Oggi 5 marzo 2022 è il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini,poeta e scrittore, saggista e regista, un personaggio inquieto e controverso, del quale con il psssare del tempo rifulge sempre di più la grandezza. Alla sua celebrazione intendiamo partecipare con emozione autentica, ripubblicando i nostri articoli che nell’arco di oltre un decennio ne hanno ripercorso la parabola artistica e l’itinerario di vita prematuramente troncata dalla violenza che aveva profeticamente percepito e denunciato; e questo attraverso la narrazione delle mostre che si sono svolte sulla sua figura. Iniziamo con la mostra che nel 2011 ci ha fatto conoscere la sua prima abitazione a Roma, con le immagini della normalità quotidiana, fino al percorso sacrificale di una “vittima esemplare”, e poi al nostro ricordo, lo abbiamo seguito fino al luogo dove fu trovato senza vita. Una vita mai cancellata, perchè rinata con la rivalutazione della sua figura e delle sue opere in un diapason inarrestabile. Seguiranno nei prossimi giorni i nostri articoli, del 2014 sul suo rapporto con Roma, del 2015 sulla sua figura fino alla interpretazione di 14 artisti di 7 sue poesie nella mostra del 2012.
di Romano Maria Levante
Valeva la pena di attendere un’ora e mezza davanti alla galleria “Monserrato Arte 900” al numero 14 di via Monserrato a Roma per visitare la mostra fotografica su Pier Paolo Pasolini di Monica Cillario, torinese che vive tra la capitale e Montecarlo, aperta dal 3 maggio 2011. Nell’attesa, stando a sedere sui gradini del laboratorio artigiano-artistico che si trova di fronte, abbiamo scritto sul “notebook” il resoconto della presentazione avvenuta nella mattina dei “Tesori” della provincia di Roma al Tempio di Adriano. Poi abbiamo lasciato i tesori artistici e ambientali dell’hinterland romano per passare a un altro tesoro, un altro ambiente: il tesoro è Pier Paolo Pasolini, l’ambiente la sua prima residenza romana nel quartiere di Monteverde Vecchio dove visse dal 1955 al 1959.
L’ambiente evoca una persona, un’intelligenza, un’arte che si è espressa non solo nella scrittura, in prosa e in poesia, ma anche nel cinema. Proprio per questo è stato appropriato ricordarlo con immagini di per sé espressive nelle quali si sente l’amore della fotografa che le ha riprese con delicatezza e semplicità, senza strafare in scorci arditi e magari forzati, ma riproducendo una normalità piccolo-borghese dove sono nate “Le ceneri di Gramsci”, la sua raccolta di poemetti.
Per uno come lui non si potevano non accompagnare le immagini con le parole, sobrie anch’esse. La mostra lo fa con uno scrittore, Fulvio Abbate, nato a Palermo, nel 2005 autore, tra molti scritti, del libro “C’era una volta Pier Palo Pasolini”. Ha il tocco lieve, senza enfasi, le didascalie sono essenziali, la forza delle immagini è nel loro icastico bianco e nero che scolpisce una normalità dietro cui c’è l’inquietudine di una personalità incompresa e controversa, spesso anche contestata.
Le immagini della normalità quotidiana
Una normalità che inizia al numero 86 di Via Fonteiana, una “strada per ceti medi”, poco prima della borgata di Donna Olimpia, dove ambientò il romanzo “Ragazzi di vita”. L’edificio – scrive Abbate – è “un parallelepipedo intonacato d’ocra, senza particolari segni di estro architettonico, eppure dall’ingresso spazioso, luminoso”. In un quaderno delle elementari i cognomi dei coinquilini, al quarto piano, “accanto al numero dell’interno 26, appaiono le generalità di ‘Pasolini Carlo Alberto’, il padre dello scrittore, ufficiale di fanteria a riposo, ‘il Colonnello Attaccabottoni’ lo chiamava lo scrittore Carlo Emilio Gadda, vicino di caseggiato”. L’abitazione: “Appena due stanze, cucina, bagno e un balcone stretto che s’affaccia su via Innocenzo X, le mattonelle celesti adorate dai piastrellisti degli anni Cinquanta, gli infissi degli stessi tempi, un’aria immanente di ‘smorzo’”, così a Roma chiamano il deposito di materiali edili. Abbate ha scovato proprio nelle “Ceneri di Gramsci” questa descrizione dell’abitazione dove il libro fu scritto: “Ed ecco la mia casa, nella luce marina/ di via Fonteiana in cuore alla mattina”.
Nel 2005, nel trentesimo anniversario della morte – anno in cui Abbate ha pubblicato il libro su di lui – i proprietari posero una targa di marmo a ricordo degli anni 1955-59 in cui vi abitò Pasolini, con i suoi versi “Com’era nuovo nel sole/ Monteverde Vecchio!”, gli stessi della targa posta dal Comune di Roma in via Giacinto Carini, sempre a Monteverde, dove si trasferì successivamente.
Monica Cillario ha fotografato i dettagli, ciò che resta di un ambiente semplice ma poetico per ciò che evoca, ha cercato di restituire un “cosmo condominiale” che ancora adesso suggerisce l’emozione dell’infanzia di un grande testimone del nostro paese, dalla vita inquieta e febbrile.
Da via Fonteiana si sposta al Cimitero degli inglesi, c’è la fotografia della tomba dove trasse l’ispirazione per “Le ceneri di Gramsci”, il libro è ripreso sul marmo, ed è edificante vedere la simbiosi con il grande intellettuale imprigionato per le sue idee che con le “Lettere dal carcere” ha lasciato un monumento di umanità e insieme di fede negli ideali. Gli undici poemetti raccolti nel libro ispirato a Gramsci hanno titoli intriganti, da “Appennino” del 1951 all’ultimo “La terra di lavoro” del 1956; in mezzo troviamo, tra gli altri, “Comizio” e “L’umile Italia”, “Picasso” e “Shelley”. E anche il poemetto del 1954 che ha dato il titolo alla raccolta.
Di Gramsci apprezzava, oltre all’ideologia, l’acutezza del pensiero e la forza morale che gli fece affrontare con coraggio la lunga prigionia senza il minimo cedimento. E forse lo aveva colpito in modo particolare l’espressione “Odio gli indifferenti”, dell’11 febbraio 1917 (è tornata di attualità rievocata nella manifestazione del 31 maggio 2010 al romano Teatro Quirino), così congeniale alle corde di Pasolini, combattente di tante battaglie: “Chi vive veramente, non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. Gramsci conclude: “Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. Parole che sembrano un identikit dello stesso Pasolini, e ci fa comprendere appieno l’ispirazione da lui colta sulla sua tomba; pensiamo che per il paese spaccato in due sul suo nome, tra memoria e indifferenza, avrebbe ripetuto l’anatema di Gramsci:“Odio gli indifferenti”.
E’ questa l’unica fotografia “costruita” per materializzare quanto si respira nell’atmosfera creata dalle immagini. Torna subito la quotidianità a dominare. L’androne spazioso e dignitoso, la guardiola del portiere al quale si rivolgeva con perentorie scampanellate al ritorno dalle sue ”notti brave” avendo dimenticato le chiavi a casa, finché cedette all’implorazione del malcapitato che gli chiedeva: “Signor Pasolini, la pregherei di non suonare più in piena notte, così facendo mi sveglia il bambino, grazie”. E poi le cassette delle lettere, le maniglie, anche lo zerbino, fino all’immagine che ci sembra rappresenti il culmine nello scorcio visivo e nella didascalia, evocando l’infinito: un’inquadratura da vertigini della tromba delle scale. Sembra una scena di Alfred Hitchcock sui labirinti interiori dell’inconscio, magari suggerita da Salvador Dalì come in “Io ti salverò”, il film cult con Ingrid Bergman e Gregory Peck, riferimento questo che sarebbe piaciuto a un uomo di cinema come lui. Con negli occhi e nel cuore l’“infinito” nelle scale e nel resto lasciamo la galleria.
Il nostro ricordo di Pasolini
Ci guardiamo intorno dopo la missione faticosamente compiuta; il prolungato black out elettrico che ha ritardato l’apertura si è protratto per tutta la nostra visita, creando un’atmosfera ancora più misteriosa, le fotografie nella loro livida chiarezza spiccavano nella semi oscurità. Siamo usciti con la mente affollata dai ricordi legati a lui, ripensiamo alla sua attività intellettuale inquieta e tumultuosa, tra polemiche e attacchi di ogni tipo, anche giudiziari, per la sua “diversità” intesa in tutti i sensi, forse per la forza del suo pensiero e del suo coraggio civile.
Fu definito da Alberto Moravia “una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile”. E pensare che non si sentiva appagato, fino a scrivere: “Ebbene ti confiderò, prima di lasciarti, che io vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo…nel paesaggio più bello del mondo… con tanta innocenza di querce, colli, acque e botti, e lì comporre musica, l’unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà”. Ed è bello sapere che è stato ricordato anche con la musica da musicisti italiani, De Andrè e De Gregori, Roberto De Simone e Renato Zero; e stranieri.
E’ impressionante come la sua produzione letteraria spazi dalla poesia all’intero scibile letterario. Oltre a “Le ceneri di Gramsci” tra le tante raccolte poetiche citiamo “Il canto popolare” e “Poesia in forma di rosa”,“Poesia dimenticata” e “La meglio gioventù”, che sarà poi il titolo del noto film-evento di Marco Tullio Giordana; per il teatro “Affabulazione”, oltre alle traduzioni da Eschilo e Plauto, da testi greci e latini, anche francesi volti perfino in friulano. I suoi saggi si muovono tra la letteratura e la cultura, la politica e la società: non soltanto testi letterari come “Antologia di liriche pascoliane”, anche “Antologia di musica popolare, il canzoniere italiano,”; e non disdegnò collaborazioni giornalistiche che diventarono subito degli eventi, come gli “Scritti corsari” del 1973-75 sul “Corriere della Sera” premonitori dell’incattivirsi di quel volto della periferia romana da lui tanto amato in un identikit che doveva rivelarsi tristemente premonitore, la sua morte violenta venne subito dopo.
Ripensiamo alla narrativa, con “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, “Il sogno di una cosa” e “Teorema”, fino al postumo “Petrolio”; e alla cinematografia, sua grande passione – aveva iniziato come comparsa a Cinecitta – con “La notte brava” e “Accattone”, “Mamma Roma” e “Il Vangelo secondo Matteo”, in cui affronta un tabù e lo supera con una struggente rivisitazione, “Uccellacci e uccellini”, lettura impietosa della crisi di un partito e di una politica anch’essa da lui amata ma che non riconosceva, ed “Edipo Re”, fino a “Porcile”. Creò un filone in costume, in mano ad altri presto scaduto in farsa erotica, con “Il Decameron” e “I racconti di Canterbury”, “Il fiore della Mille e una notet” e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Anche la sua posizione ideologica aveva radici fortemente umane: “L’altro è sempre infinitamente meno importante dell’io, ma sono gli altri che fanno la storia”, ha scritto, e anche per questo non si rinchiudeva nell’individualismo ma cercava la socialità.
Torna alla nostra mente la visita che facemmo qualche tempo fa all’Idroscalo di Ostia, dove andammo per cercare il luogo della sua morte. Avemmo la bella sorpresa di trovarvi un piccolo mausoleo di cui non conoscevamo l’esistenza: meritevole l’iniziativa, meno la scarsa diffusione della notizia, e ancora meno lo stato di totale abbandono in cui trovammo l’area pur se opportunamente attrezzata per la sosta dei visitatori, le erbacce l’avevano invasa ovunque deturpandola. Dovremo tornare all’Idroscalo dopo esser stati virtualmente in via Fonteiana portati dalle fotografie della Cillario. E speriamo ci vadano in tanti prima o dopo aver visitato la mostra.
Il percorso sacrificale di una “vittima esemplare”
Amava la vita, nelle “Ceneri di Gramsci” scrive: “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ d’abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?” Una raccolta di suoi saggi dal 1948 al 1958 si intitola “Passione e ideologia”, le coordinate cartesiane della sua stessa esistenza.
Ripensiamo alla sua fine, tra l’1 e il 2 novembre 1975, il giorno dei morti, “festa triste e dolce insieme che ricorda tante cose al cuore d’ognuno”, era il titolo del tema che ci fu dato all’esame di ammissione alla scuola media. Federico Zeri la paragonò alla misteriosa morte di Caravaggio: “In tutti e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta da loro stessi”. E Alberto Moravia: “Egli ne aveva già descritto, nelle sue opere, le modalità squallide e atroci”.
Lasciamo via Monserrato, adiacente a piazza Farnese con il grande palazzo monumentale. E’ una strada con laboratori e boutique d’arte, anche il piccolo bar ha una scultura nella vetrina. Ma non è tanto questo a rendere la sede appropriata per rendere onore a un grande come lui; ci colpisce la scritta sulla lapide posta nella facciata di un palazzo:“Carcere di Corte Savello, 11 settembre 1589: “Beatrice Cenci da qui mosse verso il patibolo/ vittima esemplare/di una giustizia ingiusta”.
Portare qui via Pompeiana con le fotografie di Monica Cillario è come aver accostato i due percorsi sacrificali, l’inizio di un itinerario che doveva concludersi altrettanto tragicamente: anche Pasolini è stata la “vittima esemplare” di un imbarbarimento tipico dei nostri tempi, ingiusto e spietato.
Ph: alcune immagini sono state riprese alla mostra da Romano Maria Levante, altre sono state fornite direttamente dall’autrice Monica Cillario che si ringrazia.
E’ inconsueto dedicare un articolo a una persona, ma in questo caso è qualcosa di più: si tratta di un’identificazione. Nell’ultimo anno ha provato le inenarrabili sofferenze di Frida Kahlo, con gli insopportabili dolori alla schiena, dopo aver subito anche la gabbia del busto rigido toracico per una frattura a una vertebra con relativo intervento; poi l’emorragia massiva allo stomaco, fino alla positività al Covid nella clinica post-acuzie con il lieto fine della provvidenziale correzione in negativa dell’analisi nella verifica all’ingresso di un reparto Covid: cinque mesi in sei ospedali più una terapia intensiva, inframmezzati da due ritorni a casa tra tante sofferenze. In queste parentesi, anch’esse non certo liete, lei della sua eroina ha di nuovo visto i film in Tv sulla sua vita, riletto i cataloghi, finché è giunto il catalogo della mostra di Sansepolcro che ha guardato con grande interesse proprio mentre ne ripercorreva la vita. Ho scritto la recensione col cuore in gola nella settimna di passione dal 20 agosto scorso per un imprevedibile repentino precipitare della situazione. Per questo intendo aprire il ricordo di Frida Kahlo con il quadro “Le due Fride”, opera dall’artista nel 1939, del quale viene presentata la copia realizzata in segno di omaggio dal pittore cinese Xu De Qi: in una delle “due Fride” vedo la persona che l’ha tanto amata e ha provato in questi mesi le sue sofferenze mentre continuava a interessarsi alla sua eroina, una persona raffinata e sensibile che ha fatto della passione per l’arte e la cultura l’alimento della propria vita, insieme alla vicinanza agli ultimi, che ha aiutato come ha potuto con il suo spirito caritatevole. E’ finalmente tornata a casa, nella sua Itaca, dopo l’inenarrabile odissea, superando mille avversità. Ho atteso questo momento felice e festoso per pubblicare l’articolo scritto nel momento più infelice e angoscioso della rianimazione. E anche a lei rivolgo le parole per Frda Kahlo con cui concludo l’articolo, “non la dimenticheremo”, “non dimenticherò”: non dimenticherò come hai lottato, la dedica di questo articolo è nulla rispetto a quanto meriti per la tua forza d’animo e il tuo coraggio, sorretta dall’amore per la cultura, mia carissima Rosemary,
Al Museo civico di Sansapolcro, Arezzo, dal 16 maggio al 13 ottobre 2021 la mostra “Frida Kahlo. Una vita per immagini” presenta un centinaio di fotografie, la maggior parte originali, dell’artista messicana, ripresa soprattutto da sola con i pittoreschi abiti del suo paese, in alcune immagini con il celebre creatore di “murales” Diego Rivera, che sposò, e anche altri, per lo più in posa ricercata a marcare la propria immagine di vita, più che la propria caratura di artista, anche per questo divenuta icona femminile inquieta e ammirata su scala mondiale. Promossa dal Comune di Sansepolcro, sindaco Mauro Cornioli, in collaborazione con Civita Mostre e Musei, presidente Alberto Rossetti, e con Diffusione Italia International Group, a cura di Vincenzo Sanfo, presidente del Centro Italiano per le Arti e la Culttra, ha curato anche l’analoga mostra nel 2018 a Noto in Sicilia e nel 2014 a Barolo in Piemonte, portando le immagini della Kahlo in piccoli ma qualificati centri, come ora Sansepolcro. Catalogo Papino Art, bilingue italiano-inglese, a cura di Vincenzo Sanfo.
“Delicato e martoriato il corpo, fiero ed impetuoso lo spirito, una grande artista ed una grande donna, questo e molto altro è stata Frida Kahlo”, così si apre la presentazione di Alberto Rossetti, presidente di Civita Mostre Musei. “Frida Kahlo non è solo un’artista, è ormai una sorta di leggenda, che ha travalicato la storia dell’arte per entrare nel mito”, commenta il curatore grande conoscitore della Kahlo Vincenzo Sanfo e aggiunge: “Un mito che si alimenta di un’aura misteriosa e terrifica nelle sue vicende umane che sono, in fondo, la parte più importante di un percorso che attraversa è vero anche l’arte, ma che non ne costituisce l’aspetto principale”. E il sindaco Alberto Rossetti: “Questa mostra intende ripercorrere la sua vicenda biografica grazie alla straordinaria opportunità di compiere il viaggio con l’obiettivo di grandi fotografi, con alcuni dei quali Frida ha avuto anche un rapporto sentimentale, da inquadrare nel rapporto turbolento con Diego Rivera, fatto di passioni e di reciproci tradimenti”.
Così ci sembra di aver inquadrato a nostra volta la mostra che, partendo dalle immagini di vita, suscita un vivo interesse ad approfondire i motivi della sua esistenza che ne hanno fatto un’icona mondiale. Abbiamo parlato della sua arte in tre articoli di commento alla mostra romana nel 2014 alle Scuderie del Quirinale, nella quale i suoi dipinti mostravano la traduzione a livello pittorico dei motivi esistenziali alcuni dei quali, particolarmente significativi, troviamo evoati nelle fotografie esposte in mostra; quindi non torniamo su quei temi, anche se faremo un breve excursus sui suoi dipinti e anche disegni maggiormente collegati alle vicende della sua vita.
La sua formazione
Prima di focalizzare i principali morivi che ne caratterizzano il percorso di vita, qualche accenno alla sua formazione scolastica e del carattere, come premessa di un’esistenza movimentata, dalle sofferenze per la salute minata da infortuni e malattie, all’impegno politico militante anch’esso agitato, agli amori nei quali pure si alternano gioie e dolori, con attaccamento e allontanamento dall’uomo della sua vita.
La formazione del carattere l’ha avuta nella scuola tedesca che l’ha forgiata dandole una evidente resistenza ai colpi che subirà nella sua vita; e non è stata singolare tale scelta del padre per una nata nel 1907 nei sobborghi di Città del Messico, trattandosi di Wilhelm Kahlo, tedesco proveniente da Baden Baden, che con l’aiuto del proprio padre si era affermato come fotografo americanizzando il nome in Guillermo. Da lui Frida deve aver colto anche la predilezione per certe pose plastiche, quasi scultoree, sia quando viene ripresa da celebri fotografi, come si vede in mostra, sia quando dipinge gli Autoritratti. Frida è la 3^ figlia delle 4 avute da Guillermo dalla seconda moglie Matilde Calderòn y Gonzales – le altre sono Matilde, Adiana e Cristina – mentre la prima moglie, Maria Cardena, era morta dando alla luce la 2^ figlia Margarita dopo Maria Luisa.
Nella formazione scolastica superiore un’altra particolarità: nel 1922 viene ammessa alla prestigiosa scuola che immette all’università, la “Preparatoria”, su 2000 studenti è una delle 35 ragazze che ha come compagni i rampolli più brillanti della borghesia messicana, come i Cachucas, con i quali si intende meglio degli altri. Non si impegna molto nello studio, ma i suoi interessi culturali e le sue qualità intellettuali le fanno avere ugualmente buoni risultati scolastici. Nella “Preparatoria”, nello stesso 1922, l’incontro per lei decisivo.
