul tetto che scotta” con Liz Taylor.  

Siamo al 1968, attacca le posizioni di sinistra libertaria  della contestazione. Con la poesia “Il PCI ai giovani!”  si rivolge ai contestatori dicendo: “Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo!), ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, e sicuri, prerogative piccolo-borghesi”  Per questo, aggiunge, “quando ieri a Valle Giulia avete fatto  a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri, vengono da periferie, contadine o urbane che siano”. Le foto  della “battaglia di Valle Giulia” , e di un’assemblea di giovani comunisti con  Gianni Borgna vicino a lui illustrano questo momento, li affronterà a Torino dove Laura Betti interpretava il suo dramma “Orgia”.

Sono esposte anche immagini  del film “Teorema”, del 1968, quelle misteriose ed esoteriche  di Laura Betti e quelle conturbanti della bellissima Silvana Mangano. Nel 1969 gira il film “Amore e rabbia”, lo vediamo fotografato con Ninetto Davoli, e “Medea”, interpretata da Maria Callas con cui ha una intensa relazione fatta di amicizia e di amore,  sono esposte foto in cui sono insieme  in Grecia e nel Mali. A lei dedica un disegno molto particolare, “Senza titolo”,  sei multipli alla Warhol del suo profilo a tratti sottili.

Pasolini in un’immagine di solitudine

1970-75,  l’ultima fase dalla “Trilogia della vita” alla tragica fine

Per un drammatico scherzo del destino dal 1970 al 1974, l’anno prima della morte, si impegna in un ciclo di film che chiama “Trilogia della vita”, perché va alla ricerca dell’innocenza perduta nel consumismo  immergendosi in un mondo mitico scomparso: gira il “Decameron”  nel Mezzogiorno d’Italia, va in Inghilterra per “I racconti di Canterbury” e in una serie di paesi africani ed asiatici per “Il fiore delle mille e una notte”, le mappe esposte in mostra rendono visivamente questo suo periplo. Ma la fuga dalla realtà non riesce, terminati i film ci sarà l’abiura dalla “Trilogia della vita”.

Viene presentata un’interessante intervista di Gianni Borgna in cui Ennio Morricone, parla del loro rapporto durante i  film  di cui ha scritto la colonna sonora, tra cui quelli appena citati oltre a “Uccellacci e uccellini”; vi abbiamo trovato lo stesso rispetto reciproco mostrato con Anna Magnani,  Pssolini aveva le sue idee ben precise e le esternava, a Morricone chiedeva di inserire o imitare musiche di autori classici da lui prescelti, ma alla sua replica che gli piaceva “scrivere musica, musica originale”, rispose: “E allora faccia pure come vuole”. Ma Morricone aggiunge che per i film della “Trilogia della vita” “ci fu come un regresso della mia aggressività creativa. Io mi arresi alal sua volontà. Poi, nel ‘Fiore delle Mille e una notte’, ci fu come una  mia piccola rivincita. Ripresi, infatti, a scrivere musica originale, tranne in qualche punto”.

Nel gennaio 1973  inizia la collaborazione fissa con il “Corriere della Sera”, il tono e contenuto emergeva subito dal primo articolo, “Contro i capelli lunghi”, i capelloni dei contestatori, sul piano nostalgico ci sarà il celebre articolo sulla “Scomparsa delle lucciole“,  sono i suoi “Scritti corsari”.

“lo non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca.”.

In questa “scandalosa ricerca” non esita ad affermare: “”Forse qualche lettore troverà che dico delle cose banali. Ma chi è scandalizzato è sempre banale. E io, purtroppo, sono scandalizzato. Resta da vedere se, come tutti coloro che si scandalizzano  ho torto, oppure se ci sono delle ragioni speciali che giustificano il mio scandalo.”.

Quadeo rievocativo di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”

Ed ecco una selezione fior da fiore delle “cose banali” di cui ha scritto dal 1973 al 1975: ha sfidato i contestatori “dai capelli lunghi” e i dirigenti della televisione per l’assenza di cultura, gli intellettuali del ’68 tra manicheismo e ortodossia e la sacro Rota per il “vuoto di carità” e il “vuoto di cultura” delle sue sentenze, ha denunciato “il  vero fascismo” del potere senza volto  e “il fascismo degli antifascisti”, l’ignoranza vaticana e quella della borghesia per lanciarsi in previsioni indovinate, come quella sull’esito del referendum del divorzio perché avvertiva i mutamenti nella società, la fine del mondo contadino, di cui rimpiange “l’immensità”  con il corrispettivo naturale nella “scomparsa delle lucciole”. 

“Gli italiani non sono più quelli”  si intitolava  l’articolo sul “Corriere” del 10 giugno 1974, e il 1° marzo 1975 “Non aver paura di avere un cuore”. Gli verrà spezzato brutalmente nove mesi dopo.  

Roma, in cui continua a vivere, non lo appaga più,  tanto che per concentrarsi nello scrivere e nel  dipingere, che ha ripreso dopo trent’anni, si rifugia in un’abitazione che ha acquistato in campagna, addossata alle rovine medievali della Torre di Chia, presso Viterbo. Sono esposte grandi foto,  che lo ritraggono pensieroso al lavoro in suggestivi controluce, scattate poco tempo prima della morte, un documento straordinario coperto da un copyright così rigoroso che ci ha impedito di riprenderle, e non sono neppure in catalogo: lo rispettiamo  non citando neppure il nome del fotografo, mentre ci piace evidenziare l’immagine che lo vede nel 1973 in primo piano con la torre di Chia di sfondo.

Riquadro rievocativo di  “Io abiuro alla Trilogia della vita”

Siamo nel 1975, ha trascorso parte dell’estate nell’altra abitazione che ha voluto fuori Roma, insieme a Moravia con cui divide il giardino,  al mare di Sabaudia sulla duna litoranea, anche qui con grandi vetrate sulla natura. E’ impegnato nello scrivere “Petrolio”, che Gianni Borgna ha definito “una spietata riflessione sul Potere e la summa dell’intera opera pasoliniana: non meno di duemila pagine (ne riuscirà a scrivere soltanto seicento) intervallate  da fotografie, documenti d’epoca e persino filmati. Insomma, un romanzo davvero sui generis di cui difficilmente si potrebbe trovare l’eguale”, si direbbe “una sorta di Satyricon moderno”, anticipato nell’articolo “Il romanzo delle stragi” – stragi reali e metaforiche come il genocidio culturale –  punteggiato  da “io so

Resterà incompiuto mentre il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” lo terminò ma uscì nelle sale dopo la sua morte, che non gli risparmiò l’attacco giudiziario subito dagli altri suoi film. In mostra sono esposte molte immagini di questo film e dei tre della “trilogia” in una nudità integrale che  esprimeva, al di là della provocazione, quello che lui ha definito “il mondo della mia ingenuità”.

Un mondo spazzato via dalla brutale violenza che lo ha massacrato nello squallore dell’idroscalo di Ostia la notte del 2 novembre 1975,  in circostanze non mai chiarite nonostante la confessione dell’omicida che ha scontato la pena ritrattando poi e aprendo nuovi scenari che vanno esplorati. Al termine della mostra tutto questo viene documentato in modo impressionante.

Ma vogliamo concludere con immagini di vita, quelle del suo ritorno alla pittura: è del 1975  il profilo di “Roberto Longhi, Chia”, in versione singola e nel multiplo di 4 alla Warhol,  l’artista altrettanto iconoclasta che verso  il consumismo aveva l’atteggiamento opposto, di  mitizzazione portata fino all’esasperazione. Ricordiamo le parole di Alberto Moravia nell’orazione funebre presentata in un  video a chiusura della mostra: sono un ritratto commosso del grande amico scomparso tragicamente, pone l’accento su ciò che tutti hanno perduto: un uomo”profondamente  buono, mite e gentile”,  e poi “il diverso e il simile”, il romanziere e il regista, il poeta e lo scrittore, il saggista e il testimone che aveva  un’attenzione, definita “patriottica”, “per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese”.  In definitiva, “tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso nel fiore degli anni”.

Ha fatto un’opera meritoria la  mostra a ricordarlo, e in modo così appropriato, efficace e  suggestivo.

Riquadro rievocativo delle Persecuzioni giudiziarie

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194. Aperto da martedì a domenica ore 10,00-20,00,  il venerdì e il sabato chiusura ore 22,30, con 2 ore e 30 minuti di apertura in più degli altri giorni, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 per minori di anni 26, maggiori di anni 65 e categorie tra cui insegnanti, gratuito per minori di 6 anni e particolari categorie.  Tel. 06.39967506, http://www.palazzoesposizioni.it/. Con un unico ingresso è possibile visitare tutte le mostre nel Palazzo Esposizioni, attualmente oltre alla mostra su Pasolini  le  mostre contemporanee “Gli Etruschi e il Mediterraneo – La città di Cerveteri” e “National Geographic, 125 anni, la Grande Avventura”, sulle quali cfr. i  nostri articoli: per la prima in questo sito l’8 giugno e 6 luglio e  in “www.antika.it; luglio 2014, per la seconda in  http://www.fotografarefacile.it/ marzo 2014.  Catalogo: “Pasolini Roma”, Skira-Palazzo delle Esposizioni, 2014, pp. 264, formato 18 x 24, con testi di Pasolini, , introduzioni dei capitoli di Alain Bergala, commenti ai documenti di Gianni Borgna, Alain  Bergala e Jordi Ballò, interviste con Arbasino e Bertolucci, Cerami e Davoli, Maraini, Morricone e Naldini, consulenza scientifica Graziella Chiarcossi. Cfr. infine  i nostri due articoli in questo sito per Guttuso, “Fuga dall’Etna”, il 25 e 30 gennaio 2013, e in “fotografarefacile.it” per le fotografie di  Henry Cartier Bresson.

Foto

Le immagini sono state riprese al Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, in particolare l’ufficio Stampa, con gli altri organizzatori e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Pasolini a Chia con la sua residenza presso la torre sullo sfondo, 1973; seguono  “Autoritratto con fiore in bocca” 1947, e Pasolini con Totò, poi un riquadro con tanti volti ripetuti di “Il Vangelo secondo Matteo” e Pasolini in un’immagine di solitudine; quindi,   tre riquadri rievocativi di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”,  di “Io abiuro alla Trilogia della vita”, e delle Persecuzioni giudiziarie; in chiusura, Pasolini con la madre nell’abitazione dell’Eur 1973.

Pasolini con la madre nell’abitazione dell’Eur, 1973

Pasolini, 2. La vita e l’arte, al Palazzo Esposizioni

Ieri 5 marzo, nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, abbiamo ripubblicato il nostro articolo del 2012 sulla mostra fotografica di Monica Cillario descrivendo la prima abitazione di Pasolini a Roma con un’iniziale inquadramento della sua figura. Oggi rupubblichiamo il primo dei due articoli – il secondo seguirà domani – sulla mostra del 2014 al Palazzo delle Esposizioni in cui anche con le immagini veniva ripercorso il suo intinerario di poeta e scrittore, saggista e regista, e la sua vita fino alla tragica conclusione.

Postato da arteculturaoggi.com [11/05/2014, 8:42]

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposixzioni di Roma, dal 15 aprile al 20 luglio 2014 la mostra “Pasolini Roma”, di respiro europeo, organizzata dall’Azienda speciale Expo con istituzioni culturali e cinematografiche di Barcellona, Parigi, Berlino,  e il sostegno del programma Cultura dell’Unione Europea. Con la consulenza scientifica di Graziella Chiarcossi,  curatori Alain Bergala, Jordi Bailò e Gianni Borgna, lo storico assessore alla Cultura del comune di Roma, animatore dell’iniziativa, scomparso meno di due mesi  prima dell’apertura della mostra. Catalogo Skira-Palazzo Esposizioni con  una accuratissima  documentazione di testi e fotografie sui diversi periodi della vita di Pasolini. Ha introdotto la mostra, con l’assessore alla cultura della Regione Lazio Lidia Ravera, il nuovo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo Franco Bernabè, con dichiarazioni di intenti di notevole interesse data la sua caratura manageriale e imprenditoriale già sperimentata nell’arte e nella cultura, che è una sicura garanzia per l’attività dell’istituzione.  .

Pasolini mentre presenta il poema “Le ceneri di Gramsci”

La mostra celebra, a quasi quarant’anni dalla morte avvenuta il 2 novembre 1975, l’uomo di cultura inquieto  e preveggente, anche per questo scomodo e osteggiato dai cosiddetti benpensanti che si accanirono contro la sua “diversità”, umana e intellettuale, senza poter  impedire che la sua multiforme attività nei vari campi della cultura militante lasciasse il segno nella difesa dei deboli e  dei “diversi”, nella denuncia delle violenze del potere, politico, sociale, spirituale,  nel cogliere le inquietudini nascoste della società sempre dalla parte degli emarginati. Tutto questo visto nel suo rapporto speciale con Roma seguendone passo dopo passo il  multiforme itinerario di vita e d’arte.

Avevamo visto due mostre su Pasolini negli ultimi anni a Roma: a  Palazzo Incontro nel novembre 2012 la Provincia ha presentato una serie di opere di 22 artisti  ispirate ad 11 sue poesie, tra i curatori c’era anche Gianni Borgna;  nel maggio 2011 la galleria “Monserrato Arte 900”  aveva esposto le fotografie di Monica Cillario nella sua abitazione di via Fonteiana, esibite come un cimelio prezioso che ne rendeva la sottile atmosfera aprendo un ricordo che spaziava lontano.

Contenuto e impostazione della nostra

Questa mostra si colloca in una dimensione molto diversa, frutto di una ricerca accurata di tutto quanto potesse esprimere il suo rapporto con Roma e, più in generale,  con i vari campi della cultura e i diversi settori della società che nella capitale trovavano non solo un punto di osservazione privilegiato, ma anche il terreno ideale per una partecipazione diretta e, per così dire, militante. Di qui sono nati gli impulsi creativi che ne segnano l’arte, di qui  la tragica fine a contatto con quel mondo dei “ragazzi di vita” del quale aveva colto la vitalità e insieme la pericolosa trasformazione.

 Disegni di teste, 1943

La sua vita viene ripercorsa in senso cronologico attraverso tutto quanto ne possa rendere il senso e il valore in sei ricche sezioni, che corrispondono alle diverse fasi, nelle quali  è resa visivamente la sua presenza e nello stesso tempo la sua opera multiforme con una miriade di documenti: lettere e articoli, poesie e prose, sceneggiature cinematografiche e scritti di narrativa e di teatro; in parallelo l’impatto delle sue  anticipazioni, che apparivano provocazioni, su una società chiusa e sospettosa, il tutto con un’ambientazione spettacolare fatta di video e di carte geografiche, nonché di vere e proprie gallerie fotografiche sui quartieri dove abitava e sui molteplici set cinematografici.

Il Catalogo lo rende in modo efficace, in una forma inconsueta per sobrietà, quasi da “arte povera”  nella scelta della carta e dell’iconografia, cui corrisponde una completezza e profondità di contenuto nel documentare una vita e un’arte multiforme,  strumento prezioso di conoscenza e di memoria.

Visitare la mostra e scorrere il catalogo è come assistere a un film appassionante, un film su Pasolini che si aggiunge ai film di Pasolini  offerti al pubblico “a latere”  della mostra, insieme a 6 incontri per ricordarne la figura. Oltre a tali incontri,  le 24 serate dedicate alla proiezione di suoi film e filmati  su di lui, ben 33, nel sottolineare l’impegno profuso dagli organizzatori,  danno la misura di quanto multiforme e intensa fosse la sua attività, considerando anche la “persecuzione” giudiziaria  di ben 33 processi, e il fatto che il cinema fu una forma particolare di espressione  in aggiunta a quella di poeta e scrittore, saggista e osservatore della società con i suoi “scritti corsari”.

Decisivo è il ruolo di Roma, così i curatori: “Per il Pasolini polemico  che analizza l’evoluzione della società italiana, Roma è anche il principale oggetto di osservazione, il suo permanente campo di studio e di riflessione.  Pasolini non si è accontentato di usare la città come sfondo di romanzi e film; egli ha ‘rifondato’ Roma attraverso la letteratura e il cinema”. E precisano: “Per il Pasolini uomo come per il poeta, Roma ha una dimensione fisica,  carnale, passionale. Con la città vive una grande storia d’amore, in tutte le sue tappe”. E la mostra le ripercorre con cura in sei sezioni.

Figure

Le sezioni sono dunque in sequenza cronologica, introdotte da grandi mappe topografiche e da uno  schermo dove sono proiettate le immagini  dei luoghi, articolate in gallerie fotografiche, documenti originali, stampe,  che scandiscono il suo itinerario d’arte e di vita. Sono lo specchio di forti contenuti che i curatori riassumono così: “L’ardore e l’angoscia del primo incontro, le delusioni, i tradimenti, i sentimenti misti di odio e amore,le fasi di attrazione e di rifiuto, i momenti di allontanamento e di ritorno”.  Fino alla conclusione  nel segno della tragedia.

Ne daremo qualche scorcio, pur  consapevoli che solo la lettura dei testi  di cui è ricca la mostra, e puntualmente riprodotti nel Catalogo può  rendere la profondità di una storia e di una vita.

1950-55,  l’approdo a Roma e il successo letterario con “Ragazzi di vita”

La mostra ripercorre la vita di Pasolini dall’arrivo a Roma a 28 anni, il 28 gennaio 1950; è con la madre, hanno lasciato il padre a Casarsa, il primo alloggio è in centro nel ghetto presso amici dello zio, poi in periferia a Ponte Mammolo vicino al carcere di Rebibbia, in un’abitazione povera; trova lavoro come insegnante in un istituto privato all’Eur, tra i suoi allievi Vincenzo Cerami.  E’ “fuggito”  dal Friuli dopo il procedimento giudiziario  per essersi intrattenuto intimamente con degli adolescenti durante una sagra paesana, il Partito comunista lo espelle, ne soffrirà molto.

I suoi primi anni a Roma li descrive così: “Io vivevo come può vivere un condannato a morte/ sempre con quel pensiero come una cosa addosso, /disonore, disoccupazione, miseria”. Ma fa una scoperta che lo coinvolge totalmente, la vitalità dei ragazzi delle borgate, che diventeranno  i suoi ispiratori in campo letterario e cinematografico, conosce un giovane pittore edile, Franco Citti, .che diventerà prima il suo “dizionario parlante” in romanesco, poi il protagonista dei suoi film, e il poeta Sandro Penna, che descrive in versi i turbamenti amorosi verso i giovani che incontrano sulle rive del Tevere. Anche Pasolini scrive poesie che ottengono riconoscimenti letterari, conosce Ungaretti e frequenta scrittori  come  Carlo Emilio Gadda, Giorgio Caproni,Giorgio Bassani..

Mappa di Roma con i luoghi frequentati in una fase della vita

Sono esposte le immagini dei luoghi, oltre alle sue fotografie da ragazzo ed adolescente, nonché le lettere e gli scritti che esprimono  i suoi sentimenti  con degli “outing” rivelatori sulla sua omosessualità scoperta dal padre che gli faceva scrivere, già nel gennaio 1947. “Ho un desiderio assoluto di sincerità… Mi son domandato se questo è un desiderio di confessione, ma ho dovuto rispondermi che è di più. Certo, il pensiero di liberarmi, anche di fronte agli altri, permane” . Ancora non è andato a Roma, dello stesso 1947 il suo “Autoritratto con fiore in bocca” esposto in mostra con una serie di ritratti, abbozzati con maestria, del 1943, anno nel quale  scriveva: “Io leggo poco, dipingo molto in compenso. Ho raggiunto una tavolozza mia, e anche una mia maniera”.

Nel 1954 scrive “Le ceneri di Gramsci”, composto da undici poemetti, ispirato dalla tomba dell’intellettuale e politico nel Cimitero degli inglesi a Roma, vicina a quella di Shelley: ideologia e romanticismo  si uniscono in una  dolente elegia, si confronta con la nuova realtà romana, misura i cambiamenti rispetto alla Casarsa del suo Friuli  e anche rispetto al primo impatto con la capitale.

Nella poesia che ha il titolo della raccolta scrive: “Ed ecco qui me stesso… povero, vestito dei panni che i poveri adocchiano in vetrine dal rozzo splemdore”; nella poesia intitolata “Il pianto della scavatrice”: “Su tutto puoi scavare, tempo: speranze, passioni. Ma non su queste forme pure della vita… Si riduce ad esse l’uomo, quando colme siano esperienza e fiducia nel mondo…”  Ed esclama:  “Ah, giorni di Rebibbia, che io credevo persi in un a luce di necessità, ed ora so così liberi!”.  Perché “alla chiarezza, all’equilibrio, giungeva in quei giorni la mente… un uomo fioriva.”

Quadro rievocativo di “Mamma Roma”

Siamo ora al  1955, sono trascorsi cinque anni dall’arrivo a Roma, è l’anno dei “Ragazzi di vita”, il libro che porta gli umori e il linguaggio, la vitalità e la trasgressione del mondo di borgata da lui frequentato. Scalpore e scandalo, e anche un procedimento giudiziario addirittura su denuncia della presidenza del Consiglio, testimoni a suo favore i maggiori scrittori e il cattolico Carlo Bo, fu assolto. Seguirà “Una vita violenta”.  E’ nata una stella, entra nel mondo del cinema con sceneggiature per Fellini, Soldati, Bolognini e altri registi, nel mondo letterario con l’amicizia per Moravia ed Elsa Morante, con loro frequenta i  ritrovi caratteristici del centro di Roma, da piazza del Popolo a Piazza Navona.

Dal 1954, l’anno delle “Ceneri di Gramsci”,  ha lasciato l’abitazione di Rebibbia per trasferirsi con madre e padre a Monteverde, in via Fonteiana, dopo cinque anni si sposta in via Carini, nello stesso quartiere, in un palazzo dove abitava il poeta Attilio Bertolucci con la sua famiglia, la frequenta  e il figlio Bernardo Bertolucci diviene suo discepolo e poi assistente nel film “Accattone”; Bertolucci girerà il suo primo film a 21 anni su una sceneggiatura, “La commare secca”  che Pasolini aveva predisposto per sé e gli cedette avendovi rinunciato preso da altri progetti..

Al riguardo c’è un’illuminante intervista di Alain Bergala a Bernardo Bertolucci, che rievoca gli incontri con Pasolini, la prima volta che andò a trovarli mentre abitava ancora in via Fonteiana, il padre Attilio disse “Fallo entrare subito, Pasolini è un bravissimo poeta!”; sul film girato su soggetto di Pasolini che ci rinunciò essendosi “innamorato” di un altro soggetto, quello di “Mamma Roma”,  Bertolucci dice: “Quando mi è stato detto che avrei diretto ‘La commare secca’ sono andato quasi in trance. E sono rimasto in questo stato in tutte le riprese”,

Pasolini di giorno lavora e frequenta il centro di Roma con scrittori e registi, di notte vive  la  giovinezza  “al di là del confine della città, oltre i capolinea”,  così intensamente da averne paura. “Come andrà a finire, non lo so…”.

La sezione contiene una ricca documentazione di lettere, scritti e immagini fotografiche di questo periodo,  è ritratto con  Alberto Moravia ed Elsa Morante,  Carlo Levi e Goffredo Parise, Paolo Volponi e Mauro Bolognini. Marcello  Mastroianni e Laura Betti, a cui fu molto legato tanto da parlarne a Godart come della sua “moglie non carnale”; e anche tra le baracche della borgata del Mandrione, fotografato da Henri Cartier Bresson, o al Quarticciolo. Ci sono anche delle chicche inattese, due “Nature morte” di Giorgio Morandi,  “Il nudino rosa” di De Pisis, il celebre “Fuga dall’Etna” di Guttuso,“Fantasia” di Mafai e “La badiaccia” di Rosai; il “Paesaggio del Friuli” di Zigaina evoca visivamente le sue origini.

E’ del 1958 la morte di Pio XII, Pasolini scrive la poesia “A un papa”, contenuta nella raccolta “La religione del mio tempo”, in cui contrappone alla vita del principe della Chiesa quella ben più derelitta dell’emarginato morto negli stessi giorni e conclude con un’invettiva preceduta dalle parole “peccare non significa fare il male. Non fare il bene, questo significa peccare”.

Mappa  di alcuni viaggi all’estero

1961,  il cinema con “Accattone”; 1962, “Mamma Roma” e “La ricotta”

Dopo la partecipazione alla sceneggiatura di famosi registi entra nel cinema dalla porta principale con “Accattone”, nel 1961. Avviene dopo il rifiuto di Federico Fellini che sembrava interessato a produrlo ma non era stato convinto dai provini che gli aveva chiesto di girare, compie un viaggio in India e in Africa e si mette alla ricerca di un nuovo produttore. E’ esposto un suo suggestivo scritto, quasi una sceneggiatura, in cui racconta il contatto con Fellini sottolineando il grande impegno da lui messo nel girare le scene di prova e la delusione per le critiche al suo stile e al ritmo dal grande regista, al quale risponde orgogliosamente che “se dovesse rifare tutto da capo non cambierebbe neanche una virgola”: così farà con Alfredo Bini che oltre ad “Accattone” produrrà  i cinque suoi film successivi.  

Del 1961 leggiamo un brano tratto da “La religione del mio tempo”, intitolato “Il mio desiderio di ricchezza” in cui esclama: “Ah, uscire da questa prigione di miseria!” e rivela i “mille desideri” che accumunano gli uomini:” una camicia candida, delle scarpe buone, dei panni seri. E una casa, in quartieri abitati da gente che non dia pena”, con una terrazza. Lui la sogna  “sul Gianicolo, verde fino al mare; un attico, pieno del sole antico e sempre crudelmente nuovo di Roma”, e poi le vetrate, le tende, gli arredi, “un tavolo fatto fare apposta, leggero, con mille cassetti, uno per ogni manoscritto” e così via,  in un desiderio di normalità che intenerisce.