La sua ricerca dell’amore
Da questo incontro prendiamo l’avvio per entrare nel suo percorso di vita, passando dalla iniziale formazione all’esistenza, con i suoi amori, soprattutto il suo grande amore: Diego Rivera, il celebre creatore di “murales” il quale, incaricato di affrescare le pareti della “Preparatoria”, suscitò il suo interesse, immediatamente ricambiato. Scrive Rivera nella sua Autobiografia che lei, quindicenne, gli chiese: “Le do fastidio se la guardo lavorare?”, e lui, 36 enne, le rispose: “No, signorina, ne sarei incantato”, e lo fu veramente, tanto che la descrive così: “Aveva dignità e una sicurezza di sé del tutto insolite per una ragazza della sua età e negli occhi le brillava una strana luce”, e aggiunge: “La sua era una bellezza infantile eppure aveva seni ben sviluppati”.
Questa prima scintilla non ha un seguito immediato, ma accende il fuoco dell’amore nel secondo incontro con Rivera sei anni dopo nella sede del Partito comunista al quale lei si iscrive nel 1928 come tanti intellettuali tra cui il pittore di “murales”. Si sposano l’anno successivo, il 21 agosto 1929. Lo segue nel 1933 a New York dove lui è chiamato per realizzare delle opere e per esporre al MoMA, ma dopo che nel 1934 lui ha una relazione con la sua sorella minore Cristina Kahlo, nel 1935 se ne separa e lascia la “Casa Azul”, la sua “casa blu” a Coyoacàn, per vivere da sola. Però non riesce a dimenticarlo, neppure aiutata da una relazione con lo scultore nippo-americano, perché nel 1936 torna a vivere con lui nella “Casa Azul”.
L’anno successivo vi ospitano Leon Trotsky e la moglie Natalia Sedava, esuli dalla Russia dove il grande rivoluzionario sovietico è caduto in disgrazia con Stalin; è il 1937, arrivano anche André Breton e la moglie, Jacqueline Lambda, fanno un viaggio nel Messico insieme, sembra che ci sia stata una relazione tra Frida e Trotsky. Ma il 21 agosto 1940 il rivoluzionario, che continuava a disturbare Stalin con il suo impegno politico pubblico, é assassinato nella abitazione da Ramon Mercader, che si era guadagnata la fiducia dell’entourage e di Trosky per entrare nella residenza superblindata e colpirlo a morte sulla fronte con una piccozza. In questo 1940, dal riavvicinamento e la riconciliazione con Rivera arriva a un nuovo matrimonio con lui l’’8 dicembre, tornano a vivere nella “casa blu” di Coyoacàn. Una vita sentimentale movimentata la sua, non mancano gli amori con grandi fotografi, come Nicholas Muray di cui sono esposte le fotografie fatte a lei.
La sua milizia politica
Intrecciato al rapporto di una vita con Diego Rivera, l’impegno politico di Frida, da sola o con lui. Nel 1928, con l’iscrizione al Partito comunista – di cui faceva parte l’artista dei “murales” insieme al gruppo di intellettuali intorno a Tina Modotti, e Julio Antonio Mellas – l’incontro decisivo dopo la prima “scintilla” alla “Preparatoria” sei anni prima , come sopra ricordato. Rivera la raffigura nell’affresco “La ballata della rivoluzione” come eroina-simbolo mentre dà le armi ai combattenti con una stella sulla camicia rossa. Nell’agosto 1929 si sposano, lui ha ricevuto incarichi pubblici, tra cui dipinti per il Palacio National di Città del Messico, per la Secretaria de Salud e per il Palacio de Cortés a Cuernavaca, e a settembre viene espulso dal Partito comunista mssicano con l’accusa di essere vicino al governo che aveva messo fuori legge il partito. Successivamente anche lei ne uscirà, mentre nasce il Partito nazionale rivoluzionario, fondato da Calles.
La troviamo impegnata nel 1936 a sostenere la riforma agraria in Messico con l’esproprio dei latifondi, la distribuzione delle terre ai contadini e la nazionalizzazione di importanti settori economici. Viene posta sotto stretta sorveglianza dalla polizia nel 1940 perché conosceva l’assassino di Trosky, va a curarsi negli Stati Uniti, a San Francisco. Si avvicina di nuovo al Partito comunista, da cui era uscita, nel 1941 quando i tedeschi invadono la Russia e Stalin si oppone fortemente a Hitler; fino a iscriversi di nuovo nel 1948.
Intanto, nel 1947, per le grandi riforme e la modifica della Costituzione messicana, Rivera con altri fonda la Commissione per la pittura murale dell’Instituto Nacional de Bellas Artes, e nei suoi murales rappresenta Frida come vestale e madre protettiva: nel murale “Sogno di un domenica pomeriggio nel parco Alameda” la raffigura dietro di lui mentre gli appoggia la mano sulla spalla e tiene nell’altra mano il simbolo Yin-Yang.”
Nel 1952 organizza una raccolta di firme a sostegno del Congresso internazionale della pace contro gli esperimenti atomici. Rivera inserisce la sua immagine nel murale realizzato quell’anno, “L’incubo della guerra e il sogno della pace”. L’impegno e la militanza politica crescono negli ultimi anni, con vera devozione per il Partito nonostante i contrasti del passato, lei vede nell’ideologia comunista una spinta positiva per il futuro dell’umanità, e afferma: “Capisco il materialismo dialettico di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse Tung. Li amo perché sono i pilastri del nuovo mondo comunista”.
Per l’ammirazione che aveva di lui, la morte di Stalin il 4 marzo 1953 è un brutto colpo al suo equilibrio già instabile per le troppe sofferenze che dal corpo si sono trasferite allo spirito, non pitture ma disegni allucinati. All’inizio del 1954 partecipa persino a una dimostrazione di solidarietà contro la destituzione del presidente del Guatemala Arbenz Guzmàn, mentre è ancora convalescente dopo una broncopolmonite. E’ l’ultima sua iniziativa politica, muore il 13 luglio di tale anno nella “Casa Azul” di Coyoàcan, a soli 47 anni.
Al Palazzo delle Belle Arti si svolge la veglia funebre con un picchetto d’onore e l’omaggio di amici e compagni che sfilano senza interruzione davanti alla bara coperta da una bandiera rossa con falce e martello all’interno di una stella bianca. Le ceneri sono conservate in un vaso precolombiano nella sua “Casa Azul”, che dal 1958 è un museo pubblico a lei dedicato.
La sua salute martoriata
La broncopolmonite del 1954 è l’ultimo momento, prima della morte, di un calvario iniziato nel 1913, a sei anni di età, con una poliomielite che la tenne per nove mesi a letto e le offese una gamba rendendola claudicante, i compagni di classe la soprannominarono “Frida pata de palo”, cioè “gamba di legno”.
Ma l’evento traumatico che incise profondamente non solo sul suo fisico ma anche sulla sua psiche, lo ebbe il 17 settembre 1925, a 18 anni, quando fu coinvolta in un grave incidente sull’autobus in cui si trovava, investito da un tram, ci furono diversi morti. Lei lo ha descritto così: “In quel momento non mi resi conto dello shock, non riuscii nemmeno a piangere, l’urto ci catapultò tutti in avanti e un corrimano mi trafisse la schiena allo stesso modo che una spada trafigge il toro”. Una lunga e dolorosa convalescenza la sua, durante la quale comincia a dipingere, iniziando la serie degli “Autoritratti”.
Anche i momenti felici dell’unione con Rivera – alternati a crisi e abbandoni reciproci – non vengono risparmiati dai suoi problemi fisici. Nel 1930 prima interruzione di gravidanza per postura scorretta delle ossa del bacino, è l’anno del loro trasferimento a New York, seguita da un’altra interruzione nel 1932 a Detroit nell’Ospedale Henry Ford, cui dedica un dipinto. Si sfoga così: “Nonostante tutto ho voglia di fare molte cose e non mi sento ‘delusa dalla vita’ come nei romanzi russi”. Terza interruzione di gravidanza nel 1934 con ulteriori complicazioni per la sua salute, e problemi personali: la relazione di Rivera con la propria sorella alla quale seguirà la separazione l’anno successivo, dopo la morte della madre nel settembre dell’anno precedente.
Nel 1940 va di nuovo negli Stati Uniti, a San Francisco, per curarsi, lo prescrive il suo medico dott. Eloesser, ha una compensazione nel riconciliarsi con Rivera, ma l’anno successivo la morte del padre le arreca un nuovo dolore. Le sue condizioni di salute restano precarie al punto che è costretta a tenere le lezioni della Scuola d’arte di cui ha avuto l’insegnamento non nella sede scolastica ma nella “Casa Azul”: un insegnamento innovativo il suo, non solo la parte tecnica ma lo stimolo alla creatività con autodisciplina unita ad autocritica, e dimostra l’una e l’altra impegnandosi nella pittura e nell’attività politica.
Operazione chirurgica alla colonna vertebrale nel 1946, ma ancora una compensazione nel Premio nazionale di pittura che le viene conferito, partecipa alla premiazione con il corpo bloccato da un busto insopportabile. “Peggioro ogni giorno di più – si legge nella sua lettera del 24 giugno al dott. Eloesser – all’inizio non riuscivo ad abituarmi perché è una cosa infernale adattarsi a questo apparecchio. Non riuscivo più a lavorare, perché anche i movimenti più insignificanti mi stremavano”. Segue un nuovo intervento chirurgico alla colonna vertebrale, prende morfina per i dolori, le dà allucinazioni, ma continua a dipingere anche quando non può muoversi con opere che riflettono la sua sofferenza; continuerà con la morfina anche dopo.
Ricoverata in ospedale per quasi 9 mesi nel 1940, subisce diversi interventi chirurgici ma non lascia la pittura: dopo il 6° intervento, dei 7 subiti, ricomincia a dipingere per 4-5 ore, anche quadri sereni pur in una situazione di sofferenza: “Ho un busto di gesso che mi procura dei fastidi spaventosi, ma aiuta la mia spina dorsale a stare meglio, non ho dolori, ma sento una grande stanchezza e disperazione” scrive, aggiungendo: “E’ un disperazione che non riesco a descrivere con le parole, ma nonostante tutto ho una grande voglia di vivere”. E di dedicarsi alla pittura: “Ho ricominciato a dipingere un piccolo quadro per il dottor Ferilli, e lo sto facendo con tutto l’affetto che provo per lui”. L’anno successivo può dipingere soltanto aiutandosi con antidolorifici e il suo tratto pittorico ne risente, colori più carichi, segno sfuggevole, minori dettagli.
Nel 1953, pur immobilizzata a letto, non vuole mancare all’inaugurazione della sua prima grande personale in Messico, organizzata da Lola Alvares Bravo, e si fa trasportare in barella fino a un letto in galleria, esiste solo una fotografia di lei in costume messicano con gioielli tipici circondata da amici, perché i fotografi commossi lasciano le fotocamere a terra e non hanno il coraggio di riprenderla così. Si aggrava il calvario, nel mese di agosto le viene amputata la gamba destra dopo dolori insopportabili, riesce a rimettersi in piedi con una protesi, ma la psiche vacilla: “Ho sempre il desiderio di uccidermi, solo Diego mi trattiene dal farlo. Mi sono messa in testa che potrei mancargli, me l’ha detto lui e gli credo. Ma mai nella mia vita ho sofferto così tanto”. Però non manca il finale meno disperato: “Aspetterò ancora un po’”. Infatti è capace ancora di dipingere.
La sua arte
La sua arte non è oggetto della mostra che vuole evocare la sua vita con le immagini fotografiche, ma non possiamo mancare di citare alcune opere che segnano i diversi momenti della sua esistenza, tra l’impegno politico e i problemi di salute.
Nel 1926, dopo il terribile incidente nell’autobus del settembre 1925, il suo primo quadro, un “Autoritratto” in vestito di velluto. Dopo la seconda interruzione di gravidanza in America del 1932 il ben noto dipinto ”Ospedale Henry Ford”. Anche le traversie sentimentali le esprime in pittura, dopo la prima separazione da Rivera del 1935 crea l’inquieto, definito “cruento”, “Qualche piccola punzecchiatura“.
Grande successo in America nel 1938, con la prima personale alla Julien Levy Gallery di New York, vende quasi tutte le opere esposte e riceve commissioni, Clare Boothe Luce addirittura vuole che ricordi con un dipinto l’attrice amica Dorothy Hale, suicidatasi. Nel 1939, dopo la seconda separazione da Rivera, opere tormentate, “Le due Frida” e “L’Autoritratto con i capelli tagliati”, l’anno dopo risposerà Diego.
Intanto nel 1939 espone a Parigi alla Gallerie Renou et Colle, dopo i contatti con i Surrealisti anche tramite l’amico Marcel Duchamp, e il Louvre acquista il suo dipinto “La cornice”. Un’opera del 1941 marca due momenti angosciosi, l’invasione tedesca della Russia e la morte del padre: in ”Autoritratto con Bonito” si ritrae in camicia nera in segno di lutto per il padre e le vittime della guerra, la scimmia Bonito sulla sua spalla evoca la perdita dell’animale cui era legata.
Nel 1946 l’opera freudiana “Mosè”, che riceve il Premio internazionale di pittura, esprime la sua reazione alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki con un terzo occhio sulla fronte del piccolo salvato dalle acque, il segno di una saggezza probabilmente da recuperare. Realizza opere che riflettono i suoi travagli personali, in “La colonna rotta” il tormento del busto rigido, ma anche “Albero della speranza mantieniti saldo”, e “Il cerbiatto” o “Il cervo ferito”. E dopo la nuova operazione chirurgica alla colonna vertebrale a New York crea l’opera “Il sole e la vita” con una pianta i cui pistilli sono a forma di lacrime, dov’è un feto tra organi genitali: segno della maternità interrotta.
Esorcizza le sue sofferenze in alcune opere del 1948 e 1949, come “L’amoroso abbraccio dell’Universo. La terra”, il suo Messico del quale figurano elementi mitologici tradizionali, come il sole e la luna, il giorno e la notte, la dea e la terra, e un cane mitico come simbolo della vita e della morte. Nell’ autoritratto “Diego e io”, c’è il simbolo della saggezza nell’occhio di Rivera sulla sua fronte, e l’angoscia nella tristezza del proprio volto e nei capelli che sembrano volerle stringere il collo per soffocarla.
Si è alla metà del secolo, nel 1950 dopo i numerosi interventi alla spina dorsale dipinge l’”Autoritratto con il ritratto del dottor Farill”, che l’aveva curata in ospedale, e scrive: ”Ho ricominciato a dipingere un piccolo quadro per il dottor Farill, e lo sto facendo con tutto l’affetto che provo per lui”. Riprende anche un quadro abbandonato da anni, “La mia famiglia”, con gli antenati e suoi attuali parenti, quasi per cercare una protezione nella sua situazione angosciosa.
Nel 1951, quando riesce a dipingere solo aiutandosi con antidolorifici, realizza la “Natura morta con ‘Viva la vita e il dottor Farill’”, fiori esotici su sfondo rosso dinanzi a un cielo diviso tra giorno e notte, una anguria con la bandiera nazionale espressione del suo patriottismo, con davanti una colomba bianca che esprime il suo anelito alla pace; in “Angurie”, dipinto da Guttuso nel 1986 poco prima della morte avvenuta il 18 gennaio 1987, troviamo lo stesso frutto come inno alla vita, chissà se anche in lei dolorante abbia avuto tale significato! Non mancano neppure espressioni dell impegno politico diretto: “Il marximo guarirà gli infermi”, addirittura un “Autoritratto con Stalin” e un “”Ritratto di Stalin” rimasto incompiuto. E alla morte di Stalin nel 1953 disegni allucinati con lei divisa in due tra luce e ombra o con in mano la colomba della pace, la testa tra linee come lance. In altri disegni ricorrono scritte inneggianti alla pace rivoluzionaria e ai leader del comunismo da lei ammirati: “Pace, rivoluzione”, “Viva Stalin, viva Diego”, “Engels, Marx, Stalin, Lenin, Mao”.
L’ultimo quadro che vogliamo citare è del 1954, l’anno in cui termina la sua vita, dipinto con grandi sforzi:“Autoritratto con Diego sul petto e Maria tra le sopracciglia”, il segno è fuggevole per l’incertezza impressa dai farmaci e dalle droghe. Sempre una grande artista che mette tutta se stessa nella pittura.
La sua immagine
Non potevano esserci queste opere pittoriche nel centinaio di immagini della mostra fotografica, di cui una sessantina riprodotte nel Catalogo, ma è come se fossero evocate dalle foto del suo itinerario di vita, e sono evocati altrettanto i suoi amori, i suoi impegni politici, i suoi problemi di salute, per questo abbiamo voluto farne un’ampia ricostruzione. Quelle esposte in mostra sono immagini serene, la maggior parte delle quali nel costume messicano in tutta la sua forza identitaria, con lei in atteggiamenti che sono quasi pose in cui ostenta sicurezza di sé, in alcune fierezza, in altre dolcezza; le sue sopracciglia non sono unite come nei suoi Autoritratti in cui ha accentuato la loro vicinanza facendone un segno distintivo, per non dire trasgressivo.
Tra quelle del Catalogo, soltanto in poche fotografie è ripresa in gruppi: dal padre Guillermo Kahlo nel 1928 in un ritratto di famiglia con sei parenti; da Bettmann/CORBIS nel 1933 con Diego Rivera e altri tre visitatori in smoking a New York a una mostra di ritratti di Lionel Reiss, nel 1937 mentre l’8 gennaio accoglie Trotsky con la moglie al loro arrivo in Messico a Tampico, con Schachtman, leader del Comitato Comunista Americano insieme a un quindicina di persone, e a Città del Messico lo stesso giorno solo con Schachman, nel 1944 semidistesa sul letto con la testa eretta, sul bordo un uomo che dorme, sono estranei e distaccati, completamente vestiti, è un’immagine ironica; da Lola Alvarez Bravo nel 1940 davanti a due quadri mentre si rivolge a un giovane visitatore; da Leo Matiz in 3 immagini, 2 del 1941, di cui una con Rosa e Cristina, l’altra con Diego, Cristina e Miguel Covarrubias, una del 1943 con un venditore di tessuti; fino alla fotografia di Gisele Freund del 1951, insieme al dottor Farill e il quadro in cui lo ritrae con lei.
Le altre fotografie in cui non è sola la mostrano con Diego Rivera, sono una diecina. Vengono ritratti insieme da Victor Reyes nel 1929 dopo il matrimonio, lui corpulento in piedi, lei sottile seduta, sembrano proprio ’”l’elefante e la colomba”, come sono stati chiamati; da Manuel Alvarez Bravo nel 1930 seduti su due poltrone affiancate, lui tende la destra verso il braccio di lei, e nel 1939, lei seduta su una poltrona e lui sul bracciolo che le cinge le spalle con il braccio sinistro; da Bernard Silberstein nel 1934 seduti affiancati in posa rilassata, nello studio di Diego, nel 1940 mentre dipinge il suo “Autoritratto” con Rivera in piedi alle sue spalle che la guarda, e il giorno delle loro seconde nozze, mentre lei tiene la mano destra sulla spalla di lui che scrive, sono seduti affiancati su un divano; Emmy Lou Packard li ritrae nel 1941 a “Casa Azul” con lui seduto davanti a una tavola imbandita e lei in piedi che gli bacia amorevolmente la testa; citiamo qui, per vicinanza ideale, l’unica fotografia scattata da Diego Rivera, forse lo stesso giorno, in cui Emmy Lou le cinge le spalle con un braccio mentre sono seduti nel giardino della casa.
Ed ora le immagini in cui è sola, nel Catalogo sono circa 40, una metà a mezzo busto, una diecina a figura intera, altre davanti a dei quadri. La vediamo mentre dipinge “Le due Fride” nella foto di Nickolas Murray del 1938, e nel dipingere “La tavola ferita” ripresa nel 1940 da Bernard Silbrstein che la fotografa anche davanti a una grande vetrina con oggetti e pupazzi di Giuda; nel suo studio con le attrezzature per la pittura e “Le due Fride” nella parete di fondo, ripresa da Fritz Henle, vi associamo 2 foto, entrambe a figura intera, di Manuel Alvarez Bravo del 1944 alla mostra di Picasso dinanzi a due quadri dell’artista, lei è in piedi davanti al quadro di una figura femminile e seduta comodamente davanti a una figura in posa acrobatica, ironia forse?
Le foto a mezzo busto iniziano con quella scattata nel 1926 dal padre Guillermo Kahlo, che la ritrae altre due volte, la prima vestita in nero, la seconda in chiaro, dopo la morte della madre nel 1932, anno in cui abbiamo anche una foto di Carl Van Vechten a New York con un vaso caratteristico sulla testa; del 1930, 2 foto a San Francisco, una di Imogen Cunningham con un semplice scialle scuro, l’altra di Edward Weston agghindata con al collo tre giri di una collana molto grossa, mentre a è del 1933 la foto di Lucienne Bloch che la ritrae a New York mentre morde una collanina chiara, e le 2 della stessa fotografa, del 1935, con una bottiglia di Cinzano e un centrino in testa; compunte le 2 ’immagini del 1937 di Fritz Hehle, che la riprende all’uscita dalla chiesa, in figura intera e in un primo piano del volto con lo scialle che le copre i capelli, dolcissima quella del 1938 mentre accarezza la sua capretta Granizo, di Nickolas Muray, che la ritrae nello stesso anno in una posa seducente; la capretta è con lei anche nella foto del 1940 di Bernard Silberstein che la mostra seduta in camera da letto con dietro il letto a baldacchino, mentre nel 1941 la riprende da vicino con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo verso sinistra, e non frontale come di solito; nello stesso anno Florence Arquin immortala il corsetto di gesso da lei indossato con una vistosa falce e martello.
Del 1941 anche 4 foto di Leo Matiz, le più distensive perché la vedono sdraiata al sole su un prato con le braccia dietro la testa, l’ultima a figura intera. Dopo la foto davanti al suo studio con in braccio una scimmia – che troviamo anche nei suoi dipinti – di Fritz Henle nel 1943, la vediamo con le trecce annodate sulla testa appoggiata al bracco sinistro e lo sguardo verso destra nella foto del 1944 di Bettmann/CORBIS, altrettanto serena, come nella foto di profilo di Sylvia Salmi dello stesso anno e in quella del 1945 di Lola Alvares Bravo, un’altra in camera da letto, mentre nel 1946 Leo Matiz la riprende severa come una figura statuaria in un’immagine potente per il controluce e il taglio obliquo. Nel 1949, 2 foto molto diverse: seduta nello studio con gli scaffali di libri e il telefono a muro nella foto serena di Mario Guzman; distesa mentre gioca con il suo cane, nella foto tenera di Hector Garcia, che l’anno dopo, nel 1950, la ritrae invece scura nell’abito e nel viso.
Le altre fotografie a figura intera oltre quelle già citate, la mostrano in pittoreschi abiti del suo Messico, così la riprende Manuel Alvarez Bravo nel 1938 con a lato il globo, così Leo Matiz nel 1941 e nel 1943 e Juan Guzman nel 1950 con due colombe.
Concludiamo la galleria con due immagini simboliche, quella del 1950 di Juan Guzman distesa nel letto d’ospedale, ma non con le impressionanti allucinazioni di certi suoi dipinti e disegni, bensì con in mano uno specchio, simbolico omaggio alla femminilità, e quella del 1954 di Lola Alvarez Bravo nel letto di morte: chiudono un percorso evocativo quanto mai espressivo ed emozionante.
Ma non vogliamo terminare con immagini angosciose, bensì con le sue belle parole dopo la grande personale in Messico del 1953 alla quale si fece portare in barella nel letto in galleria contro il parere dei medici: “C’era tanta gente al vernissage e tante congratulazioni da tutti per la ‘chicua’, tra le altre un grande abbraccio da Juan Mirò e tante lodi per i miei quadri da Kandiskij, congratulazioni anche da Picasso e Tanguy, da Paalen e dagli altri gran caca del surrealismo. Insomma, posso dire che è stato un successo e, tenendo conto della qualità del pubblico, credo che tutto sia andato piuttosto bene. La vostra ‘chica’ che non vi scorda mai. Frida”.
E nemmeno noi potremmo mai dimenticarla.
Info
San Sepolcro, Arezzo, Museo Civico, via Niccolò Aggiunti 65. Orario giovedì-domenica, 10-13,30 e 14,30-19, biglietteria aperta fino a 20 minuti prima della chiusura quotidiana. Ingresso, intero euro 12; ridotti: 9 euro per gruppi oltre 10 persone, per età 19-25 anni; 5 euro per età 11-18 anni; gratis per under 10, disabili con accompagnatore, e altre categorie. Info e prenotazioni Tel. 0575.732218, mostrasansepolcro@gmail.com. Catalogo “Frida Kahlo. Una vita per immagini”, Papiro Art, aprile 2021, pp.48, formato 17 x 24, bilingue italiano-inglese, dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo. Cfr. in www.arteculturaoggi.com i nostri articoli: per la mostra romana delle opere di Frida Kahlo alle Scuderie del Quirinale, l 2 marzo, 12, 16 aprile 2014; per gli artisti citati nel testo, Picasso, 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Duchamp 16 gennaio 2014, Guttuso 20, 30 gennaio 2013, 25, 30 gennaio 2015, 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, 16 ottobre 2017, Mirò 15 ottobre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Dada e surrealisti 4, 7 gennaio 2010, Picasso 4 febbraio 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, disponibili, saranno trasferiti su altro sito).
Foto
Le immagini delle fotografie esposte in mostra, che sono nserite nel testo in ordine cronologico e coprono un quarto di secolo dal 1926 al 1950, sono tratte dal Catalogo: si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti e Civita Mostre Musei che lo ha cortesemente fornito, per l’opportunità offerta. In apertura,“Le due Frida” 1939, nella copia-omaggio del pittore cinese Nu De Qi; seguono, “Frida Kahlo a diciotto anni” Messico 1926 di Guillermo Kahlo, e “Diego Rivera e la sua sposa” Messico 1929 diVictor Reyes; poi, “Frida Kahlo” San Francisco 1930 di Edward Weston, e “Frida Kahlo e Diego Rivera” 1930 di Manuel Alvarez Bravo; quindi, “Frida conVaso Tehantepec sulla testa” New York City 1932 di Carl Van Vechten, e “Frida” Messico 1932 di Guillermo Kahlo; inoltre, “Frida morde la sua collana” New York City 1933 di Lucienen Bloch, e “Frida Kahlo e Diego Rivera nello studio di Diego” Messico 1934 di Bernard Silberstein; ancora, “Frida Kahlo all’uscita dalla chiesa” Coyoacàn Messico 1937 di Fritz Herle, e “L’arrivo di Trotsky in Messico, accolto con la moglie da Frida Kahlo e Schachtman, leader del Comitato Comunista Americano” Tampico Messico 1937 Bettmann/CORBIS; continua, “Frida con il globo” Coyoacàn Messico 1938 di Manuel Alvarez Bravo, e “Frida e Diego con la maschera antigas” Messico circa1938 di Nickolas Muray; prosegue, “Frida con Granizo” Messico c.a 1938 di Nickolas Muray, e “Frida mentre dipinge ‘Le due Frida’” Messico c.a 1938 di Nickolas Muray; poi, “Frida Kahlo” Messico 1939 di Nickolas Muray, e “Frida con oggetti di terracotta e pupazzi di Giuda” Messico c.a 1940 di Bernard Silberstein; quindi, “Frida dipinge il suo autoritratto mentre Diego Rivera la guarda” Messico c.a 1940 di Bernard Silberstein, e “Frida ad una mostra” Messico c.a 1940 di Lola Alvarez Bravo; inoltre, “Frida Kahlo mentre dipinge ‘La tavola ferita” Messico 1940 di Bernard Silberstein, e “Frida Kahlo” Xochimilco Messico 1941 di Leo Matiz; ancora, “Frida Kahlo indossa un corsetto di gesso decorato con falce e martello” Messico c.a 1941 di Florence Arquin, e “Frida sdraiata al sole” Xochimilco Messico 1941 di Leo Matiz; continua, “Frida Kahlo” Messico 1941 di Bernard Silberstein, e “Frida Kahlo e Diego a Casa Azul” Coyoacàn Messico 1941 di Emmy Lou Packard; prosegue,“Frida Kahlo a Casa Azul” Coyoacàn Messico c.a 1941 di Leo Matiz, e “Frida nel suo studio” Messico c.a 1943 di Fritz Herle; poi, “Frida davanti al suo studio con una scimmia” Messico 1943 di Fritz Herle, e “Frida Kahlo” Messico 1941 Bettmann/CORBIS; quindi, “Frida Kahlo alla mostra di Picasso” Messico 1944 di Manuel Alvarez Bravo, e “Frida Kahlo” Messico 1946 di Leo Matiz, infine, “Frida Kahlo nel letto di ospedale con in mano uno specchio” Messico 1950 di Juan Guzman e, in chiusura, “Frida Kahlo con due uccelli” Messico 1950 di Juan Guzman.
Ieri abbiamo ripubblicato il primo dei nostri due articoli, uscito il 20 luglio 2013 nel sito web www.arteculturaoggi.com, sull’annuale mostra fotografica nella chiesa dei Santissimi Martiri dell’Uganda; ora ripubblichiam l’articolo del 23 ottobre 2015, precisamente ieri sono stati sei anni. L’intento è colmare il vuoto dato dall’assenza della mostra quest’anno per la pandemia, e così rispondiamo anche al richiamo del ministro Franceschini che tre giorni fa, il 21 ottobre, ha dichiarato al summit UE-Africa per le piccole e medie imprese alla Galleria Nazionale di Roma: “Mi piacerebbe che, oltre al programma Erasmus, fosse varato un programma nazionale per studenti tra l’Italia e l’Africa, per aiutare lo scambio delle conoscenze: l’unico strumento che può aiutare a superare le diffidenze, aiutare a trovare obiettivi comuni, vivere i problemi dell’altro Paese come fossero i propri. Questa prospettiva è stata al centro dei lavori del G20 cultura, che s’è tenuto lo scorso luglio a Roma”. E ha aggiunto: “Tra Europa e Africa è necessario un lavoro che, oltre i rapporti economici e la costruzione di infrastrutture, vada in profondità, alla radice, che punti alla conoscenza reciproca, agli scambi culturali, in particolare quelli tra i giovani. L’Italia da questo punto di vista riveste un ruolo fondamentale anche grazie alla sua geografia che la pone come una specie di molo naturale nel Mediterraneo”. Il “reportage” fotogarfioco, e non solo, sul villaggio ugandese mostra una realtà che va tenuta ben presente, e non muta nel tempo come si vede dal confronto tra il 2013 e il 2015. Giustissimo promuovere la conoscenza reciproca con scambi tipo Erasmus, e anche tipo le benemerite missioni di questa Parrocchia, ma quando si decideranno i paesi ricchi al Piano Marshall per l’Africa troppe volte evocato, con cui darebbero slancio anche alle loro economie opulente che abbisognano di nuovi sbocchi? La lotta alla pandemia potrebbe accelerare tale processo e nel nostro piccolo, con questi “reportage” religiosi di alto valore civile e umano, vorremmo contribuire a risvegliare coscienze che sembrano addormentate.
di Romano Maria Levante
Una mostra fotografica, a sostegno dei progetti della Parrocchia Santi Martiri dell’Uganda della diocesi ugandese di Lira, dall’11 ottobre al 30 novembre 2015, all’interno della Chiesa dei Santissimi Martiri dell’Uganda, a Roma, quartiere Ardeatino, dall’eloquente titolo “God is Working”, autori Don Ivan, Francesca, Marco, Muffin, del gruppo missionario della parrocchia. E’un reportage appassionato della visita-pellegrinaggio svoltasi nella seconda quindicina del luglio 2015 su iniziativa del parroco don Luigi D’Errico, in Uganda, nella diocesi di Lira, dov’è il santuario dei Santissimi Martiri ugandesi sacrificatisi per la fede voluto da Paolo VI dopo un viaggio sui luoghi del martirio. I martiri sono Carlo Lwanda e 21 giovani ai quali Paolo VI volle dedicare anche la nuova chiesa romana nel quartiere Ardeatino; la consacrazione fu opera di Giovanni Paolo II, fu la prima del suo pontificato.
Ne abbiamo raccontato la storia commentando la mostra dell’estate 2013 nella stessa chiesa, dopo la precedente visita-pellegrinaggio con donDavide Lees. Abbiamo citato le parole di padre Torquato Paolucci, missionario in Uganda,, richiamato in Italia dopo trent’anni, tornato malvolentieri a Roma con il cuore rimasto tra i parrocchiani ugandesi, un “mal d’Africa” religioso il suo.
Le mostre religiose
Questa mostra è un nuovo esempio di come il mezzo fotografico sia idoneo a rendere anche quei concetti e valori di natura religiosa attinenti alla spiritualità interiore piuttosto che alla realtà esteriore che è possibile catturare con l’obiettivo; la forza dello spirito è tale da trasmettersi anche mediante immagini che restano impresse per la loro immediatezza. E’ avvenuto con le mostre fotografiche romane su Giovanni Paolo II, a Piazza Esedra, a Palazzo Valentini e a “Spazio 5”, avviene anche con la mostra attuale.
Pertanto ci soffermeremo sui contenuti spirituali e sui messaggi tramessi senza parlare degli aspetti estetici delle fotografie esposte, delle quali ci limitiamo a sottolineare la qualità: alcune di esse sono di tono pittorico fino a toccare un vero livello artistico. Sono stati bravi gli autori, che le hanno corredate di didascalie utili ad approfondirne i contenuti. C’è un’unità di tempo, oltre che di spazio, nel reportage fotografico, le fotografie sono state scattate tutte nell’ultima decade di luglio 2015, nella diocesi ugandese di Lira.
E’ anche un nuovo esempio di mostre presentate all’interno della chiesa, cosa che avviene in circostanze eccezionali come fu per la mostra “Arché”, con i dipinti di quattro grandi artisti contemporanei in omaggio ai terremotati d’Abruzzo nella basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila dissestata dal sisma; e come è stato per la mostra fotografica di due anni fa in questa stessa chiesa.
La religione è strettamente legata all’arte, essendone il soggetto prevalente soprattutto nell’epoca d’oro della creazione artistica, da Giotto al Rinascimento, dal ‘600 all’ ‘800 e ‘900, per cui le opere ispirate alla religione sono di gran lunga prevalenti nelle mostre d’arte, non considerando l’arte contemporanea che si sbizzarrisce altrimenti. Ma sono poche le mostre dichiaratamente a tema religioso, tra queste vogliamo ricordare le esposizioni d’arte a Illegio sugli “Apocrifi”, ad Ancona nel Congresso eucaristico sull’Ultima cena, “Alla mensa del Signore”; e, prima, a Palazzo Venezia a Roma , su “Il Potere e la Grazia”, imponentemostra tematica sui protagonisti della fede: eremiti e martiri, sovrani cristiani e missionari.
La vicenda eroica dei Santi Martiri ugandesi
Questa mostra fotografica, come la precedente, rimanda ai missionari anche se non è più l’epoca dell’evangelizzazione in continenti inesplorati, ma è altrettanto eroica per i sacerdoti che fanno opera di carità in zone spesso tormentate da guerre tribali, e anche per gli stessi convertiti, come dimostra la storia dell’Uganda che ha avuto martiri cristiani tra i suoi giovani.
Abbiamo già raccontato la loro vicenda eroica, ricordiamo solo i momenti salienti. ‘Nel 1877 le prime predicazioni, poi la penetrazione della parola di Dio al sud con i Padri bianchi, al nord con i Comboniani; quindi il martirio, nel 1885-87 nel sud uccisi Carlo Lwanga e 21 compagni; nel 1918 nel nord i catechisti Daudi Okelo e Jildo Jrwa, tutti giovanissimi.
A loro è dedicata la chiesa romana dove si svolge mostra; Carlo Lwanga, il cui nome è stato dato al teatro annesso alla chiesa, era molto vicino al re, e tanti suoi coetanei di famiglie nobili frequentavano la corte. Ma la fede lo portò a respingere il ruolo di efebo sottomesso ai piaceri del sovrano, e anche i suoi compagni si ribellarono, per questo furono arsi vivi. Pure i due giovani catechisti del nord furono uccisi con protestanti e islamici, in un tragico sincretismo del martirio per fede.
Furono canonizzati nel 1964 da Paolo VI che nel 1969 andò sul luogo del martirio in Uganda, ne fu così impressionato da farvi erigere un Santuario e disporre di dedicare ai Martiri ugandesi la prima delle nuove chiese da costruire a Roma. Il 20 giugno 1970 fu posta la prima pietra al quartiere Ardeatino, nell’11° Municipio, ora 8°, dove si trova il Santuario delle tre Fontane e il sacrario dei Caduti della Montagnola, martiri laici e martiri cristiani celebrati in luoghi vicini; il 26 aprile 1980 la chiesa, con le reliquie dei martiri ugandesi sotto l’altare, fu la prima ad essere consacrata da Giovanni Paolo II succeduto a Paolo VI.
La peculiarità della mostra, un viaggio dell’anima
La mostra di quest’anno non è ripetitiva di quella che abbiamo commentato due anni fa; è la seconda parte di un racconto che ci auguriamo continui nei prossimi anni con immagini e storie altrettanto appassionanti, penetrando sempre di più nella comunità della diocesi ugandese per continuare a comporre un libro della fede e dell’umanità che non può avere mai fine.
Non ci sono questa volta le immagini del santuario ugandese realizzato per volere di Paolo VI sul luogo del massacro, un tempio circolare a capanna con immagini impressionanti delle reliquie; nè le altre istantanee di testimonianza immediata presentate allora il cui valore resta immutato nel tempo. Ma c’è la foto della chiesa della parrocchia africana dei Santi Martiri dell’Uganda, definita la “Casa”.
La nuova mostra – con gli ingrandimenti fotografici collocati, come nell’altra, sulle pareti della chiesa dove sono le stazioni della Via Crucis e davanti all’altare – non è solo la testimonianza della visita in una terra con bellezze naturali straordinarie e un’umanità sorprendente; è un viaggio dell’anima alla scoperta non solo di un altro mondo ma soprattutto del proprio mondo interiore sfrondando gli orpelli fuorvianti del consumismo e andando alla radice dei pensieri, dei sentimenti e dei valori.
E’ stato un modo per entrare in contatto diretto con la povertà, quella vera, non quella che si traduce in una limitazione a certi consumi indotti dai meccanismi economici più che da bisogni effettivi. Così, dicono gli autori, “vi racconteremo come l’estrema povertà si trasforma in uno strumento per conquistare una libertà e una gioia così rare a noi sconosciute da considerarle un mistero”. Nell’estrema povertà, dunque, si può essere liberi e provare una gioia che nessuna società dei consumi può arrecare; questo hanno scoperto i visitatori-pellegrini, e ci raccontano il percorso che li ha tanto coinvolti.
Si sono talmente immedesimati in questo mondo povero ma libero, da offrire come regalo una coppa di termiti, cibo molto apprezzato dalla comunità ugandese, ma quanto mai lontano dal nostro mondo: la foto “Dono” ne dà testimonianza.
Naturalmente l’ottica è religiosa, come rivelano le loro parole: “Nei poveri si incontra Gesù, quello vero, presente, tanto che lo puoi toccare: gli altri intorno si fanno prossimo, e non possiamo più smettere di pensare che ciò che accade ad un nostro fratello ci riguarda”. I laici non credenti incontrano la propria coscienza che dovrebbe sentire vicino il prossimo non meno dei credenti.
Certo, è un altro mondo quello che scorre nella galleria fotografica, la sua alterità è tale da scuotere le coscienze e indurre a profonde riflessioni sull’essere in generale e sul proprio essere in particolare. Le didascalie alle fotografie esposte spiegano cosa c’è sotto le immagini riprese dall’obiettivo, spesso un iceberg tutto da esplorare.
I bambini, e i loro insegnamenti
Innanzitutto i bambini, ne vediamo ripresi due che raccolgono l’acqua per le esigenze della loro famiglia, nella foto intitilata “Sete”. Sono mobilitati per la sopravvivenza laddove nel nostro mondo si dividono tra scuola di nuoto e di tennis, di danza e di ginnastica artistica secondo il sesso e le preferenze, impegnati già da piccoli in una corsa al consumismo sfrenato.
Nonostante tutto i bambini ugandesi sorridono nella loro innocenza , anzi “bastava guardarli per farli sorridere, una faccia buffa, un gesto semplice e i loro occhi si illuminavano”, è questa “la ricchezza delle piccole cose”. La foto intitolata “Sorridi” con le due bambine unite nel sorriso ne è una manifestazione visibile.
Ma c’e una bambina molto piccola che non sono riusciti a far sorridere: “Teneva il muso osservandoci attentamente come può fare un capo”, per questo la foto è intitolata “Il boss”:lei non ha ceduto come gli altri bambini, i quali dopo la diffidenza iniziale che li faceva scappare dinanzi agli insoliti intrusi, non hanno resistito all’offerta di caramelle che è stata la chiave per conquistare la loro fiducia. Torna in mente l’immagine della mostra precedente in cui una piramide di mani si protendeva verso le caramelle offerte da don Davide, la cui statura lo faceva apparire un albero della cuccagna.
Ne nasce una lezione per i visitatori-pellegrini e per tutti: “E’ stato importante per noi imparare a rispettare la paura dell’altro quando fuggiva e a gioire quando tornava”. Di qui l’esortazione: “Non abbiate paura”, è il titolo della sequenza di immagini che mostra il lento avvicinamento al piccolo per conquistarne la fiducia, sono tre foto collocate nella postazione a lato dell’Altare dove si leggono le scritture e il Vangelo e il sacerdote tiene l’omelia nelle funzioni religiose.