Le carte geografiche esposte in mostra evidenziano il suo giro nel terzo mondo prima di “Accattone”, che incise molto su di lui. Vi sono le foto di scena del film, con cui, nel riprendere il sottoproletariato delle borgate non si ispira al neorealismo che pure era stato vincente: non si tratta di povertà materiale ma di miseria spirituale, figlia del consumismo che cancella stili di vita.

Quadro rievocativo di “Il Vangelo secondo Matteo” e
“Uccellacci e uccellini”

Seguono  subito dopo, nel 1962,  “Mamma Roma” e “La Ricotta”, nel primo l’incontro con Anna Magnani, che aveva ammirato in “Roma città aperta” come popolana dal grande cuore in cui impersonare Roma, è molto espressivo il suo “diario al registratore” in cui dialoga con la Magnani su un’inquadratura da rifare e in generale sul loro rapporto di regista ed attrice: non da plasmare perché  non presa dalla strada come gli altri, ma con una propria visione del personaggio in cui si è calata e che quindi non può essere un “robot” che esegue meccanicamente gli ordini del regista. Però lei stessa riconosce i limiti nell’essere solo istintiva  senza avere coscienza di ciò che fa e lui ammette di avere torto nell’intervenire quando lei recita dicendole, ad esempio, “Ridi, ridi, Anna!”. Una  lezione  di tecnica cinematografica da Actor’s Studio.

Nel secondo film l’incontro casuale con un giovane apprendista falegname Ninetto Davoli, l’ “angelo riccioluto” che come Franco Citti sarà poi protagonista dei suoi film e gli starà sempre vicino. Le immagini esposte sui sopralluoghi per il film di Tazio Secchiaroli rendono l’ambientazione, mentre quelle con Fellini e Roberto Rossellini, Orson Welles e un giovanissimo Bernardo Bertolucci fanno rivivere l’atmosfera dei set. Alle fotografie di scena di “La ricotta”  si aggiungono quelle davanti al Tribunale di Roma che lo condannò a 4 mesi con la condizionale per vilipendio alla religione e il suo testo  nel quale si difende punto per punto dalle accuse che si erano fermate all’apparenza trasgressiva mentre lui aveva voluto “soltanto mettere a fuoco il problema del sottoproletariato senza fasulli misticismi”, sono le sue parole.

Tutti i suoi film  successivi, tranne “Il Vangelo secondo Matteo”, avranno problemi giudiziari, ma l’accanimento contro di lui si è già manifestato nel 1960-61 con denunce paradossali,  c’è in mostra un grande tabellone che elenca i 33 procedimenti dai quali si dovette difendere, fu sempre assolto. E’ il  seguito della mostra di cui parleremo presto completando l’excursus sulla vita di Pasolini.

Pasolini in un’istantanea

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194. Aperto da martedì a domenica ore 10,00-20,00,  il venerdì e il sabato chiusura ore 22,30, con 2 ore e 30 minuti di apertura in più degli altri giorni, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 per minori di anni 26, maggiori di anni 65 e categorie tra cui insegnanti, gratuito per minori di 6 anni e particolari categorie. Tel. 06.39967506, http://www.palazzoesposizioni.it/ Con un unico ingresso è possibile visitare tutte le mostre nel Palazzo Esposizioni, attualmente oltre alla mostra su Pasolini  le  mostre contemporanee “Gli Etruschi e il Mediterraneo – La città di Cerveteri” e “National Geographic, 125 anni, la Grande Avventura”, sulle quali cfr. i  nostri articoli: per la prima in questo sito l’8 giugno e 6 luglio, e in “www.antika.it, luglio 2014; per la seconda in  http://www.fotografarefacile.it/, marzo 2014.  Catalogo: “Pasolini Roma”, Skira-Palazzo delle Esposizioni, 2014, pp. 264, formato 18 x 24, con testi di Pasolini, , introduzioni dei capitoli di Alain Bergala, commenti ai documenti di Gianni Borgna, Alain  Bergala e Jordi Ballò, interviste con Arbasino e Bertolucci, Cerami e Davoli, Maraini, Morricone e Naldini,consulenza scientifica Graziella Chiarcossi. Per le citazioni del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito, “Pasolini, omaggio poetico e artistico a Palazzo Incontro”, 11 novembre 2012 e Pasolini, e altri 14 artisti per 7 sue poesie a Palazzo Incontro”, 16 novembre 2011. in http://www.fotografarefacile,it/  per “Pasolini, commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario”,maggio 2011.

Foto

Le immagini sono state riprese al Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con gli altri organizzatori e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Pasolini presenta il poema “Le ceneri di Gramsci”; seguono  Disegni di teste, 1943,  e Figure; poi,  Mappa di Roma con i luoghi frequentati in una fase della vita, e Quadro rievocativo di “Mamma Roma”; quindi, Mappa  di alcuni viaggi all’estero, e Quadro rievocativo di “Il Vangelo secondo Matteo” – “Uccellacci e uccellini”; ancora, Pasolini in un’istantanea e, in chiusura,   Pasolini con la madre nell’abitazione di via Chiarini, 1960.

Pasolini con la madre nell’abitazione di via Chiarini, 1960

Pasolini, 1. Commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario

Oggi 5 marzo 2022 è il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, poeta e scrittore, saggista e regista, un personaggio inquieto e controverso, del quale con il psssare del tempo rifulge sempre di più la grandezza. Alla sua celebrazione intendiamo partecipare con emozione autentica, ripubblicando i nostri articoli che nell’arco di oltre un decennio ne hanno ripercorso la parabola artistica e l’itinerario di vita prematuramente troncata dalla violenza che aveva profeticamente percepito e denunciato; e questo attraverso la narrazione delle mostre che si sono svolte sulla sua figura. Iniziamo con la mostra che nel 2011 ci ha fatto conoscere la sua prima abitazione a Roma, con le immagini della normalità quotidiana, fino al percorso sacrificale di una “vittima esemplare”, e poi al nostro ricordo, lo abbiamo seguito fino al luogo dove fu trovato senza vita. Una vita mai cancellata, perchè rinata con la rivalutazione della sua figura e delle sue opere in un diapason inarrestabile. Seguiranno nei prossimi giorni i nostri articoli, del 2014 sul suo rapporto con Roma, del 2015 sulla sua figura fino alla interpretazione di 14 artisti di 7 sue poesie nella mostra del 2012.

di Romano Maria Levante

Valeva la pena di attendere un’ora e mezza davanti alla galleria “Monserrato Arte 900” al numero 14 di via Monserrato a Roma per visitare la mostra fotografica su Pier Paolo Pasolini di Monica Cillario, torinese che vive tra la capitale e Montecarlo, aperta dal 3 maggio 2011. Nell’attesa, stando a sedere sui gradini del laboratorio artigiano-artistico che si trova di fronte, abbiamo scritto sul “notebook” il resoconto della presentazione avvenuta nella mattina dei “Tesori” della provincia di Roma al Tempio di Adriano. Poi abbiamo lasciato i tesori artistici e ambientali dell’hinterland romano per passare a un altro tesoro, un altro ambiente: il tesoro è Pier Paolo Pasolini, l’ambiente la sua prima residenza romana nel quartiere di Monteverde Vecchio dove visse dal 1955 al 1959.

L’ambiente evoca una persona, un’intelligenza, un’arte che si è espressa non solo nella scrittura, in prosa e in poesia, ma anche nel cinema. Proprio per questo è stato appropriato ricordarlo con immagini di per sé espressive nelle quali si sente l’amore della fotografa che le ha riprese con delicatezza e semplicità, senza strafare in scorci arditi e magari forzati, ma riproducendo una normalità piccolo-borghese dove sono nate “Le ceneri di Gramsci”, la sua raccolta di poemetti.

Per uno come lui non si potevano non accompagnare le immagini con le parole, sobrie anch’esse. La mostra lo fa con uno scrittore, Fulvio Abbate, nato a Palermo, nel 2005 autore, tra molti scritti, del libro “C’era una volta Pier Palo Pasolini”. Ha il tocco lieve, senza enfasi, le didascalie sono essenziali, la forza delle immagini è nel loro icastico bianco e nero che scolpisce una normalità dietro cui c’è l’inquietudine di una personalità incompresa e controversa, spesso anche contestata.

Le immagini della normalità quotidiana

Una normalità che inizia al numero 86 di Via Fonteiana, una “strada per ceti medi”, poco prima della borgata di Donna Olimpia, dove ambientò il romanzo “Ragazzi di vita”. L’edificio – scrive Abbate – è “un parallelepipedo intonacato d’ocra, senza particolari segni di estro architettonico, eppure dall’ingresso spazioso, luminoso”. In un quaderno delle elementari i cognomi dei coinquilini, al quarto piano, “accanto al numero dell’interno 26, appaiono le generalità di ‘Pasolini Carlo Alberto’, il padre dello scrittore, ufficiale di fanteria a riposo, ‘il Colonnello Attaccabottoni’ lo chiamava lo scrittore Carlo Emilio Gadda, vicino di caseggiato”. L’abitazione: “Appena due stanze, cucina, bagno e un balcone stretto che s’affaccia su via Innocenzo X, le mattonelle celesti adorate dai piastrellisti degli anni Cinquanta, gli infissi degli stessi tempi, un’aria immanente di ‘smorzo’”, così a Roma chiamano il deposito di materiali edili. Abbate ha scovato proprio nelle “Ceneri di Gramsci” questa descrizione dell’abitazione dove il libro fu scritto: “Ed ecco la mia casa, nella luce marina/ di via Fonteiana in cuore alla mattina”.  

Nel 2005, nel trentesimo anniversario della morte – anno in cui Abbate ha pubblicato il libro su di lui – i proprietari posero una targa di marmo a ricordo degli anni 1955-59 in cui vi abitò Pasolini, con i suoi versi “Com’era nuovo nel sole/ Monteverde Vecchio!”, gli stessi della targa posta dal Comune di Roma in via Giacinto Carini, sempre a Monteverde, dove si trasferì successivamente.

Monica Cillario ha fotografato i dettagli, ciò che resta di un ambiente semplice ma poetico per ciò che evoca, ha cercato di restituire un “cosmo condominiale” che ancora adesso suggerisce l’emozione dell’infanzia di un grande testimone del nostro paese, dalla vita inquieta e febbrile.

Da via Fonteiana si sposta al Cimitero degli inglesi, c’è la fotografia della tomba dove trasse l’ispirazione per “Le ceneri di Gramsci”, il libro è ripreso sul marmo, ed è edificante vedere la simbiosi con il grande intellettuale imprigionato per le sue idee che con le “Lettere dal carcere” ha lasciato un monumento di umanità e insieme di fede negli ideali. Gli undici poemetti raccolti nel libro ispirato a Gramsci hanno titoli intriganti, da “Appennino” del 1951 all’ultimo “La terra di lavoro” del 1956; in mezzo troviamo, tra gli altri, “Comizio” e “L’umile Italia”, “Picasso” e “Shelley”. E anche il poemetto del 1954 che ha dato il titolo alla raccolta.

Di Gramsci apprezzava, oltre all’ideologia, l’acutezza del pensiero e la forza morale che gli fece affrontare con coraggio la lunga prigionia senza il minimo cedimento. E forse lo aveva colpito in modo particolare l’espressione “Odio gli indifferenti”, dell’11 febbraio 1917 (è tornata di attualità rievocata nella manifestazione del 31 maggio 2010 al romano Teatro Quirino), così congeniale alle corde di Pasolini, combattente di tante battaglie: “Chi vive veramente, non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. Gramsci conclude: “Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. Parole che sembrano un identikit dello stesso Pasolini, e ci fa comprendere appieno l’ispirazione da lui colta sulla sua tomba; pensiamo che per il paese spaccato in due sul suo nome, tra memoria e indifferenza, avrebbe ripetuto l’anatema di Gramsci:“Odio gli indifferenti”.

E’ questa l’unica fotografia “costruita” per materializzare quanto si respira nell’atmosfera creata dalle immagini. Torna subito la quotidianità a dominare. L’androne spazioso e dignitoso, la guardiola del portiere al quale si rivolgeva con perentorie scampanellate al ritorno dalle sue ”notti brave” avendo dimenticato le chiavi a casa, finché cedette all’implorazione del malcapitato che gli chiedeva: “Signor Pasolini, la pregherei di non suonare più in piena notte, così facendo mi sveglia il bambino, grazie”. E poi le cassette delle lettere, le maniglie, anche lo zerbino, fino all’immagine che ci sembra rappresenti il culmine nello scorcio visivo e nella didascalia, evocando l’infinito: un’inquadratura da vertigini della tromba delle scale. Sembra una scena di Alfred Hitchcock sui labirinti interiori dell’inconscio, magari suggerita da Salvador Dalì come in “Io ti salverò”, il film cult con Ingrid Bergman e Gregory Peck, riferimento questo che sarebbe piaciuto a un uomo di cinema come lui. Con negli occhi e nel cuore l’“infinito” nelle scale e nel resto lasciamo la galleria.

Il nostro ricordo di Pasolini

Ci guardiamo intorno dopo la missione faticosamente compiuta; il prolungato black out elettrico che ha ritardato l’apertura si è protratto per tutta la nostra visita, creando un’atmosfera ancora più misteriosa, le fotografie nella loro livida chiarezza spiccavano  nella semi oscurità. Siamo usciti con la mente affollata dai ricordi legati a lui, ripensiamo alla sua attività intellettuale inquieta e tumultuosa, tra polemiche e attacchi di ogni tipo, anche giudiziari, per la sua “diversità” intesa in tutti i sensi, forse per la forza del suo pensiero e del suo coraggio civile.

Fu definito da Alberto Moravia “una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile”. E pensare che non si sentiva appagato, fino a scrivere: “Ebbene ti confiderò, prima di lasciarti, che io vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo…nel paesaggio più bello del mondo… con tanta innocenza di querce, colli, acque e botti, e lì comporre musica, l’unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà”. Ed è bello sapere che è stato ricordato anche con la musica da musicisti italiani,  De Andrè e De Gregori, Roberto De Simone e Renato Zero; e stranieri.

E’ impressionante come la sua produzione letteraria spazi dalla poesia all’intero scibile letterario. Oltre a “Le ceneri di Gramsci” tra le tante raccolte poetiche citiamo “Il canto popolare” e “Poesia in forma di rosa”, “Poesia dimenticata” e “La meglio gioventù”, che sarà poi il titolo del noto film-evento di Marco Tullio Giordana; per il teatro “Affabulazione”, oltre alle traduzioni da Eschilo e Plauto, da testi greci e latini, anche francesi volti perfino in friulano. I suoi saggi si muovono tra la letteratura e la cultura, la politica e la società: non soltanto testi letterari come “Antologia di liriche pascoliane”, anche “Antologia di musica popolare, il canzoniere italiano,”; e non disdegnò collaborazioni giornalistiche che diventarono subito degli eventi, come gli “Scritti corsari” del 1973-75 sul “Corriere della Sera” premonitori dell’incattivirsi di quel volto della periferia romana da lui tanto amato in un identikit che doveva rivelarsi tristemente premonitore, la sua morte violenta venne subito dopo.

Ripensiamo alla narrativa, con “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, “Il sogno di una cosa” e “Teorema”, fino al postumo “Petrolio”; e alla cinematografia, sua grande passione – aveva iniziato come comparsa a Cinecitta – con “La notte brava” e “Accattone”, “Mamma Roma” e “Il Vangelo secondo Matteo”, in cui affronta un tabù e lo supera con una struggente rivisitazione, “Uccellacci e uccellini”, lettura impietosa della crisi di un partito e di una politica anch’essa da lui amata ma che non riconosceva, ed “Edipo Re”, fino a “Porcile”. Creò un filone in costume, in mano ad altri presto scaduto in farsa erotica, con “Il Decameron” e “I racconti di Canterbury”, “Il fiore della Mille e una notet” e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Anche la sua posizione ideologica aveva radici fortemente umane: “L’altro è sempre infinitamente meno importante dell’io, ma sono gli altri che fanno la storia”, ha scritto, e anche per questo non si rinchiudeva nell’individualismo ma cercava la socialità.

Torna alla nostra mente la visita che facemmo qualche tempo fa all’Idroscalo di Ostia, dove andammo per cercare il luogo della sua morte. Avemmo la bella sorpresa di trovarvi un piccolo mausoleo di cui non conoscevamo l’esistenza: meritevole l’iniziativa, meno la scarsa diffusione della notizia, e ancora meno lo stato di totale abbandono in cui trovammo l’area pur se opportunamente attrezzata per la sosta dei visitatori, le erbacce l’avevano invasa ovunque deturpandola. Dovremo tornare all’Idroscalo dopo esser stati virtualmente in via Fonteiana portati dalle fotografie della Cillario. E speriamo ci vadano in tanti prima o dopo aver visitato la mostra.

Il percorso sacrificale di una “vittima esemplare”

Amava la vita, nelle “Ceneri di Gramsci” scrive: “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ d’abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?” Una raccolta di suoi saggi dal 1948 al 1958 si intitola “Passione e ideologia”, le coordinate cartesiane della sua stessa esistenza.

Ripensiamo alla sua fine, tra l’1 e il 2 novembre 1975, il giorno dei morti, “festa triste e dolce insieme che ricorda tante cose al cuore d’ognuno”, era il titolo del tema che ci fu dato all’esame di ammissione alla scuola media. Federico Zeri la paragonò alla misteriosa morte di Caravaggio: “In tutti e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta da loro stessi”. E Alberto Moravia: “Egli ne aveva già descritto, nelle sue opere, le modalità squallide e atroci”.

Lasciamo via Monserrato, adiacente a piazza Farnese con il grande palazzo monumentale. E’ una strada con laboratori e boutique d’arte, anche il piccolo bar ha una scultura nella vetrina. Ma non è tanto questo a rendere la sede appropriata per rendere onore a un grande come lui; ci colpisce la scritta sulla lapide posta nella facciata di un palazzo:“Carcere di Corte Savello, 11 settembre 1589: “Beatrice Cenci da qui mosse verso il patibolo/ vittima esemplare/di una giustizia ingiusta”.

Portare qui via Pompeiana con le fotografie di Monica Cillario è come aver accostato i due percorsi sacrificali, l’inizio di un itinerario che doveva concludersi altrettanto tragicamente: anche Pasolini è stata la “vittima esemplare” di un imbarbarimento tipico dei nostri tempi, ingiusto e spietato.

Ph: alcune immagini sono state riprese alla mostra da Romano Maria Levante, altre sono state fornite direttamente dall’autrice Monica Cillario che si ringrazia.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 22 maggio 2011 su fotografia.guidaconsumatore.com. – Email levante@guidaconsumatore.com

Frida Kahlo, immagini serene di una vita tormentata, a Sansepolcro

di Romano Maria Levante

E’ inconsueto dedicare un articolo a una persona, ma in questo caso è qualcosa di più: si tratta di un’identificazione. Nell’ultimo anno  ha provato le inenarrabili sofferenze di Frida Kahlo,  con gli insopportabili dolori alla schiena, dopo aver subito anche  la gabbia del busto rigido toracico per una frattura a una vertebra con relativo intervento; poi l’emorragia massiva allo stomaco, fino alla positività al Covid nella clinica post-acuzie con il lieto fine della provvidenziale correzione in negativa dell’analisi nella verifica all’ingresso di un reparto Covid: cinque mesi in sei ospedali più una terapia intensiva, inframmezzati da due ritorni a casa tra tante sofferenze. In queste parentesi, anch’esse non certo liete, lei della sua eroina  ha di nuovo visto i film in Tv  sulla sua vita, riletto i cataloghi, finché è giunto il catalogo della mostra di Sansepolcro che ha guardato con grande interesse proprio mentre ne ripercorreva la vita. Ho scritto la recensione col cuore in gola nella settimna di passione dal 20 agosto scorso per un  imprevedibile repentino  precipitare della situazione.  Per questo intendo aprire il ricordo di Frida Kahlo con il  quadro “Le due Fride”,  opera dall’artista nel  1939,  del quale viene presentata la copia realizzata  in segno di omaggio dal pittore cinese Xu De Qi: in una delle “due Fride” vedo la persona che l’ha tanto amata e  ha provato in questi mesi le sue sofferenze mentre continuava a  interessarsi alla sua eroina, una  persona raffinata e sensibile che ha fatto della passione per l’arte e la cultura l’alimento della propria vita, insieme alla vicinanza agli ultimi, che ha aiutato come ha potuto con il suo spirito caritatevole.  E’ finalmente tornata a casa, nella sua Itaca, dopo l’inenarrabile odissea, superando mille avversità. Ho atteso questo momento felice e festoso per pubblicare l’articolo scritto nel momento più infelice e angoscioso della rianimazione. E anche  a lei rivolgo le parole per Frda Kahlo con cui concludo l’articolo,  “non la dimenticheremo”, “non dimenticherò”: non dimenticherò come hai lottato, la dedica di questo articolo è nulla rispetto a quanto meriti per la tua forza d’animo e il tuo coraggio, sorretta dall’amore per la cultura, mia carissima Rosemary,

“Le due Frida”, 1939, nella copia-omaggio del pittore cinese Nu De Qi

Al Museo civico di  Sansapolcro, Arezzo, dal 16 maggio al 13 ottobre 2021 la mostra “Frida Kahlo. Una vita per immagini” presenta un centinaio di fotografie, la maggior parte originali, dell’artista messicana, ripresa soprattutto da sola con i pittoreschi abiti del suo paese,  in alcune immagini con il celebre creatore di  “murales” Diego Rivera, che sposò, e anche altri, per lo più in posa ricercata a marcare la propria immagine di vita, più che la propria caratura di artista, anche per questo divenuta icona femminile inquieta e ammirata su scala mondiale. Promossa dal Comune di Sansepolcro, sindaco Mauro Cornioli, in collaborazione con Civita Mostre e Musei, presidente Alberto Rossetti, e con Diffusione Italia International Group, a cura di Vincenzo  Sanfo, presidente del Centro Italiano per le Arti e la Culttra, ha curato anche l’analoga mostra nel 2018 a Noto in Sicilia e nel 2014 a Barolo in Piemonte, portando le immagini della Kahlo in piccoli ma qualificati centri, come ora Sansepolcro. Catalogo Papino  Art, bilingue italiano-inglese, a cura di Vincenzo Sanfo.  

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo10-a-18-anni-print.jpg
Frida Kahlo a diciotto anni”, Messico 1926, di Guillermo Kahlo

“Delicato e martoriato il corpo,  fiero ed impetuoso lo spirito, una grande artista ed una grande donna, questo e molto altro è stata Frida Kahlo”, così si apre la presentazione di Alberto Rossetti, presidente di Civita Mostre Musei.  “Frida Kahlo non è solo un’artista, è ormai una sorta di leggenda, che ha travalicato la storia dell’arte per entrare nel mito”, commenta il curatore grande conoscitore della Kahlo Vincenzo Sanfo e aggiunge: “Un mito che si alimenta di un’aura misteriosa e terrifica nelle sue vicende umane che sono, in fondo, la parte più importante di un percorso  che attraversa è vero anche l’arte, ma che non ne costituisce l’aspetto principale”.  E il sindaco Alberto Rossetti: “Questa mostra intende ripercorrere la sua vicenda biografica  grazie alla straordinaria opportunità di compiere il viaggio con l’obiettivo di grandi fotografi, con alcuni dei quali  Frida ha avuto anche un rapporto sentimentale, da inquadrare nel rapporto turbolento con Diego Rivera, fatto di passioni e di reciproci tradimenti”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo7-con-Rivera-print.jpg
“Diego Rivera e la sua sposa”, Messico 1929, di Victor Reyes

Così ci sembra di aver inquadrato a nostra volta la mostra che, partendo dalle immagini di vita, suscita un vivo interesse ad approfondire i motivi della sua esistenza che ne hanno fatto un’icona mondiale. Abbiamo parlato della sua arte in tre articoli di commento alla mostra romana nel 2014 alle Scuderie del Quirinale, nella quale i suoi dipinti mostravano la traduzione a livello pittorico dei motivi esistenziali alcuni dei quali, particolarmente significativi, troviamo evoati nelle fotografie esposte in mostra; quindi non torniamo su quei temi, anche se faremo un breve excursus sui suoi dipinti e anche disegni maggiormente collegati alle vicende della sua vita.

La sua formazione

Prima di focalizzare i  principali morivi che ne caratterizzano il  percorso di vita, qualche accenno alla sua formazione scolastica e del carattere, come premessa di un’esistenza movimentata, dalle sofferenze per la salute minata da infortuni e malattie, all’impegno politico militante anch’esso agitato, agli amori nei quali pure si alternano gioie e dolori, con attaccamento e allontanamento dall’uomo della sua vita. 