Particolarmente toccanti le immagini dei bambini ciechi. L’apposita struttura scolastica dove imparavano l’alfabeto braille per comunicare è stata dissestata dalle violenti piogge, si raccolgono offerte per ripristinarla, mancano solo 2000 euro per i pavimenti, il tetto è stato già riparato. Sorridono con una letizia che è senza dubbio interiore e riesce a sconfiggere la cecità.
“Ora ci vedo” si intitola l’immagine di uno studente cieco della scuola primaria di Ngetta che, “quando ha sentito le nostre voci, si è subito avvicinato a noi facendosi largo con una canna di bambù utilizzata da bastone guida”. Una nuova riflessione: “Forse è vero che non si vede solo con gli occhi”.
D’altra parte, la foto scattata durante una lezione di educazione fisica nella sezione per non vedenti della scuola primaria di Ngetta reca questa didascalia che non richiede commenti: “Una delle due bambine è cieca e l’altra è la sua guida: sapreste distinguerle? Noi abbiamo fatto fatica perché gli studenti ciechi sono perfettamente integrati ed aiutati dagli altri”. Un altro insegnamento, “Affidarsi”, il titolo dato all’immagine edificante.
Ecco il commento: “L’entusiasmo degli studenti di ‘Ngetta Girls’ ha coinvolto tutti noi. La scuola cerca di dare a questi ragazzi una possibilità di studiare e di vivere un’infanzia spensierata e serena”.Nell’immagine “Si vola solo da leggeri” colpiscono i salti di gioia sincronizzati in una sorta di grande girotondo di donne festanti nell’ampia radura intorno ai ragazzi.
C?è anche un bambino che accudisce stabilmente uno più piccolo cieco e ipoudente, Steven Emmanuel, abbandonato dai genitori, lo vediamo piegato su di lui mentre lo lava alla fontana, è un’immagine così eloquente da essere stata scelta come testimonial della mostra, e sigillo della visita, è nel Manifesto posto a lato dell’altare vicino al Crocifisso, oltre che all’ingresso della chiesa. Un piccolo è in primo piano nella foto intitolata “Gesù Bambino”, è sempre Steven Emmanuel, lo incontreremo ancora.
Poi i piccoli invalidi nell’orfanotrofio, di Ngetta, “Babies home”, ce ne sono 16 seguiti da suor Gertrude, suor Francis, suor Mary. Vediamo una bambina con la paresi agli arti, calza due scarpe sinistre, sorride nell’abbraccio, la foto è intitolata “Tienimi con te”.
Un’altra immagine mostra il disabile in carrozzina che si allontana da solo nella campagna, il titolo è “Guardami”. Leggiamo questa riflessione: “Abbiamo avuto l’occasione di incontrare molte persone disabili, ognuna mite nella propria condizione e gioiosa nello stare con noi in semplicità. L’estrema povertà trasforma la condizione delle persone disabili da difficile a drammatica. Rimane esemplare comunque il modo con cui la affrontano”. Un altro esempio, gli insegnamenti proseguono.
Ai bambini viene data una piccola croce e una madonnina ” che li accompagna nella vita e di cui loro vanno fierissimi”, è il commento della foto intitolata “Fede” con un bambino che viene da Ichema. Vediamo anche l’immagine suggestiva del bambino ugandese al’interno della chiesa di Ichema dedicata a Maria, dove i comboniani padre John e padre Ferdinando Moroni: sono dediti all’assistenza dei bambini: il titolo “Rifugio” esprime la protezione offerta dalla fede tramite l’opera dei missionari.
Il bambino crescerà, come cresceranno i bambini i cui volti si affollano festosi e richiamano il grappolo di mani protese verso le caramelle di don Davide nella foto che abbiamo già citato della mostra precedente. “Apwayo” il titolo, nella lingua locale significa “grazie” ed è usato anche per salutare: sono i bambini della parrocchia Santi Martiri dell’Uganda della diocesi di Lira fuori dalla chiesa nella quale hanno cantato la vecchia canzone che il parroco precedente, il compianto don Alfio, faceva cantare ai bambini italiani nella chiesa Santi Martiri dell’Uganda di Roma, dov’è la mostra. Il gemellaggio così diventa canoro.
I volti si affollano festosi anche nell’immagine intitolata “Semi”, per esprimere la fiducia riposta in queste risorse del futuro così vitali e promettenti: “Durante la nostra visita nei villaggi l’accoglienza è stata la protagonista. Questi bambini ci hanno accompagnato fino a quando siamo andati via, mostrandoci la gioia che viene dall’incontro”.
Vediamo una fotografia che riprende un momento della cerimonia religiosa con la presenza dei sacerdoti, sono celebrazioni che durano tre ore, è intitolata “Festa”:ecco “la processione tra canti e balli che accompagna l’uscita del Vangelo”, con le ragazze felici nei loro abiti bianchi.
Immagini festose anche con gli adulti, viene ripreso un folto gruppo di diocesani locali e componenti del gruppo missionario nella foto intitolata “Urrah” , spicca il bianco delle camicie e dei camici.
La testimonianza di padre Torquato, il sacrificio del dott. Matthew
L’elemento religioso torna nella esaltazione dei catechisti, che “in Uganda sono i pilastri della Chiesa”, una vera garanzia. Per questo l’immagine che ritrae riuniti tutti i catechisti del Centro pastorale di Ngetta come in una foto di famiglia, anzi di una squadra di calcio, è intitolata “Chiesa”;e quella che ne ritrae alcuni in un suggestivo controluce si intitola “Futuro”.
Sono “una figura più che preziosa, fondamentale” per il funzionamento delle parrocchie ugandesi dove la dispersione in grandi spazi non consentirebbe un’assistenza costante da parte dei pochi sacerdoti se non fosse delegata ai catechisti dopo una preparazione che li tiene per ben tre anni lontani da casa. E’ intitolata “Coraggio” un’immagine della preparazione al Centro pastorale catechistico diretto da padre Cosimo, mentre gli aspiranti catechisti seguono attenti il docente che tiene la lezione dinanzi alla lavagna.
Ricordiamo la bella storia che ci raccontò padre Torquato Paolucci – tra gli officianti delle attuali messe domenicali nella chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda – durante una lunga intervista sulla sua esperienza missionaria di trent’anni nel paese africano, che abbiamo riferito a suo tempo nel commentare la mostra precedente.
Quando un parrocchiano gli chiese di ammetterlo alla formazione dei catechisti, avendo saputo che aveva moglie e quattro figli, volle verificare con lei l’assenso a lasciare la famiglia per i tre anni previsti, credendo che lo negasse, ma ebbe questa risposta: “Se Dio ha chiamato a sè mio marito con questa vocazione, chi sono io per andare contro il suo volere?”. Ebbene, padre Torquato, quando ci fu il suo richiamo a Roma per la fine della missione trentennale, dopo una prima reazione negativa perché voleva restare in Uganda, lo collegò al volere di Dio e ripensando a quell’episodio si disse: “Chi sono io per andare contro il suo volere?”. Sentiamo un’assonanza con quanto ha detto di recente Papa Francesco interrogato sull’omosessualità:: “Chi sono io per giudicare?”. Un insegnamento che viene da lontano, dalla sua Argentina ma anche dall’Uganda della moglie del giovane aspirante catechista con quattro figli e dal missionario che ne ha dato testimonianza.
Vengono evocate storie come quella del dottor Matthew Lukwiya nell’Holy Mary Lazar Hospital – l’ospedale realizzato dal chirurgo Piero Corti, il primo nel Centro Africa – che nel 2000 si battè strenuamente contro l’epidemia di Ebola e riuscì a debellarne il focolaio in quattro mesi con un numero limitato di morti, tra cui alcuni tra il personale sanitario. Diceva al riguardo: “Se guardiamo alla morte del nostro personale vediamo lo spiegarsi di un mistero, un mistero di luce, davanti a noi c’è il martirio e la santità”. E aggiungeva: “Ora capisco chiaramente che la professione di medico è piuttosto una vocazione a cui il Signore chiama per fare vita”. Di qui la sua totale dedizione: “Ho fatto la mia scelta. Ti chiedo solo, Signore, ch’io sia l’ultimo a morire, per aiutare e curare prima gli altri”. E fu proprio l’ultimo a morire nel suo ospedale, “un missionario nella sua stessa terra”. Le sue parole sono incise in inglese nella lapide commemorativa la cui fotografia è intitolata “Vocazione”.
Il lavoro e l’Eden della natura
Non solo storie eccezionali o storie di bambini, troviamo nella mostra anche la normalità del lavoro.
L’agricoltura è l’attività prevalente, di sussistenza, serve a ricavare il necessario per vivere, si conta sull’aiuto reciproco: per questo è intitoilata “A vicenda” la foto che mostra il lavoro comune tra sacchi di derrate agricole. A questa accostiamo l’immagine della donna che offre la merce al mercato, è sorridente e assisa come una matrona, il titolo è “Mitezza”.
Un istituto tecnico fondato e diretto dal comboniano Gilberto Bettini, che ha fatto dell’Uganda la sua terra, è impegnato nelle formazione di muratori, falegnami, operai; li vediamo mentre lavorano con i mattoni in un muro nella foto intitolata “Costruire” , e con delle assi di legno nella foto dal titolo “Opportunità“.
E la natura? L’Uganda è “la perla dell’Africa”, immersa in “una natura quasi ancestrale, incontaminata che non è possibile non amare”, afferma una didascalia; e prosegue: “Quando siamo partiti per il safari Padre Cosimo – direttore del Centro pastorale catechistico a Ngetta – ci ha salutato dicendoci:: ‘Vedrete il Creato come ai tempi di Adamo ed Eva’. Questo ne è un piccolo esempio”.
Infatti sembra un miraggio, nella foto “Eden”, la giraffa che si erge al lato di un albero in un’atmosfera suggestiva; e nella foto “Bellezza”, l’antilope che ci guarda trepida e armoniosa. Poi un gruppo di elefanti, che la più grande tribù degli Acholi, uno dei maggiori gruppi etnici dell’Uganda del nord, ha preso come simbolo rassicurante, perché quando si spostano mettono al centro i più piccoli: il titolo dato all’immagine è dunque “Proteggimi”, foto scattata al Murchinson Falls National Park.
La solidarietà attiva e il legame profondo
Un’altra bella immagine ci riporta dalla natura all’umanità, è intitolata “Attesa”: mostra una giovane donna incinta ricoverata nel reparto maternità del dispensario di Minakulu; i servizi sono carenti, ma “il più delle volte dove possibile l’impegno e la dedizione del personale sanitario migliorano questo stato di cose”.
E’ ripreso anche un gruppo di operatori del Centro dispensario medico di Ngetta, con Suor Gabriella che lo dirige, davanti ai bagni realizzati con le donazioni della chiesa romana, prima c’erano soltanto buche per terra come servizi igienici, per questo la foto è stata intitolata “Dignità”. Bene in vista è la targa che ricorda la donazione, il titolo dato alla foto è “Presente”, parola usata nelle commemorazioni eroiche, qui per marcare un segno concreto della solidarietà tra la parrocchia romana e quella ugandese.
Dinanzi all’altare e alla sua destra sono poste due immagini che rendono visivamente il legame sorto tra i visitatori e la comunità locale, la loro collocazione sotolinea la centralità del messaggio.
La prima mostra don Ivan tra una folla di bambini, uno dei quali gioiosamente sulle spalle di una componente del gruppo, il titolo è “Promessa” con questa didascalia: “Il legame che abbiamo stretto con la diocesi di Lira e con tutti gli amici giù in Uganda è il cuore della nostra missione che permane anche qui a casa. Abbiamo l’ardire di credere che sia per sempre”.
Nel commento della seconda immagine, intitolata “Eraestate” – anche qui un bimbo tenuto amorevolmente tra la folla di bambini festanti – si legge: “Durante l’ora di educazione fisica il privilegio di giocare anche noi. Diventiamo parte della squadra e ci sembra di essere in parrocchia con i nostri bambini. Aver cura anche di uno solo di questi piccoli può sembrare poco, in realtà è tutto”.
Dalla comunità ugandese alla famiglia di profughi eritrei, fuggiti dalla guerra, vorrebbero venire a Roma per motivi di studio il prossimo anno, il padre Ghebrè, i figli Abigail, Ezrom e Karmen: “Ci accolgono a braccia aperte e ci mostrano le loro tradizioni. Il cibo mangiato con le mani e offerto vicendevolmente. Il caffè fatto al momento, il lavaggio delle mani prima e dopo il pasto”..
Poi la condivisione di quello che hanno sofferto: “Deve essere molto pesante non poter tornare nel proprio paese, restare senza terra, sperduti. Dover ricostruire la propria vita in un posto dove parlano lingue diverse, hanno usanze diverse, e non trovi accoglienza”. Nasce la necessità di dare accoglienza ” a chi viene per cercare pace, sicurezza e ristoro”.
Basta immedesimarsi, e a noi italiani non deve essere difficile per il nostro passato di emigrazione, soprattutto transoceanica: “Perché ciò che vive un altro potresti sentirlo sulla tua stessa pelle un giorno”, e lo puoi sentire subito “se ti fermi a guardare negli occhi un fratello straniero”. In termini religiosi è “vedere Gesù nell’altro”, in termini laici l’incontro è espressione di profonda umanità.
L’abbraccio affettuoso ai tre figli di Ghebrè profughi in Uganda ne è la sintesi toccante, la foto intitolata “Accoglimi” reca nella didascalia le parole che abbiamo appena riportato.
Al culmine della visita-pellegrinaggio in Uganda troviamo dunque il messaggio “Accoglimi”. Trova immediato riscontro nel messaggio espresso mirabilmente nell’immagine intitolata “Eccomi”: “Questa è la manina di Steven Emmanuel che con la dolcezza connaturale ai bambini si affida” ad una grande mano bianca che le si accosta con altrettanta dolcezza. Incontriamo di nuovo il piccolo Steven Emmanuel che viene ad impersonare i valori fondanti dell’umanità più autentica.
Il continuo, accorato invito di Papa Francesco all’accoglienza ha la stessa delicatezza e umiltà. Le due mani non si stringono nel senso di una protezione che può divenire prevaricazione se non sopraffazione, si accostano quasi timidamente, per conoscersi. C’è parità tra il bambino e l’adulto oltre che la parità degli esseri umani al di là del colore della pelle, delle storie personali e collettive e di tutte le differenze vere o presunte.
Quello che conta è la volontà comune di proseguire affiancati nel cammino della vita. E’ l’insegnamento della mostra.
Il parroco don Luigi D’Errico lo mette in pratica da tempo nella parrocchia dedicata ai Santi Martiri dell’Uganda.. La sua iniziativa “Un rifugio per Agar” accoglie, in una struttura idonea, donne in difficoltà con i loro figli. “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio” dice un proverbio africano. Questo villaggio è la parrocchia di don Luigi con i suoi dodicimila mila abitanti, che ne asseconda le iniziative benefiche; e dopo questa mostra sente ancora più vicini i fratelli ugandesi.
Info
Chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda, Roma, Via Adolfo Ravà 31, Quartiere Ardeatino, 8° Municipio, Poggio Ameno nei pressi di Piazza Caduti della Montagnola. Da lunedì a venerdì, ore 8,00-12,30 e 16,30-19,00; domenica 8,00-19,00 esclusi gli orari delle Messe. Ingresso gratuito. La mostra è a sostegno dei progetti della Parrocchia Santi Martiri dell’Uganda nella diocesi di Lira in Uganda, per questo si accettano offerte e si possono avere dei pannelli della mostra ad offerta libera. Per la mostra precedente cfr. il nostro articolo “Uganda, nella chiesa dei Martiri, fotostory di fede e vita” 20 luglio 2013, con 9 immagini, in questo sito, e l’articolo in “fotografia.guidaconsumatore.it”. Sulle mostre citate e altri temi religiosi cft. i nostri servizi seguenti. Per le recenti beatificazioni di due papi. in questo sito,“Esposito, Carlo e Maurizio Riccardi ricordano i due papi santi” 4 luglio 2014, “Spazio 5” e “Papi della memoria” 15 ottobre 2012, Castel Sant’Angelo., in “fotografia.guidaconsumatore.it” “I due papi santi nelle foto dei Riccardi” giugno 2014, e “Giovanni Paolo II ‘tutto nostro’ nelle foto di Maurizio Riccardi” 24 maggio 2012, “Spazio 5”; “Una mostra fotografica celebra la beatificazione di Papa Wojtyla” 1° maggio 2011, Piazza Esedra, “Beatus, Mostra fotografica dopo 150 giorni” 4 settembre 2011, Palazzo Valentini. Per gli altri temi religiosi, in questo sito, “Divino Amore, 13 artisti oltre la notte” 12 maggio 2013, Madonna del Divino Amore, “Congresso eucaristico e la mostra ‘Alla mensa del Signore'” 29 giugno 2013, Mole Vanvitelliana di Ancona, “Preghiere per l’Italia” 19 luglio 2013, al Vittoriano; in “cultura.inabruzzo.it”, “Arché” 9 dicembre 2011, L’Aquila, “Il Potere e la Grazia” 28 e 29 gennaio 2010, Palazzo Venezia, “Apocrifi nell’arte ” 29 settembre e 3 ottobre 2009, a Illegio, “Perdonanza 2009″ 3 settembre 2009, L’Aquila. In materia di archeologia cristiana in “notizie.antika.it”: sulla mostra “L’archeologia del colore” 23, 30 aprile e 7 maggio 2010, Assisi, sui resti dell’antica basilica di “Santa Maria Aprutiensis a Teramo” 29 ottobre 2010, sulla “Cripta della Cattedrale di Palermo” 10 dicembre 2010; su ipogei cristiani romani, i “Sotterranei di Santa Maria Maggiore” 5 marzo 2010, la “Cripta di santa Maria in Lata” con la cella di san Paolo 22 ottobre 2012; sull’archeologia umana, le “Catacombe dei Cappuccini di Palermo” 20 novembre e 4 dicembre 2010, e il “Nuovo museo dei Cappuccini di Roma” 16 luglio 2012. Per l’arte africana in “cultura.inabruzzo.it” “Africa? Una nuova storia” 15 e 17 gennaio 2010; sui singoli paesi del progetto “Roma verso Expo”, nel 2015 Mozambico 7 luglio, Congo 28 aprile, Tunisia 25 marzo, 2014 Egitto 8 novembre. I tre siti sopra citati, “fotografia.guidaconsumatore.it”, www. antika.it, cultura.inabruzzo.it”, non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella chiesa della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, si ringrazia il parroco don Luigi D’Errico con i visitatori-pellegrini autori delle fotografie, in particolare don Ivan, e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, il Manifesto della mostra all’ingresso della chiesa, seguono, nell’ordine con cui sono citate nel testo, tutte le fotografie esposte nella mostra, con i relativi titoli: “Casa” e “Dono”, “Sete” e “Il boss” ,”Non abbiate paura” e “Ora ci vedo”, “Affidarsi” e “Vola solo chi è leggero” , il Manifesto vicino al Crocifisso e “Gesù Bambino”, “Tienimi con te” e “Guardami”, “Fede” e “Rifugio”, “Apwayo” e “Semi”, “Festa” e “Urrah”, “Chiesa” e “Futuro”, “Coraggio” e “Vocazione”, “A vicenda” e “Mitezza”, Costruire” e “Opportunità”, “Eden” e “Bellezza”, “Proteggimi” e “Riparo”, “Attesa” e “Dignità” , “Presente” e “Promessa”, “Era estate” e “Accoglienza” , infine “Eccomi” ;in chiusura, l‘Altare della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda con il sacerdote officiante una messa domenicale, nella parete e davanti all’altare le fotografie.
Sei anni fa, il 23 ottobre 2015, usciva il secondo dei due articoli che abbiamo pubblicato nel sito web www.arteculturaoggi.com, sulla mostra fotografica nella chiesa della parrocchia romana “Santissimi Martiri dell’Uganda” nella quale ogni anno vengono presentate le immagini riprese nella missione religiosa, che diventa anche “reportage” fotografico, al villaggio in Uganda dov’è il santuario in memoria dei Martiri ugandesi collegato alla parocchia. Lo ripubblicheremo domani, non si tratta di celebrare tale insignificante anniversario, quanto di mantenere anche quest’anno, nel quale per la pandemia non c’è stata la missione e neppure la mostra, il richiamo dei religiosi alle speciali condizioni di vita africane e a quanto si fa per alleviarle. Riteniamo che questo sia un momento particolarmente significativo perchè l’Africa viene citata soprattutto come possibile fonte di nuovi contagi anche per i paesi ricchi data la bassissima poercentuale di vaccinati nonostante il programma di condivisione dei vaccini e i tanti proclami di assistenza che restano però quasi sempre sulla carta. Ci torneremo nella presentazioen del secondo articolo. L’articolo che segue ricorda la prima mostra nella stessa chiesa, è stato pubblicato sul sito sopra citato il 20 luglio 2013, domani l’articolo del 2015.
di Romano Maria Levante
Nella chiesa romana dei “Santi Martiri dell’Uganda” , a Poggio ameno nell’XI Municipio, una speciale mostra fotografica, aperta dal 30 giugno 2013 per alcune settimane, con le immagini della visita organizzata dalla sezione missionaria nel paese africano dove a fine ‘800 si sono immolati i giovani ugandesi elevati alla santità per il loro sacrificio e ai quali è stata intitolata la chiesa. Le fotografie ci fanno vivere momenti della vita semplice di un popolo giovane che viene aiutato dalla fede a trovare la sua strada tra la tradizione legata ai costumi primitivi e i bisogni indifferibili di istruzione e assistenza da soddisfare per una migliore e più umana qualità della vita.
Una mostra in una chiesa è sempre un fatto straordinario, soprattutto quando il luogo è qualcosa che va oltre una pur prestigiosa sede espositiva per un significato più profondo. E’ stato così per le mostre pittoriche “Arché”, con i dipinti di quattro grandi artisti contemporanei in un ritorno all’archetipo nell’abbraccio ai terremotati dell’Aquila, nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, dall’abside scoperchiato dal sisma cui era stata data una copertura provvisoria; e “13 artisti oltre la notte” alla Madonna del Divino Amore, in una sala del nuovo santuario; è così per la mostra nella chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda. Mentre la fotografia è un modo consueto di esprimere testimonianze e rivivere storie religiose, lo abbiamo visto nelle mostre fotografiche romane su Giovanni Paolo II, a Piazza Esedra, Palazzo Valentini e “Spazio 5”. Nel ricordare le mostre religiose non possiamo non citare le grandi esposizioni d’arte a Illegio sugli “Apocrifi”, ad Ancona nel Congresso eucaristico sull’Ultima cena “Alla mensa del Signore”; e, ancora prima, a Roma, Palazzo Venezia, su “Il Potere e la Grazia” dove sono stati esposti dipinti di artisti celebri sui grandi protagonisti della Chiesa, dagli eremiti ai martiri ai missionari. La mostra della chiesa dedicata ai Santi Martiri dell’Uganda nasce dalla sua consacrazione al loro martirio e dai frutti dell’azione dei missionari su un terreno ricettivo a un’evangelizzazione che ha avuto i suoi eroi.
I Santi martiri dell’Uganda, l’omaggio di due Pontefici
Attraverso la documentazione fotografica, la mostra racconta una storia in 22 capitoli sul popolo giovane e vitale dell’Uganda che costruisce il futuro con l’alimento della fede cristiana. E’ intitolata “Uganda, alle radici della nostra storia”, perché lì nasce la chiesa romana e la parrocchia.
In Uganda la fede fu portata dalla predicazione anglicana del 1877 cui seguì l’evangelizzazione del sud con i missionari, i Padri bianchi giunti dal lago Vittoria; nel nord i Comboniani dal 1911, lungo il Nilo nei grandi laghi.
Dopo meno di dieci anni i fedeli hanno versato il sangue del martirio: nel 1885-87 nel sud sono stati massacrati arsi vivi Carlo Lwanga e 21 compagni ; nel 1918 nel nord uccisi i giovanissimi catechisti Daudi Okelo e Jildo Jrwa. E’ una storia che ci limitiamo ad evocare, prima di seguire l’itinerario della mostra con i frutti sorprendenti di un’evangelizzazione eroica.
Carlo Lwanga era un’assistente del re, come lui tanti altri giovani di famiglie nobili avevano delle funzioni a corte; l’incontro con la fede lo portò a non accettare più il ruolo di efebo disponibile per i piaceri del sovrano, e così i suoi compagni, di qui il tremendo massacro. I giovani catechisti del nord avevano scelto la fede superando i dubbi dei genitori, furono uccisi con protestanti e islamici.
Nel 1964 la canonizzazione dei primi martiri da parte di Paolo VI che cinque anni dopo si reca in Uganda sul luogo del martirio. Ne riceve un’impressione così forte da desiderare che la prima chiesa costruita a Roma fosse dedicata a loro, e così è stato: il 20 giugno 1970 viene posta la prima pietra della chiesa di Poggio ameno nell’XI Municipio, nella zona dov’è il santuario delle Tre Fontane, non lontana da piazza Caduti della Montagnola, dove 42 civili e 11 militari morirono nella resistenza ai tedeschi e sono ricordati in un sacrario; coincidenza simbolica voluta dal caso o da qualcosa di indefinibile. Il 7 dicembre 1970 la parrocchia, nell’attesa della chiesa, celebra la prima messa in un locale di fortuna: “sotto il Portico”.
Bisognerà attendere dieci anni, e il 26 aprile 1980 un altro papa, Giovanni Paolo II, consacra la chiesa, la prima del suo pontificato, ai Santi Martiri dell’Uganda, le cui reliquie sono poste sotto l’altare. L’edificio religioso sorge ai margini di un piccolo parco, la costruzione fu tormentata da persistenti contestazioni di difesa ambientale, ne fu ridotta l’altezza rispetto al progetto originario; e fu concepita, nella struttura e nelle tinte, come una prosecuzione del parco, nel tempio si vede e si sente l’essenza di alberi e piante in una compenetrazione tra esterno e interno. Tutt’intorno l’area è una palestra di giochi e attività ricreative e sociali per adunate di ragazzi festosi con i loro sacerdoti, è come se lo spirito del parco aleggiasse nel vasto cortile attrezzato.
La mostra testimonia il ritorno all’Uganda dopo 30 anni, organizzato dal gruppo missionario della parrocchia, in testa il parroco don Luigi D’Errico, con don Davide Lees che si è impegnato molto nell’iniziativa e nella mostra: è un sacerdote giovane e ispirato, che infonde fiducia e serenità nella dedizione attiva alla chiesa e ai fedeli, lo abbiamo visto all’opera, oltre che nelle funzioni religiose, tra quasi duecento ragazzi scatenati e festanti in una sorta di campo estivo nell’area ricreativa della parrocchia. Prima le fotografie sono state collocate in quest’area in una sorta di anteprima, poi con la visita del Vescovo domenica 30 giugno sono state portate all’interno della chiesa: sono 22 ingrandimenti tra una stazione della via Crucis e l’altra, un percorso istruttivo ed edificante che si sviluppa in almeno 60 foto più piccole che declinano in dettaglio i vari “capitoli”.
Ci inoltriamo in quest’itinerario aiutati dalle ampie didascalie che sono una guida ragionata della storia, e da quanto ci dice don Davide: le fotografie sono state scattate dai quattro partecipanti alla visita in Uganda, nella diocesi di Lira, tra cui lui stesso, e le didascalie sono frutto di riflessioni comuni. Insiste nel sottolineare la partecipazione dell’intero gruppo a ciò che attiene alla mostra.
La fede in un percorso fotografico illuminante
Il percorso inizia dal santuario costruito in Uganda dopo la visita di Paolo VI nel luogo dell’uccisione di Carlo Lwanga a fine ‘800. All’inaugurazione del 1975 presenziò mons. Giuseppe Matarrese, ora vescovo, il primo parroco della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda, nella cui costruzione si batté con tutte le sue energie e capacità per superare gli ostacoli dei contestatori.
L’immagine del santuario ugandese, “Namugongo”, è suggestiva, ci sentiamo subito proiettati in un mondo diverso dal nostro dalla forma di capanna del tempio; si può vedere una continuità ideale con la chiesa romana che si ispira all’ambiente silvestre. A lato, davanti all’altare c’è un’altra fotografia celebrativa, “Il martirio”, riprende il sacrario che evoca il rogo con le eroiche vittime.
Vicino è esposta l’immagine delle capanne a forma conica di fango e paglia, nella loro concezione semplice e primitiva le forme più antiche di abitazione nella storia dell’uomo dopo le grotte preistoriche, sono tuttora le loro case; la dispensa è in una capanna più piccola e alta.
E’ questo il centro di un sistema composto da 80 parrocchie ciascuna delle quali comprende diecine di “Cappelle”, nuclei sparsi nel territorio dove l’attività viene svolta soprattutto da catechisti laici appositamente formati: è l’insegnamento che viene dall’esperienza ugandese, è possibile sopperire all’insufficiente numero di religiosi con il supporto di laici ai quali vengono affidate le attività che è possibile delegare.
In queste circostanze l’arrivo dei parroci e soprattutto la visita del vescovo sono momenti di liturgia e di raccoglimento cui si aggiunge la confessione: ne danno testimonianza le immagini singole e collettive, che rendono l’atmosfera di partecipazione popolare e di festa. Spesso vengono donate al presule delle pecore e delle capre,nel rendere concreta l’immagine del “Buon Pastore”, impersonato nelle foto dal vescovo Giuseppe Franzelli che ha accolto i confratelli venuti da Roma; altra assonanza, al Buon Pastore è dedicata la chiesa romana nel piazzale intitolato ai Caduti della Montagnola, prima ricordato. Tornando all’Uganda, “Il Vangelo” viene portato in processione e conservato in una capanna riservata insieme ai semi della semina successiva, a sottolineare il legame tra le due semine, entrambe necessarie alla vita e alla costruzione del futuro.
Abbiamo poi fotografie del “Battesimo” e della “Cresima”: moltissimi i battezzati, non solo piccoli ma anche adulti, non manca nulla, l’acqua e l’unzione, le candele e il vestito bianco; ci sono belle istantanee di gruppo e primi piani di una etnia dai tratti somatici molto regolari. Per la cresima vi sono immagini singole e d’insieme, che documentano la cerimonia svoltasi in presenza dei visitatori italiani, nella quale ben 460 hanno preso il sacramento dalle mani del Vescovo.
Dopo la parte strettamente religiosa del racconto fotografico ecco la parte nella quale emergono i costumi e il legame alle tradizioni; e insieme, le iniziative di assistenza e cura della popolazione che sono promosse dai missionari e vengono realizzate rispettando scrupolosamente le radici locali.
Le fotografie sui costumi e sulla vita ugandese
Il racconto fotografico si dipana con “Il villaggio”: abbiamo già visto le capanne a forma conica, di fango e mattoni con la copertura di frasche, il focolare è all’aperto, qualche animale domestico e intorno la terra da coltivare. Di lì vengono le risorse per la vita, quello che viene definito “Il pane quotidiano”: si vive con i frutti del suolo favoriti dall’acqua che il cielo manda. Le immagini rendono “Il clima” propizio, ci sono piogge improvvise, poi torna repentinamente il sereno, le precipitazioni sono tali da dare una natura rigogliosa e due raccolti l’anno. Però spesso per l’acqua potabile si deve andare lontano dove sono i pozzi, lo fanno tutti, adulti e ragazzi, lo vediamo nelle fotografie piccole con otri e recipienti. “La musica” è una componente delle cerimonie liturgiche, gli strumenti sono arpe e tamburi molto semplici, producono ritmi definiti “caldi e avvolgenti”.
E le provvidenze sociali e assistenziali? Sono necessarie in un territorio vastissimo dove il 50% della popolazione ha meno di 6 anni e le donne hanno in media 6 figli a testa. “L’infanzia” è resa dagli splendidi primi piani dei visi di bimbi e dalle foto collettive dei loro giochi, molto eloquenti.
Allora ecco la “La scuola”, anche qui una sorpresa: sono fotografate lunghe teorie di bambini che all’alba si incamminano, in tenuta scolastica, verso i luoghi lontani di insegnamento; le aule, che vediamo nelle immagini piccole, contengono 70-80 e anche più di 100 scolari, dinanzi a questi dati illustrati dalle immagini viene da sorridere pensando ai nostri parametri. Pur così la partecipazione è attenta e l’insegnamento efficace.
Poi i “Dispensari”, “a metà strada tra ambulatorio e ospedale”, in terre dalle grandi distanze è il primo presidio per la maternità e altre emergenze sanitarie, di lì se necessario vengono indirizzati all’ospedale più vicino; è possibile questa forma di assistenza per il personale esperto che con dedizione sopperisce ai pochi mezzi.
Mentre per la “Disabilità”, i malati di Aids e i rifugiati, le difficoltà nell’assistenza sono notevoli, ma non mancano iniziative caritatevoli, come quella dell’anziana suora missionaria che parlando dei suoi primi 35 assistiti diceva di aver fatto alzare in piedi e, se ciò non era stato possibile, messo in carrozzina, i bimbi che prima “erano a terra come bisce”. Sono “i poveri tra i poveri”, ma hanno “La forza dei deboli”, su cui fa leva la cooperativa benemerita Wawoto Cacel di Gulu, sorta per loro, impegnata nel toglierli dall’isolamento inserendoli nel lavoro tra conoscenze, esperienze e ambiente creativo. Altrettanto benemerito l'”Orfanotrofio” “Babies’ Home” dove trovano un clima sereno e familiare orfani e bimbi abbandonati o con genitori in situazioni difficili fino a tre anni di età senza distinzione di etnia o religione, provenienti da tutti i distretti del nord del paese; stupenda l’immagine del bimbo seduto a terra davanti alla parete celeste mentre gli si prepara il latte.
Le immagini-simbolo, un podio ideale
Tutto questo è illustrato da immagini che rappresentano un vero documentario. Ma c’è di più, ci sono tre immagini-simbolo dal contenuto profondo, un podio ideale con la foto festosa al culmine.
L’obiettivo fotografico è riuscito a rendere evidente il significato di “Cercare”, che don Davide ha fissato in un’immagine intensa con una didascalia altrettanto significativa: “Incontro di sguardi. Siamo di fronte, ma riusciamo a vederci veramente, a comprenderci? Quante barriere dobbiamo far cadere per superare le nostre categorie e capire l’altro, il valore del suo vivere e vederne veramente i bisogni, così da poterci accogliere ed amare per quello che siamo”. L’immagine ha colto gli occhi penetranti del bambino ugandese dietro un muretto-staccionata che rappresenterebbe la barriera da superare. In fondo, in questo “cercare” c’è il contenuto e il significato dell’azione missionaria, che è feconda quando ad essa si unisce un’accoglienza ricettiva. Del resto, l’attività dei catechisti laici è fondamentale per superare le difficoltà delle distanze e la dispersione sul territorio nella penuria di ecclesiastici. Un problema che non è escluso si possa presentare anche nel nostro paese con la crisi delle vocazioni e potrebbe trovare una risposta in questo modello di coinvolgimento attivo dei laici.
Oltre ai due occhi dietro la barriera di “cercare” ci ha colpito il viso dell’adulto ugandese in primo piano con dietro il religioso e altri visi assorti nell’immagine del “Battesimo”, esprime qualcosa di altrettanto intenso.
La terza immagine-simbolo di questa visita speciale del gruppo missionario nella lontana Uganda è festosa, una selva di braccia di bambini protese verso la mano di don Davide che svetta con la sua altezza; sono “Caramelle”, ma evocano qualcosa, anzi molto di più, fortemente voluto: il futuro. E’ quanto abbiamo cercato di raccontare seguendo la Fotostory della mostra nella parrocchia, per questo nel podio delle prime tre foto per noi è sul gradino più alto e l’abbiamo messa in apertura.
Così potrebbe terminare il nostro resoconto, non prima di aver sottolineato una notazione degli autori: “Lo scatto di una foto è stato anche un modo per avvicinarci e comunicare al di là della parola, a volte motivo di sorpresa per i più piccoli, rivedendosi nella foto appena scattata”; e l’immagine intitolata “Fotografie” documenta questi momenti di stupore e di gioia. Ma l’interesse giornalistico e soprattutto l’approfondimento culturale ci ha portati a voler andare oltre, a “cercare” anche noi: don Davide ci ha fatto incontrare padre Torquato Paolucci, già missionario in Uganda.
La testimonianza di padre Torquato, oltre 30 anni in Uganda
E’ stato un incontro rivelatore, oltre che coinvolgente per la carica umana di padre Torquato, che ha collaborato attivamente alla visita in Uganda del gruppo missionario. Un sorriso leggero illumina il suo sguardo sereno, la sua parola è chiara e ispirata. Dal 1972, poco più che trentenne, al 2010, missionario comboniano vissuto 32 anni in Uganda, zona di Logongu, ai confini con Sudan e Congo, 300 chilometri a nord ovest dalla zona dove sono state scattate le foto della mostra; una lunghissima permanenza con un’interruzione di sette anni in cui è tornato in Italia.
Oggi la diocesi di Lira nel Nord del paese, in cui ha operato, con un vescovo comboniano ha 18 parrocchie, un totale di 1200 “cappelle” disperse nel territorio e solo 50 sacerdoti: le “cappelle” sono affidate ai catechisti laici che guidano anche la liturgia della parola e il Vangelo, la pastorale e il catechismo. Quando vi andò missionario, in che situazione si trovava il paese? gli chiediamo.
Fu un inizio difficile nel villaggio di origine di Amin Dada, il dittatore che ha dominato l’Uganda dal 1971 al 1979 con la sua ferocia sanguinaria: ruppe subito i rapporti con l’India, espellendo gli indiani, e con l’Occidente, isolando il paese e condannandolo all’impoverimento, esaurite tutte le risorse disponibili; scatenò persecuzioni razziali e guerre tribali con centinaia di migliaia di vittime.
Sul piano religioso e soprattutto umano, il racconto del missionario ci ha consentito di comprendere meglio la realtà documentata dalle immagini. Dell’importanza dei catechisti abbiamo detto, e padre Torquato ce l’ha documentata, ora apprendiamo da lui che hanno una formazione molto solida, lo sa bene perché negli ultimi sette anni ha diretto in Uganda il centro per catechisti. Ce ne descrive la rigorosa formazione: un anno di preparazione, poi quattro anni a svolgere attività in comunità, quindi due anni di formazione finale, che si svolge nel centro lontano dalle famiglie dove possono tornare solo ogni tre mesi per trenta giorni. Il sacrificio per le famiglie, spesso con diversi figli, è notevole, considerando che viene a mancare il sostegno e la protezione dell’uomo su moglie e figli, per questo si chiede l’approvazione della moglie prima di accogliere la domanda; poche le catechiste donne perché per lo più la presenza dei figli piccoli lo impedisce. La scelta definitiva del catechista locale spetta comunque alla comunità che decide se accettarlo.
Sacerdoti africani e catechisti locali sono sempre più i protagonisti della chiesa ugandese, padre Torquato ci parla dell’impressione avuta nel dicembre 2012 quando, dopo due anni, è tornato nella diocesi per il centenario dell’arrivo dei comboniani nel 1912, con la partecipazione del cardinale Filoni prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione, e del presidente della Repubblica d’Uganda: c’erano oltre 50.000 persone, venute anche dopo giorni di cammino dormendo sotto gli alberi. Ebbene, tanti sacerdoti africani, solo 7-8 missionari: il passaggio di testimone è ormai in atto.
Il 60% sono cattolici, meno del 30% protestanti, il 10% mussulmani, pochissimi i pagani, seguaci delle credenze animiste che i missionari trovarono in quella terra. Chiediamo quale è stata la spinta che ha portato alle conversioni di massa, padre Torquato ha le idee chiare: “Il loro dio lo identificavano nella natura, dal fiume agli alberi, ne avevano una percezione alquanto vaga; sentivano invece molto gli spiriti ai quali facevano risalire i fatti della vita. Il cristianesimo li ha affascinati perché vi hanno trovato un riferimento sicuro, la spinta della speranza”. Quando nell’imperversare di una delle tante guerre che hanno insanguinato il paese per vent’anni furono uccisi 13 missionari, temevano che gli altri, tra cui padre Torquato, lasciassero quella terra, cosa che non avvenne. “Se ve ne foste andati, dissero, per la nostra vita sarebbe finito tutto, perché avremmo perduto la speranza”.
Una speranza di fede e una speranza di vita, dato che “la vita cristiana è una vita concreta, espressa anche nelle celebrazioni rituali che durano un’eternità. Non potevo fare una rapida visita per proseguire il giro in altre comunità, dovevo restare con loro l’intera giornata, pranzare insieme, condividerne tutti i momenti”. Padre Torquato ci ha fatto capire anche come nascono i progetti e le iniziative assistenziali di cui abbiamo visto eloquenti immagini nella mostra fotografica. Alla base c’è il Cristianesimo concreto, che manifesta nelle opere il profondo credo interiore. Le scuole e i pozzi per l’acqua, i dispensari e gli ospedali sono “espressione dell’amore di Cristo perché i suoi figli possano avere una vita migliore”, è come se le iniziative avessero un’ispirazione superiore.