“Frida Kahlo”, San Francisco 1930, di Edward Weston

La formazione del carattere l’ha avuta nella scuola tedesca che l’ha forgiata dandole  una evidente  resistenza ai colpi che subirà  nella sua vita; e non è stata singolare tale scelta del padre per una nata nel 1907 nei sobborghi di Città del Messico, trattandosi di Wilhelm Kahlo,  tedesco proveniente da  Baden Baden, che con l’aiuto del  proprio padre si era affermato come fotografo americanizzando il nome in  Guillermo. Da lui Frida  deve aver colto anche la  predilezione per certe pose plastiche, quasi scultoree,  sia quando viene ripresa da celebri fotografi, come si vede in mostra, sia quando dipinge gli Autoritratti. Frida  è  la 3^ figlia delle 4 avute da Guillermo dalla seconda moglie Matilde Calderòn y Gonzales – le altre sono Matilde, Adiana e Cristina – mentre la prima moglie, Maria Cardena, era morta dando alla luce la 2^ figlia Margarita dopo  Maria Luisa.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-12-print.jpg
“Frida Kahlo e Diego Rivera”, 1930, di Manuel Alvarez Bravo

Nella formazione scolastica superiore un’altra particolarità: nel 1922 viene ammessa alla prestigiosa scuola che immette all’università, la “Preparatoria”, su 2000 studenti è una delle 35 ragazze che ha come compagni  i rampolli  più brillanti della borghesia messicana, come i  Cachucas, con i quali si intende meglio degli altri. Non si impegna molto nello studio, ma i suoi interessi culturali e le sue qualità intellettuali le fanno avere ugualmente buoni risultati scolastici. Nella “Preparatoria”, nello stesso 1922,   l’incontro per lei decisivo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-13-print.jpg
“Frida con Vaso Tehantepec sulla testa”, New York City 1932,
di Carl Van Vechten

La sua ricerca dell’amore

Da questo incontro  prendiamo l’avvio per entrare nel suo percorso di vita, passando dalla iniziale formazione all’esistenza, con i suoi amori,  soprattutto il suo grande amore: Diego Rivera, il celebre creatore di “murales” il quale,  incaricato di affrescare le pareti della “Preparatoria”, suscitò il suo interesse, immediatamente ricambiato. Scrive Rivera nella sua Autobiografia che lei, quindicenne, gli chiese: “Le do fastidio se la guardo lavorare?”, e lui, 36 enne, le rispose: “No, signorina, ne sarei incantato”, e lo fu veramente, tanto che la descrive così: “Aveva dignità e una sicurezza di sé del tutto insolite per una ragazza della sua età e negli occhi le brillava una strana luce”, e aggiunge: “La sua era una bellezza infantile eppure aveva seni ben sviluppati”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-13-print-1.jpg
“Frida”, Messico 1932, di Guillermo Kahlo

Questa prima scintilla non ha un seguito immediato, ma accende il fuoco dell’amore nel secondo incontro con Rivera sei anni dopo nella sede del Partito comunista al quale lei si iscrive nel 1928 come tanti intellettuali tra cui il pittore di “murales”.  Si sposano l’anno successivo, il 21 agosto 1929. Lo segue  nel 1933 a New York dove lui è chiamato per realizzare delle opere  e per esporre al MoMA, ma dopo che nel 1934 lui ha  una relazione con la sua sorella minore Cristina Kahlo, nel 1935 se ne separa e lascia la “Casa Azul”, la sua “casa blu” a Coyoacàn, per vivere da sola. Però non riesce a dimenticarlo, neppure aiutata da una relazione con lo scultore nippo-americano, perché nel  1936 torna a vivere con lui nella “Casa Azul”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-14-con-collanin3PRINT.jpg
Frida morde la sua collana”, New York City 1933, di Lucienen Bloch

L’anno successivo vi ospitano Leon Trotsky e la moglie Natalia Sedava, esuli dalla Russia dove  il grande rivoluzionario sovietico è  caduto in disgrazia con Stalin; è il  1937, arrivano anche  André Breton e la moglie,  Jacqueline Lambda, fanno un viaggio nel Messico insieme, sembra che ci sia stata una relazione tra Frida e Trotsky.  Ma il 21 agosto 1940 il  rivoluzionario, che continuava a disturbare Stalin con il suo impegno politico pubblico, é assassinato nella abitazione da  Ramon Mercader, che si era guadagnata  la fiducia dell’entourage e di Trosky per entrare nella residenza superblindata e colpirlo a morte sulla fronte con una  piccozza. In questo 1940,  dal riavvicinamento e  la riconciliazione con Rivera arriva a un nuovo matrimonio con lui l’’8 dicembre, tornano a vivere nella “casa blu” di  Coyoacàn.  Una vita sentimentale movimentata la sua, non mancano gli amori  con grandi fotografi, come Nicholas Muray di cui sono esposte le fotografie fatte a lei.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-15-sotto-prrint.jpg
“Frida Kahlo e Diego Rivera nello studio di Diego”, Messico 1934, di Bernard Silberstein

La sua milizia politica

Intrecciato al rapporto di una vita con Diego Rivera, l’impegno  politico di Frida, da sola o con lui. Nel 1928, con l’iscrizione al Partito comunista – di cui  faceva parte l’artista dei “murales” insieme  al gruppo di intellettuali intorno a Tina Modotti, e Julio Antonio Mellas – l’incontro decisivo dopo la prima “scintilla” alla “Preparatoria” sei anni prima , come sopra ricordato.  Rivera la raffigura nell’affresco “La ballata della rivoluzione” come eroina-simbolo mentre dà le armi ai combattenti  con una stella sulla camicia rossa. Nell’agosto 1929 si sposano, lui ha ricevuto incarichi pubblici, tra cui dipinti per il Palacio National di Città del Messico, per la Secretaria de Salud  e per il Palacio de Cortés a Cuernavaca, e a settembre  viene espulso dal Partito comunista mssicano  con l’accusa di essere vicino  al governo che aveva messo fuori legge il partito. Successivamente anche lei ne uscirà, mentre nasce  il Partito nazionale rivoluzionario, fondato da Calles.

“Frida Kahlo all’uscita dalla chiesa”, Coyoacàn Messico 1937, di Fritz Herle

La troviamo impegnata nel 1936 a sostenere  la riforma agraria in Messico con l’esproprio dei latifondi, la distribuzione delle terre ai contadini e la nazionalizzazione di  importanti settori economici.   Viene  posta sotto  stretta sorveglianza dalla polizia nel 1940 perché conosceva l’assassino di Trosky, va a curarsi negli Stati Uniti, a San Francisco. Si avvicina di nuovo al Partito comunista, da cui era uscita,  nel 1941 quando  i tedeschi  invadono la Russia e Stalin si oppone fortemente a Hitler; fino a iscriversi di nuovo nel  1948.  

Intanto, nel 1947, per le grandi riforme e la modifica della Costituzione messicana, Rivera con altri fonda la Commissione per la pittura murale dell’Instituto Nacional de Bellas Artes, e nei suoi murales rappresenta Frida come vestale  e madre protettiva: nel murale “Sogno  di un domenica pomeriggio nel parco Alameda” la raffigura dietro di lui mentre gli appoggia la mano sulla spalla e tiene  nell’altra mano il simbolo Yin-Yang.”

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-17-sopra-print.jpg
L’arrivo di Trotsky in Messico, accolto con la moglie da Frida Kahlo e Schachtman,
leader del Comitato Comunista Americano” ,Tampico Messico 1937, Bettmann/CORBIS

 Nel 1952 organizza una raccolta di firme a sostegno del Congresso internazionale della pace  contro gli esperimenti atomici.  Rivera inserisce la sua immagine nel murale realizzato quell’anno, “L’incubo della guerra e il sogno della pace”.  L’impegno e la militanza politica crescono negli  ultimi anni, con  vera devozione per il Partito nonostante i  contrasti del passato, lei vede nell’ideologia comunista una  spinta positiva per il futuro dell’umanità, e afferma: “Capisco il materialismo dialettico di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse Tung. Li amo perché sono i pilastri del nuovo mondo comunista”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo8-con-globoPRINT.jpg
“Frida con il globo“, Coyoacàn Messico 1938, di Manuel Alvarez Bravo

Per l’ammirazione che aveva di lui, la morte di Stalin il 4 marzo 1953 è un brutto colpo al suo equilibrio già instabile per le troppe sofferenze che dal corpo si sono trasferite allo spirito, non pitture ma disegni allucinati.  All’inizio del  1954 partecipa persino a una dimostrazione di solidarietà contro la destituzione del presidente del Guatemala Arbenz Guzmàn, mentre è ancora convalescente dopo una broncopolmonite. E’ l’ultima sua iniziativa politica, muore il 13 luglio di tale anno nella “Casa Azul” di Coyoàcan, a soli 47 anni.

Al Palazzo delle Belle Arti si svolge la veglia funebre con un picchetto d’onore e l’omaggio di amici e compagni che sfilano senza interruzione davanti alla bara coperta da una bandiera rossa con falce e martello all’interno di una stella bianca. Le ceneri sono conservate in un vaso precolombiano nella sua “Casa Azul”, che dal 1958 è un museo pubblico a lei dedicato.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-18-sopra-sin-print.jpg
Frida e Diego con la maschera antigas“, Messico c.a 1938, di Nickolas Muray

La sua salute martoriata

La broncopolmonite del 1954 è l’ultimo momento, prima della morte, di un calvario iniziato nel 1913, a sei anni di età, con una poliomielite che la tenne per nove mesi a letto e le offese una gamba rendendola claudicante, i compagni di classe la soprannominarono  “Frida pata de palo”, cioè “gamba di legno”. 

Ma l’evento traumatico che incise  profondamente non solo sul suo fisico ma anche sulla sua psiche, lo ebbe il 17 settembre 1925, a 18 anni, quando fu coinvolta in un grave incidente sull’autobus in cui si trovava, investito da un tram, ci furono diversi morti. Lei lo ha descritto così: “In quel momento non mi resi conto dello shock, non riuscii nemmeno a piangere, l’urto ci catapultò tutti in avanti  e un corrimano mi trafisse la schiena allo stesso modo che una spada  trafigge il toro”.  Una lunga e dolorosa convalescenza la sua, durante la quale comincia a dipingere, iniziando la serie degli “Autoritratti”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-18-sotto-print.jpg
“Frida con Granizo”, Messico c.a 1938, di Nickolas Muray

Anche i momenti felici dell’unione con Rivera – alternati a crisi e abbandoni reciproci – non vengono risparmiati dai suoi problemi fisici. Nel 1930 prima interruzione di gravidanza per postura scorretta delle ossa del bacino, è  l’anno del loro trasferimento a New York, seguita da un’altra interruzione nel 1932 a Detroit nell’Ospedale Henry Ford, cui dedica un dipinto.  Si sfoga così: “Nonostante tutto ho voglia di fare molte cose e non mi sento ‘delusa dalla vita’ come nei romanzi russi”. Terza interruzione di gravidanza nel 1934 con ulteriori complicazioni per la sua salute, e problemi personali: la relazione di Rivera con la propria sorella alla quale seguirà la separazione l’anno successivo, dopo la morte della madre nel settembre dell’anno precedente.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-18-sopra-dexPRINT.jpg
Frida mentre dipinge ‘Le due Frida’”, Messico c.a 1938, di Nickolas Muray

Nel 1940  va di nuovo negli Stati Uniti, a San Francisco, per curarsi, lo prescrive il suo medico dott. Eloesser, ha una compensazione nel riconciliarsi con Rivera, ma l’anno successivo la morte del padre le arreca un nuovo dolore. Le sue condizioni di salute restano precarie al punto che  è costretta a tenere le lezioni della Scuola d’arte di cui ha avuto l’insegnamento non nella sede scolastica ma nella “Casa Azul”: un insegnamento innovativo il suo, non solo la parte tecnica ma lo stimolo alla creatività con autodisciplina unita ad autocritica, e dimostra l’una e l’altra impegnandosi nella pittura e nell’attività politica.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-19-print.jpg
Frida Kahlo” , Messico 1939, di Nickolas Muray

Operazione chirurgica alla colonna vertebrale nel 1946, ma  ancora una compensazione nel Premio nazionale di pittura che le viene conferito, partecipa alla premiazione con il corpo bloccato da un busto insopportabile.  “Peggioro ogni giorno di più – si legge nella sua lettera del 24 giugno al dott. Eloesser – all’inizio non riuscivo ad abituarmi perché è una cosa infernale adattarsi a questo apparecchio. Non riuscivo più a lavorare, perché anche i movimenti più insignificanti mi stremavano”. Segue un nuovo intervento  chirurgico alla colonna vertebrale, prende morfina per i dolori,  le dà  allucinazioni, ma continua a dipingere anche quando non può muoversi con opere che riflettono la sua sofferenza; continuerà con la morfina anche dopo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-20-basso-dex-print.jpg
“Frida con oggetti di terracotta e pupazzi di Giuda”, Messico c.a 1940, di Bernard Silberstein

Ricoverata in ospedale per quasi 9 mesi nel 1940, subisce diversi interventi chirurgici ma non lascia la pittura: dopo il 6° intervento, dei 7 subiti,  ricomincia a dipingere per 4-5 ore, anche quadri sereni pur in una situazione di sofferenza: “Ho un busto di gesso che mi procura dei fastidi spaventosi, ma aiuta la mia spina dorsale a stare meglio, non ho dolori, ma sento una  grande stanchezza e disperazione” scrive, aggiungendo: “E’ un disperazione che non riesco a descrivere con le parole, ma nonostante tutto ho una grande voglia di vivere”.  E di  dedicarsi alla pittura: “Ho ricominciato a dipingere un piccolo quadro per il dottor Ferilli, e lo sto facendo con tutto l’affetto che provo per lui”. L’anno successivo può dipingere soltanto aiutandosi con antidolorifici e il suo tratto pittorico ne risente, colori più carichi, segno sfuggevole, minori dettagli.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-20-alto-sinPRINT.jpg
“Frida dipinge il suo autoritratto mentre Diego Rivera la guarda”,
Messico c.a 1940, di Bernard Silberstein

Nel 1953, pur immobilizzata a letto, non vuole mancare all’inaugurazione della sua prima grande personale  in Messico, organizzata da Lola Alvares Bravo, e si fa trasportare in barella fino a un letto in galleria, esiste solo una fotografia di lei in costume messicano con gioielli tipici circondata da amici, perché i fotografi commossi lasciano le fotocamere a terra e non hanno il coraggio di riprenderla così. Si aggrava il calvario, nel mese di agosto le viene amputata la gamba destra dopo dolori insopportabili, riesce a rimettersi in piedi con una protesi, ma la psiche vacilla: “Ho sempre il desiderio di uccidermi, solo Diego mi trattiene dal farlo.  Mi sono messa in testa che potrei mancargli, me l’ha detto lui e gli credo. Ma mai nella mia vita ho sofferto così tanto”. Però non manca il finale  meno disperato: “Aspetterò ancora un po’”. Infatti è capace ancora di dipingere.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-22-ALTO-GIOVANE-PRINT.jpg
“Frida ad una mostra”, Messico c.a 1940, di Lola Alvarez Bravo

La sua arte

La sua arte non è oggetto della mostra che vuole evocare la sua vita con le immagini fotografiche, ma non possiamo mancare di citare alcune opere che segnano  i diversi momenti della sua esistenza, tra l’impegno politico e i problemi di salute.

Nel 1926, dopo il terribile incidente nell’autobus del settembre 1925, il suo primo quadro, un “Autoritratto” in vestito di velluto. Dopo la seconda interruzione di gravidanza in America del 1932 il  ben noto dipinto ”Ospedale Henry Ford”. Anche le traversie sentimentali le esprime in pittura,   dopo la prima separazione da Rivera del 1935 crea l’inquieto, definito “cruento”, “Qualche piccola punzecchiatura“. 

Grande successo in America nel 1938, con la prima personale alla Julien Levy Gallery di New York, vende quasi tutte le opere esposte e riceve commissioni, Clare Boothe Luce addirittura vuole che  ricordi con un dipinto l’attrice amica Dorothy Hale, suicidatasi. Nel 1939, dopo la seconda separazione da Rivera,  opere tormentate, “Le due Frida” e “L’Autoritratto con i capelli tagliati”, l’anno dopo risposerà Diego.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-21-alto-PRINT.jpg
“Frida Kahlo mentre dipinge ‘La tavola ferita“, Messico 1940, di Bernard Silberstein

Intanto nel 1939 espone a Parigi alla Gallerie Renou et Colle,  dopo i contatti con i Surrealisti anche tramite l’amico Marcel Duchamp, e il Louvre acquista il suo dipinto  “La cornice”.   Un’opera del 1941 marca due momenti angosciosi, l’invasione tedesca della Russia e la morte del padre:  in ”Autoritratto con Bonito” si ritrae in camicia nera in segno di lutto  per il padre e le vittime della guerra, la scimmia Bonito sulla sua spalla evoca la perdita dell’animale cui era legata.

Nel 1946 l’opera freudiana “Mosè”, che riceve il Premio internazionale di pittura, esprime la sua reazione alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki con un terzo occhio sulla fronte del piccolo salvato dalle acque, il segno di una saggezza probabilmente da recuperare. Realizza opere che riflettono i suoi travagli personali, in “La colonna rotta” il tormento del  busto rigido, ma anche “Albero della speranza mantieniti saldo”, e “Il cerbiatto” o “Il cervo ferito”.   E dopo la nuova operazione chirurgica alla colonna vertebrale a New York crea l’opera “Il sole e la vita” con una pianta i cui pistilli sono a forma di lacrime,  dov’è  un feto tra organi genitali: segno della maternità interrotta.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-23-dex-PRINT-750.jpg
“Frida Kahlo”, Xochimilco Messico 1941, di Leo Matiz

Esorcizza le sue sofferenze in alcune opere del 1948 e 1949, come “L’amoroso abbraccio dell’Universo. La terra”, il suo Messico del quale figurano elementi mitologici tradizionali, come il sole  e la luna, il giorno e la notte, la dea e la terra, e un cane mitico come simbolo della vita e della morte. Nell’ autoritratto “Diego e io”, c’è il simbolo della saggezza nell’occhio di Rivera sulla sua fronte, e l’angoscia nella tristezza del proprio volto e nei capelli che sembrano volerle stringere il collo per soffocarla.

Si è alla metà del secolo,  nel 1950 dopo i numerosi interventi alla spina dorsale dipinge l’”Autoritratto con il ritratto del dottor Farill”, che l’aveva curata in ospedale, e scrive: ”Ho ricominciato a dipingere un piccolo quadro per il dottor Farill, e lo sto facendo con tutto l’affetto che provo per lui”. Riprende anche un quadro abbandonato da anni, “La mia famiglia”, con gli  antenati e suoi attuali parenti, quasi per cercare una  protezione nella sua situazione angosciosa.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-26-sin-basso-PRINT.jpg
Frida Kahlo indossa un corsetto di gesso decorato con falce e martello”,
Messico c.a 1941, di Florence Arquin

Nel 1951,  quando riesce a dipingere solo aiutandosi con antidolorifici, realizza la “Natura morta con ‘Viva la vita e il dottor Farill’”, fiori esotici su sfondo rosso  dinanzi a un cielo diviso tra giorno e notte, una anguria con la bandiera nazionale espressione del suo patriottismo, con davanti una colomba bianca che esprime il suo anelito alla pace; in “Angurie”, dipinto da Guttuso nel 1986 poco prima della morte avvenuta il 18 gennaio 1987, troviamo lo stesso frutto come inno alla vita, chissà se anche in lei dolorante abbia avuto tale significato! Non mancano neppure espressioni dell impegno politico diretto: “Il marximo guarirà gli infermi”, addirittura un  “Autoritratto con Stalin” e un “”Ritratto di Stalin” rimasto  incompiuto. E alla morte di Stalin nel 1953 disegni allucinati con lei divisa in due tra luce e ombra o con in mano la colomba della pace, la testa tra  linee come lance. In altri disegni ricorrono scritte  inneggianti alla pace rivoluzionaria e ai leader del comunismo da lei ammirati: “Pace, rivoluzione”, “Viva Stalin, viva Diego”, “Engels, Marx, Stalin, Lenin,  Mao”.

L’ultimo quadro che vogliamo citare è del 1954, l’anno in cui termina la sua  vita, dipinto con grandi sforzi:“Autoritratto con Diego sul petto e Maria tra le sopracciglia”, il segno è fuggevole per l’incertezza impressa dai  farmaci e dalle droghe. Sempre una grande artista che mette tutta se stessa nella pittura.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-24-centro-print.jpg
“Frida sdraiata al sole“, Xochimilco Messico 1941, di Leo Matiz

La sua immagine

Non potevano esserci queste opere pittoriche nel centinaio di immagini della mostra fotografica, di cui una sessantina riprodotte nel Catalogo,  ma è come se fossero evocate dalle foto del suo itinerario di vita, e sono evocati altrettanto i suoi amori, i suoi impegni politici, i suoi problemi di salute,  per questo abbiamo voluto farne un’ampia ricostruzione. Quelle esposte in mostra sono immagini serene, la maggior parte delle quali nel costume messicano in tutta la sua forza identitaria, con lei in atteggiamenti che sono quasi pose in cui ostenta  sicurezza di sé, in alcune fierezza, in altre dolcezza; le sue sopracciglia non sono unite come nei suoi Autoritratti in cui ha accentuato la loro vicinanza facendone un segno distintivo, per non dire trasgressivo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-26-sin-alto-print.jpg
“Frida Kahlo”, Messico 1941, di Bernard Silberstein

Tra quelle del Catalogo, soltanto in poche  fotografie  è ripresa in gruppi: dal padre Guillermo Kahlo nel 1928 in un ritratto di famiglia con  sei parenti;  da  Bettmann/CORBIS  nel 1933 con  Diego Rivera e altri tre visitatori  in smoking  a New York  a una mostra di ritratti di Lionel Reiss, nel 1937 mentre l’8 gennaio accoglie Trotsky con la moglie al loro arrivo in Messico a Tampico, con Schachtman, leader del Comitato Comunista Americano insieme a un quindicina di persone, e a Città del Messico lo stesso giorno solo con Schachman, nel 1944 semidistesa sul letto con la testa eretta, sul bordo un uomo che dorme, sono estranei e distaccati, completamente vestiti, è un’immagine ironica;  da Lola Alvarez Bravo nel 1940 davanti a due quadri mentre si rivolge a un giovane visitatore; da Leo Matiz  in 3 immagini, 2 del 1941, di cui una con Rosa e Cristina, l’altra con  Diego, Cristina e Miguel Covarrubias, una del 1943 con un venditore di tessuti; fino alla fotografia di Gisele Freund del 1951, insieme al dottor Farill e il quadro in cui lo ritrae con lei.  

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-22-basso-dx-print.jpg
“Frida Kahlo e Diego a Casa Azul”, Coyoacàn Messico 1941, di Emmy Lou Packard;

Le altre fotografie in cui non è sola la mostrano con Diego Rivera, sono una diecina. Vengono  ritratti insieme da Victor Reyes nel 1929 dopo il matrimonio, lui corpulento in piedi, lei sottile seduta, sembrano proprio ’”l’elefante e la colomba”, come sono stati chiamati; da Manuel Alvarez Bravo nel 1930 seduti su due poltrone affiancate, lui tende la destra verso il braccio di lei, e nel 1939,  lei seduta su una poltrona e lui sul bracciolo che le cinge le spalle con il braccio sinistro; da Bernard  Silberstein nel 1934 seduti affiancati in posa rilassata, nello studio di Diego, nel 1940 mentre dipinge il suo “Autoritratto” con Rivera in piedi alle sue spalle che la guarda, e  il giorno delle loro seconde nozze, mentre lei tiene la mano destra sulla spalla di lui  che scrive, sono  seduti affiancati su un divano; Emmy Lou Packard li ritrae nel 1941 a “Casa Azul”  con lui seduto davanti a una tavola imbandita e lei in piedi che gli bacia amorevolmente la testa; citiamo qui, per vicinanza ideale,  l’unica fotografia scattata da Diego Rivera, forse lo stesso giorno, in cui Emmy Lou le cinge le spalle con un braccio mentre sono seduti nel giardino  della casa.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-27-intera4-PRINT.jpg
Frida Kahlo a Casa Azul”, Coyoacàn Messico c.a 1941, di Leo Matiz”

Ed ora le immagini in cui è sola,  nel Catalogo sono circa 40,  una metà a mezzo busto, una diecina a figura intera, altre davanti a dei  quadri. La vediamo mentre dipinge “Le due Fride”  nella foto di Nickolas Murray del 1938, e nel dipingere  “La tavola ferita”  ripresa nel 1940 da Bernard Silbrstein  che  la fotografa anche davanti a una grande vetrina con oggetti e pupazzi di Giuda;  nel suo studio con le attrezzature per la pittura e “Le due Fride” nella parete di fondo, ripresa da Fritz Henle,  vi associamo 2 foto, entrambe a figura intera, di Manuel Alvarez Bravo del 1944 alla mostra di Picasso dinanzi a  due quadri dell’artista, lei è in piedi davanti al quadro di una figura femminile e seduta comodamente davanti a una figura in posa acrobatica, ironia forse? 