A volte l’idea di un progetto nasce addirittura dai gruppi di 10-15 componenti che si riuniscono per meditare sulla Bibbia – ci dice tra l’altro che è riuscito a farla tradurre nella lingua locale, il logbara, lingua nilotica, una delle 27 lingue del paese, altre sono bantu, si studia e si parla l’inglese – iniziando con la preghiera, poi leggendo due volte il brano prescelto, quindi meditazione e interpretazione di ciascuno su ciò che significa per la propria vita e per la comunità; di qui la riflessione si può allargare nella concretezza del Cristianesimo vissuto con iniziative e progetti.
Chiediamo a padre Torquato, al termine dell’incontro, il suo sentimento da missionario rientrato in Italia dopo trent’anni trascorsi in Uganda. “Il mal d’Africa per me è sentire la mancanza di questa gente, che mi ha dato molto di più di quanto io ho potuto dare loro”, risponde.
La prova la troviamo in tre episodi toccanti che ci ha raccontato nella conversazione, non li ha rievocati riferendoli a questa conclusione, ma ci sembra ne siano la logica edificante premessa.
Il primo è all’inizio della missione, nel 1972, mentre si recava in auto in una località lontana per svolgere l’attività pastorale, su una strada fangosa, nell’ambiente inospitale, difficile e ostile che lo spingeva a voler chiedere di essere spostato in una sede più consona alle sue aspettative. Ebbene, vede una giovane donna con le stampelle che si muove a fatica nel fango, mancano 6-7 chilometri alla meta, li avrebbe percorsi a piedi con una gamba irrigidita dalla paralisi. “Perché non si limita a pregare a casa?” le chiede padre Torquato. La risposta: “Ho 18 anni, in queste condizioni nessuno mi sposerà, non avrò una famiglia, non vedo prospettive, ma quando prendo Cristo dentro di me con la comunione la mia vita si illumina, acquista un senso, un valore”. Una lezione di vita e di fede per il missionario che stava per arrendersi alle prime difficoltà, di qui la sua ferma decisione di restare.
Un altro episodio al termine dei trent’anni vissuti da missionario in Uganda, nel 2010, allorché i superiori gli hanno chiesto di tornare in Italia. Questa volta non vorrebbe farlo, è lo stato d’animo opposto a quello dell’episodio all’inizio del mandato missionario. La lezione di vita e di fede viene da un’altra ugandese, sposata a un aspirante catechista con 6 o 8 figli, padre Torquato prima di accettarlo ha voluto verificare di persona che la moglie fosse consenziente, gli sembrava difficile dato il peso familiare. La donna, confermandogli l’assenso, lo motiva così: “Se Dio ha chiamato a sé mio marito con questa vocazione, chi sono io per andare contro il suo volere?” E padre Torquato collega la chiamata dei superiori al volere di Dio con lo stesso interrogativo dalla risposta scontata: “Chi sono io per andare contro il suo volere?”. Di qui la pronta accettazione superando ogni esitazione.
Ma l’episodio ancora più toccante, se è possibile una graduatoria in questo diapason di sentimenti, si trova tra i due ora evocati, nel corso di una delle guerre sanguinose che hanno sconvolto il paese. Padre Torquato stava tornando indietro nella tipografia dove si era recato con un altro missionario la cui scelta di vita era stata eroica essendo figlio unico di madre vedova. Ebbene, la loro auto viene affiancata da un veicolo da cui spuntano due fucili spianati, il confratello al volante non si ferma all’intimazione degli uomini armati, l’auto è delle suore e non vuole perderla; partono i colpi, padre Torquato si china e sente sibilare i proiettili sopra la testa, il suo compagno viene colpito dietro il collo, muore sul colpo. L’auto si infila fra i cespugli e si ferma, gli assassini depredano ciò che possono sui corpi, il suo è così insanguinato che non si accorgono che è vivo. Quando viene soccorso e portato in ospedale è livido di rabbia, sente salire una violenta reazione contro chi ha commesso il barbaro assassinio di un missionario a lui così vicino. Le due infermiere che lo curano, a un certo punto gli chiedono di unirsi a loro nella preghiera: intendono rivolgerla alla vittima ma anche ai suoi assassini. Tutto il suo essere si ribella, non gli si può chiedere di perdonare, tale è stato l’orrore, finché sente il groppo salire alla gola irresistibile e poi sciogliersi in un pianto irrefrenabile. Allora la sua preghiera si leva anche per gli assassini, ha perdonato.
Il missionario ci dice che nella sua attività pastorale, nella predicazione, invitava sempre al perdono, unico modo per essere in pace con se stessi oltre che con gli altri; ma quella volta proprio lui non riusciva a metterlo in pratica, fino all’invito delle ugandesi: “L’Africa mi ha dato il dono del perdono!”, esclama. E aggiunge: “Pensavo di portare Cristo io, l’ho trovato là, era con loro”.
Salutiamo padre Torquato con qualcosa di nuovo nel cuore, ce lo hanno dato i suoi racconti e i suoi occhi con un sorriso speciale, quello della perfetta letizia. Rivediamo gli occhi del bimbo ugandese dietro il muretto-staccionata, il titolo della foto era “cercare”: la barriera è caduta, la ricerca si è conclusa.
Ci accompagnano le sue parole, dopo una trentennale attività missionaria: “La mia vita è bella” è il suo saluto. Ripensiamo al suo “mal d’Africa”, sente che gli manca quanto di edificante gli ha dato un paese nella vita semplice alimentata dalla fede e dalle opere, anche se lo serba nel cuore.
Le fotografie della mostra ci sembra ne ricevano una nuova luce, le scorriamo un’ultima volta con emozione, presi ancora di più dalla suggestione di un qualcosa di molto profondo, di superiore.
Info
Chiesa dei Santissimi Martiri dell’Uganda, nel Largo con tale nome, Roma, Poggio ameno, ‘XI Municipio. Cfr. su questa mostra il nostro articolo in “fotografia.guidaconsumatore.it” il 18 luglio 2013. Per le mostre citate cfr. i nostri servizi: in “cultura.inabruzzo.it” su “Arché” il 9 dicembre 2011, in questo sito su “Divino Amore, 13 artisti oltre la notte” 12 maggio 2013, in “cultura.abruzzoworld.com” sulla mostra “Apocrifi nell’arte ” il 29 settembre e 3 ottobre 2009, e su “Il Potere e la Grazia” il 28 e 29 gennaio 2010; in questo sito sul “Congresso eucaristico e la mostra ‘Alla mensa del Signore'” il 29 giugno 2013.Per altri temi religiosi, in “cultura.abruzzoworld.com” i nostri servizi “Perdonanza 2009” il 3 settembre 2009, e in questo sito “Preghiere per l’Italia” il 9 luglio 2013. In materia di archeologia cristiana i nostri servizi in “notizie.antika.it”: sulla mostra di Assisi “L’archeologia del colore” il 23, 30 aprile e 7 maggio 2010, sui resti dell’antica basilica di “Santa Maria Aprutiensis a Teramo” il 29 ottobre 2010, sulla “Cripta della Cattedrale di Palermo” il 10 dicembre 2010; su ipogei cristiani romani, i “Sotterranei di Santa Maria Maggiore” il 5 marzo 2010, la “Cripta di santa Maria in Lata” con la cella di san Paolo il 22 ottobre 2012; sull’archeologia umana, le “Catacombe dei Cappuccini di Palermo” il 20 novembre e 4 dicembre 2010, e il “Nuovo museo dei Cappuccini di Roma” il16 luglio 2012. Per l’arte africana in “cultura.abruzzoworld.com” il nostro servizio “Africa? Una nuova storia”, il 15 e 17 gennaio 2010.
Foto
Le immagini sono state fornite da don Davide Lees per il gruppo missionario della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, che si ringrazia con i titolari dei diritti. In apertura, “Caramelle”, don Davide le distribuisce ai piccoli ugandesi, seguono “Namugongo” il Santuario, e “Il villaggio”, “Orfanotrofio” e “La forza dei deboli” con “i poveri tra i poveri” al lavoro, poi“Battesimo” e “Cercare”; in chiusura l’altare della chiesa romana dei Santissimi Martiri dell’Uganda con don Davide, davanti le foto del santuario ugandese “Namugongo” (a sinistra.) e del sacrario “Il Martirio” (a destra), altre foto piccole sulla parete di fondo.
E’ il terzo libro di Piercarlo Ceccarelli, ispirato a una vicenda vera, che si propone, come i primi due del 2014 e del 2016, di penetrare nel mondo delle imprese raccontando le vicende societarie e umane viste dall’interno attraverso il romanzo, ritenuto la forma più idonea a rendere ciò che non si può percepire nella letteratura aziendale che l’Autore ben conosce avendo pubblicato molti libri e saggi in tale campo. Perché l’analisi tecnica non può entrare negli aspetti psicologici individuali e nelle dinamiche familiari e di vita, spesso di maggiore peso degli elementi oggettivi nelle decisioni aziendali.
Vedemmo nei primi due romanzi l’inizio di un nuovo filone narrativo, che chiamammo “Company thriller”, con riferimento ai “Legal thriller” di John Grisham, passato da avvocato a romanziere su temi legali, come anche Piercarlo Ceccarelli lo vediamo passare da alto consulente direzionale a romanziere su temi aziendali.
Il “thriller psicologico” dell’Autore
Abbiamo definito “Company thriller” il filone narrativo di Ceccarelli perché la “suspence” non manca neppure nei suoi romanzi, ma è di tipo molto diverso, giocata sulla psicologia più che sugli eventi. I colpi di scena più che nei fatti, che pure hanno una evoluzione inattesa, vengono dall’approccio mentale dei protagonisti, per i quali incontri, confronti, riflessioni fanno muovere dall’inconscio reazioni inaspettate, quindi nulla è scontato, tutto è imprevedibile, l’opposto di quello che ci si aspetterebbe nelle storie aziendali.
Come non ci si aspetterebbe di trovarvi le scene d’amore quanto mai coinvolgenti e qualche volta risolutive, inattese dopo i sottotitoli “Una famiglia, un’azienda leader”, “Una storia famigliare” e, nell’ultimo che ora commentiamo, “Una storia imprenditoriale”, che riteniamo riduttivo essendo “una storia umana” con l’impresa sullo sfondo più che nei due precedenti dove era più presente nella trama e soprattutto nel finale.
Nella trilogia dei suoi romanzi la famiglia è in primo piano, ma nei primi due incide anche sulle vicende aziendali, mentre nel terzo certe dinamiche sono già avvenute e se ne sentono solo i riflessi nella psicologia del protagonista, Riccardo Ferrari, che resta praticamente solo con se stesso, ma non manca di confrontarsi con la ex moglie Ludovica da cui è divorziato e il figlio Edo, la sorella Paola e il padre Edoardo, ma soprattutto con la nuova fiamma Veronica. Di nuovo il confronto tra istinto e ragione, carattere e razionalità, con quel tanto di insegnamento che ne viene per la vita di tutti i giorni, anche se questo possa sembrare sorprendente.
Ma come, si potrebbe osservare, l’imprenditore ha una vita e un lavoro così peculiari e diversi da quelli delle persone comuni che non si capisce come se ne possano trarre insegnamenti! Se questo è vero, é vero anche che i confronti appena citati determinano scelte di cui si possono misurare gli effetti, per cui è un punto di osservazione privilegiato del quale fare tesoro. Pochi riflettono che nella vita comune ugualmente prima di prendere decisioni rilevanti occorre fare i conti con il proprio carattere, se introverso quindi portato al pessimismo, oppure espansivo quindi portato all’ottimismo. Conoscendolo – e quindi conoscendosi – si possono rimuovere le remore eccessive nel primo caso o frenare i facili entusiasmi nel secondo, evitando di sbagliare, lo hanno insegnato i primi due libri sulla scorta dell’approfondimento fatto nelle vicende aziendali.
Una storia umana
Anche da questo terzo romanzo nascono insegnamenti, li preannuncia il titolo “Oggi sono migliore”, mentre i primi due erano intitolati alle famiglie protagoniste, “I Gianselmi” e “I Martini”; vuol dire che “una storia imprenditoriale” può avere questo sbocco, proprio perché è “una storia umana” tutta imperniata sugli elementi esistenziali piuttosto che su quelli aziendali.
E questo molto più dei due precedenti, come se “il salto di specie” allontanasse l’Autore sempre più dalla matrice aziendale: l’opposto del “richiamo della foresta”, che c’è sempre ma altri sono i richiami che ora ascolta: la parte psicologica sottostante alle dinamiche aziendali riscontrata nella lunga attività di consulenza direzionale – in aggiunta alla proprie esperienze di vita personali – che assume una importanza primaria nel determinare le scelte aziendali, e lo dimostra anche questa volta.
Non riveleremo la trama per non togliere l’interesse che prende subito il lettore, sebbene non incontra fatti eclatanti, ma si immedesima nel protagonista vivendo con lui le sue stesse emozioni. E neppure ci sentiamo di cimentarci in una critica letteraria che non ci compete, essendo semplici cronisti che, come nelle mostre d’arte ci immedesimiamo nei visitatori, così ora, in questo eccezionale ” excursus” in un campo che pratichiamo poco, ci immedesimiamo nei lettori di cui siamo parte a pieno titolo dopo la coinvolgente lettura del romanzo.
La prima notazione che viene spontanea è la capacità della prosa semplice ma incalzante di fare presa, per cui è difficile separarsi dal libro quando si è cominciato a leggere, e non si vede l’ora di riprenderne la lettura se la si è dovuta interrompere. Ci si sente presi e nel contempo sorpresi, perché non si tratta di un romanzo giallo o poliziesco costruito per tenere avvinto il lettore tra eventi misteriosi e indagini intriganti, qui tutto è alla luce del sole senza misteri, e allora? Il grande mistero è il protagonista, la chiave della “suspence” la totale, istintiva immedesimazione con lui.
Le descrizioni
Come possa nascere tale immedesimazione non è facile scoprire, ma forse vi contribuiscono due alchimie: la descrizione degli ambienti e dei paesaggi da un lato, la descrizione dei personaggi dall’altro. Entrambe quanto mai minuziose fino al dettaglio che potrebbe sembrare superfluo o ridondante se non dispersivo, mentre invece è l’ingrediente necessario per far sentire il lettore nei panni del protagonista, è come se vedesse quello che lui vede con la stessa curiosità di scoprire i particolari in ciò che osserva: sia essa un’altra persona, soprattutto una donna , “osservata” con speciale attenzione, sia un paesaggio.
Queste le descrizioni di Ludovica, la ex moglie conosciuta a un’asta benefica delle “signore bene” parmensi, da cui ha divorziato dopo un finale burrascoso, e Veronica, la nuova fiamma seducente con cui andrà a teatro, in barca e nel rifugio nell’Appennino parmense vicino al lago, ma non alla sua iniziativa benefica per i bambini africani a Parma a Palazzo Soragna, passando per la sorella Paola e per Giorgia, la vedova del caro amico imprenditore Gabriele morto suicida; così anche la descrizione del padre e del consulente di direzione Nicola Fabbroli – personaggio fisso, con l’analista aziendale Boninverno, dei suoi romanzi – di Mattia Mora, l’”uomo di Mosca”, tutti descritti con la stessa cura minuziosa di darne i caratteri fisici e soprattutto caratteriali; mentre lui stesso, Riccardo Ferrari, si presenta all’inizio con dovizia di particolari, quasi una radiografia….
Altrettanto la descrizione dei luoghi, dalla sede della società, alla sua villa a Parma nell’Oltretorrente, “a due passi dalla casa natale di Arturo Toscanini, quasi affacciata sul parco ducale”, alla villa dei genitori nella campagna parmense, al suo “buen ritiro” in collina; dai voli aerei a Mosca agli spostamenti in auto, alla sala riunioni con i consulenti a Milano, fino ai villaggi africani in Etiopia e nel Malawi.
Mentre si trova in questi luoghi e mentre ammira il paesaggio ci sembra di essere con lui a gustarne il fascino, sia quando ci sembra di andare sulla sua automobile verso il passo della Cisa, sia quando entriamo nel giardino della villa dei genitori a Montecavolo, o quando ci affacciamo con lui alla finestra dell’ufficio a Fornovo di Taro, o nella residenza collinare di Langhirano, per poi andare in aereo a Mosca, o in un palco del Teatro Regio di Parma, in barca da diporto e nel Rifugio Lagdei costeggiando il Lago Santo.
Ed è tanto più naturale questa immedesimazione, quanto più lo troviamo – a parte il giro in barca, la serata teatrale e il week end nel rifugio, tutti con Veronica – solo con se stesso, alle prese con i problemi della vita aziendale in un momento molto critico per lui anche sul piano personale, con questioni familiari che si aggiungono alla solitudine non certo serena ma tormentata di divorziato con il figlio Edo da seguire nei suoi turbamenti adolescenziali, anche nello sport, impegnato tra il baseball e il tennis, ma molto determinato.
La maturazione personale
La crisi personale è la più pressante, dato che i problemi aziendali, a differenza degli altri due romanzi, sono soprattutto di crescita all’estero dell’attività, anche se rischiosa, non di sopravvivenza della propria azienda, la Sitoc, operante come multinazionale nel settore del caffè. Per questo sembrano più semplici dei problemi personali, pur investendo rapporti a livello internazionale con il possibile socio inglese Keith Smith da valutare e l’infido interlocutore russo Bykov da tenere a bada per evitare trappole, e una è stata non solo preparata ma fatta scattare investendo la magistratura della Russia con sorprese a non finire.
Ma questa volta non è dal cilindro del consulente di direzione Fabbroli che viene il coniglio della soluzione, bensì dalla maturazione personale del protagonista che corrisponde a quella del lettore, sempre più immedesimato in lui. Una maturazione che si sviluppa a poco a poco, anche negli incontri con il consulente, il quale per qualche verso diviene anche psicologo, ma soprattutto con chi può scavare dentro di lui mettendo a nudo le contraddizioni dell’esistenza che il successo imprenditoriale ha nascosto ma prepotentemente vengono alla ribalta nel momento più critico, come la polvere accumulatasi sotto al tappeto.
E allora l’azienda e il lavoro, che prima erano stati l’universo esistenziale del protagonista apparentemente appagante per la sua autostima si rivelano nella maturazione interiore quanto mai ristretti e svuotati di quei valori che invece lo avevano sollecitato a un impegno così totalitario per poi svanire. Ed ecco perché e come “una storia imprenditoriale” ai nostri cchi diventa a tutto tondo “una storia umana”.
Una storia, proprio per questo prodiga di insegnamenti non soltanto per gli imprenditori, che vi possono trovare passaggi utili alla loro attività negli incontri del protagonista Riccardo con il consulente Fabbroli “testa quadra”, e lo specialista Boninverno, e nelle riflessioni e decisioni conseguenti; ma anche – e diremmo soprattutto – per la gente comune che non vive una simile maturazione se non sollecitata in modo così intenso.
Cerchiamo di ricordare alcuni di questi insegnamenti, che emergono dai dialoghi, spesso concitati, del protagonista con chi riesce a captare in lui qualcosa di cui lui stesso non si rende conto ma avverte un’inquietudine inconsueta. Immedesimandoci con lui, sempre sulla scena, seguiremo il suo percorso che si stacca a poco a poco dalla matrice imprenditoriale di base per portarsi sul piano di un’umanità senza confini.
Autorealizzazione e vera leadership
Riccardo Ferrari è un imprenditore figlio d’arte, con una vocazione all’indipendenza e all’autorealizzazione tale da fargli disdegnare l’impresa paterna operante nella meccanica, la Fermec di cui si occupa la sorella Giorgia, per la difficile avventura di rilevare un’impresa fallita in un settore completamente diverso, il caffè, in cui ottiene successo superando molte difficoltà; ma per superare il complesso di Edipo ci vuole la malattia del padre con i suoi generosi pur se tardivi riconoscimenti. Per vincere i propri complessi interiori ci vuole ben altro, una maturazione “sul campo” solo in parte spontanea, per lo più indotta che gli apre gli occhi.
Inizia con l’impegno appassionato e totalitario nella sfida aziendale tanto complicata che assorbe tutte le sue energie, e ne è fiero sentendosi pienamente realizzato. Si sente investito della responsabilità della leadership, pagandone il prezzo della solitudine, e ne è consapevole: “Riflettendoci, si poteva dire che il capo è solo come l’artista che, nel momento dello sforzo creativo, è alle prese con se stesso e con la verità che vuol raccontare. E nella solitudine della tensione creativa, il solo momento di soddisfazione è l’istante in cui ‘appare’ la soluzione che ci illumina. Allora il quadro è dipinto, la decisione è presa”. Ma le sollecitazioni del consulente Fabbroli lo portano a rovesciare questo assioma: “La sua leadership non è in discussione, però bisogna aprirsi al dialogo. Ascoltare con disponibilità e attenzione e, anche quando lo si è fatto, non affrettarsi a mettere bene in chiaro che comunque il capo azienda ha l’ultima parola, o che la sua opinione pesa di più e ha la precedenza sulle altre. E’ una pretesa pericolosa . Un buon leader non deve avere sempre ragione. Anzi deve saper capire le ragioni degli altri”. Non basta limitarsi a fare proposte e ascoltare le reazioni per poi decidere, occorre condividere.