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-28-intera-print.jpg
Frida nel suo studio”, Messico c.a 1943, di Fritz Herle

Le foto a mezzo busto iniziano con quella scattata nel  1926 dal padre Guillermo Kahlo, che la ritrae altre due volte, la prima vestita in nero, la seconda in chiaro,  dopo la morte della madre nel 1932, anno in cui abbiamo anche una foto di Carl Van Vechten a New York con un vaso caratteristico sulla testa; del 1930, 2  foto a San Francisco, una  di Imogen Cunningham con un semplice scialle scuro, l’altra di Edward Weston  agghindata con al collo tre giri di una collana  molto grossa, mentre a è del 1933 la foto di  Lucienne  Bloch che la ritrae a New York mentre morde una collanina chiara, e le 2 della stessa fotografa, del 1935, con una bottiglia di Cinzano e un centrino in testa; compunte  le 2 ’immagini del 1937 di Fritz Hehle, che la riprende all’uscita dalla chiesa, in figura intera e in un primo piano del volto con lo scialle che le copre i capelli, dolcissima quella del 1938 mentre accarezza la sua capretta Granizo, di Nickolas Muray, che la ritrae nello stesso anno in una posa seducente; la capretta è con lei anche nella foto del 1940 di Bernard Silberstein che la mostra seduta in camera da letto con dietro il letto a baldacchino, mentre nel 1941 la riprende da vicino con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo verso sinistra, e non  frontale come di solito; nello stesso anno Florence Arquin immortala il corsetto di gesso da lei indossato con una vistosa falce e martello.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo7-con-scimmia-PRINT.jpg
Frida davanti al suo studio con una scimmia”, Messico 1943, di Fritz Herle

Del 1941 anche 4 foto di Leo Matiz, le più distensive perché la vedono sdraiata al sole su un prato con le braccia dietro la testa, l’ultima a figura intera. Dopo la foto davanti al suo studio con in braccio una scimmia – che troviamo  anche nei suoi dipinti – di Fritz Henle nel 1943, la vediamo con le trecce annodate sulla testa appoggiata al bracco sinistro e lo sguardo verso destra  nella  foto del 1944 di Bettmann/CORBIS,  altrettanto serena, come nella foto di  profilo di Sylvia Salmi dello stesso anno e in quella  del 1945 di Lola Alvares Bravo, un’altra in camera da letto, mentre nel 1946 Leo Matiz la riprende severa come una figura statuaria in un’immagine potente per il controluce e il taglio obliquo.  Nel 1949,  2 foto molto diverse: seduta nello studio con gli scaffali di libri e il telefono a muro nella foto serena di Mario Guzman; distesa mentre gioca con il suo cane, nella foto tenera di Hector Garcia, che l’anno dopo, nel 1950, la ritrae  invece scura nell’abito e nel viso.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-29-intera-print.jpg
“Frida Kahlo”, Messico 1941, Bettmann/CORBIS

Le altre  fotografie  a figura intera oltre quelle  già citate,  la mostrano  in pittoreschi abiti del suo Messico,  così la riprende Manuel Alvarez Bravo nel 1938 con a lato il globo,  così Leo Matiz nel 1941 e nel 1943 e Juan Guzman nel 1950 con due colombe.

Concludiamo la galleria con due immagini simboliche, quella del 1950 di Juan Guzman distesa nel letto d’ospedale, ma non con le impressionanti allucinazioni di certi suoi dipinti e disegni, bensì con in mano uno specchio, simbolico omaggio alla femminilità, e quella del 1954 di Lola Alvarez Bravo nel letto di morte: chiudono un percorso evocativo quanto mai espressivo ed emozionante.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-31-intero-print.jpg
“Frida Kahlo alla mostra di Picasso”, Messico 1944,
di Manuel Alvarez Bravo

Ma non vogliamo terminare con immagini angosciose,  bensì con le sue belle parole dopo la grande personale in Messico del 1953 alla quale si fece portare in barella nel letto in galleria contro il parere dei medici: “C’era tanta gente al vernissage e tante congratulazioni da tutti per la ‘chicua’, tra le altre un grande abbraccio da Juan Mirò e tante lodi per i miei quadri da Kandiskij, congratulazioni anche da Picasso e Tanguy, da Paalen  e dagli altri gran caca del surrealismo. Insomma, posso dire che è stato un successo e, tenendo conto della qualità del pubblico,  credo che tutto sia andato piuttosto bene. La vostra ‘chica’ che non vi scorda mai. Frida”.  

E nemmeno noi potremmo mai dimenticarla.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-9-1939-iconica-print.jpg
Frida Kahlo”, Messico 1946, di Leo Matiz

Info

San Sepolcro, Arezzo, Museo Civico, via Niccolò Aggiunti 65. Orario giovedì-domenica, 10-13,30 e 14,30-19, biglietteria aperta  fino a 20 minuti prima della chiusura quotidiana. Ingresso, intero euro 12;  ridotti:  9 euro per gruppi oltre 10 persone, per età 19-25 anni; 5 euro  per età 11-18 anni;  gratis per under 10, disabili con  accompagnatore, e altre categorie.  Info e prenotazioni Tel. 0575.732218,   mostrasansepolcro@gmail.com.  Catalogo “Frida Kahlo. Una vita per immagini”, Papiro Art,  aprile 2021,  pp.48,   formato  17 x 24,  bilingue italiano-inglese, dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo. Cfr.  in www.arteculturaoggi.com i nostri articoli: per la  mostra romana delle opere di Frida Kahlo alle Scuderie del Quirinale, l 2 marzo, 12, 16 aprile 2014; per gli artisti citati nel testo,  Picasso, 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Duchamp 16 gennaio 2014, Guttuso 20, 30 gennaio 2013, 25, 30 gennaio 2015, 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, 16 ottobre 2017, Mirò 15 ottobre 2012; in cultura.inabruzzo.it,  Dada e surrealisti 4, 7 gennaio 2010, Picasso 4 febbraio 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, disponibili,  saranno trasferiti su altro sito).

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-35-intera-print.jpg
“Frida Kahlo nel letto di ospedale con in mano uno specchio”, Messico 1950,
di Juan Guzman

Foto

Le immagini delle fotografie esposte in mostra, che sono nserite nel testo in ordine cronologico e coprono un quarto di secolo dal 1926 al 1950, sono tratte dal Catalogo: si ringrazia l’Editore con  i titolari dei diritti e Civita Mostre Musei che lo ha cortesemente fornito, per l’opportunità offerta. In apertura,“Le due Frida” 1939, nella copia-omaggio del pittore cinese Nu De Qi; seguono, “Frida Kahlo a diciotto anni” Messico 1926 di Guillermo Kahlo, e “Diego Rivera e la sua sposa” Messico 1929 di Victor Reyes; poi, “Frida Kahlo” San Francisco 1930 di Edward Weston, e “Frida Kahlo e Diego Rivera” 1930 di Manuel Alvarez Bravo; quindi, “Frida conVaso Tehantepec sulla testa” New York City 1932 di Carl Van Vechten, e “Frida” Messico 1932 di Guillermo Kahlo; inoltre, “Frida morde la sua collana” New York City 1933 di Lucienen Bloch, e “Frida Kahlo e Diego Rivera nello studio di Diego” Messico 1934 di Bernard Silberstein; ancora, “Frida Kahlo all’uscita dalla chiesa” Coyoacàn Messico 1937 di Fritz Herle, e “L’arrivo di Trotsky in Messico, accolto con la moglie da Frida Kahlo e Schachtman, leader del Comitato Comunista Americano” Tampico Messico 1937 Bettmann/CORBIS; continua, “Frida con il globo” Coyoacàn Messico 1938 di Manuel Alvarez Bravo, e “Frida e Diego con la maschera antigas” Messico circa1938 di Nickolas Muray; prosegue, “Frida con Granizo” Messico c.a 1938 di Nickolas Muray, e “Frida mentre dipinge ‘Le due Frida’” Messico c.a 1938 di Nickolas Muray; poi, “Frida Kahlo” Messico 1939 di Nickolas Muray, e “Frida con oggetti di terracotta e pupazzi di Giuda” Messico c.a 1940 di Bernard Silberstein; quindi, “Frida dipinge il suo autoritratto mentre Diego Rivera la guarda” Messico c.a 1940 di Bernard Silberstein, e “Frida ad una mostra” Messico c.a 1940 di Lola Alvarez Bravo; inoltre, “Frida Kahlo mentre dipinge ‘La tavola ferita” Messico 1940 di Bernard Silberstein, e “Frida Kahlo” Xochimilco Messico 1941 di Leo Matiz; ancora, “Frida Kahlo indossa un corsetto di gesso decorato con falce e martello” Messico c.a 1941 di Florence Arquin, e “Frida sdraiata al sole” Xochimilco Messico 1941 di Leo Matiz; continua, “Frida Kahlo” Messico 1941 di Bernard Silberstein, e “Frida Kahlo e Diego a Casa Azul” Coyoacàn Messico 1941 di Emmy Lou Packard; prosegue,“Frida Kahlo a Casa Azul” Coyoacàn Messico c.a 1941 di Leo Matiz, e “Frida nel suo studio” Messico c.a 1943 di Fritz Herle; poi, “Frida davanti al suo studio con una scimmia” Messico 1943 di Fritz Herle, e “Frida Kahlo” Messico 1941 Bettmann/CORBIS; quindi, “Frida Kahlo alla mostra di Picasso” Messico 1944 di Manuel Alvarez Bravo, e “Frida Kahlo” Messico 1946 di Leo Matiz, infine, “Frida Kahlo nel letto di ospedale con in mano uno specchio” Messico 1950 di Juan Guzman e, in chiusura, “Frida Kahlo con due uccelli” Messico 1950 di Juan Guzman.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Kahlo-34-intera-PRINT.jpg
Frida Kahlo con due uccelli”, Messico 1950, di Juan Guzman.

Uganda, un viaggio dell’anima per immagini

Ieri abbiamo ripubblicato il primo dei nostri due articoli, uscito il 20 luglio 2013 nel sito web www.arteculturaoggi.com, sull’annuale mostra fotografica nella chiesa dei Santissimi Martiri dell’Uganda; ora ripubblichiam l’articolo del 23 ottobre 2015, precisamente ieri sono stati sei anni. L’intento è colmare il vuoto dato dall’assenza della mostra quest’anno per la pandemia, e così rispondiamo anche al richiamo del ministro Franceschini che tre giorni fa, il 21 ottobre, ha dichiarato al summit UE-Africa per le piccole e medie imprese alla Galleria Nazionale di Roma: “Mi piacerebbe che, oltre al programma Erasmus, fosse varato un programma nazionale per studenti tra l’Italia e l’Africa, per aiutare lo scambio delle conoscenze: l’unico strumento che può aiutare a superare le diffidenze, aiutare a trovare obiettivi comuni, vivere i problemi dell’altro Paese come fossero i propri. Questa prospettiva è stata al centro dei lavori del G20 cultura, che s’è tenuto lo scorso luglio a Roma”. E ha aggiunto: “Tra Europa e Africa è necessario un lavoro che, oltre i rapporti economici e la costruzione di infrastrutture, vada in profondità, alla radice, che punti alla conoscenza reciproca, agli scambi culturali, in particolare quelli tra i giovani. L’Italia da questo punto di vista riveste un ruolo fondamentale anche grazie alla sua geografia che la pone come una specie di molo naturale nel Mediterraneo”. Il “reportage” fotogarfioco, e non solo, sul villaggio ugandese mostra una realtà che va tenuta ben presente, e non muta nel tempo come si vede dal confronto tra il 2013 e il 2015. Giustissimo promuovere la conoscenza reciproca con scambi tipo Erasmus, e anche tipo le benemerite missioni di questa Parrocchia, ma quando si decideranno i paesi ricchi al Piano Marshall per l’Africa troppe volte evocato, con cui darebbero slancio anche alle loro economie opulente che abbisognano di nuovi sbocchi? La lotta alla pandemia potrebbe accelerare tale processo e nel nostro piccolo, con questi “reportage” religiosi di alto valore civile e umano, vorremmo contribuire a risvegliare coscienze che sembrano addormentate.

di Romano Maria Levante

Una mostra fotografica, a sostegno dei progetti della Parrocchia Santi Martiri dell’Uganda della diocesi ugandese di Lira, dall’11 ottobre al 30 novembre 2015, all’interno della Chiesa dei Santissimi Martiri dell’Uganda, a Roma, quartiere Ardeatino, dall’eloquente  titolo “God is Working”, autori Don Ivan, Francesca, Marco, Muffin, del gruppo missionario della parrocchia. E’un reportage appassionato della visita-pellegrinaggio svoltasi nella seconda quindicina del  luglio 2015 su iniziativa del parroco don Luigi D’Errico, in Uganda, nella diocesi di Lira, dov’è il santuario dei Santissimi Martiri ugandesi sacrificatisi per la  fede voluto da Paolo VI dopo un viaggio sui luoghi del martirio. I martiri  sono Carlo Lwanda e 21 giovani ai quali Paolo VI volle dedicare  anche la nuova chiesa romana nel quartiere Ardeatino; la consacrazione fu  opera di Giovanni Paolo II, fu la prima del suo pontificato. 

ll Manifesto della mostra all’ingresso della chiesa

Ne abbiamo raccontato la storia commentando la mostra dell’estate 2013 nella  stessa chiesa, dopo la precedente visita-pellegrinaggio con  don Davide Lees. Abbiamo citato le parole di padre Torquato Paolucci, missionario in Uganda,, richiamato in Italia dopo trent’anni, tornato malvolentieri a Roma con il cuore rimasto tra  i parrocchiani ugandesi, un “mal d’Africa” religioso il suo.

 “Casa”

Le mostre religiose

Questa mostra è un nuovo esempio di come il mezzo fotografico sia idoneo a rendere anche quei concetti e valori  di natura religiosa attinenti alla spiritualità  interiore piuttosto che alla realtà esteriore che è possibile catturare con l’obiettivo;  la forza dello spirito è tale da trasmettersi  anche mediante immagini che restano impresse per la loro immediatezza.  E’ avvenuto con le mostre fotografiche romane su Giovanni Paolo II,  a Piazza Esedra,  a Palazzo Valentini e a “Spazio 5”, avviene anche con la mostra attuale.

“Dono”

Pertanto ci soffermeremo sui  contenuti spirituali e sui messaggi tramessi senza parlare degli aspetti estetici delle fotografie esposte, delle quali ci limitiamo a sottolineare la qualità: alcune di esse sono di tono pittorico fino a toccare un vero livello artistico.  Sono stati bravi gli autori, che le hanno corredate di didascalie utili ad approfondirne i contenuti.  C’è un’unità di tempo, oltre che di spazio, nel reportage fotografico, le fotografie sono state scattate tutte nell’ultima decade di luglio 2015, nella diocesi ugandese di Lira. 

“Sete”

E’ anche un nuovo esempio di mostre presentate all’interno della chiesa, cosa che avviene in circostanze eccezionali come fu per la mostra “Arché”, con i dipinti di quattro grandi artisti contemporanei in omaggio ai terremotati d’Abruzzo nella basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila dissestata dal sisma; e come è stato  per la mostra fotografica di due anni fa in questa stessa chiesa.

La religione è strettamente legata all’arte, essendone il soggetto prevalente soprattutto nell’epoca d’oro della creazione artistica, da Giotto al Rinascimento, dal ‘600 all’ ‘800 e ‘900, per cui le opere ispirate alla religione sono di gran lunga prevalenti nelle mostre d’arte, non considerando l’arte contemporanea che si sbizzarrisce altrimenti. Ma sono poche le mostre dichiaratamente a tema religioso, tra queste vogliamo ricordare le esposizioni d’arte a Illegio sugli “Apocrifi”, ad Ancona  nel Congresso eucaristico sull’Ultima cena, “Alla mensa del Signore”; e, prima,  a Palazzo Venezia a Roma , su “Il Potere e la Grazia”, imponentemostra tematica sui protagonisti della fede: eremiti e martiri, sovrani cristiani e missionari.

“Il boss” “

La vicenda eroica dei Santi Martiri ugandesi

Questa mostra fotografica, come la precedente, rimanda ai missionari anche se non è più l’epoca dell’evangelizzazione in continenti inesplorati, ma è altrettanto eroica per i  sacerdoti che fanno opera di carità in zone spesso tormentate da guerre tribali, e anche per gli stessi  convertiti, come dimostra la storia dell’Uganda che ha avuto martiri cristiani tra i suoi giovani.

“Non abbiate paura”

Abbiamo già raccontato la loro vicenda eroica, ricordiamo solo i momenti salienti. ‘Nel 1877 le prime predicazioni, poi la penetrazione della parola di Dio al sud con i Padri bianchi, al nord con i Comboniani; quindi il martirio,  nel 1885-87 nel sud  uccisi Carlo Lwanga e 21 compagni; nel 1918 nel nord i catechisti Daudi Okelo e Jildo Jrwa, tutti giovanissimi.

“Ora ci vedo”,

A loro è dedicata la chiesa romana  dove si svolge mostra; Carlo Lwanga, il cui nome è stato dato al teatro annesso alla chiesa,  era molto vicino al re, e tanti suoi coetanei di  famiglie nobili frequentavano la corte. Ma la fede lo portò a respingere il ruolo di efebo sottomesso ai piaceri del sovrano, e anche i suoi compagni si ribellarono, per questo furono arsi vivi. Pure  i due giovani catechisti del nord  furono uccisi con protestanti e islamici, in un tragico sincretismo del martirio per fede.

  “Affidarsi”

Furono canonizzati nel 1964  da Paolo VI  che nel 1969 andò sul luogo del martirio in Uganda, ne fu così impressionato da farvi erigere un Santuario e disporre  di dedicare ai Martiri ugandesi la prima delle nuove chiese da costruire a Roma.  Il 20 giugno 1970 fu posta la prima pietra al quartiere Ardeatino, nell’11° Municipio, ora 8°, dove si trova il Santuario delle tre Fontane e il sacrario dei Caduti della Montagnola, martiri laici e  martiri cristiani celebrati in luoghi vicini; il 26 aprile 1980  la chiesa, con le reliquie dei martiri ugandesi sotto l’altare,  fu la prima ad essere consacrata da Giovanni Paolo II  succeduto a Paolo VI.

“Correre per volare”

La peculiarità della mostra, un viaggio dell’anima

La mostra di quest’anno non è ripetitiva di quella che abbiamo commentato due anni fa;  è la seconda parte di un racconto che ci auguriamo continui nei prossimi anni con immagini e storie altrettanto appassionanti, penetrando sempre di più nella comunità della diocesi ugandese per continuare a comporre un libro della fede e dell’umanità che non può avere mai fine.

“Vola solo chi è leggero”

Non ci sono questa volta le immagini del santuario ugandese realizzato per volere di Paolo VI sul luogo del massacro, un tempio circolare a capanna con immagini impressionanti delle reliquie; nè le altre istantanee di testimonianza immediata presentate allora il cui valore resta immutato nel tempo. Ma c’è  la foto della chiesa della parrocchia africana dei Santi Martiri dell’Uganda,  definita la “Casa”.     

 il Manifesto vicino al Crocifisso

La nuova mostra –  con gli ingrandimenti fotografici collocati, come nell’altra, sulle  pareti della chiesa dove sono le stazioni della Via Crucis e davanti all’altare – non è solo la testimonianza della visita in una terra con bellezze naturali straordinarie e un’umanità sorprendente; è un viaggio dell’anima alla scoperta non solo di un altro mondo ma soprattutto del proprio mondo interiore sfrondando gli orpelli fuorvianti del consumismo e andando alla radice dei pensieri, dei sentimenti e dei valori.

“Gesù Bambino” 

E’ stato un modo per entrare in contatto diretto con la povertà, quella vera, non quella che si traduce in una limitazione a certi consumi  indotti dai meccanismi economici più che da bisogni effettivi.  Così, dicono gli autori, “vi racconteremo come l’estrema povertà si trasforma in uno strumento per conquistare una libertà  e una gioia così rare a noi sconosciute da considerarle un mistero”. Nell’estrema povertà, dunque, si può essere liberi e provare una gioia che nessuna società dei consumi può arrecare; questo hanno scoperto i visitatori-pellegrini, e ci raccontano il percorso che li ha tanto coinvolti. 

“Tienimi con te”

Si sono talmente immedesimati in questo mondo povero ma libero, da offrire come regalo una coppa di termiti, cibo molto apprezzato dalla comunità ugandese, ma quanto mai lontano dal nostro mondo: la foto  “Dono” ne dà testimonianza.  

Naturalmente l’ottica è religiosa, come rivelano le loro parole: “Nei poveri si incontra Gesù, quello vero, presente, tanto che lo puoi toccare: gli altri intorno si fanno prossimo, e non possiamo più smettere di pensare che ciò che accade ad un nostro fratello ci riguarda”. I laici non credenti incontrano la propria coscienza che dovrebbe sentire vicino il prossimo non meno dei credenti.

“Guardami” 

Certo, è un altro mondo quello che scorre nella galleria fotografica, la sua alterità è tale da scuotere le coscienze e indurre a profonde riflessioni sull’essere in generale e sul proprio essere in particolare. Le didascalie alle fotografie esposte spiegano cosa c’è sotto le immagini riprese dall’obiettivo, spesso un iceberg tutto da esplorare.

“Fede”

I bambini,  e i loro insegnamenti

Innanzitutto i bambini, ne vediamo  ripresi due che raccolgono l’acqua per le esigenze della loro famiglia, nella foto intitilata “Sete”. Sono mobilitati per la sopravvivenza laddove nel nostro mondo si dividono tra scuola di nuoto e di  tennis, di danza e di ginnastica artistica secondo il sesso e le preferenze, impegnati già da piccoli in una corsa al consumismo sfrenato.

“Rifugio”

Nonostante tutto i bambini ugandesi sorridono nella loro innocenza , anzi “bastava guardarli per farli sorridere, una faccia buffa, un gesto semplice e i loro occhi si illuminavano”, è questa “la ricchezza delle piccole cose”. La  foto intitolata “Sorridi” con le due bambine unite nel sorriso ne è una manifestazione visibile.

Ma c’e una bambina molto piccola che non sono riusciti a far sorridere: “Teneva il muso osservandoci attentamente come può fare un capo”, per questo la foto è intitolata  “Il  boss”:lei non ha ceduto come gli altri bambini, i quali dopo la diffidenza iniziale che li faceva scappare dinanzi agli insoliti intrusi, non hanno resistito all’offerta di caramelle che è stata la chiave per conquistare la loro fiducia. Torna in mente l’immagine della mostra precedente in cui una piramide di mani si protendeva verso le caramelle offerte da don Davide, la cui statura lo faceva apparire un albero della cuccagna.

“Apwayo”

Ne nasce una lezione per i visitatori-pellegrini e per tutti: “E’ stato importante per noi imparare  a rispettare la paura dell’altro quando fuggiva e a gioire quando tornava”.  Di qui l’esortazione: “Non abbiate paura”, è il titolo della sequenza di immagini che mostra il lento avvicinamento al piccolo per conquistarne la fiducia, sono tre foto collocate nella postazione a lato dell’Altare dove si leggono le scritture e il Vangelo e il sacerdote  tiene l’omelia nelle funzioni religiose.

“Semi”

Particolarmente toccanti le immagini dei bambini ciechi. L’apposita struttura scolastica dove imparavano l’alfabeto braille per comunicare è stata dissestata dalle violenti piogge, si raccolgono offerte per ripristinarla, mancano solo 2000 euro per i pavimenti, il tetto è stato già riparato. Sorridono con una letizia che è senza dubbio interiore e riesce a sconfiggere la cecità.

“Ora ci vedo” si intitola l’immagine di uno studente cieco della scuola primaria di Ngetta che, “quando ha sentito le nostre voci, si è subito avvicinato a noi facendosi largo con una canna di bambù utilizzata da bastone guida”. Una nuova riflessione: “Forse è vero che non si vede solo con gli occhi”.

“Festa”

D’altra parte, la foto scattata durante una lezione di educazione fisica nella sezione per non vedenti della scuola primaria di Ngetta reca questa didascalia che non richiede commenti: “Una delle due bambine è cieca e l’altra è la sua guida: sapreste distinguerle? Noi abbiamo fatto fatica perché gli studenti ciechi sono perfettamente integrati ed aiutati dagli altri”.  Un altro insegnamento, “Affidarsi”, il titolo dato all’immagine edificante.

“Urrah”

Ecco  il commento: “L’entusiasmo degli studenti di ‘Ngetta Girls’ ha coinvolto tutti noi. La scuola cerca di dare a questi ragazzi una possibilità di studiare e di vivere un’infanzia spensierata e serena”.Nell’immagine “Si vola solo da leggeri”   colpiscono i salti di gioia sincronizzati in una sorta di grande girotondo di donne festanti nell’ampia radura intorno ai ragazzi.

“Chiesa”

C?è anche un bambino che accudisce stabilmente uno più piccolo cieco e ipoudente, Steven Emmanuel, abbandonato dai genitori,  lo vediamo piegato su di lui mentre lo lava alla fontana, è un’immagine così eloquente da essere stata scelta come testimonial della mostra, e sigillo della visita, è nel  Manifesto  posto a lato dell’altare vicino al Crocifisso, oltre che all’ingresso della chiesa. Un piccolo è in primo piano nella foto intitolata “Gesù Bambino”,  è sempre Steven Emmanuel,  lo incontreremo ancora.    

“Futuro”

Poi i  piccoli invalidi nell’orfanotrofio, di Ngetta, “Babies home”, ce ne sono 16 seguiti da suor Gertrude, suor Francis, suor Mary. Vediamo una bambina con la paresi agli arti, calza due scarpe sinistre, sorride nell’abbraccio, la foto è intitolata “Tienimi con te”.

Un’altra immagine mostra  il disabile in carrozzina che si allontana da solo nella campagna, il titolo è “Guardami”. Leggiamo questa riflessione: “Abbiamo avuto l’occasione di incontrare molte persone disabili, ognuna mite nella propria condizione e gioiosa nello stare con noi in semplicità. L’estrema povertà trasforma la condizione delle persone disabili  da difficile a drammatica. Rimane esemplare comunque il modo con cui la affrontano”. Un altro esempio, gli insegnamenti proseguono.

“Coraggio”

Ai bambini viene data una piccola croce e una madonnina ” che li accompagna nella vita e di cui loro  vanno fierissimi”, è il commento della foto intitolata “Fede” con un bambino che viene da Ichema.  Vediamo anche l’immagine  suggestiva del bambino ugandese al’interno della chiesa di Ichema dedicata a Maria, dove i comboniani  padre John e padre Ferdinando Moroni: sono dediti all’assistenza dei bambini: il titolo “Rifugio”  esprime la protezione offerta dalla fede tramite l’opera dei missionari.

” “Vocazione”

Il bambino crescerà, come cresceranno  i bambini i cui volti si affollano festosi e richiamano il grappolo di mani protese verso le caramelle di don Davide nella foto che abbiamo già citato della mostra precedente. “Apwayo” il titolo, nella lingua locale significa “grazie” ed è usato anche per salutare: sono i bambini della parrocchia Santi Martiri dell’Uganda della diocesi di Lira fuori dalla chiesa nella quale hanno cantato la vecchia canzone che il parroco precedente, il compianto don Alfio, faceva cantare ai bambini italiani nella chiesa Santi Martiri dell’Uganda di Roma, dov’è la mostra. Il gemellaggio così diventa canoro.

“A vicenda”

I volti si affollano festosi anche nell’immagine intitolata “Semi”, per esprimere la fiducia riposta in queste risorse del futuro così vitali e promettenti: “Durante la nostra visita nei villaggi l’accoglienza è stata la protagonista. Questi bambini ci hanno accompagnato fino a quando siamo andati via, mostrandoci la gioia che viene dall’incontro”.  

“Mitezza” 

Vediamo una fotografia che riprende un momento della cerimonia religiosa con la presenza dei sacerdoti, sono celebrazioni  che durano tre ore, è intitolata “Festa”:ecco “la processione tra canti e balli che accompagna l’uscita del Vangelo”, con le ragazze felici nei loro abiti bianchi. 

Immagini festose anche con gli adulti, viene ripreso un folto gruppo di diocesani locali e componenti del gruppo missionario  nella foto intitolata “Urrah” , spicca  il bianco delle camicie e dei camici.

“Costruire”

La testimonianza di  padre Torquato, il sacrificio del dott. Matthew

L’elemento religioso torna nella esaltazione dei catechisti, che “in Uganda sono i pilastri della Chiesa”, una  vera garanzia. Per questo l’immagine che ritrae riuniti tutti i catechisti del Centro pastorale di Ngetta come in una foto di famiglia, anzi di una squadra di calcio, è intitolata “Chiesa”;e quella che ne ritrae alcuni in un suggestivo controluce si intitola “Futuro”

Sono  “una figura più che preziosa, fondamentale” per il  funzionamento delle parrocchie ugandesi dove la dispersione in grandi spazi non consentirebbe un’assistenza costante da parte dei pochi sacerdoti se non fosse delegata ai catechisti dopo una preparazione che li tiene per ben tre anni lontani da casa. E’ intitolata “Coraggio”  un’immagine della preparazione al Centro pastorale catechistico diretto da  padre Cosimo, mentre gli aspiranti catechisti seguono attenti il docente che tiene la lezione dinanzi alla lavagna.  

“Opportunità”

Ricordiamo la bella storia che ci raccontò padre Torquato Paolucci – tra gli officianti delle attuali messe domenicali nella chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda – durante una lunga intervista sulla sua esperienza missionaria di trent’anni nel paese africano, che abbiamo riferito a suo tempo nel commentare la mostra precedente.

“Eden”

Quando un parrocchiano gli chiese di ammetterlo alla formazione dei catechisti, avendo saputo che aveva moglie e quattro figli, volle verificare con lei l’assenso a  lasciare la famiglia per i tre anni previsti, credendo che lo negasse, ma ebbe questa risposta: “Se Dio ha chiamato a sè mio marito con questa vocazione, chi sono io per andare contro il suo volere?”. Ebbene, padre Torquato, quando ci fu il suo richiamo a Roma per la fine della missione trentennale,  dopo una prima reazione negativa perché voleva restare in Uganda, lo collegò al volere di Dio e ripensando a quell’episodio si disse: “Chi sono io per andare contro il suo volere?”. Sentiamo un’assonanza con quanto ha detto di recente  Papa Francesco interrogato sull’omosessualità:: “Chi sono io per giudicare?”. Un insegnamento che viene da lontano, dalla sua Argentina ma anche dall’Uganda della moglie del giovane aspirante catechista con quattro  figli e dal  missionario che ne ha dato testimonianza.

“Bellezza”

Vengono evocate storie come quella del dottor Matthew Lukwiya nell’Holy Mary Lazar Hospital – l’ospedale realizzato dal chirurgo Piero Corti, il primo nel Centro Africa – che nel 2000 si battè strenuamente contro l’epidemia di Ebola e riuscì a debellarne il focolaio in quattro mesi con un numero limitato di morti, tra cui alcuni tra il personale sanitario. Diceva al riguardo: “Se guardiamo alla morte del nostro personale vediamo lo spiegarsi di un mistero, un mistero di luce, davanti a noi c’è il martirio e la santità”. E aggiungeva: “Ora capisco chiaramente che la professione di medico è piuttosto una vocazione a cui il Signore chiama per fare vita”.  Di qui la sua totale dedizione: “Ho fatto la mia scelta. Ti chiedo solo, Signore, ch’io sia l’ultimo  a morire, per aiutare e curare prima gli altri”. E fu proprio l’ultimo  a morire nel suo ospedale, “un missionario nella sua stessa terra”. Le sue parole sono incise in inglese nella lapide commemorativa la cui fotografia è intitolata “Vocazione”.

“Proteggimi”

Il lavoro  e l’Eden della natura

Non solo storie eccezionali o storie di bambini, troviamo nella mostra anche la normalità del lavoro.

L’agricoltura è l’attività prevalente, di sussistenza, serve a ricavare il necessario per vivere, si conta sull’aiuto reciproco: per questo è intitoilata  “A vicenda”  la foto che mostra il lavoro comune tra sacchi di derrate agricole. A questa accostiamo l’immagine della donna che offre la merce al mercato, è sorridente e assisa come una matrona, il titolo è “Mitezza”

“Riparo”

Un istituto tecnico fondato e diretto dal comboniano Gilberto Bettini, che ha fatto dell’Uganda la sua terra, è impegnato nelle formazione di muratori, falegnami, operai; li vediamo mentre lavorano con i mattoni in un muro nella foto intitolata “Costruire” , e con delle assi di legno nella foto dal titolo “Opportunità“.

E la natura?  L’Uganda è “la perla dell’Africa”, immersa in “una natura quasi ancestrale, incontaminata che non è possibile non amare”, afferma una didascalia; e prosegue: “Quando siamo partiti per il safari Padre Cosimo – direttore del Centro pastorale catechistico a Ngetta – ci ha salutato dicendoci:: ‘Vedrete il Creato come ai tempi di Adamo ed Eva’. Questo ne è un piccolo esempio”.

“Attesa”

Infatti sembra un miraggio,  nella foto “Eden”,  la giraffa che si erge al lato di un albero in un’atmosfera suggestiva; e nella foto “Bellezza”, l’antilope che ci guarda trepida e armoniosa. Poi  un gruppo di elefanti, che la più grande tribù degli Acholi, uno dei maggiori gruppi etnici dell’Uganda del nord,   ha preso come simbolo rassicurante, perché quando si spostano mettono al centro i più piccoli: il titolo dato all’immagine è dunque “Proteggimi”, foto scattata al Murchinson Falls National Park.

La solidarietà attiva e il legame profondo

Un’altra bella immagine ci riporta dalla natura all’umanità, è  intitolata  “Attesa”: mostra una giovane donna  incinta ricoverata nel reparto maternità del dispensario di Minakulu; i servizi  sono carenti, ma “il più delle volte dove possibile l’impegno e la dedizione del personale sanitario migliorano questo stato di cose”. 

“Dignità”

E’ ripreso anche un gruppo di operatori del Centro dispensario medico di Ngetta, con Suor Gabriella che lo dirige, davanti ai  bagni realizzati con le donazioni della chiesa romana,  prima c’erano soltanto buche per terra come servizi igienici, per questo la foto è stata intitolata “Dignità”.  Bene in vista è la targa che ricorda la donazione, il titolo dato alla foto è  “Presente”,  parola  usata nelle commemorazioni eroiche, qui per marcare un segno concreto della solidarietà  tra la parrocchia romana e quella ugandese.

Dinanzi all’altare e alla sua destra sono poste due immagini che rendono visivamente il legame sorto tra i visitatori e la comunità locale, la loro collocazione sotolinea la centralità del messaggio.

 “Presente”

La prima mostra don Ivan tra una folla di bambini, uno dei quali gioiosamente sulle spalle di una componente del gruppo, il titolo è “Promessa” con questa didascalia: “Il legame che abbiamo stretto con la diocesi di Lira e con tutti gli amici giù in Uganda è il cuore della nostra missione che permane anche qui a casa. Abbiamo l’ardire di credere che sia per sempre”.

Nel commento della seconda immagine, intitolata “Eraestate” – anche qui un bimbo tenuto amorevolmente tra la folla di bambini festanti – si legge: “Durante l’ora di educazione fisica il privilegio di giocare anche noi.  Diventiamo parte della squadra e ci sembra  di essere in parrocchia con i nostri bambini. Aver cura anche di uno solo di questi piccoli può sembrare poco, in realtà è tutto”.  

“Promessa” 

Dalla comunità ugandese alla famiglia di profughi eritrei, fuggiti dalla guerra, vorrebbero venire a Roma per motivi di studio il prossimo anno, il padre Ghebrè, i figli Abigail, Ezrom e Karmen: “Ci accolgono a  braccia aperte e ci mostrano le loro tradizioni. Il cibo mangiato con le mani e offerto vicendevolmente. Il caffè fatto al momento, il lavaggio delle mani prima e dopo il pasto”.. 

“Era estate”

Poi la condivisione di quello che hanno sofferto: “Deve essere molto pesante non poter tornare nel proprio paese, restare senza terra, sperduti. Dover ricostruire la propria vita in un posto dove parlano lingue diverse, hanno usanze diverse, e non trovi accoglienza”.  Nasce la necessità di dare accoglienza ” a chi viene per cercare pace, sicurezza e ristoro”. 

Basta immedesimarsi, e a noi italiani non deve essere difficile per il nostro passato di emigrazione, soprattutto transoceanica: “Perché ciò che vive un altro potresti sentirlo sulla tua stessa pelle un giorno”, e lo puoi sentire subito “se ti fermi a guardare negli occhi un fratello straniero”. In termini religiosi è “vedere Gesù nell’altro”, in termini laici l’incontro è espressione di profonda umanità.

L’abbraccio affettuoso ai tre figli di Ghebrè profughi in Uganda ne è la sintesi toccante, la foto intitolata “Accoglimi”  reca nella didascalia le parole che abbiamo appena riportato.

“Accoglienza”

Al culmine della visita-pellegrinaggio in Uganda troviamo dunque il messaggio “Accoglimi”. Trova immediato riscontro nel messaggio espresso mirabilmente nell’immagine intitolata “Eccomi”: “Questa è la manina di Steven Emmanuel che con la dolcezza connaturale ai bambini si affida” ad una grande mano bianca che le si accosta con altrettanta dolcezza.   Incontriamo di nuovo il piccolo Steven Emmanuel che viene ad impersonare i  valori fondanti dell’umanità più autentica.

Il continuo, accorato invito di Papa Francesco all’accoglienza ha la stessa delicatezza e umiltà. Le due mani non si stringono nel senso di una protezione che può divenire prevaricazione se non sopraffazione, si accostano quasi timidamente, per conoscersi. C’è parità tra il bambino e l’adulto oltre che la parità degli esseri umani al di là del colore della pelle, delle storie personali e collettive e di tutte le differenze vere o presunte.

Quello che conta è la volontà comune di proseguire affiancati nel cammino della vita. E’  l’insegnamento della mostra.  

Il parroco don Luigi D’Errico  lo mette in pratica da tempo nella parrocchia  dedicata ai Santi Martiri dell’Uganda.. La sua iniziativa “Un rifugio per Agar”  accoglie, in una struttura idonea, donne in difficoltà con i loro figli.  “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio” dice un proverbio africano. Questo villaggio è la parrocchia di don Luigi con i suoi dodicimila mila abitanti, che ne asseconda le iniziative benefiche; e dopo questa mostra sente ancora più vicini i fratelli ugandesi. 

“Eccomi”

Info

Chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda,  Roma, Via Adolfo Ravà 31, Quartiere Ardeatino, 8° Municipio, Poggio Ameno nei pressi di Piazza Caduti della Montagnola. Da lunedì a venerdì, ore 8,00-12,30  e 16,30-19,00; domenica 8,00-19,00  esclusi gli orari delle Messe. Ingresso gratuito. La mostra è a sostegno dei progetti della Parrocchia Santi Martiri dell’Uganda nella diocesi di Lira in Uganda, per questo si accettano offerte e si possono avere dei pannelli della mostra ad offerta libera.  Per la mostra precedente cfr. il nostro articolo “Uganda, nella chiesa dei Martiri, fotostory di fede e vita”  20 luglio  2013, con  9 immagini, in questo sito, e l’articolo in “fotografia.guidaconsumatore.it”.  Sulle mostre citate e altri temi religiosi cft. i nostri servizi seguenti. Per le recenti beatificazioni di due papi. in questo sito,“Esposito, Carlo e Maurizio Riccardi ricordano i due papi santi” 4 luglio 2014, “Spazio 5” e “Papi della memoria” 15 ottobre 2012, Castel Sant’Angelo., in “fotografia.guidaconsumatore.it” “I due papi santi nelle foto dei Riccardi” giugno 2014,  e “Giovanni Paolo II ‘tutto nostro’ nelle foto di Maurizio Riccardi” 24  maggio 2012, “Spazio 5”; “Una mostra fotografica celebra la beatificazione di Papa Wojtyla” 1° maggio 2011, Piazza Esedra, “Beatus, Mostra fotografica dopo 150 giorni” 4 settembre 2011,  Palazzo Valentini. Per gli altri temi religiosi, in questo sito, “Divino Amore, 13 artisti oltre la notte” 12 maggio 2013, Madonna del Divino Amore,  “Congresso eucaristico e la mostra ‘Alla mensa del Signore'” 29 giugno 2013, Mole Vanvitelliana di Ancona, “Preghiere per l’Italia” 19 luglio 2013, al Vittoriano; in “cultura.inabruzzo.it”, “Arché”  9 dicembre 2011, L’Aquila, “Il Potere e la Grazia”  28 e 29 gennaio 2010, Palazzo Venezia,  “Apocrifi nell’arte ”  29 settembre  e 3 ottobre 2009, a Illegio, “Perdonanza 2009″  3 settembre 2009, L’Aquila. In materia di archeologia cristiana in “notizie.antika.it”: sulla mostra “L’archeologia del colore”  23, 30 aprile e 7 maggio 2010, Assisi,  sui resti dell’antica basilica di “Santa Maria Aprutiensis a Teramo”  29 ottobre 2010, sulla “Cripta della Cattedrale di Palermo”  10 dicembre 2010; su ipogei cristiani romani, i “Sotterranei di Santa Maria Maggiore”  5 marzo 2010, la “Cripta di santa Maria in Lata” con la cella di san Paolo 22 ottobre 2012; sull’archeologia umana, le “Catacombe dei Cappuccini di Palermo” 20 novembre e 4 dicembre 2010, e il “Nuovo museo dei Cappuccini di Roma”  16 luglio 2012. Per l’arte africana in “cultura.inabruzzo.it” “Africa? Una nuova storia” 15 e 17 gennaio 2010; sui singoli paesi del progetto “Roma verso Expo”, nel 2015 Mozambico 7 luglio, Congo 28 aprile, Tunisia 25 marzo,   2014 Egitto 8 novembre.  I tre siti sopra citati,  “fotografia.guidaconsumatore.it”, www. antika.it,  cultura.inabruzzo.it”, non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella chiesa della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, si ringrazia il parroco don Luigi D’Errico con i visitatori-pellegrini autori delle fotografie, in particolare don Ivan,  e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, il Manifesto della mostra all’ingresso della chiesa, seguono, nell’ordine con cui sono citate  nel testo, tutte le fotografie esposte nella mostra, con i relativi titoli: “Casa” e  “Dono”, “Sete” e “Il boss” ,”Non abbiate paura” e “Ora ci vedo”,  “Affidarsi” e “Vola solo chi è leggero” , il Manifesto vicino al Crocifisso e “Gesù Bambino”,  “Tienimi con te” e “Guardami”, “Fede” e “Rifugio”, “Apwayo” e “Semi”, “Festa” e “Urrah”, “Chiesa” e “Futuro”, “Coraggio” e “Vocazione”, “A vicenda” e “Mitezza”,  Costruire” e “Opportunità”, “Eden” e “Bellezza”, “Proteggimi” e “Riparo”, “Attesa” e “Dignità” , “Presente” e “Promessa”, “Era estate” e “Accoglienza” , infine “Eccomi” ;in chiusura, l‘Altare della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda con il sacerdote officiante una messa  domenicale, nella parete  e davanti all’altare le fotografie.

l‘Altare della chiesa romana dei Santissimi Martiri dell’Uganda con il sacerdote officiante una messa  domenicale, nella parete e davanti all’altare le fotografie

Uganda, nella chiesa dei Martiri, una fotostory di fede e vita

Sei anni fa, il 23 ottobre 2015, usciva il secondo dei due articoli che abbiamo pubblicato nel sito web www.arteculturaoggi.com, sulla mostra fotografica nella chiesa della parrocchia romana “Santissimi Martiri dell’Uganda” nella quale ogni anno vengono presentate le immagini riprese nella missione religiosa, che diventa anche “reportage” fotografico, al villaggio in Uganda dov’è il santuario in memoria dei Martiri ugandesi collegato alla parocchia. Lo ripubblicheremo domani, non si tratta di celebrare tale insignificante anniversario, quanto di mantenere anche quest’anno, nel quale per la pandemia non c’è stata la missione e neppure la mostra, il richiamo dei religiosi alle speciali condizioni di vita africane e a quanto si fa per alleviarle. Riteniamo che questo sia un momento particolarmente significativo perchè l’Africa viene citata soprattutto come possibile fonte di nuovi contagi anche per i paesi ricchi data la bassissima poercentuale di vaccinati nonostante il programma di condivisione dei vaccini e i tanti proclami di assistenza che restano però quasi sempre sulla carta. Ci torneremo nella presentazioen del secondo articolo. L’articolo che segue ricorda la prima mostra nella stessa chiesa, è stato pubblicato sul sito sopra citato il 20 luglio 2013, domani l’articolo del 2015.

di Romano Maria Levante

Nella chiesa romana dei “Santi Martiri dell’Uganda” , a Poggio ameno nell’XI Municipio, una speciale mostra fotografica, aperta dal 30 giugno 2013 per alcune settimane, con le immagini della visita organizzata dalla sezione missionaria nel paese africano dove a fine ‘800 si sono immolati i giovani ugandesi elevati alla santità per il loro sacrificio e ai quali è stata intitolata la chiesa. Le fotografie ci fanno vivere momenti della vita semplice di un popolo giovane che viene aiutato dalla fede a  trovare la sua strada tra la tradizione legata  ai costumi primitivi e i bisogni indifferibili di istruzione e assistenza da soddisfare per una migliore e più umana qualità della vita.

“Caramelle”,  don Davide le distribuisce ai piccoli ugandesi

Una mostra in una chiesa è sempre un fatto straordinario, soprattutto quando il luogo è qualcosa che va oltre una pur prestigiosa sede espositiva per un significato più profondo. E’ stato così per le mostre pittoriche “Arché”, con i dipinti di quattro grandi artisti contemporanei in un ritorno all’archetipo nell’abbraccio ai terremotati dell’Aquila, nella basilica di Santa Maria di  Collemaggio,  dall’abside scoperchiato dal sisma cui era stata data una copertura provvisoria; e  “13 artisti oltre la notte” alla Madonna del Divino Amore, in una sala del nuovo santuario; è così per la mostra nella chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda. Mentre la fotografia è un modo consueto di esprimere testimonianze e rivivere storie religiose, lo abbiamo visto nelle mostre fotografiche romane su Giovanni Paolo II,  a Piazza Esedra,  Palazzo Valentini e “Spazio 5”.  Nel ricordare le mostre religiose non possiamo non citare le grandi esposizioni d’arte a Illegio sugli “Apocrifi”, ad Ancona  nel Congresso eucaristico sull’Ultima cena “Alla mensa del Signore”; e, ancora prima, a Roma, Palazzo Venezia, su “Il Potere e la Grazia” dove sono stati esposti dipinti di artisti celebri sui grandi protagonisti della Chiesa, dagli eremiti ai martiri ai missionari.  La mostra della chiesa dedicata ai Santi Martiri dell’Uganda nasce dalla sua consacrazione al loro martirio e dai frutti dell’azione dei  missionari su un terreno ricettivo a un’evangelizzazione che ha avuto i suoi eroi.

I Santi martiri dell’Uganda, l’omaggio di due Pontefici

Attraverso la documentazione fotografica, la mostra racconta una storia in 22 capitoli sul popolo giovane e vitale dell’Uganda che costruisce il futuro con l’alimento della fede cristiana. E’ intitolata “Uganda, alle radici della nostra storia”, perché lì nasce la chiesa romana e la parrocchia.

In Uganda la  fede fu portata dalla predicazione anglicana del 1877 cui seguì l’evangelizzazione del sud con i missionari, i Padri bianchi giunti dal lago Vittoria; nel nord i Comboniani dal 1911, lungo il Nilo nei grandi laghi.

Dopo meno di dieci anni i fedeli hanno versato il sangue del martirio: nel 1885-87 nel sud sono stati massacrati arsi vivi Carlo Lwanga e 21 compagni ; nel 1918 nel nord uccisi i giovanissimi catechisti Daudi Okelo e Jildo Jrwa. E’ una storia che ci limitiamo ad evocare, prima di seguire l’itinerario della mostra con i frutti sorprendenti di un’evangelizzazione eroica.

Carlo Lwanga era un’assistente del re, come lui tanti altri giovani di famiglie nobili avevano delle funzioni a corte; l’incontro con la fede lo portò a non accettare più il ruolo di efebo disponibile per i piaceri del sovrano, e così i suoi compagni, di qui il  tremendo massacro. I giovani catechisti del nord avevano scelto la fede superando i dubbi dei genitori, furono uccisi con protestanti e islamici.

Nel 1964 la canonizzazione dei primi martiri da parte di Paolo VI  che cinque anni dopo si reca in Uganda sul luogo del martirio. Ne riceve un’impressione così forte da desiderare che la prima chiesa costruita a Roma fosse dedicata a loro, e così è stato: il 20 giugno 1970 viene posta la prima pietra della chiesa di Poggio ameno nell’XI Municipio, nella zona dov’è il santuario delle Tre Fontane,  non lontana da piazza Caduti della Montagnola, dove 42 civili e 11 militari morirono nella resistenza ai tedeschi e sono ricordati in un sacrario; coincidenza simbolica voluta dal caso o da qualcosa di indefinibile. Il 7 dicembre 1970 la parrocchia, nell’attesa della chiesa, celebra la prima messa  in un locale di fortuna: “sotto il Portico”.

Bisognerà attendere dieci anni, e il 26 aprile 1980  un altro papa, Giovanni Paolo II, consacra la chiesa, la prima del suo pontificato, ai Santi Martiri dell’Uganda, le cui reliquie sono poste sotto l’altare. L’edificio religioso sorge ai margini di un piccolo parco, la costruzione fu tormentata da persistenti contestazioni di difesa ambientale, ne fu ridotta l’altezza  rispetto al progetto originario; e fu concepita, nella struttura e nelle tinte, come una prosecuzione del parco, nel tempio si vede e si sente l’essenza di alberi e piante in una compenetrazione tra esterno e interno. Tutt’intorno l’area è una palestra di giochi e attività ricreative e sociali per adunate di ragazzi festosi con i loro sacerdoti, è come se lo spirito del parco aleggiasse nel vasto cortile attrezzato.

La mostra testimonia il ritorno all’Uganda dopo 30 anni, organizzato dal gruppo missionario della parrocchia, in testa il parroco don Luigi D’Errico, con don Davide Lees che si è impegnato molto nell’iniziativa e nella mostra: è un sacerdote giovane e ispirato, che infonde fiducia e serenità nella dedizione attiva alla chiesa e ai fedeli, lo abbiamo visto all’opera, oltre che nelle funzioni religiose, tra quasi duecento ragazzi scatenati e festanti in una sorta di campo estivo nell’area ricreativa della parrocchia. Prima le fotografie sono state collocate in quest’area in una sorta di anteprima, poi con la visita del Vescovo domenica 30 giugno sono state portate all’interno della chiesa: sono 22 ingrandimenti  tra una stazione della via Crucis e l’altra,  un percorso  istruttivo ed edificante che si sviluppa in almeno 60 foto più piccole che declinano in dettaglio i vari “capitoli”.

Ci inoltriamo in quest’itinerario aiutati dalle ampie didascalie che sono una guida ragionata  della storia, e da quanto ci dice don Davide: le fotografie sono state scattate dai quattro partecipanti alla visita in Uganda, nella diocesi di Lira, tra cui lui stesso, e le didascalie sono frutto di riflessioni comuni. Insiste nel sottolineare la partecipazione dell’intero gruppo a ciò che attiene alla mostra.