Sembra un insegnamento prezioso per tutti, anche per il “pater familias” che, pur con tutti i processi emancipativi, si sente sempre il “capo” nell’azienda-famiglia in cui tutti dovrebbero avere voce in capitolo nella sostanza, non nella sola apparenza come avviene di solito. Come è istruttivo il non inorgoglirsi troppo per i successi raggiunti perché, anche se indubbiamente sono un titolo di merito, c’è una componente importante dovuta alla fortuna per cui “il successo, per gli onesti, è sempre un merito. Ma il fallimento non è sempre un colpa”: considerazione preziosa, su versanti opposti, per entrambe le situazioni ricorrenti nella vita.
Molti lo considerano, però, una colpa nel nostro paese, anche se determinato da ragioni oggettive, spesso insuperabili, e anche su questo non manca una riflessione, pur se amara perché tale pensiero ha portato a tanti suicidi nel pieno della crisi economica. E anche se alla base dell’impegno degli imprenditori c’è un motivo personale, spesso economico, come diceva Einaudi “è la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito…” .
Come sostenere il peso del fallimento
Tale spinta ideale, se le cose non vanno nel verso giusto, pur senza colpe, diventa oppressiva perchè sembra venir meno “il merito, l’onore e la reputazione” acquisiti nell’impegno ”a volte, fino allo stremo delle forze, con l’obiettivo di migliorarsi costantemente. E cerca di meritare quel che ha, di adeguarsi all’immagine ideale di perfezione e correttezza che di fatto è implicita, più che nello sguardo degli altri, nel proprio giudizio su di sé”.
E’ il fidato consulente di direzione Fabbroli a dare a Riccardo la risposta che attende con il cuore in gola nel cercare di capire i motivi che gli hanno fatto perdere l’imprenditore amico Gabriele schiacciato dal peso della crisi: “Non che ci sia qualcosa di sbagliato nel volersi migliorare, intendiamoci, né pensare di poter affrontare la propria missione imprenditoriale con coraggio e abnegazione. Ma bisogna saper mettere dei paletti, non pretendere l’impossibile da sé stessi, e soprattutto non considerare l’impresa come unico scopo della propria vita, ma coltivare altri interessi. Altrimenti, non appena le cose sfuggono di mano, il rischio è quello di passare rapidamente dall’orgoglio per i risultati conseguiti a una profonda, insanabile vergogna, che spesso viene ingigantita dal sentimento di inadeguatezza, dalla delusione di aver fallito”. Basta sostituire dopo la parola “missione” l’aggettivo imprenditoriale con uno che qualifica la propria attività, che non va considerata “unico scopo della propria vita”, per riferire a sé stessi tale ammonimento, che nei casi estremi può essere salvifico.
Il poprio lavoro non come valore assoluto insostituibile
Un altro insegnamento, collegato in qualche modo a questo ammonimento, rovescia un principio per altri versi inattaccabile, nell’impresa come nella vita comune: l’attaccamento al lavoro – o comunque ai propri impegni – come valore assoluto insostituibile, per cui se viene meno è la fine. All’inizio si basa pur sempre su fattori etici di grande valore, ma poi prende la mano e diventa così assorbente e totalizzante da oscurare e far dimenticare altri valori ancora più elevati. Come la famiglia, i figli e anche sé stessi, perché si trascurano aspetti essenziali della propria esistenza per inseguire l’appagamento suscitato dai risultati del proprio lavoro in una narcisistica contemplazione di sé stessi, anzi di una parte di sé stessi, che diventa effimera e fuorviante se l’altra parte di sé viene ignorata. Non solo gli imprenditori, ma tutti sono alle prese con questo problema perché non riescono, e spesso non vogliono, trovare il giusto equilibrio tra le loro aspettative autoreferenziali e una più aperta e pacata visione dell’intero arco esistenziale, ben più vasto e che coinvolge anche altre persone, soprattutto care.
“Non è necessario vivere ogni sfida lavorativa come se fosse una lotta titanica. Ci vuole un po’ di misura”, viene detto al protagonista dalla sorella Paola, imprenditrice anche lei che gestisce l’azienda paterna: “Guardandoti da fuori, chi ti conosce meglio, come me, vede un uomo che si tormenta, che si logora, ed è perennemente insoddisfatto: affronti questioni tutto sommato ordinarie caricandole di significati e di valenze che in realtà non hanno. Devi smetterla, Riccardo, di riversare tutte le tue energie nel lavoro, come se la realizzazione professionale fosse l’unica cosa che conta, che conferisce un significato alla tua esistenza”.
E non è soltanto la sorella Paola a parlargli così, anche Veronica, che respinge la sua corte serrata anche per questo, lo vede nello stesso modo e gli dice parole ugualmente meditate: “Non mi sembri una persona felice, Riccardo. E’ come se volessi comunicare di te l’immagine monolitica di uomo vincente, sempre pronto a gettarsi a capofitto nelle situazioni per cercare di ottenere quel che vuole. A ogni costo. Ti piacciono le sfide, ma perché ti piace vincerle, non perché tu le viva come un’occasione per metterti davvero in discussione a livello emotivo o personale”. La via d’uscita? “Io credo che tutti noi dovremmo imparare a vivere di più nel presente, a interrogarci sul senso e la modalità delle nostre azioni – dalle più piccole alle e banali a quelle più impegnative – Solo così, prestando attenzione, possiamo davvero capire qual è la nostra vera aspirazione. Individuare il nostro scopo. E capire, di contro, che cosa ci condiziona…”.
Quello che le donne non dicono, ma fanno...
Ma come mai sono due donne ad ammonirlo in termini così forti e coinvolgenti? Gli dice francamente la sorella Paola che solo le donne possono capire questi motivi fondamentali nella vita che sfuggono agli uomini: “Per una ragazza, una donna, è tutto molto diverso. Ci si aspetta ‘naturalmente’ che debba essere presente e attenta su più fronti: che sia sempre impeccabile, o quanto meno provi a esserlo, come figlia, moglie, madre, amica, professionista, donna di casa. Che organizzi le proprie giornate tenendo in equilibrio tutti questi aspetti e variando le proprie gerarchie di priorità anche – anzi spesso – in funzione delle esigenze altrui”. E precisa, sempre rivlta al fratello: “Ci chiedono fin da piccole di imparare a farlo, quindi siamo brave a riuscirci nella maggioranza dei casi, ma non credere che sia facile. D’altra parte, questo ci abitua a definirci, a pensarci in maniera non individualistica e neppure monolitica. Noi donne sappiamo di doverci spendere in molti ambiti, sappiamo di far parte di diverse reti e che nessun ambito della nostra esistenza, considerato da solo, ci offrirà una piena e completa realizzazione”.
Ed ecco cosa ne scaturisce: “Il risultato è che di norma ci troviamo a dover gestire un carico di compiti, obblighi, aspettative e bisogni altrui senza dubbio più pesante di quello che, per esempio, grava sui nostri compagni, o mariti, o fratelli. E, nonostante questo, sappiamo trovare delle valvole di sfogo. Coltivare le tante dimensioni di cui è fatta una vita piena, significativa, è per noi un addestramento quotidiano, volenti o nolenti siamo chiamate ogni giorno ad affrontarlo”. Potrebbe sembrare facile perché è naturale per le donne, ma non lo è: “Il difficile è ricordarsi, in tutto questo marasma, di sé. Ma, da brave equilibriste, in genere ci riusciamo meglio. E troviamo comunque degli spazi di compensazione, anche se sono spesso troppo risicati”. Termina così la lezione di Paola al fratello: “Ti dico questo perché sono fermamente convinta che questa compensazione sia vitale, ma soprattutto è fondamentale non pensarsi come individui a una sola dimensione, o come un monolite”. E’ una lezione per tutti, si resta senza fiato, “quello che le donne non dicono” lo dice Paola in una meditazione, che è una analisi, così lucida di cui ciascuno, donna o uomo dovrebbe farne tesoro.
L’intreccio dei problemi aziendali con la maturazione interiore
Quanto abbiamo riportato non deve far pensare a un libro pedagogico e tanto meno moralistico, ben diverso è l’impianto narrativo incentrato sui problemi imprenditoriali con complesse diramazioni all’estero per una azienda multinazionale operante nel settore del caffè che intende accrescere la penetrazione sul mercato internazionale con accordi a largo raggio, dall’Inghilterra alla Russia, che sono al centro del romanzo.
Ma sono proprio i problemi nella loro complessità a creare le condizioni per la maturazione interiore in un intreccio narrativo che si sviluppa in parallelo ai viaggi in aereo, agli incontri e le riunioni con i consulenti, ai pranzi di lavoro, intervallati comunque da qualche intermezzo familiare, con il carico dei problemi di un divorziato che ha un figlio adolescente e la ex moglie ostile, e un rapporto contrastato con il proprio genitore. Il tutto alleggerito da qualche distensivo intermezzo in barca, a teatro e in un rifugio in montagna, vicino al lago, sempre con Veronica, oltre ai momenti di quiete nel “buen ritiro” nella casa di collina fuori la sua Parma.
Non parleremo dell’intreccio narrativo, ma diremo qualcosa di più sulla sua maturazione interiore nella quale una donna, Veronica, ancora lei, ha un ruolo determinante. E questo dopo una rottura con lui a causa della sua assenza, per il ritardo di due ore del volo da Mosca – dov’è andato incautamente per una urgenza aziendale che ha anteposto all’impegno del cuore – alla serata di presentazione dell’iniziativa per i bambini africani a cui lei tiene tanto, a Parma, nel Palazzo Soragna da lui frequentato negli incontri dell’Unione Industriali. Rottura con lui seguita dalla partenza di lei per il villaggio africano di Lilongwe, nel Malawi, dove svolge una meritoria un’attività di cooperazione assistendo i bambini, lasciato il lavoro di architetta qualificata nel design su una spinta ideale e umanitaria che rimprovera a lui di non avere, inaridito nel pensiero unico del successo. E le sue parole, ma ancor più il suo esempio, fanno breccia su di lui, portandolo a una confessione impensabile: “Sentiva che avrebbe dovuto ringraziarla: perché parlandole, frequentandola, mettendosi anche a confronto con la sua visione del mondo e della vita, aveva ripreso contatto con una parte profonda della propria anima. E aveva riscoperto pensieri, emozioni, aspirazioni che per troppo tempo aveva trascurato, inaridendosi. Ora, invece, sentiva di volersi rimettere in contatto con la vita, con quanto lo circondavano, sentiva di poter essere sinceramente generoso e più aperto, in ogni ambito della propria esistenza , compreso quello lavorativo”.
L'”agnitio” di sè liberatoria
Così, “per la prima volta dopo tanti mesi di tensione, Riccardo si sentiva libero”. Stava riacquistando la libertà di operare sui fronti che aveva trascurato, come la famiglia, il padre e il figlio Edo in primis, ma anche se stesso: “Libero, finalmente, anche dalla componente più tossica della propria ambizione. Quella che lo aveva indotto più e più volte a mettere in secondo piano anche la cura di sé, il proprio equilibrio e soprattutto, purtroppo, gli altri, anche le persone a cui teneva di più: non avrebbe più permesso che succedesse”.
Così può dire a se stesso: “Oggi sono migliore”: “Forse, solo un anno prima non sarebbe stato in grado di capire: era ancora troppo concentrato su se stesso. Troppo preso dai propri tormenti e ancora schiavo di vecchi rancori e vecchie abitudini. Ma ora era un uomo nuovo. Era cambiato, aveva finalmente intrapreso un percorso che mirava alla sua piena realizzazione non come individuo, ma come essere umano, parte della grande famiglia umana”.
Il percorso virtuoso è nel libro nel quale si percepisce lo svilupparsi di questa maturazione interore, nel mentre si è presi dalla vicenda aziendale che lo porta nei più diversi ambienti con il suo carico di inquietudini e di problemi fino all’”agnitio” di sé liberatoria. E’ un percorso che il lettore potrà vivere, come abbiamo fatto noi con incontenibile emozione, fino a poter dire al termine “Oggi sono migliore”. E non soltanto oggi.
Info
Piercarlo Ceccarelli, “Oggi sono migliore. Una storia imprenditoriale”, Interlinea 2020, pp. 200, euro 16. Per i due precedenti romanzi dell’Autore, cfr. la nostra recensione in www.arteculturaoggi.com , dal titolo “I Martini e i Gianselmi,storie aziendali e lezioni di vita”, 14 gennaio 2017.
Photo
Il romanzo non ha illustrazioni, in questa recensione abbiamo inserito, oltre alla foto della copertina, una serie di immagini attuali sui principali luoghi e località in cui si svolge la storia per una maggiore ambientazione e immedesimazione del lettore. Sono a puro scopo illustrativo, e non vi è alcun intento di tipo economico nè promozionale, le abbiamo tratte dai siti web di pubblico dominio di seguito indicati, si ringraziano i titolari dei siti per l’opportunità offerta; qualora la pubblicazione non fosse gradita, le immagini segnalate verranno immediatamente rimosse su semplice richiesta. I siti sono, nell’ordine di inserimento delle foto, i seguenti: macchinealimntari.it, it.wikivoyage.org, metroquadroprmacase.it, idealista.it, flyone.eu, mediocasasrl.it, it. aleteia.org, gazzettadellemilia.it, zanfilszcompetition.org, wired.it, geopolitica.info, myluxury.it, parcoappennino.it, parcoappennino.it, up.pr.it, travelingseat.com, italiaoggi.it, servizi.ceccarelli.it. In apertura, la copertina del libro di Piercarlo Ceccarelli “Oggi sono migliore” ; seguono, un macchinario per la lavorazione del caffè, del tipo di quelli della Sitoc di Riccardo Ferrari, e un’immagine di Fornovo di Taro, dove ha sede la Sitoc; poi, l’ingresso di una villa a Parma, nell’Oltretorrente, dove abita, e l’ingresso di una villa a Montecavolo, dove abita il padre Edoardo; quindi, un’immagine di Parma, la sua città, e il patio di una villa in collina a Langhirano, dov’è il suo “buen ritiro”; inoltre, un’immagine di Milano, la città degli incontri e le riunioni con il consulente Fabbroli, e un’asta benefica della Parma-bene del tipo di quella in cui conosce Veronica; ancora, un palco del Teatro Regio di Parma, dove va con Veronica, e un viaggio in aereo, come quelli per Mosca … ma senza mascherina; continua, un’immagine di Mosca, la città dove va nell’ufficio della Sitocper una trattativa aziendale, e una barca da diporto, come quella in cui è stato con Veronica; prosegue, il Rifugio Lagdei e il Lago Santo, dove va con Veronica; poi, Palazzo Soragna a Parma, dove va per l’Unione Industriali e non per l’iniziativa benefica di Veronica, e un villaggio del Malawi, dove va Veronica ad assistere i bambini africani e la raggiunge; infine, la riunione di un Consiglio di Amministrazione, come alla Sitoc e, in chiusura, Piercarlo Ceccarelli tiene una sessione della sua Consulenza di Direzione, come Nicola Fabbroli.
Si conclude la nostra rievocazione della mostra “Tota Italia. Alle origini di una nazione”, alle Scuderie del Quirinale nel 160° anniversario dell’Unità d’Italia dell’era moderna, e nel 150° di Roma capitale e 75° della Repubblica. Si è tenuta dal 14 maggio al 25 luglio 202, realizzata da Ales S.p.A. con il concorso di più di 30 Musei e Soprintendenze di Stato e il contributo dei Musei civici; curatori della mostra, e del Catalogo edito da “arte,m”, Massimo Osanna, direttore generale Musei del Ministero della Cultura, e Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano. L’accurata ricostruzione della fasi più antiche della costruzione dell’Italia unita, dal IV al II sec. a. C., poi nel II-I sec., fino all’”età dell’oro” augustea, è testimoniata nelle 10 sezioni della mostra.
Abbiamo già dato conto delle prime 3 sezioni, ora nella 4^ sezione, dedicata ai “Culti”, si penetra sempre più nell’anima del “mosaico di popoli” unificati nel “Tota Italia” augusteo, nel I sec., prima e dopo Cristo, a coronamento di un processo molto antico, le cui tracce evidenti risalgono al IV sec. a. C. come ricostruito appositamente per la mostra e documentato con reperti arcaici di grande valore e interesse storico.
Dai Riti funerari e le Lingue passiamo alla Religione, e nella devozione verso le divinità troviamo notevoli differenze, come nei Riti funerari: sono evidenti nei Riti e nelle pratiche religiose, nei luoghi deputati che non sono solo i templi, ma i boschi sacri; e come per le Lingue, anche per le Divinità, quelle romane si affiancano fino a sostituire quelle radicate nelle tradizioni dei popoli italici.
Roma non usava cancellare i culti persistenti, divinità locali particolarmente radicate nei territori venivano identificate con le divinità romane in quella che veniva chiamata “interpretatio”: è il caso di Reitia, collegata alla dea Minerva. Il processo di omologazione dei culti fu in qualche caso reciproco, perché ci furono anche divinità allogene che entrarono nei culti di Roma, come l’etrusca Velove introdotta da Tito Tazio, re proveniente dalla Sabina con quella tradizione religiosa.
L’esposizione dei reperti è spettacolare, con statue e fregi di vario tipo, oggetti ex voto e altrettanti ex voto costituiti da statuette con teste femminili. Tra gli ex voto, “Ex voto da Ponte di Nona e da Gabi”, IV sec. a. C., oltre alle teste femminili 2 statuette di toro e cinghiale, e “Materiali del santuario della dea Mafite”, IV-III sec. a. C., 4 frutti votivi dal santuario di Rossano di Vaglio, 2 statuette femminili, una con velo e una con “polos”.
Abbiamo citato, nell’omologazione delle divinità italiche con quelle romane Retia, collegata a Minerva, è testimoniata dai reperti esposti in mostra, del IV sec. a. C., con guerrieri a cavallo, statue e stipsi votive; Velove, introdotto a Roma dalla Sabina, in una statua del I sec. a. C. ispirata al modello greco dell’Ercole in riposo di Lisippo del IV sec. a.C. E’ esposta anche una“Statua di divinità in trono. Angizia”, altra dea italica come Mefite, dal cui santuario di Rossano del Vaglio viene una foglia di vite e un rametto di alloro, del IV-III sec. a. C.
Risalgono a questi due secoli remoti la “Statua di Mater con 12 figli”, chiamata “Mater capuana”, rinvenuta nel 1875 nel santuario del Fondo Pattuelli nei pressi dell’etrusca Capua, dea madre protettrice della natività con i 12 neonati in fasce; e la “Statua di divinità in trono Angizia” dall’omonimo santuario di Luca dei Marsi, venerata per i poteri magici e taumaturgici che le sarebbero derivati dai legami con l’acqua, gli animali selvatici e i serpenti i cui veleni diventavano curativi; inoltre sono del III sec. a. C. la “Statua si Ercole con incisione osca” da Venafro, ed “Ercole in riposo con dedica M. Attius Peticius Marsus” dal santuario di Ercole Cerino di Sulmona, quest’ultimo dalla stupefacente modernità michelangiolesca.
La 5^ sezione, relativa a “I contatti con il Mediteraneo”, pone in evidenza le ripercussioni sul piano culturale e dei costumi, del corso espansionistico sia a livello politico e militare sia a livello economico e finanziario, in una sorta di “mercato globale” nell’intero territorio italico. Ne furono investite città latine, Alatri e Palestrina, Segni e Tivoli, e città del centro-sud come Assisi e Chieti, nonché il Piceno in un rinnovamento alimentato dalla fitta rete di scambi, che portavano all’integrazione all’insegna dell’ellenismo, matrice greca con innesti italici e latini.
Le classi dirigenti locali costituivano la saldatura tra questa periferia in fermento e lo Stato romano secondo un processo di trasformazione che lasciò segni vistosi nell’architettura pubblica, nella quale le singole provincie si confrontavano tra loro e con Roma nella monumentalità degli edifici e nelle decorazioni che li adornavano.
Di queste ultime vediamo in mostra una serie di “Terracotte architettoniche di un edificio templare”, e “Sculture frontali di un edificio templare” II sec. a. C., mentre è del III sec. a. C. un “Rilievo con scena di battaglia tra un cavaliere greco e uno persiano”, rappresentazione dinamica nella drammaticità del cavaliere a terra mentre l’altro ritto sul cavallo ha il braccio alzato per il fendente decisivo. La “scultura frontale” citata rappresenta la testa forse di Ercole, le “terracotte architettoniche” due dei fregi e la terza un antefissa con la “signora degli animali” provengono tutte dal santuario di Monte Rinaldo, nei pressi di Fermo.