La fede in un percorso fotografico illuminante

Il percorso inizia dal santuario costruito in Uganda  dopo la visita di Paolo VI nel luogo dell’uccisione di Carlo Lwanga a fine ‘800. All’inaugurazione del 1975 presenziò mons. Giuseppe Matarrese, ora vescovo, il primo parroco della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda, nella cui costruzione si batté con tutte le sue energie e capacità per superare gli ostacoli dei contestatori.

“Namugongo” il Santuario

L’immagine del santuario ugandese, “Namugongo”,  è suggestiva, ci sentiamo subito proiettati in un mondo diverso dal nostro dalla forma di capanna del tempio;  si può vedere  una continuità ideale con la chiesa romana che si ispira all’ambiente silvestre. A lato, davanti all’altare c’è un’altra fotografia celebrativa, “Il martirio”,  riprende il sacrario che evoca il rogo con le eroiche vittime.

Vicino è esposta l’immagine delle capanne a forma conica di fango e paglia, nella loro concezione semplice e primitiva le forme più antiche di abitazione nella storia dell’uomo dopo le grotte preistoriche, sono tuttora le loro case; la dispensa è in una capanna più piccola e alta.

E’ questo il centro di un sistema composto da 80 parrocchie ciascuna delle quali comprende diecine di “Cappelle”, nuclei sparsi nel territorio dove l’attività viene svolta soprattutto da catechisti laici appositamente formati: è l’insegnamento che viene dall’esperienza ugandese, è possibile sopperire all’insufficiente numero di religiosi con il supporto di laici  ai quali vengono affidate le attività che è possibile delegare.

In queste circostanze l’arrivo dei parroci e soprattutto la visita del vescovo sono momenti di liturgia e di raccoglimento cui  si aggiunge la confessione: ne danno testimonianza le immagini singole e collettive, che rendono l’atmosfera di  partecipazione popolare e di festa. Spesso vengono donate al presule delle pecore e delle capre,nel rendere concreta l’immagine del “Buon Pastore”, impersonato nelle foto dal vescovo Giuseppe Franzelli che ha accolto i confratelli venuti da Roma; altra assonanza, al Buon Pastore è dedicata la chiesa romana nel piazzale intitolato ai Caduti della  Montagnola, prima ricordato. Tornando all’Uganda, “Il Vangelo”  viene portato in processione e conservato in una capanna riservata insieme ai semi della semina successiva, a sottolineare il legame tra le due semine, entrambe necessarie alla vita e alla costruzione del futuro.

Abbiamo poi fotografie del “Battesimo” e della “Cresima”: moltissimi i battezzati, non solo piccoli ma anche adulti, non manca nulla, l’acqua e l’unzione, le candele e il vestito bianco; ci sono belle istantanee di gruppo e primi piani di una etnia dai tratti somatici molto regolari. Per la cresima vi sono immagini singole e d’insieme, che documentano la cerimonia svoltasi in presenza dei visitatori italiani, nella quale ben 460 hanno preso il sacramento dalle mani del Vescovo.

Dopo la parte strettamente religiosa del racconto fotografico ecco la parte nella quale emergono i costumi e il legame alle tradizioni; e insieme, le iniziative di assistenza e cura della popolazione che sono promosse dai missionari e vengono realizzate rispettando scrupolosamente le radici locali.

“Il villaggio”

Le fotografie sui costumi e sulla vita ugandese

Il racconto fotografico si dipana con “Il  villaggio”: abbiamo già visto le capanne  a forma conica, di fango e mattoni con la copertura di frasche, il focolare è all’aperto, qualche animale domestico e intorno la terra da coltivare. Di lì vengono le risorse per la vita, quello che viene definito “Il pane quotidiano”: si vive con i frutti del suolo favoriti dall’acqua che il cielo manda.  Le immagini rendono “Il clima” propizio, ci sono piogge improvvise, poi torna repentinamente il sereno, le precipitazioni sono tali da dare una natura rigogliosa e due raccolti l’anno. Però spesso per l’acqua potabile si deve andare lontano dove sono i pozzi, lo fanno tutti, adulti e ragazzi, lo vediamo nelle  fotografie piccole con otri e recipienti. “La musica” è una componente delle cerimonie liturgiche, gli strumenti sono arpe e tamburi molto semplici, producono ritmi definiti “caldi e avvolgenti”.

E le provvidenze sociali e assistenziali? Sono necessarie in un territorio vastissimo dove il 50% della popolazione ha meno di 6 anni e le donne hanno in media 6 figli a testa. “L’infanzia” è resa dagli splendidi primi piani dei visi di bimbi e dalle foto collettive dei loro giochi, molto eloquenti.

Allora ecco la “La scuola”, anche qui una sorpresa: sono fotografate lunghe teorie di bambini che all’alba si incamminano, in tenuta scolastica, verso i luoghi lontani di insegnamento; le aule, che vediamo nelle immagini piccole,  contengono 70-80 e anche più di 100 scolari, dinanzi a questi dati illustrati dalle immagini viene da sorridere pensando ai nostri parametri. Pur così la partecipazione è attenta e l’insegnamento efficace.

Poi i “Dispensari”, “a metà strada tra ambulatorio e ospedale”, in terre dalle grandi distanze è il primo presidio per la maternità e altre emergenze sanitarie, di lì se necessario vengono indirizzati all’ospedale più vicino; è possibile questa forma di assistenza per il personale esperto che con dedizione sopperisce ai pochi mezzi.

Mentre per la “Disabilità”, i  malati di Aids e i rifugiati,  le difficoltà nell’assistenza sono notevoli, ma non mancano iniziative caritatevoli, come quella dell’anziana suora missionaria che parlando dei suoi primi 35 assistiti diceva di aver fatto alzare in piedi e, se ciò non era stato possibile, messo in carrozzina, i bimbi che prima “erano a terra come bisce”.  Sono “i poveri tra i poveri”, ma hanno  “La forza dei deboli”, su cui fa leva la cooperativa benemerita Wawoto Cacel di Gulu, sorta per loro, impegnata nel toglierli dall’isolamento inserendoli nel lavoro tra conoscenze, esperienze e ambiente creativo. Altrettanto benemerito l'”Orfanotrofio” “Babies’ Home”  dove trovano un clima sereno e familiare orfani e bimbi abbandonati o con genitori in situazioni difficili fino a tre anni di età senza distinzione di etnia o religione, provenienti da tutti i distretti del nord del paese; stupenda l’immagine del bimbo seduto a terra davanti alla parete celeste mentre gli si prepara il latte.

“Orfanotrofio”

Le immagini-simbolo, un podio ideale

Tutto questo è illustrato da immagini che rappresentano un vero documentario. Ma c’è di più, ci sono tre immagini-simbolo dal contenuto profondo, un podio ideale con la foto festosa al culmine.

L’obiettivo fotografico è riuscito a rendere evidente il significato di “Cercare”, che don Davide ha fissato in un’immagine intensa con una didascalia altrettanto significativa: “Incontro di sguardi. Siamo di fronte, ma riusciamo a vederci veramente, a comprenderci? Quante barriere dobbiamo far cadere per superare le nostre categorie e capire l’altro, il valore del suo vivere e vederne veramente i bisogni, così da poterci accogliere ed amare per quello che siamo”. L’immagine ha colto gli occhi penetranti del bambino ugandese dietro un muretto-staccionata che rappresenterebbe la barriera da superare. In fondo, in questo “cercare” c’è il contenuto e il significato dell’azione missionaria, che è feconda quando ad essa si unisce un’accoglienza ricettiva. Del resto, l’attività dei catechisti laici è fondamentale per superare le difficoltà delle distanze e la dispersione sul territorio nella penuria di ecclesiastici. Un problema che non è escluso si possa presentare anche nel nostro paese con la crisi delle vocazioni  e potrebbe trovare una risposta in questo modello di coinvolgimento attivo dei laici.

Oltre ai due occhi dietro la barriera di “cercare” ci ha colpito il viso dell’adulto ugandese in primo piano con dietro il religioso e altri visi assorti nell’immagine del “Battesimo”, esprime qualcosa di altrettanto intenso.

La terza immagine-simbolo di questa visita speciale del gruppo missionario nella lontana Uganda è festosa, una selva di braccia di bambini protese verso la mano di don Davide che svetta con la sua altezza; sono “Caramelle”, ma evocano qualcosa, anzi molto di più, fortemente voluto: il futuro. E’ quanto abbiamo cercato di raccontare seguendo la Fotostory della mostra nella parrocchia, per questo nel podio delle prime tre foto per noi è sul gradino più alto e l’abbiamo messa in apertura.

Così potrebbe terminare il nostro resoconto, non prima di aver sottolineato una notazione degli autori: “Lo scatto di una foto è stato anche un modo per avvicinarci e comunicare al di là della parola, a volte motivo di sorpresa per i più piccoli, rivedendosi nella foto appena scattata”; e l’immagine intitolata “Fotografie” documenta questi momenti di stupore e di gioia. Ma l’interesse giornalistico e soprattutto l’approfondimento culturale ci ha portati a voler andare oltre, a “cercare” anche noi: don Davide ci ha fatto incontrare padre Torquato Paolucci, già missionario in Uganda.

La forza dei deboli” con “i poveri tra i poveri” al lavoro

La testimonianza di padre Torquato, oltre 30 anni  in Uganda

E’ stato un incontro rivelatore, oltre che coinvolgente per la carica umana di padre Torquato, che ha collaborato attivamente alla visita in Uganda del gruppo missionario. Un sorriso leggero illumina il suo sguardo sereno, la sua parola è chiara e ispirata. Dal 1972, poco più che trentenne, al 2010, missionario comboniano vissuto 32 anni in Uganda, zona di Logongu, ai confini con Sudan e Congo, 300 chilometri a nord ovest dalla zona dove sono state scattate le foto della mostra; una lunghissima permanenza con un’interruzione di sette anni in cui è tornato in Italia.

Oggi la diocesi di Lira nel Nord del paese, in cui ha operato,  con un vescovo comboniano ha 18 parrocchie, un totale di 1200 “cappelle” disperse nel territorio e solo 50 sacerdoti: le “cappelle” sono affidate ai catechisti laici che guidano anche la liturgia della parola e il Vangelo, la pastorale e il catechismo.  Quando vi andò missionario, in che situazione si trovava il paese? gli chiediamo.  

Fu un inizio difficile nel villaggio di origine di Amin Dada, il  dittatore che ha dominato l’Uganda dal 1971 al 1979 con la sua ferocia sanguinaria: ruppe subito i rapporti con l’India, espellendo gli indiani, e con l’Occidente, isolando il paese e condannandolo all’impoverimento, esaurite tutte le risorse disponibili; scatenò persecuzioni razziali e guerre tribali con centinaia di migliaia di vittime.

Sul piano religioso e soprattutto umano, il racconto del missionario ci ha consentito di comprendere meglio la realtà documentata dalle immagini. Dell’importanza dei catechisti abbiamo detto, e padre Torquato ce l’ha documentata,  ora apprendiamo da lui che hanno una formazione molto solida, lo sa bene perché negli ultimi sette anni ha diretto in Uganda il centro per catechisti. Ce ne descrive la rigorosa formazione: un anno di preparazione, poi quattro anni a svolgere attività in comunità, quindi due anni di formazione finale, che si svolge nel centro lontano dalle famiglie dove possono tornare solo ogni tre mesi per trenta giorni. Il sacrificio per le famiglie, spesso con diversi figli, è notevole, considerando che viene a mancare il sostegno e la protezione dell’uomo su moglie e figli, per questo si chiede l’approvazione della moglie prima di accogliere la domanda; poche le catechiste donne perché per lo più la presenza dei figli piccoli lo impedisce. La scelta definitiva del catechista locale spetta comunque alla comunità che decide se accettarlo.

Sacerdoti africani e catechisti locali sono sempre più i protagonisti della chiesa ugandese, padre  Torquato ci parla dell’impressione avuta nel dicembre 2012 quando, dopo due anni, è tornato nella diocesi per il centenario dell’arrivo dei comboniani nel 1912, con la partecipazione del cardinale Filoni prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione, e del presidente della Repubblica d’Uganda: c’erano oltre 50.000 persone, venute anche dopo giorni di cammino dormendo sotto gli alberi. Ebbene, tanti sacerdoti africani, solo 7-8 missionari: il passaggio di testimone è ormai in atto.

Il 60% sono cattolici, meno del 30% protestanti, il 10%  mussulmani, pochissimi i pagani, seguaci delle credenze animiste che i missionari trovarono in quella terra. Chiediamo quale è stata la spinta che ha portato alle conversioni di massa, padre Torquato ha le idee chiare:  “Il loro dio lo identificavano nella natura, dal fiume agli alberi, ne avevano una percezione alquanto vaga; sentivano invece molto gli spiriti ai quali facevano risalire i fatti della vita. Il cristianesimo li ha affascinati perché vi hanno trovato un riferimento sicuro, la spinta della speranza”.  Quando nell’imperversare di una delle tante guerre che hanno insanguinato il paese per vent’anni furono uccisi 13 missionari, temevano che gli altri, tra cui padre Torquato, lasciassero quella terra, cosa che non avvenne. “Se ve ne foste andati, dissero, per la nostra vita sarebbe finito tutto, perché avremmo perduto la speranza”.

Battesimo”

Una speranza di fede e una speranza di vita, dato che “la vita cristiana è una vita concreta, espressa anche nelle celebrazioni rituali che durano un’eternità. Non potevo fare una rapida visita per proseguire il giro in altre comunità, dovevo restare con loro l’intera giornata, pranzare insieme, condividerne tutti i momenti”. Padre Torquato ci ha fatto capire anche come nascono i progetti e le iniziative assistenziali di cui abbiamo visto eloquenti immagini nella mostra fotografica. Alla base c’è il Cristianesimo concreto, che manifesta nelle opere il profondo credo interiore. Le scuole e i pozzi per l’acqua, i dispensari e gli ospedali sono “espressione dell’amore di Cristo perché i suoi figli possano avere una vita migliore”, è come se le iniziative avessero un’ispirazione superiore.

A volte l’idea di un progetto nasce addirittura dai gruppi di 10-15 componenti che si riuniscono per meditare sulla Bibbia – ci dice tra l’altro che è riuscito a farla tradurre nella lingua locale, il logbara, lingua nilotica, una delle 27 lingue del paese, altre sono bantu, si studia e si parla l’inglese – iniziando con la preghiera, poi leggendo due volte il brano prescelto, quindi meditazione e interpretazione di ciascuno su ciò che significa per la propria vita e per la comunità; di qui la riflessione si può allargare nella concretezza del Cristianesimo vissuto con iniziative e progetti.

Chiediamo a padre Torquato, al termine dell’incontro, il suo sentimento da missionario  rientrato in Italia  dopo  trent’anni  trascorsi in Uganda. “Il mal d’Africa per me è sentire la mancanza di questa gente, che mi ha dato molto di più di quanto io ho potuto dare loro”,  risponde.

La prova la troviamo in tre episodi toccanti che ci ha raccontato nella conversazione, non li ha rievocati riferendoli a questa conclusione, ma ci sembra ne siano la logica edificante premessa.

Il primo è all’inizio della missione, nel 1972, mentre si recava in auto in una località lontana per svolgere l’attività pastorale, su una strada fangosa, nell’ambiente inospitale, difficile e ostile che lo spingeva a voler chiedere di essere spostato in  una sede più consona alle sue aspettative. Ebbene, vede una giovane donna con le stampelle che si muove a fatica nel fango, mancano 6-7 chilometri alla meta, li avrebbe percorsi  a piedi con una gamba irrigidita dalla paralisi. “Perché non si limita a pregare a casa?”  le chiede padre Torquato. La risposta:  “Ho 18 anni, in queste condizioni nessuno mi sposerà, non avrò una famiglia, non vedo prospettive, ma quando prendo Cristo dentro di me con la comunione la mia vita si illumina, acquista un senso, un valore”.  Una lezione di vita e di fede per il missionario  che stava per arrendersi alle prime  difficoltà, di qui la sua ferma decisione di restare.

Un altro episodio al termine dei trent’anni vissuti da missionario in Uganda, nel 2010, allorché i superiori gli hanno chiesto di tornare in Italia. Questa volta non vorrebbe farlo, è lo stato d’animo opposto a quello dell’episodio all’inizio del mandato missionario. La lezione di vita e di fede viene da un’altra ugandese, sposata a  un aspirante catechista con 6 o 8 figli, padre Torquato prima di accettarlo ha voluto verificare di persona che la moglie fosse consenziente, gli sembrava difficile dato il peso familiare. La donna, confermandogli l’assenso, lo motiva così: “Se Dio ha chiamato a sé mio marito con questa vocazione, chi sono io per andare contro il suo volere?” E padre Torquato collega la chiamata dei superiori al volere di Dio con lo stesso interrogativo dalla risposta scontata: “Chi sono io per andare contro il suo volere?”. Di qui la pronta accettazione superando ogni esitazione.

“Cercare”

Ma l’episodio ancora più toccante, se è possibile una graduatoria in questo diapason di sentimenti, si trova tra i due ora evocati, nel corso di una delle guerre sanguinose che hanno sconvolto il paese. Padre Torquato stava tornando indietro nella tipografia dove si era recato con un altro missionario la cui scelta di vita era stata eroica essendo figlio unico di madre vedova. Ebbene, la loro auto viene affiancata da un veicolo da cui spuntano  due fucili spianati, il confratello al volante non si ferma all’intimazione degli uomini armati, l’auto è delle suore e non vuole perderla; partono i colpi, padre Torquato si china e sente sibilare i proiettili sopra la testa, il suo compagno viene colpito dietro il collo, muore sul colpo. L’auto si infila fra i cespugli e si ferma, gli assassini depredano ciò che possono sui corpi, il suo è così insanguinato che non si accorgono che è vivo. Quando viene soccorso e portato in ospedale è livido di rabbia, sente salire una violenta reazione contro chi ha commesso il barbaro assassinio di un missionario a lui così vicino. Le due infermiere che lo curano, a un certo punto gli chiedono di unirsi a loro nella preghiera: intendono rivolgerla alla vittima ma anche ai suoi assassini. Tutto il suo essere si ribella, non gli si può chiedere di perdonare, tale è stato l’orrore, finché sente il groppo salire alla gola irresistibile e poi sciogliersi in un pianto irrefrenabile. Allora la sua preghiera si leva anche per gli assassini, ha perdonato.

Il missionario ci dice che nella sua attività pastorale, nella predicazione, invitava sempre al perdono, unico modo per essere in pace con se stessi oltre che con gli altri; ma quella volta proprio lui non riusciva a metterlo in pratica, fino all’invito delle  ugandesi: “L’Africa mi ha dato il dono del perdono!”, esclama. E aggiunge: “Pensavo di portare Cristo io, l’ho trovato là, era con loro”.

Salutiamo padre Torquato con qualcosa di nuovo nel cuore, ce lo hanno dato i suoi racconti e i suoi occhi con un sorriso speciale, quello della perfetta letizia. Rivediamo gli occhi del bimbo ugandese dietro il muretto-staccionata, il titolo della foto era “cercare”: la  barriera è caduta, la ricerca si è conclusa.

Ci accompagnano le sue parole, dopo una trentennale attività missionaria: “La mia vita è bella” è il suo saluto.  Ripensiamo al suo “mal d’Africa”, sente che gli manca quanto di edificante gli ha dato un paese nella vita semplice alimentata dalla fede e dalle opere, anche se lo serba nel cuore.

Le fotografie della mostra ci sembra ne ricevano una nuova luce, le scorriamo un’ultima volta con emozione, presi ancora di più dalla suggestione di un qualcosa di molto profondo, di superiore.

Info

Chiesa dei Santissimi Martiri dell’Uganda, nel Largo con tale nome, Roma, Poggio ameno, ‘XI Municipio. Cfr. su questa mostra il nostro articolo in “fotografia.guidaconsumatore.it” il 18 luglio 2013. Per le mostre citate cfr. i nostri servizi: in “cultura.inabruzzo.it” su “Arché” il 9 dicembre 2011, in questo sito su “Divino Amore, 13 artisti oltre la notte” 12 maggio 2013, in “cultura.abruzzoworld.com” sulla mostra “Apocrifi nell’arte ” il 29 settembre  e 3 ottobre 2009,  e su “Il Potere e la Grazia” il 28 e 29 gennaio 2010; in questo sito sul “Congresso eucaristico e la mostra ‘Alla mensa del Signore'” il 29 giugno 2013.Per altri temi religiosi,  in “cultura.abruzzoworld.com” i nostri servizi “Perdonanza 2009” il 3 settembre 2009, e in questo sito “Preghiere per l’Italia”  il 9 luglio 2013. In materia di archeologia cristiana i nostri servizi in “notizie.antika.it”: sulla mostra di Assisi “L’archeologia del colore” il  23, 30 aprile e 7 maggio 2010, sui resti dell’antica basilica di “Santa Maria Aprutiensis a Teramo” il 29 ottobre 2010, sulla “Cripta della Cattedrale di Palermo” il 10 dicembre 2010; su ipogei cristiani romani, i “Sotterranei di Santa Maria Maggiore” il 5 marzo 2010, la “Cripta di santa Maria in Lata” con la cella di san Paolo il 22 ottobre 2012; sull’archeologia umana, le “Catacombe dei Cappuccini di Palermo” il 20 novembre e 4 dicembre 2010, e il “Nuovo museo dei Cappuccini di Roma” il16 luglio 2012. Per l’arte africana in “cultura.abruzzoworld.com” il nostro servizio “Africa? Una nuova storia”, il 15 e 17 gennaio 2010.

Foto

Le immagini sono state fornite da don Davide Lees per il gruppo missionario della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, che si ringrazia con i titolari dei diritti. In apertura, “Caramelle”,  don Davide le distribuisce ai piccoli ugandesi, seguono “Namugongo” il Santuario, e “Il villaggio”, “Orfanotrofio” e “La forza dei deboli” con “i poveri tra i poveri” al lavoro, poi“Battesimo” e “Cercare”; in chiusura l’altare della chiesa romana dei Santissimi Martiri dell’Uganda con don Davide, davanti le foto del santuario ugandese “Namugongo” (a sinistra.) e del sacrario “Il Martirio” (a destra), altre foto piccole sulla parete di fondo.

l’altare della chiesa romana dei Santissimi Martiri dell’Uganda con don Davide,
davanti le foto del santuario ugandese “Namugongo” (a sinistra)
e del sacrario “Il Martirio” (a destra), altre foto piccole sulla parete di fondo

Ceccarelli, il nuovo romanzo per dire “Oggi sono migliore”

di  Romano Maria Levante

E’ il terzo libro di  Piercarlo Ceccarelli, ispirato a una vicenda vera, che si propone, come i primi due del 2014 e del 2016, di penetrare  nel mondo delle imprese raccontando le vicende societarie  e umane viste dall’interno attraverso il romanzo, ritenuto la forma più idonea a  rendere ciò che non si può percepire nella letteratura aziendale che l’Autore ben conosce avendo pubblicato molti libri e saggi in tale campo. Perché l’analisi tecnica non può entrare negli aspetti psicologici individuali e nelle dinamiche familiari e di vita,  spesso di maggiore peso degli elementi oggettivi nelle decisioni aziendali.

Vedemmo nei primi due romanzi l’inizio di un nuovo filone narrativo, che chiamammo “Company thriller”, con riferimento ai “Legal thriller” di John Grisham, passato da avvocato a romanziere su temi legali, come anche Piercarlo Ceccarelli lo vediamo passare da alto consulente direzionale a romanziere su temi aziendali.

La copertina del libro di Piercarlo Ceccarelli “Oggi sono migliore”

Il “thriller psicologico” dell’Autore

Abbiamo definito “Company thriller” il filone narrativo di Ceccarelli perché la “suspence” non manca neppure nei suoi romanzi, ma è di tipo molto diverso, giocata sulla psicologia più che sugli eventi. I colpi di scena più che nei fatti, che pure hanno una evoluzione inattesa,  vengono dall’approccio mentale dei protagonisti, per i quali incontri, confronti, riflessioni fanno muovere dall’inconscio reazioni inaspettate, quindi nulla è scontato, tutto è imprevedibile, l’opposto di quello che ci si aspetterebbe nelle storie aziendali.

Come non ci si aspetterebbe di trovarvi le scene d’amore quanto mai coinvolgenti e qualche volta  risolutive, inattese dopo i sottotitoli “Una famiglia, un’azienda leader”,  “Una storia famigliare”  e, nell’ultimo che ora commentiamo, “Una storia  imprenditoriale”, che riteniamo riduttivo essendo “una storia umana” con l’impresa  sullo sfondo più che nei due precedenti dove era più presente nella trama e  soprattutto nel finale.

Un macchinario per la lavorazione del caffè, del tipo di quelli della Sitoc di Riccardo Ferrari

Nella trilogia dei suoi romanzi la famiglia è in primo piano, ma nei primi due  incide anche sulle vicende aziendali, mentre nel terzo certe dinamiche sono già avvenute e se ne sentono solo i riflessi  nella psicologia del protagonista, Riccardo Ferrari, che resta praticamente solo con se stesso, ma non manca di confrontarsi con la ex moglie Ludovica da cui è divorziato e il figlio Edo, la sorella Paola e il padre Edoardo, ma soprattutto con la nuova fiamma Veronica. Di nuovo il confronto tra istinto e ragione, carattere e razionalità, con quel tanto di insegnamento che ne viene per la vita di tutti i giorni, anche se questo possa sembrare sorprendente. 

Ma come, si potrebbe osservare, l’imprenditore ha una vita e un lavoro così peculiari e diversi da quelli delle persone comuni che non si capisce come se ne possano trarre insegnamenti! Se questo è vero, é vero anche che i confronti appena citati determinano scelte di cui si possono misurare gli effetti, per cui è un punto di osservazione privilegiato del quale fare tesoro. Pochi riflettono che nella vita comune ugualmente prima di prendere decisioni rilevanti occorre fare i conti con il proprio carattere, se introverso quindi portato al pessimismo, oppure espansivo quindi portato all’ottimismo. Conoscendolo – e quindi conoscendosi – si possono rimuovere le remore eccessive nel primo caso o frenare i facili entusiasmi nel secondo, evitando di sbagliare, lo hanno insegnato i primi due libri sulla scorta dell’approfondimento fatto nelle vicende aziendali.

Un’immagine di Fornovo di Taro, dove ha sede la Sitoc

Una storia umana

Anche da questo terzo romanzo nascono  insegnamenti, li preannuncia il  titolo “Oggi sono migliore”, mentre i primi due erano intitolati alle famiglie protagoniste, “I Gianselmi” e “I Martini”;  vuol dire che “una storia imprenditoriale” può avere questo sbocco, proprio perché è “una storia umana” tutta imperniata sugli elementi esistenziali piuttosto che su quelli aziendali.

E questo molto più dei due precedenti, come se “il salto di specie”  allontanasse l’Autore  sempre più dalla matrice aziendale: l’opposto del  “richiamo della foresta”, che c’è sempre ma altri sono i richiami che ora ascolta: la parte psicologica sottostante alle dinamiche aziendali riscontrata nella lunga attività di consulenza direzionale – in aggiunta alla proprie esperienze di vita personali – che assume una importanza primaria nel determinare le scelte aziendali, e lo dimostra anche questa volta.

L’ingresso di una villa a Parma, nell’Oltretorrente, dove abita

Non riveleremo la trama per non togliere l’interesse che prende subito il lettore, sebbene non incontra fatti eclatanti, ma si immedesima nel protagonista vivendo con lui le sue stesse emozioni. E neppure ci sentiamo di cimentarci in una critica letteraria che non ci compete, essendo semplici cronisti che, come nelle mostre d’arte ci immedesimiamo nei visitatori, così ora, in questo eccezionale ” excursus”  in un campo che pratichiamo poco, ci immedesimiamo nei lettori di cui siamo parte a pieno titolo dopo la coinvolgente lettura del romanzo.

La prima notazione che viene spontanea è  la capacità della prosa semplice ma incalzante di  fare presa, per cui è difficile separarsi dal libro quando si è cominciato a leggere, e non si vede l’ora di riprenderne la lettura se la si è dovuta interrompere. Ci  si sente presi e nel contempo sorpresi, perché non si tratta di un romanzo giallo o poliziesco costruito per tenere avvinto il lettore tra eventi misteriosi e indagini intriganti, qui tutto è alla luce del sole senza misteri, e allora? Il grande mistero è il protagonista, la chiave della “suspence” la totale, istintiva  immedesimazione con lui.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è villa-montecavilo-idealista.it_.jpg
L’ingresso di una villa a Montecavolo, dove abita il padre Edoardo

Le descrizioni

Come possa nascere tale immedesimazione non è facile scoprire, ma forse vi contribuiscono due alchimie: la descrizione degli ambienti e dei paesaggi da un lato, la descrizione dei personaggi dall’altro. Entrambe quanto mai minuziose fino al dettaglio che potrebbe sembrare superfluo o ridondante se non dispersivo, mentre invece è l’ingrediente necessario per far sentire il lettore  nei panni del protagonista, è come se vedesse  quello che lui vede con la stessa curiosità di scoprire i particolari in ciò che osserva: sia essa un’altra persona, soprattutto una donna , “osservata” con speciale attenzione, sia un paesaggio.

Queste  le descrizioni di Ludovica,  la ex moglie conosciuta a un’asta benefica delle “signore bene” parmensi, da cui ha divorziato dopo un finale burrascoso, e  Veronica, la nuova fiamma seducente con cui andrà a teatro, in barca e nel rifugio nell’Appennino parmense vicino al lago, ma non alla sua iniziativa benefica per i bambini africani a Parma a Palazzo Soragna, passando per la sorella Paola  e per Giorgia, la vedova del  caro amico imprenditore Gabriele morto suicida; così anche la descrizione del padre e del consulente di direzione Nicola Fabbroli – personaggio fisso, con l’analista aziendale Boninverno, dei suoi romanzi – di Mattia Mora, l’”uomo di Mosca”, tutti descritti con la stessa cura minuziosa di darne i caratteri fisici e soprattutto caratteriali; mentre lui stesso, Riccardo Ferrari, si presenta all’inizio con dovizia di particolari, quasi una radiografia….   

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è parma-flyone.eu_.jpg
Un’immagine di Parma, la sua città

Altrettanto la descrizione dei luoghi, dalla sede della società, alla sua villa a Parma nell’Oltretorrente, “a due passi dalla casa natale di Arturo Toscanini, quasi affacciata sul parco ducale”, alla villa dei genitori nella campagna parmense, al suo “buen ritiro”  in collina; dai voli aerei a Mosca agli spostamenti in auto, alla sala riunioni con i consulenti a Milano, fino ai villaggi africani in Etiopia e nel Malawi. 

Mentre si trova in questi luoghi e mentre ammira il paesaggio ci sembra di essere con lui a gustarne il fascino, sia quando ci sembra di andare  sulla sua automobile verso il passo della Cisa, sia quando entriamo nel giardino della villa dei genitori a Montecavolo, o quando ci affacciamo con lui alla finestra dell’ufficio a Fornovo di Taro, o nella residenza collinare di Langhirano, per poi andare in aereo a Mosca, o in un palco del Teatro Regio di Parma, in barca da diporto e nel Rifugio Lagdei costeggiando il Lago Santo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è villa-collina-mediocasasrl.it_.jpg
Il patio di una villa in collina a Langhirano, dov’è il suo “buen ritiro”

Ed è tanto più naturale questa immedesimazione, quanto più lo troviamo – a parte il giro in barca, la serata teatrale e il week end nel rifugio, tutti con Veronica – solo con se stesso,  alle prese con i  problemi della vita aziendale in un momento  molto critico per lui anche sul piano personale, con questioni familiari che si aggiungono  alla solitudine non certo serena ma tormentata di divorziato con il figlio Edo da seguire nei suoi turbamenti adolescenziali, anche nello sport, impegnato tra il baseball e il tennis, ma molto determinato.

La maturazione personale

La crisi personale è la più pressante, dato che i problemi aziendali, a differenza degli altri due romanzi, sono soprattutto di crescita all’estero dell’attività, anche se rischiosa, non di sopravvivenza della propria azienda, la Sitoc, operante come multinazionale nel settore del caffè. Per questo sembrano più semplici dei problemi personali, pur investendo rapporti a livello internazionale con il possibile socio inglese Keith Smith da valutare  e l’infido interlocutore  russo Bykov da tenere a bada per evitare trappole, e una è stata non solo preparata ma fatta scattare investendo  la magistratura della Russia con sorprese a non finire.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è MIlano-it.aleteia.org_.jpg
Milano, la città degli incontri e le riunioni con il consulente Fabbroli

Ma questa volta non è dal cilindro del consulente di direzione Fabbroli che viene il coniglio della soluzione, bensì dalla maturazione personale del protagonista che corrisponde a quella del lettore, sempre più immedesimato in lui. Una maturazione che si sviluppa a poco a poco, anche negli incontri con il consulente, il quale per qualche verso diviene anche psicologo, ma soprattutto con chi può scavare dentro di lui mettendo  a nudo le contraddizioni dell’esistenza che il successo imprenditoriale ha nascosto ma prepotentemente vengono alla ribalta nel momento più critico, come la polvere accumulatasi sotto al tappeto.

E allora l’azienda e il lavoro, che prima erano stati l’universo esistenziale del protagonista apparentemente appagante per la sua autostima si rivelano nella maturazione interiore quanto mai ristretti e  svuotati di quei valori che invece lo avevano sollecitato  a un impegno così totalitario per poi svanire. Ed ecco perché e come “una storia imprenditoriale” ai nostri cchi diventa a tutto tondo “una storia umana”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è asta-antiquaria-gazzettadellemilia.it_.jpg
Un’asta benefica della Parma-bene del tipo di quella in cui conosce Veronica

Una storia, proprio per questo prodiga di insegnamenti non soltanto per gli imprenditori, che  vi possono trovare passaggi utili alla loro attività negli incontri del protagonista Riccardo con il consulente Fabbroli “testa quadra”, e lo specialista Boninverno,   e  nelle riflessioni e decisioni conseguenti; ma anche – e diremmo soprattutto – per la gente comune che non vive una simile maturazione se non sollecitata in modo così intenso.

Cerchiamo di ricordare alcuni di questi insegnamenti, che emergono dai dialoghi, spesso concitati, del protagonista con chi riesce a captare in lui qualcosa di cui lui stesso non si rende conto ma avverte un’inquietudine inconsueta. Immedesimandoci con lui, sempre sulla scena, seguiremo il suo percorso che si stacca a poco a poco dalla matrice imprenditoriale di  base per portarsi sul piano di un’umanità senza confini.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Teatro-regio-zanfilszcompetition.otg_.jpg
Un palco del Teatro Regio di Parma, dove va con Veronica

Autorealizzazione e vera leadership

Riccardo Ferrari è un imprenditore figlio d’arte, con una vocazione all’indipendenza e all’autorealizzazione tale da fargli disdegnare l’impresa paterna operante nella meccanica, la Fermec di cui si occupa la sorella Giorgia, per la difficile avventura di rilevare un’impresa fallita in un settore completamente diverso, il caffè, in cui ottiene successo superando molte difficoltà; ma per superare il complesso di Edipo ci vuole la malattia del padre con i suoi generosi pur se tardivi  riconoscimenti. Per vincere i propri complessi interiori ci vuole ben altro, una maturazione “sul campo” solo in parte spontanea, per lo più indotta che gli apre gli occhi.

Inizia con l’impegno appassionato e totalitario nella sfida aziendale tanto complicata che assorbe tutte le sue energie, e ne è fiero sentendosi pienamente realizzato. Si sente investito della responsabilità della leadership, pagandone  il prezzo della solitudine, e ne è consapevole: “Riflettendoci, si poteva dire che il capo è solo come l’artista che, nel momento dello sforzo creativo, è alle prese con se stesso e con la verità che vuol raccontare. E nella solitudine della tensione creativa, il solo momento di soddisfazione è  l’istante in cui ‘appare’ la soluzione che ci illumina. Allora  il quadro è dipinto, la decisione è presa”.  Ma le sollecitazioni del consulente Fabbroli lo portano a  rovesciare questo assioma:  “La sua leadership non è in discussione, però bisogna aprirsi al dialogo. Ascoltare con disponibilità e attenzione e, anche quando lo si è fatto,  non affrettarsi a  mettere bene in chiaro che comunque il capo azienda ha l’ultima parola,  o che la sua opinione pesa di più e ha la precedenza sulle altre. E’ una pretesa pericolosa . Un buon leader non deve avere sempre ragione. Anzi deve saper capire le  ragioni degli altri”. Non basta limitarsi a fare proposte e ascoltare le reazioni per poi decidere, occorre condividere.

Un viaggio in aereo, come quelli per Mosca… . ma senza mascherina

Sembra  un insegnamento prezioso per tutti, anche per il  “pater familias” che, pur con tutti i processi emancipativi, si sente sempre il “capo” nell’azienda-famiglia in cui tutti dovrebbero avere voce in capitolo nella sostanza, non nella sola apparenza come avviene di solito. Come è istruttivo il non inorgoglirsi troppo per i successi raggiunti perché, anche se indubbiamente sono un titolo di merito, c’è una componente importante dovuta alla fortuna per cui “il successo, per gli onesti, è sempre un merito. Ma il fallimento non è sempre un colpa”: considerazione preziosa, su versanti opposti, per entrambe le situazioni ricorrenti nella vita.

Molti lo considerano, però, una colpa nel nostro paese, anche se determinato da ragioni oggettive, spesso insuperabili, e anche su questo non manca una riflessione, pur se amara perché tale pensiero ha portato a tanti suicidi nel pieno della crisi economica.  E anche se alla base  dell’impegno degli imprenditori c’è un motivo personale, spesso economico, come diceva Einaudi “è la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito…” . 

Come sostenere il peso del fallimento

Tale spinta ideale, se le cose non vanno nel verso giusto, pur senza colpe, diventa oppressiva perchè sembra venir meno “il merito, l’onore e la reputazione” acquisiti nell’impegno ”a volte, fino allo stremo delle forze, con l’obiettivo di migliorarsi costantemente. E cerca di meritare quel che ha, di adeguarsi all’immagine ideale di perfezione e correttezza che di fatto è implicita,  più che nello sguardo degli altri, nel proprio giudizio su di sé”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è cremlino-geopolitica.info_.jpg
Mosca, la città dove va nell’ufficio della Sitoc per una trattativa aziendale

E’ il fidato consulente di direzione Fabbroli a dare a Riccardo la risposta che attende con il cuore in gola nel cercare di capire i motivi che gli hanno fatto perdere l’imprenditore amico Gabriele schiacciato dal peso della crisi: “Non che ci sia qualcosa di sbagliato nel volersi migliorare, intendiamoci, né pensare di poter affrontare la propria missione imprenditoriale con coraggio e abnegazione. Ma bisogna saper mettere dei paletti, non pretendere l’impossibile da sé stessi, e soprattutto non considerare l’impresa come unico scopo della propria vita, ma coltivare altri interessi. Altrimenti, non appena le cose sfuggono di mano, il rischio è quello di passare rapidamente dall’orgoglio  per i risultati conseguiti a una profonda, insanabile vergogna, che spesso viene ingigantita  dal sentimento di inadeguatezza, dalla delusione di aver fallito”.  Basta sostituire dopo la parola “missione” l’aggettivo imprenditoriale con uno che qualifica la propria attività,  che non va considerata “unico scopo della propria vita”, per riferire a sé stessi tale ammonimento, che nei casi estremi può essere salvifico.

Il poprio lavoro non come valore assoluto insostituibile

Un altro insegnamento, collegato in qualche modo a questo ammonimento,  rovescia un principio per altri versi inattaccabile, nell’impresa come nella vita comune: l’attaccamento al lavoro – o comunque ai propri impegni – come valore assoluto insostituibile, per cui se viene meno è la fine. All’inizio si basa pur sempre su fattori etici di grande valore, ma poi prende la mano e diventa così assorbente e totalizzante da oscurare e far dimenticare altri valori ancora più elevati. Come la famiglia, i figli e anche sé stessi, perché si trascurano aspetti essenziali della propria esistenza per inseguire l’appagamento suscitato dai risultati del proprio lavoro in una narcisistica contemplazione di sé stessi, anzi di una parte di sé stessi, che diventa effimera e fuorviante se l’altra parte di sé viene ignorata. Non solo gli imprenditori, ma tutti sono alle prese con questo problema perché non riescono, e spesso non vogliono, trovare il giusto equilibrio tra le loro aspettative autoreferenziali e una più aperta  e pacata visione  dell’intero arco esistenziale, ben più vasto e che coinvolge anche altre persone, soprattutto care.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è barca-myluxuryit.jpg
Una barca da diporto, dove va con Veronica

“Non è necessario vivere ogni sfida lavorativa  come se fosse una lotta titanica. Ci vuole un po’ di misura”, viene detto al protagonista  dalla sorella Paola, imprenditrice anche lei che gestisce l’azienda paterna: “Guardandoti da fuori, chi ti conosce meglio, come me, vede  un uomo che si tormenta, che si logora, ed è perennemente insoddisfatto: affronti questioni tutto sommato ordinarie  caricandole di significati e di valenze che in realtà non hanno. Devi smetterla, Riccardo,  di riversare tutte le  tue energie nel lavoro, come se la realizzazione professionale fosse l’unica cosa che conta, che conferisce un significato alla tua esistenza”.

E non è soltanto la sorella Paola a parlargli così, anche Veronica, che respinge la sua corte serrata anche per questo, lo vede nello stesso modo e gli dice parole ugualmente meditate: “Non mi sembri una persona felice, Riccardo. E’ come se volessi comunicare di te l’immagine monolitica di uomo vincente, sempre pronto a gettarsi a capofitto nelle situazioni per cercare di ottenere quel che vuole. A ogni costo. Ti piacciono le sfide, ma perché ti piace vincerle, non perché tu le viva come un’occasione per metterti davvero in discussione  a livello emotivo o personale”. La via d’uscita? “Io credo che tutti noi dovremmo imparare a vivere di più nel presente, a interrogarci sul senso e  la modalità delle nostre azioni – dalle più piccole alle e banali a quelle più impegnative – Solo così, prestando attenzione, possiamo davvero capire qual è la nostra vera aspirazione. Individuare il nostro scopo. E capire, di contro, che cosa ci condiziona…”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è rifugio-parcoappennino.it_.jpg
Il Rifugio Lagdei, dove va con Veronica

Quello che le donne non dicono, ma fanno...

Ma come mai sono due donne ad ammonirlo in termini così forti e coinvolgenti?  Gli dice francamente la sorella Paola che solo le donne possono capire questi motivi fondamentali nella vita che sfuggono agli uomini: “Per una ragazza, una donna, è tutto molto diverso. Ci si aspetta ‘naturalmente’  che debba essere presente e attenta su più fronti: che sia sempre impeccabile, o quanto meno provi a esserlo, come figlia, moglie, madre, amica, professionista, donna di casa. Che organizzi le proprie giornate tenendo in equilibrio tutti questi aspetti e variando le proprie gerarchie di priorità anche – anzi spesso – in funzione delle esigenze altrui”. E precisa, sempre rivlta al fratello: “Ci chiedono fin da piccole di imparare a farlo, quindi siamo brave a riuscirci nella maggioranza dei casi, ma non credere che sia facile. D’altra parte, questo ci abitua a definirci,  a pensarci in maniera non individualistica  e neppure monolitica. Noi donne sappiamo di doverci spendere in molti ambiti, sappiamo di far parte di diverse reti e che nessun ambito della nostra esistenza, considerato da solo, ci offrirà una piena  e completa realizzazione”.

Ed ecco cosa ne scaturisce: “Il risultato è che di norma ci troviamo a dover gestire un carico di compiti, obblighi, aspettative e bisogni altrui  senza dubbio più pesante di quello che, per esempio, grava sui nostri compagni, o mariti, o fratelli. E, nonostante questo, sappiamo trovare delle valvole di sfogo. Coltivare le tante dimensioni di cui è fatta una vita piena, significativa, è per noi un addestramento quotidiano, volenti o nolenti siamo chiamate ogni giorno ad affrontarlo”. Potrebbe sembrare facile perché è naturale per le donne, ma non lo è: “Il difficile è ricordarsi, in tutto questo marasma, di sé. Ma, da brave equilibriste, in genere ci riusciamo meglio. E troviamo comunque degli spazi di compensazione, anche se sono spesso troppo risicati”. Termina così la lezione di Paola al fratello: “Ti dico questo perché sono fermamente convinta che questa compensazione sia vitale, ma soprattutto è fondamentale non pensarsi come individui a una sola dimensione, o come un monolite”.  E’ una lezione per tutti, si resta senza fiato, “quello che le donne non dicono” lo  dice Paola in una meditazione, che è una analisi, così lucida di cui ciascuno, donna o uomo dovrebbe farne tesoro.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è lago-santo-parcoappennino.iti_.jpg
Il Lago Santo, vicino al Rifugio Agdei, dove va con Veronica

L’intreccio dei problemi aziendali con la maturazione interiore

Quanto abbiamo riportato non deve far pensare a un libro pedagogico e tanto meno moralistico, ben diverso è l’impianto narrativo incentrato sui  problemi imprenditoriali con complesse diramazioni all’estero per una azienda multinazionale operante nel settore del caffè che intende accrescere la penetrazione sul mercato internazionale con accordi a largo raggio, dall’Inghilterra alla Russia, che sono al centro del romanzo.

Ma sono proprio i problemi nella loro complessità a creare le condizioni per la maturazione interiore in un intreccio narrativo che si sviluppa in parallelo ai viaggi in aereo, agli incontri e le riunioni con i consulenti, ai pranzi di lavoro, intervallati comunque da qualche intermezzo familiare, con il carico dei problemi di un divorziato che ha un figlio adolescente e la ex moglie ostile, e un rapporto contrastato con il proprio genitore. Il tutto alleggerito da qualche distensivo intermezzo in barca, a teatro e in un  rifugio in montagna, vicino al lago, sempre con Veronica, oltre ai momenti di quiete nel “buen ritiro” nella casa di collina fuori la sua Parma.  

Palazzo Soragna a Parma, dove va per l’Unione Industriali e non per l’iniziativa benefica di Veronica

Non parleremo dell’intreccio narrativo, ma diremo qualcosa di più sulla sua maturazione interiore nella quale una donna, Veronica, ancora lei, ha un ruolo determinante. E questo dopo una rottura con lui a causa della sua assenza, per il ritardo di due ore del volo da Mosca – dov’è andato incautamente per una urgenza aziendale che ha anteposto all’impegno del cuore – alla serata di presentazione dell’iniziativa per i bambini africani a cui lei tiene tanto, a Parma, nel Palazzo Soragna da lui frequentato negli incontri dell’Unione Industriali. Rottura con lui seguita dalla partenza di lei per il villaggio africano di Lilongwe, nel Malawi, dove svolge una meritoria un’attività di cooperazione assistendo i bambini, lasciato il lavoro di architetta qualificata nel design su una spinta ideale e umanitaria che rimprovera a lui di non avere, inaridito nel pensiero unico del successo. E le sue parole, ma ancor più il suo esempio, fanno breccia su di lui, portandolo a una confessione impensabile: “Sentiva che avrebbe dovuto ringraziarla: perché parlandole, frequentandola, mettendosi anche a confronto con la sua visione del mondo e della vita, aveva ripreso contatto con una parte profonda della propria anima.  E aveva riscoperto pensieri, emozioni, aspirazioni che per troppo tempo aveva trascurato, inaridendosi. Ora, invece, sentiva di volersi rimettere in contatto con la vita, con quanto lo circondavano, sentiva di poter essere sinceramente generoso e più aperto, in ogni ambito della propria esistenza , compreso quello lavorativo”.

L'”agnitio” di sè liberatoria

Così, “per la prima volta dopo tanti mesi di tensione, Riccardo si sentiva libero”. Stava riacquistando la libertà di operare sui fronti che aveva trascurato, come la famiglia, il padre e il figlio Edo in primis, ma anche se stesso: “Libero, finalmente, anche dalla componente più tossica della propria ambizione. Quella che lo aveva indotto più  e più volte  a mettere in secondo piano anche la cura di sé, il proprio equilibrio e soprattutto, purtroppo, gli altri, anche  le persone a cui teneva di più: non avrebbe più permesso che succedesse”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è malaei-travelingesatcom.jpg
Un villaggio del Malawi, dove va Veronica ad assistere i bambini africani e la raggiunge

Così può dire a se stesso: “Oggi sono migliore”: “Forse, solo un anno prima non sarebbe stato in grado di capire: era ancora troppo concentrato su se stesso. Troppo preso dai propri tormenti e ancora schiavo di vecchi rancori e vecchie abitudini. Ma ora era un uomo nuovo. Era cambiato, aveva finalmente intrapreso un percorso  che mirava alla sua piena realizzazione non come individuo, ma come essere umano, parte della grande famiglia umana”.

Il percorso virtuoso è nel libro nel quale si percepisce lo svilupparsi di questa maturazione interore, nel mentre si è presi dalla vicenda aziendale che lo porta nei più diversi ambienti con il suo carico di inquietudini e di problemi fino all’”agnitio” di sé liberatoria. E’ un percorso che il lettore potrà vivere,  come abbiamo fatto noi con incontenibile emozione, fino a poter dire al termine “Oggi sono migliore”. E non soltanto oggi.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è CD-ITALIAOGGI.IR_.jpg
La riunione di un Consiglio di Amministarzione, come quelle della Sitoc

Info

Piercarlo Ceccarelli, “Oggi sono migliore. Una storia imprenditoriale”, Interlinea 2020, pp. 200, euro 16. Per i due precedenti romanzi dell’Autore, cfr. la nostra recensione in www.arteculturaoggi.com , dal titolo “I Martini e i Gianselmi, storie aziendali e lezioni di vita”, 14 gennaio 2017.

Photo

Il romanzo non ha illustrazioni, in questa recensione abbiamo inserito, oltre alla foto della copertina, una serie di immagini attuali sui principali luoghi e località in cui si svolge la storia per una maggiore ambientazione e immedesimazione del lettore. Sono a puro scopo illustrativo, e non vi è alcun intento di tipo economico nè promozionale, le abbiamo tratte dai siti web di pubblico dominio di seguito indicati, si ringraziano i titolari dei siti per l’opportunità offerta; qualora la pubblicazione non fosse gradita, le immagini segnalate verranno immediatamente rimosse su semplice richiesta. I siti sono, nell’ordine di inserimento delle foto, i seguenti: macchinealimntari.it, it.wikivoyage.org, metroquadroprmacase.it, idealista.it, flyone.eu, mediocasasrl.it, it. aleteia.org, gazzettadellemilia.it, zanfilszcompetition.org, wired.it, geopolitica.info, myluxury.it, parcoappennino.it, parcoappennino.it, up.pr.it, travelingseat.com, italiaoggi.it, servizi.ceccarelli.it. In apertura, la copertina del libro di Piercarlo Ceccarelli “Oggi sono migliore” ; seguono, un macchinario per la lavorazione del caffè, del tipo di quelli della Sitoc di Riccardo Ferrari, e un’immagine di Fornovo di Taro, dove ha sede la Sitoc; poi, l’ingresso di una villa a Parma, nell’Oltretorrente, dove abita, e l’ingresso di una villa a Montecavolo, dove abita il padre Edoardo; quindi, un’immagine di Parma, la sua città, e il patio di una villa in collina a Langhirano, dov’è il suo “buen ritiro”; inoltre, un’immagine di Milano, la città degli incontri e le riunioni con il consulente Fabbroli, e un’asta benefica della Parma-bene del tipo di quella in cui conosce Veronica; ancora, un palco del Teatro Regio di Parma, dove va con Veronica, e un viaggio in aereo, come quelli per Mosca … ma senza mascherina; continua, un’immagine di Mosca, la città dove va nell’ufficio della Sitoc per una trattativa aziendale, e una barca da diporto, come quella in cui è stato con Veronica; prosegue, il Rifugio Lagdei e il Lago Santo, dove va con Veronica; poi, Palazzo Soragna a Parma, dove va per l’Unione Industriali e non per l’iniziativa benefica di Veronica, e un villaggio del Malawi, dove va Veronica ad assistere i bambini africani e la raggiunge; infine, la riunione di un Consiglio di Amministrazione, come alla Sitoc e, in chiusura, Piercarlo Ceccarelli tiene una sessione della sua Consulenza di Direzione, come Nicola Fabbroli.

Piercarlo Ceccarelli tiene una sessione della sua Consulenza di Direzione, come Nicola Fabbroli

“Tota Italia”, 3. Dai culti alle guerre, fino all’Italia di Augusto, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Si conclude la  nostra rievocazione della mostra “Tota Italia. Alle origini di una nazione”,  alle Scuderie del Quirinale  nel 160° anniversario  dell’Unità d’Italia dell’era moderna,  e nel  150° di Roma capitale  e  75°  della Repubblica. Si è tenuta dal  14  maggio  al  25 luglio 202,  realizzata da Ales S.p.A. con il concorso di più di 30  Musei e Soprintendenze di Stato e il  contributo dei Musei civici; curatori della mostra, e del  Catalogo  edito da “arte,m”, Massimo Osanna, direttore generale Musei del Ministero della Cultura, e Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano. L’accurata ricostruzione della fasi più antiche della  costruzione dell’Italia unita, dal IV al II sec. a. C., poi nel II-I sec., fino all’”età dell’oro” augustea, è testimoniata nelle 10 sezioni della mostra.

Ritratto di Augusto con il capo velato”, fine I sec. a. C.

Abbiamo già dato conto delle prime 3 sezioni, ora nella 4^ sezione, dedicata ai “Culti”,  si penetra sempre più nell’anima del “mosaico di popoli” unificati nel “Tota Italia”  augusteo, nel I sec., prima e dopo Cristo, a coronamento di un processo molto antico, le cui tracce evidenti risalgono al IV sec. a. C. come ricostruito appositamente per la mostra e documentato con reperti arcaici di grande valore e interesse storico.

Dai Riti funerari  e le Lingue  passiamo alla Religione, e nella devozione verso le divinità troviamo notevoli differenze, come nei Riti funerari:  sono evidenti nei Riti e nelle pratiche religiose, nei luoghi deputati che non sono solo i templi, ma i boschi sacri; e come per le Lingue, anche per le Divinità, quelle romane si affiancano  fino a sostituire quelle radicate nelle tradizioni dei popoli italici.

“Corredo della ‘tomba dei due guerrieri- Bacino rituale, podoripter, a figure rosse'”, III sec. a. C.

Roma non usava cancellare i culti persistenti, divinità locali particolarmente radicate nei territori venivano identificate con le divinità romane  in quella che veniva chiamata “interpretatio”: è il caso di Reitia, collegata alla dea Minerva. Il processo di omologazione dei culti fu in qualche caso reciproco, perché ci furono anche divinità allogene che entrarono nei culti di Roma, come l’etrusca  Velove introdotta  da Tito Tazio, re proveniente dalla Sabina con quella tradizione religiosa.

L’esposizione dei reperti è spettacolare, con statue e fregi di vario tipo, oggetti ex voto e altrettanti ex voto costituiti da statuette con teste femminili. Tra gli ex voto, “Ex voto da Ponte di Nona e da Gabi”, IV sec. a. C., oltre  alle teste femminili 2 statuette di toro e cinghiale, e “Materiali del santuario della dea Mafite”, IV-III sec. a. C., 4  frutti votivi dal santuario di  Rossano di Vaglio, 2  statuette femminili, una con velo e una con “polos”.

“Spada ripiegata con iscrizione in latino arcaico”, IV-III sec. a. C.

 Abbiamo citato, nell’omologazione delle divinità italiche con quelle romane Retia, collegata a Minerva,  è testimoniata dai reperti esposti in mostra, del IV sec. a. C.,  con guerrieri a cavallo, statue e stipsi votive; Velove, introdotto a Roma dalla Sabina, in una statua del  I sec. a. C. ispirata al modello greco dell’Ercole in riposo di Lisippo del IV sec. a.C. E’ esposta anche  una“Statua di divinità in trono. Angizia”, altra dea italica  come  Mefite, dal cui santuario di Rossano del Vaglio  viene  una foglia di vite e un rametto di alloro, del  IV-III sec. a. C.

Risalgono a questi due secoli remoti la “Statua di Mater con 12 figli”, chiamata “Mater capuana”, rinvenuta nel 1875 nel santuario del Fondo Pattuelli nei pressi dell’etrusca Capua,  dea madre protettrice della natività con i 12 neonati in fasce;  e  la “Statua di divinità in trono Angizia” dall’omonimo santuario di Luca dei Marsi, venerata per i poteri magici e taumaturgici che le sarebbero derivati dai legami con l’acqua, gli animali selvatici e i serpenti i cui veleni diventavano curativi; inoltre sono del III sec. a. C. la “Statua si Ercole con incisione osca” da Venafro, ed “Ercole in riposo con dedica M. Attius Peticius Marsus”  dal santuario di Ercole Cerino di Sulmona, quest’ultimo dalla stupefacente modernità michelangiolesca.

“Statuetta femminile con velo”, IV-III sec. a. C.

La 5^ sezione, relativa a  I contatti con il Mediteraneo”, pone in evidenza  le ripercussioni sul piano culturale e dei costumi, del corso espansionistico  sia a livello politico e militare sia a livello economico e finanziario, in una sorta di “mercato globale” nell’intero territorio italico. Ne furono investite città latine, Alatri e Palestrina, Segni e Tivoli,  e città del centro-sud come Assisi e Chieti, nonché il Piceno in un rinnovamento alimentato dalla fitta rete di scambi, che portavano all’integrazione all’insegna dell’ellenismo, matrice greca con innesti italici  e latini.

Le classi dirigenti  locali costituivano la saldatura tra questa periferia in fermento e lo Stato romano secondo un processo di trasformazione che lasciò segni vistosi nell’architettura  pubblica, nella quale le singole provincie si confrontavano tra loro e con Roma nella monumentalità degli edifici e nelle decorazioni che li adornavano.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Tota-Italia-5-108473-1.jpg
“Rilievo con scena di battaglia tra un cavaliere greco e un persiano”, III sec. a. C.

Di queste ultime vediamo in mostra una serie di “Terracotte architettoniche di un edificio templare”,  e “Sculture frontali di un edificio templare” II sec. a. C., mentre è del III sec. a. C. un “Rilievo con scena di battaglia tra un cavaliere greco  e uno persiano”, rappresentazione dinamica nella drammaticità del cavaliere a terra mentre  l’altro ritto sul cavallo ha il braccio alzato per il fendente decisivo.  La “scultura frontale” citata  rappresenta la  testa forse di Ercole, le “terracotte architettoniche” due dei fregi e la terza un antefissa con la “signora degli animali” provengono tutte dal santuario di Monte Rinaldo, nei pressi di Fermo.

Il “clou” della sezione, preso come “testimonial” dell’intera mostra, è rappresentato dalla “Statua di pugile in riposo”, I sec. a. C.,  anch’essa ispirata a Lisippo, trovata nel 1885 nel colle del Quirinale ove era stata sepolta con le dovute protezioni per preservare il bronzo: sono rimasti anche intarsi rossi che simulano il sangue dalle ferite, con le tumefazioni, è  seduto, la testa girata sulla destra mentre guarda lontano.

“Architetture greche in frammenti”, III sec. a. C

Così  il presidente di Ales, Mario De Simoni, ne spiega significato e valore attuale: “E’ un uomo provato ma non vinto, che non ha paura di mostrare  le sue ferite ma che mantiene intatta la consapevolezza della sua forza. Ci è parsa una metafora  adatta a questi giorni, onesta e fortemente fiduciosa”.  

Abbiamo parlato degli aspetti pacifici dei “contatti con il Mediterraneo” tra “Roma e gli Italici”.  ma – come abbiamo visto nella ricostruzione storica – un ruolo preminente lo hanno avuto “Le guerre” , alle quali si riferiscono i  reperti esposti nella  6^ sezione della mostra.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Tota-Italia-7-118482.jpg
“Fregio con scena di rito di fondazione (sulcus primigenius) “, I sec. a. C.

Sono del III sec. a. C. delle “Architetture in frammenti”,  una greca  e 3 da Policoro, che evocano la potenza distruttiva dei “proiettili lapidei” utilizzati con macchine da lancio negli assedi degli eserciti ellenistici, fin dal IV sec. a. C; è del III sec., trovato ai primi del ‘900 nella necropoli di Capena, anche un “Piatto votivo con raffigurato un elefante da guerra”, forse celebrativo della vittoria su Pirro, in groppa una torretta con soldati, segue un elefantino che sembra seminasse lo scompiglio perchè imprevedibile. E’ della parte finale del I sec. a. C.  un “Rilievo con navi da guerra”,  da Cuma, due navi a remi cariche di soldati che si preparano alla battaglia, stilizzati ma realistici.

Ricordiamo che il III sec. a. C. fu teatro delle guerre contro Pirro, dotato appunto di elefanti, e contro  Cartagine, con battaglie navali i cui armamenti  e metodi venivano adattati alle diverse situazioni; poi ci furono le guerre civili per il controllo di Roma, Silla, Pompeo e Cesare furono i grandi condottieri fino alla vittoria di Ottaviano su Antonio e Cleopatra che aprì l’era di Augusto, Intanto da Mario, vincitore dei Cimbri e Teutoni, erano stati tolti i limiti di censo per il servizio militare, così ci furono i  legionari e anche i mercenari nelle legioni di Roma  egemone nel Mediterraneo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Tota-Italia-8-134.jpg
“Rilievo votivo con figura femminile stante (Arianna o Proserpina)
e giovane eroe seduto appoggiato a una clava (Teseo), “metà I sec. a. C

La sua espansione comportò l’esigenza di dare alle terre conquistate un assetto interno compatibile con  il proprio dominio, la 7^ sezione della mostra, “Colonia e Municipia. L’organizzazione del territorio”  documenta questo aspetto  che riguarda anche i rapporti di Roma con le città sconfitte  e le comunità alleate. La forma utilizzata fu quella delle “colonie”, ma con profonde innovazioni rispetto alle colonie fenice e della Magna Grecia:  nelle “coloniae civium romanorum” o “marittime” -fondate fino al termine del II sec. a. C., le prime  Ostia e Anzio – veniva mandato un presidio militare di 300 romani; nelle “coloniae latinae” – fondate fino al I sec., le prime Cori e Segni nel Lazio – venivano imposti obblighi militari  e vincoli riguardanti i rapporti con Roma  e gli altri territori, ma potevano conservare  le proprie leggi e avere una certa autonomia. 

Nel I sec. a. C,. a modificare questo quadro, intervennero le politiche coloniali a favore dei veterani iniziate da Mario e Silla, poste  in atto anche da Cesare e Augusto; e soprattutto, per effetto della guerra sociale,  la “promozione” allo status dei “municipi” di molte colonie con i “socii”, alleati indipendenti e federati a Roma in un “foedus” privilegiato: avevano la stessa organizzazione amministrativa di Roma a cui erano integrati, pur mantenendo l’autonomia richiesta dalla distanza dal centro egemone, formula adottata nel lontano 381 a. C. all’assoggettamento  di Tusculum.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Tota-Italia-9-147533.jpg
“Ritratto di donna con il capo velato”, fine I sec. a. C. – inizio I sec. d. C.

Documentano questo i reperti in mostra:  il più antico una “”Statua di Marsia con ceppi da schiavo” del III sec. a. C., da Paestum,  il sileno che sfidò Apollo nel flauto, celebrato da Ovidio, assunto come simbolo di libertà e per questo collocato spesso nei fori di colonie  e municipi, seguito da due testi in lingua osca: la “Tabula con una legge latina, riutilizzata  per una legge in lingua osca”,  del II-I sec. a. C. , dall’antica  Bantia,  con nel lato anteriore una legge latina sui processi criminali, sul lato posteriore il più lungo testo in lingua osca con caratteri latini e brani dello statuto di Bantia su norme romane; e  l’”Iscrizione in lingua osca con riferimenti alla viabilità di Pompei”, II sec. a C., da Pompei, con indicata la precisa delimitazione di una strada.

Materialmente venivano posti dei  “Cippi di delimitazione del territorio”, come i 3 in mostra del 130 a.C., i 2 da Celenza Valfortone,  e quallo da Atena Lucana.  Del I sec. a.C. anche il “Fregio con scena di rito di fondazione (sulcus prmigenius)” e una “Iscrizione funeraria con rappresentazione di uno strumento agrimensore”,  un geoma, a cavallo tra I sec. a.C. e I sec. d. C.

“Rilievo con Vittoria e trofeo”, I sec. a. C.

Con l’8^ sezione, “Colonia e Municipia. Religio e lusso”, all’interesse storico e archeologico si aggiunge la spettacolarità dei molti reperti esposti nella mostra. Il “lusso”, “luxuria”,  si diffuse  con l’irruzione di nuovi modelli culturali e  comportamentali a seguito della cospicua disponibilità di risorse economiche  – provenienti dai bottini di guerra e dalla tassazione, da metalli preziosi come oro e argento e da materiali pregiati come marmi e altre pietre di valore disponibili in Grecia, Asia Minore ed Africa – dell’impetuoso sviluppo degli scambi commerciali anche su nuove rotte e del forte afflusso di schiavi come “manodopera servile”.

La trasformazione nel I sec. a. C. dopo la guerra sociale aveva riguardato  Roma, passata da austera città “etrusca”  alla raffinatezza greca di  “polis hellenis”, poi si diffuse nei “municipi” delle zone di conquista del  Mediterraneo . Si manifestò, in particolare, nell’architettura pubblica e privata che rivoluzionò l’assetto urbanistico e i singoli edifici con innovazioni edilizie ed elementi ornamentali come rilievi e statue: si manifestò nei templi e nei fori, nelle mura cittadine  e nei complessi funerari, nei santuari e nelle ville private. 

“Corredo della “tomba dei due guerrieri – Vaso listato’“, III sec. a. C,

In  mostra sono esposti reperti con 5 tipi di testimonianze, per lo più del I sec. a. C., di cui ne citiamo alcuni.

 Gli affreschi:  la ”Rappresentazione di Iside Fortuna e di un giovane nudo con incisione graffita” e “Affresco con anatre appese e antilopi”.

I  rilievi: “con processione funeraria” e  “con suonatrice di cetra da un monumento funebre, e i rilievi votivi ” con il recupero dal mare di una statua di Ercole”e “con figura femminile stante (Arianna o Proserpina)  e giovane eroe seduto appoggiato a una clava (Teseo)”.

Le lastre e le are: 2 lastre di rivestimento “con la contesa di Ercole e Apollo per il tripode delfico” e “con Perseo che offre ad Atena la testa di medusa”, 2 oggetti “colpiti da un fulmine e seppelliti ritualmente”, antico rito di origine etrusca in risposta al segno divino rappresentato dalla caduta del fulmine con il seppellimento, da parte dei sacerdoti, di tutto ciò che ne era stato colpito, e del fulmine stesso identificato in una pietra segnata, con un piccolo tumulo, cerimonia accompagnata da canti funebri, preghiere e dal sacrificio di una pecora”; un’ara “circolare decorata con i Dodici Dei”, al centro Zeus, derivata dal “dodekatheon” di Prassitele per il tempio greco di Artemide Soteira a Megara, e per questo espressione della grande statuaria greca del IV sec. a. C.    

“Stipe votiva della dea Reitia”, IV sec. a. C.

I  vasi: 2 coppe, di cui  una decorata con tralcio vegetale, , un cratere, a calice con anse a volute, un’anfora, una brocca e un’urna con coperchio, un vaso decorativo a forma di leogrifo.

Le statue: dalla “”Triade capitolina” alla “Statua di Apollo lampadoforo”, dalle  6  “Statuette di divinità domestiche ed elementi decorativi da un larario”,  alle 2 “Teste ornate di Atena ed Esculapio”.

Solo teste scolpite figurano nella 9^ sezione della mostra, “Nos sumus Romani. I volti dell’Italia romana”:  un diecina di busti che testimoniano  la tendenza, nel I sec. a. C., da parte dei ceti dirigenti locali e della classe libertina,  a farsi immortalare con il ritratto scultoreo per eternare la propria immagine e trasmettere attraverso questa i valori propri e della famiglia. Oltre ai ritratti “privati” ebbero sviluppo quelli pubblici, di sovrani, filosofi e altri personaggi del mondo ellenistico.

“Sculture frontali da un edificio templare
Frammento di testa maschile (Ercole)”, II sec. a. C..

Un busto è personalizzato: il “Ritratto di filosofo su erma iscritta, Parmenide”, prima metà del I sec. d. C, il personaggio viene raffigurato dall’espressione ferma e autorevole, il busto è stato rinvenuto in una colonia greca sorta nel 540-53 con il  nome di Elea, patria di Parmenide, in un vasto complesso monumentale, la “Scuola dei medici eleati” di Velia, complesso monumentale dove oltre a queste erma ne furono trovate altre senza testa ma attribuite a dei medici associati nel rito ad Apollo guaritore, lo stesso Parmenide era chiamato “medico e guaritore” simbolo della memoria collettiva evocata dal “sapere antichissimo” di cui era portatore.

 Gli altri busti scultorei che citiamo sono 2 “Ritratti maschili”, 4 “Ritratti femminili” e 1 “Ritratto di intellettuale”.

“Architetture greche in frammenti,” III sec. a. C.

La 10^ e ultima sezione della mostra approda a “Tota Italia. L’Italia unita nel nome di Augusto”, è l’apoteosi della potenza del “princeps”, che si riassume nel giuramento di “Tota Italia” riportato nelle “Res Gestae”, il testamento politico e l’esaltazione delle imprese dell’imperatore. Siamo nel 32 a. C., così gli Italici si schierarono con Ottaviano nel suo scontro vittorioso contro Marco Antonio e Cleopatra tacciati di immoralità e corruzione laddove Augusto in una Italia  a lui alleata diventava il simbolo delle virtù tradizionali: ed effettivamente  la sua azione fu improntata a una severità e austerità di costumi che lo portò a esiliare a Ventotene la figlia Giulia in una villa solitaria che ha preso il suo nome, per punirla di comportamenti contrastanti con i rigorosi principi morali. 

 Lo stesso nome di Augusto richiamava una spiritualità al confine con la divinità, e un sistema di valori che trovava nelle espressioni culturali non solo una chiara testimonianza, ma anche un potente veicolo di propaganda e di diffusione. Così si arrivò all’omologazione culturale di “Tota Italia”  in un processo nel quale venivano mantenute le tradizioni locali in quanto confluite nel più vasto alveo della romanità, che si tradusse nella divisione dell’Italia in “Regiones”.

“Iscrizione funeraria con rappresentazione di uno strumento agrimensore (gnoma)”,I sec. a. C-I sec d. C.

Fu questa la riforma amministrativa varata da Augusto nel 7 d. C., all’apertura del nuovo secolo così significativo allorché il processo poteva dirsi compiuto anche  a livello delle istituzioni territoriali. Mentre a Roma, centro dell’Italia unificata,  il principe, pur assommando in sé poteri imperiali, formalmente rese omaggio al Senato e al popolo romano di cui esaltava le origini antiche. 

Viene definita “nuova età dell’oro” perché la diffusione del benessere e dei nuovi modelli di vita seguiva un interminabile periodo di guerre che avevano fiaccato la resistenza di tutti; il nuovo sistema di valori, esaltato anche a livello culturale  dalla propaganda augustea, si manifestava in tanti campi, fino al livello architettonico e decorativo interessando fasce sempre più vaste di popolazione.

“Ara circolare decorata con dodici dei”, seconda metà I sec. a. C.

La stirpe augustea viene evocata con le  teste  scolpite quasi tutte del  I sec. d. C. di Livia, Agrippina Maggiore e Ottavia Minore, manca la testa della figlia Giulia, evidentemente non immortalata avendo disatteso la severità dei costumi del nuovo corso, come si è sopra ricordato; ci sono, invece, le teste di Germanico, Tiberio e Giulio Cesare.   Ma non sono le sole espressioni simboliche: a parte la “Meridiana con rappresentazione dei segni zodiacali”, e la “Meridiana tascabile”, troviamo   il “Rilievo con la rappresentazione di un tempio”  e  due opere che inneggiano ai trionfi di Augusto: il “Rilievo con Vittoria e trofeo” e “L’ala di Vittoria”, sempre del I sec, il primo a.C,, il secondo d. C.. E, per concludere, il “Ritratto di Augusto con il capo velato” , l’immagine del  romano devoto intento a officiare un sacrifico, con il velo della toga, l’abito tradizionale da lui valorizzato, simbolo di purezza morale.

“Tota Italia”  andò a compimento con lui, perciò con questa immagine edificante ci piace chiudere la rievocazione, attraverso la ricostruzione storica e i preziosi reperti in mostra, del lungo processo che portò il “mosaico di popoli” alla romanizzazione valorizzando tradizioni e simboli fusi nel crogiolo della romanità. 

“Ritratto maschile”, seconda metà I sec. d. C.

Info

Scuderie del Quirinale, Roma, Via XXIV maggio n. 16. info@scuderiequirinale.it, tel. 02.92897722. Nel periodo di apertura della mostra visita da lunedì a domenica ore 10-20 (ingresso fino alle 19), entrate contingentate con obbligo di “Green Pass”, e protocollo di sicurezza, su mascherine, distanza di 2 metri, igienizzazione, biglietto euro 17,50, ridotti over 65, giovani e altre categorie. Catalogo “Tota Italia. Alle origini di una nazione”, con sottotitolo IV secolo a. C. – I secolo d. C., a cura di Massimo Osanna, Stéphane Verger, pp. 168, formato 16 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo, nonchè le immagini dei reperti esposti in mostra. Cfr. i nostri articoli, in www.arteculturaoggi.com sulla mostra di Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019 per la punizione a Marsia da parte di Apollo nella musica, la mostra di Augusto 9 gennaio 2014, e in www.archeorivista.it “Villa Giulia a Ventotene, la capacità umana di far soffrire anche in Paradiso” 24 ottobre 2010, per la punizione a Giulia, la figlia di Augusto. (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, disponibili, saranno trasferiti su altro sito).

Photo

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore e la Presidenza delle Scuderie del Quirinale, che lo ha messo a disposizione, e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. E’ inserita la sequenza di una immagine per ciascuna delle 10 sezioni, poi un’altra sequenza con qualche eccezione. In apertura, inizia la sequenza quasi completa delle 10 sezioni – manca la 1^ – con la 10^, oltre che al termine della sequenza anche all’inizio per dare subito l’immagine-simbolo, “Ritratto di Augusto con il capo velato” fine I sec. a. C.; seguono, “Corredo della ‘tomba dei due guerrieri’- Bacino rituale, podoripter, a figure rosse” III sec. a. C., e “Spada ripiegata con iscrizione in latino arcaico” IV-III sec. a. C.; poi, “Statuetta femminile con velo” IV-III sec. a. C., e “Rilievo con scena di battaglia tra un cavaliere greco e un persiano” III sec. a. C.; quindi, “Architetture greche in frammenti” III sec. a. C., e “Fregio con scena di rito di fondazione (sulcus primigenius) “ I sec. a. C.; inoltre, “Rilievo votivo con figura femminile stante (Arianna o Proserpina) e giovane eroe seduto appoggiato a una clava (Teseo)” metà I sec. a. C., e “Ritratto di donna con il capo velato” fine I sec. a. C. – inizio I sec. d. C., età augustea; ancora, “Rilievo con Vittoria e trofeo” I sec. a. C, e continua con la seconda sequenza mancante della 1^ e 3^, “Corredo della “tomba dei due guerrieri – Vaso listato’” III sec. a. C, , e “Stipe votiva della dea Reitia” IV sec. a. C.; prosegue, “Sculture frontali da un edificio templare – Frammento di testa maschile (Ercole)” II sec. a. C., e “Architetture greche in frammenti” III sec. a. C.; poi, “Iscrizione funeraria con rappresentazione di uno strumento agrimensore (gnoma)” I sec. a. C.- I sec. d. C., e “Ara circolare decorata con dodici dei” seconda metà I sec. a. C.; infine, “Ritratto maschile” seconda metà I sec. d. C. e, in chiusura,“L’ala della Vittoria” I sec. d. C.

“L’ala della Vittoria”, I sec. d. C

appositamente