Il “clou” della sezione, preso come “testimonial” dell’intera mostra, è rappresentato dalla “Statua di pugile in riposo”, I sec. a. C., anch’essa ispirata a Lisippo, trovata nel 1885 nel colle del Quirinale ove era stata sepolta con le dovute protezioni per preservare il bronzo: sono rimasti anche intarsi rossi che simulano il sangue dalle ferite, con le tumefazioni, è seduto, la testa girata sulla destra mentre guarda lontano.
Così il presidente di Ales, Mario De Simoni, ne spiega significato e valore attuale: “E’ un uomo provato ma non vinto, che non ha paura di mostrare le sue ferite ma che mantiene intatta la consapevolezza della sua forza. Ci è parsa una metafora adatta a questi giorni, onesta e fortemente fiduciosa”.
Abbiamo parlato degli aspetti pacifici dei “contatti con il Mediterraneo” tra “Roma e gli Italici”. ma – come abbiamo visto nella ricostruzione storica – un ruolo preminente lo hanno avuto “Le guerre” , alle quali si riferiscono i reperti esposti nella 6^ sezione della mostra.
Sono del III sec. a. C. delle “Architetture in frammenti”, una greca e 3 da Policoro, che evocano la potenza distruttiva dei “proiettili lapidei” utilizzati con macchine da lancio negli assedi degli eserciti ellenistici, fin dal IV sec. a. C; è del III sec., trovato ai primi del ‘900 nella necropoli di Capena, anche un “Piatto votivo con raffigurato un elefante da guerra”, forse celebrativo della vittoria su Pirro, in groppa una torretta con soldati, segue un elefantino che sembra seminasse lo scompiglio perchè imprevedibile. E’ della parte finale del I sec. a. C. un “Rilievo con navi da guerra”, da Cuma, due navi a remi cariche di soldati che si preparano alla battaglia, stilizzati ma realistici.
Ricordiamo che il III sec. a. C. fu teatro delle guerre contro Pirro, dotato appunto di elefanti, e contro Cartagine, con battaglie navali i cui armamenti e metodi venivano adattati alle diverse situazioni; poi ci furono le guerre civili per il controllo di Roma, Silla, Pompeo e Cesare furono i grandi condottieri fino alla vittoria di Ottaviano su Antonio e Cleopatra che aprì l’era di Augusto, Intanto da Mario, vincitore dei Cimbri e Teutoni, erano stati tolti i limiti di censo per il servizio militare, così ci furono i legionari e anche i mercenari nelle legioni di Roma egemone nel Mediterraneo.
La sua espansione comportò l’esigenza di dare alle terre conquistate un assetto interno compatibile con il proprio dominio, la 7^ sezione della mostra, “Colonia e Municipia. L’organizzazione del territorio” documenta questo aspetto che riguarda anche i rapporti di Roma con le città sconfitte e le comunità alleate. La forma utilizzata fu quella delle “colonie”, ma con profonde innovazioni rispetto alle colonie fenice e della Magna Grecia: nelle “coloniae civium romanorum” o “marittime” -fondate fino al termine del II sec. a. C., le prime Ostia e Anzio – veniva mandato un presidio militare di 300 romani; nelle “coloniae latinae” – fondate fino al I sec., le prime Cori e Segni nel Lazio – venivano imposti obblighi militari e vincoli riguardanti i rapporti con Roma e gli altri territori, ma potevano conservare le proprie leggi e avere una certa autonomia.
Nel I sec. a. C,. a modificare questo quadro, intervennero le politiche coloniali a favore dei veterani iniziate da Mario e Silla, poste in atto anche da Cesare e Augusto; e soprattutto, per effetto della guerra sociale, la “promozione” allo status dei “municipi” di molte colonie con i “socii”, alleati indipendenti e federati a Roma in un “foedus” privilegiato: avevano la stessa organizzazione amministrativa di Roma a cui erano integrati, pur mantenendo l’autonomia richiesta dalla distanza dal centro egemone, formula adottata nel lontano 381 a. C. all’assoggettamento di Tusculum.
Documentano questo i reperti in mostra: il più antico una “”Statua di Marsia con ceppi da schiavo” del III sec. a. C., da Paestum, il sileno che sfidò Apollo nel flauto, celebrato da Ovidio, assunto come simbolo di libertà e per questo collocato spesso nei fori di colonie e municipi, seguito da due testi in lingua osca: la “Tabula con una legge latina, riutilizzata per una legge in lingua osca”, del II-I sec. a. C. , dall’antica Bantia, con nel lato anteriore una legge latina sui processi criminali, sul lato posteriore il più lungo testo in lingua osca con caratteri latini e brani dello statuto di Bantia su norme romane; e l’”Iscrizione in lingua osca con riferimenti alla viabilità di Pompei”, II sec. a C., da Pompei, con indicata la precisa delimitazione di una strada.
Materialmente venivano posti dei “Cippi di delimitazione del territorio”, come i 3 in mostra del 130 a.C., i 2 da Celenza Valfortone, e quallo da Atena Lucana. Del I sec. a.C. anche il “Fregio con scena di rito di fondazione (sulcus prmigenius)” e una “Iscrizione funeraria con rappresentazione di uno strumento agrimensore”, un geoma, a cavallo tra I sec. a.C. e I sec. d. C.
Con l’8^ sezione, “Colonia e Municipia. Religio e lusso”, all’interesse storico e archeologico si aggiunge la spettacolarità dei molti reperti esposti nella mostra. Il “lusso”, “luxuria”, si diffuse con l’irruzione di nuovi modelli culturali e comportamentali a seguito della cospicua disponibilità di risorse economiche – provenienti dai bottini di guerra e dalla tassazione, da metalli preziosi come oro e argento e da materiali pregiati come marmi e altre pietre di valore disponibili in Grecia, Asia Minore ed Africa – dell’impetuoso sviluppo degli scambi commerciali anche su nuove rotte e del forte afflusso di schiavi come “manodopera servile”.
La trasformazione nel I sec. a. C. dopo la guerra sociale aveva riguardato Roma, passata da austera città “etrusca” alla raffinatezza greca di “polis hellenis”, poi si diffuse nei “municipi” delle zone di conquista del Mediterraneo . Si manifestò, in particolare, nell’architettura pubblica e privata che rivoluzionò l’assetto urbanistico e i singoli edifici con innovazioni edilizie ed elementi ornamentali come rilievi e statue: si manifestò nei templi e nei fori, nelle mura cittadine e nei complessi funerari, nei santuari e nelle ville private.
In mostra sono esposti reperti con 5 tipi di testimonianze, per lo più del I sec. a. C., di cui ne citiamo alcuni.
Gli affreschi: la ”Rappresentazione di Iside Fortuna e di un giovane nudo con incisione graffita” e “Affresco con anatre appese e antilopi”.
I rilievi: “con processione funeraria” e “con suonatrice di cetra da un monumento funebre, e i rilievi votivi” con il recupero dal mare di una statua di Ercole”e “con figura femminile stante (Arianna o Proserpina) e giovane eroe seduto appoggiato a una clava (Teseo)”.
Le lastre e le are: 2 lastre di rivestimento “con la contesa di Ercole e Apollo per il tripode delfico” e “con Perseo che offre ad Atena la testa di medusa”, 2 oggetti “colpiti da un fulmine e seppelliti ritualmente”, antico rito di origine etrusca in risposta al segno divino rappresentato dalla caduta del fulmine con il seppellimento, da parte dei sacerdoti, di tutto ciò che ne era stato colpito, e del fulmine stesso identificato in una pietra segnata, con un piccolo tumulo, cerimonia accompagnata da canti funebri, preghiere e dal sacrificio di una pecora”; un’ara “circolare decorata con i Dodici Dei”, al centro Zeus, derivata dal “dodekatheon” di Prassitele per il tempio greco di Artemide Soteira a Megara, e per questo espressione della grande statuaria greca del IV sec. a. C.
I vasi: 2 coppe, di cui una decorata con tralcio vegetale, , un cratere, a calice con anse a volute, un’anfora, una brocca e un’urna con coperchio, un vaso decorativo a forma di leogrifo.
Le statue: dalla “”Triade capitolina” alla “Statua di Apollo lampadoforo”, dalle 6 “Statuette di divinità domestiche ed elementi decorativi da un larario”, alle 2 “Teste ornate diAtena ed Esculapio”.
Solo teste scolpite figurano nella 9^ sezione della mostra, “Nos sumus Romani. I volti dell’Italia romana”: un diecina di busti che testimoniano la tendenza, nel I sec. a. C., da parte dei ceti dirigenti locali e della classe libertina, a farsi immortalare con il ritratto scultoreo per eternare la propria immagine e trasmettere attraverso questa i valori propri e della famiglia. Oltre ai ritratti “privati” ebbero sviluppo quelli pubblici, di sovrani, filosofi e altri personaggi del mondo ellenistico.
Un busto è personalizzato: il “Ritratto di filosofo su erma iscritta, Parmenide”, prima metà del I sec. d. C, il personaggio viene raffigurato dall’espressione ferma e autorevole, il busto è stato rinvenuto in una colonia greca sorta nel 540-53 con il nome di Elea, patria di Parmenide, in un vasto complesso monumentale, la “Scuola dei medici eleati” di Velia, complesso monumentale dove oltre a queste erma ne furono trovate altre senza testa ma attribuite a dei medici associati nel rito ad Apollo guaritore, lo stesso Parmenide era chiamato “medico e guaritore” simbolo della memoria collettiva evocata dal “sapere antichissimo” di cui era portatore.
Gli altri busti scultorei che citiamo sono 2 “Ritratti maschili”, 4 “Ritratti femminili” e 1 “Ritratto di intellettuale”.
La 10^ e ultima sezione della mostra approda a “Tota Italia. L’Italia unita nel nome di Augusto”, è l’apoteosi della potenza del “princeps”, che si riassume nel giuramento di “Tota Italia” riportato nelle “Res Gestae”, il testamento politico e l’esaltazione delle imprese dell’imperatore. Siamo nel 32 a. C., così gli Italici si schierarono con Ottaviano nel suo scontro vittorioso contro Marco Antonio e Cleopatra tacciati di immoralità e corruzione laddove Augusto in una Italia a lui alleata diventava il simbolo delle virtù tradizionali: ed effettivamente la sua azione fu improntata a una severità e austerità di costumi che lo portò a esiliare a Ventotene la figlia Giulia in una villa solitaria che ha preso il suo nome, per punirla di comportamenti contrastanti con i rigorosi principi morali.
Lo stesso nome di Augusto richiamava una spiritualità al confine con la divinità, e un sistema di valori che trovava nelle espressioni culturali non solo una chiara testimonianza, ma anche un potente veicolo di propaganda e di diffusione. Così si arrivò all’omologazione culturale di “Tota Italia” in un processo nel quale venivano mantenute le tradizioni locali in quanto confluite nel più vasto alveo della romanità, che si tradusse nella divisione dell’Italia in “Regiones”.
Fu questa la riforma amministrativa varata da Augusto nel 7 d. C., all’apertura del nuovo secolo così significativo allorché il processo poteva dirsi compiuto anche a livello delle istituzioni territoriali. Mentre a Roma, centro dell’Italia unificata, il principe, pur assommando in sé poteri imperiali, formalmente rese omaggio al Senato e al popolo romano di cui esaltava le origini antiche.
Viene definita “nuova età dell’oro” perché la diffusione del benessere e dei nuovi modelli di vita seguiva un interminabile periodo di guerre che avevano fiaccato la resistenza di tutti; il nuovo sistema di valori, esaltato anche a livello culturale dalla propaganda augustea, si manifestava in tanti campi, fino al livello architettonico e decorativo interessando fasce sempre più vaste di popolazione.
La stirpe augustea viene evocata con le teste scolpite quasi tutte del I sec. d. C. di Livia, Agrippina Maggiore e Ottavia Minore, manca la testa della figlia Giulia, evidentemente non immortalata avendo disatteso la severità dei costumi del nuovo corso, come si è sopra ricordato; ci sono, invece, le teste di Germanico, Tiberio e Giulio Cesare. Ma non sono le sole espressioni simboliche: a parte la “Meridiana con rappresentazione dei segni zodiacali”, e la “Meridiana tascabile”, troviamo il “Rilievo con la rappresentazione di un tempio” e due opere che inneggiano ai trionfi di Augusto: il “Rilievo con Vittoria e trofeo” e “L’ala di Vittoria”, sempre del I sec, il primo a.C,, il secondo d. C.. E, per concludere, il “Ritratto di Augusto con il capo velato” , l’immagine del romano devoto intento a officiare un sacrifico, con il velo della toga, l’abito tradizionale da lui valorizzato, simbolo di purezza morale.
“Tota Italia” andò a compimento con lui, perciò con questa immagine edificante ci piace chiudere la rievocazione, attraverso la ricostruzione storica e i preziosi reperti in mostra, del lungo processo che portò il “mosaico di popoli” alla romanizzazione valorizzando tradizioni e simboli fusi nel crogiolo della romanità.
Info
Scuderie del Quirinale, Roma, Via XXIV maggio n. 16. info@scuderiequirinale.it, tel. 02.92897722. Nel periodo di apertura della mostra visita da lunedì a domenica ore 10-20 (ingresso fino alle 19), entrate contingentate con obbligo di “Green Pass”, e protocollo di sicurezza, su mascherine, distanza di 2 metri, igienizzazione, biglietto euro 17,50, ridotti over 65, giovani e altre categorie. Catalogo “Tota Italia. Alle origini di una nazione”, con sottotitolo IV secolo a. C. – I secolo d. C., a cura di Massimo Osanna, Stéphane Verger, pp. 168, formato 16 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo, nonchè le immagini dei reperti esposti in mostra. Cfr. i nostri articoli, in www.arteculturaoggi.com sulla mostra di Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019 per la punizione a Marsia da parte di Apollo nella musica, la mostra di Augusto 9 gennaio 2014, e in www.archeorivista.it “Villa Giulia a Ventotene, la capacità umana di far soffrire anche in Paradiso” 24 ottobre 2010, per la punizione a Giulia, la figlia di Augusto. (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, disponibili, saranno trasferiti su altro sito).
Photo
Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore e la Presidenza delle Scuderie del Quirinale, che lo ha messo a disposizione, e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. E’ inserita la sequenza di una immagine per ciascuna delle 10 sezioni, poi un’altra sequenza con qualche eccezione. In apertura, inizia la sequenza quasi completa delle 10 sezioni – manca la 1^ – con la 10^, oltre che al termine della sequenza anche all’inizio per dare subito l’immagine-simbolo, “Ritratto di Augusto con il capo velato” fine I sec. a. C.; seguono, “Corredo della ‘tomba dei due guerrieri’- Bacino rituale, podoripter, a figure rosse” III sec. a. C., e “Spada ripiegata con iscrizione in latino arcaico” IV-III sec. a. C.; poi, “Statuetta femminile con velo” IV-III sec. a. C., e “Rilievo con scena di battaglia tra un cavaliere greco e un persiano” III sec. a. C.; quindi, “Architetture greche in frammenti” III sec. a. C., e “Fregio con scena di rito di fondazione (sulcus primigenius) “ I sec. a. C.; inoltre, “Rilievo votivo con figura femminile stante (Arianna o Proserpina) e giovane eroe seduto appoggiato a una clava (Teseo)” metà I sec. a. C., e “Ritratto di donna con il capo velato” fine I sec. a. C. – inizio I sec. d. C., età augustea; ancora, “Rilievo con Vittoria e trofeo” I sec. a. C, e continua con la seconda sequenza mancante della 1^ e 3^, “Corredo della “tomba dei due guerrieri – Vaso listato’” III sec. a. C, , e “Stipe votiva della dea Reitia” IV sec. a. C.; prosegue, “Sculture frontali da un edificio templare – Frammento di testa maschile (Ercole)” II sec. a. C., e “Architetture greche in frammenti” III sec. a. C.; poi, “Iscrizione funeraria con rappresentazione di uno strumento agrimensore (gnoma)” I sec. a. C.- I sec. d. C., e “Ara circolare decorata con dodici dei” seconda metà I sec. a. C.; infine, “Ritratto maschile” seconda metà I sec. d. C. e, in chiusura,“L’ala della Vittoria” I sec. d. C.
Continua la nostra narrazione della mostra “Tota Italia. Alle origini di una nazione”,svoltasi alle Scuderie del Quirinale dal 14 maggio al 25 luglio 2021 – con esposti oltre 400 antichi reperti del “caleidoscopio” italico unificato da Roma – nel 160° anniversario dell’Unità d’Italia dei tempi moderni che coincide con il 150° di Roma capitale e con il 75° anniversario della Repubblica, Dopo la ricostruzione della fase più antica, dal IV al II sec. a. C., passiamo a quella intermedia del II-I sec., fino all’”età dell’oro” augustea, per poi presentare i reperti più antichi esposti in mostra. E’ stata realizzata da Ales S.p.A. con il concorso di oltre 30 Musei e Soprintendenze di Stato con il contributo dei Musei civici; curatori della mostra, e del Catalogo edito da “arte,m”, Massimo Osanna, direttore generale Musei del Ministero della Cultura, e da Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano.
La ricostruzione storica, di cui abbiamo ricordato in precedenza le fasi più antiche, si sposta al II e I sec. a. C. quando gli italici passarono dall’alleanza con Roma alla ribellione. Come alleati venivano premiati con donazioni da parte dei consoli, Fabrizio Pesando cita quelle di Lucio Mummio, console nel 146 a. C. verso i “socii” che lo avevano aiutato a conquistare Corinto nella Guerra Acaica.
Dalle donazioni ai “socii” italici alle distruzioni dei ribelli nel II-I sec. a. C.
Testimoniano tali donazioni, iscrizioni latine e una in “osco”. Altrettanto fece Scipione in un periodo nel quale oltre a Corinto era stata conquistata Cartagine e Roma aveva riconosciuto il ruolo degli alleati, come del resto aveva fatto in altre situazioni con la più importante colonia latina in territorio italico, “Fregellae” che forniva addirittura i cavalieri per la guardia del corpo del console.
Ma anche quando non c’erano alleanze precostituite, i mercanti latini e italici con la penetrazione commerciale portavano nelle terre di conquista costumi e cultura dei romani con i quali si confondevano anche per la lingua molto simile. In questo senso, nel II sec. a. C. la città di Cuma, dove si parlava in “osco”, chiese di poter commerciare nella lingua latina che aveva portata internazionale, quindi apriva maggiori possibilità, soprattutto per fronteggiare la concorrenza della vicina colonia romana di Puteoli, chiamata da Lucilio “Delus minor”.
In “osco”, in omaggio alla sua autonomia, era scritta la “donatio” a favore di Pompei, la città non latina federata con Roma che ne riconobbe il ruolo. In generale, in questi territori si ebbe uno sviluppo economico senza precedenti, evidente tanto nella “publica manificientia” quanto nella “privata luxuria”, come ricorda Pesando, con particolare riguardo a “Fregllae” e Pompei.
“Frigellae” era diventata capofila degli alleati di Roma e la sua crescita impetuosa si manifestava nel moltiplicarsi, sull’esempio romano, di spazi destinati a cerimonie e istituzioni pubbliche, dal Foro al Comizio, dalla Curia alle Terme, fino ai Templi; mentre le antiche modeste abitazioni private lasciavano il posto a “domus” con grandi stanze di rappresentanza decorate con pavimenti musivi.
Ma nel 125 a. C., ribellatasi a Roma perché si vedeva minacciata dalla riforma agraria dei Gracchi, punitiva per gli alleati mentre non venivano accolte le sue richieste di cittadinanza, fu completamente distrutta come era avvenuto per Corinto.
Pompei espose la “donatio” del console Mummio nel tempio di Apollo, ristrutturato sull’esempio romano, come per altri edifici, quali il tempio di Giove e la Basilica, il Portico e il Macellum, il Foro Triangolare e il Tempio Dorico. Ma dovette subire la stessa sorte trent’anni dopo, per effetto della Guerra Sociale; dopo l’assedio di Silla del 90-89 a. C., e la capitolazione, divenne colonia romana e nell’’80 si arrivò persino a coprire con l’intonaco la dedica di Memmio quando aveva fatto la “donatio” per riconoscenza.
Fu soltanto un gesto simbolico, la conquista portò alla confisca di case e terreni, e gli abitanti furono sottomessi al potere di Roma. Lo studioso Pesando sottolinea come “la Guerra Sociale, che chiuse drammaticamente il lungo percorso di alleanza e integrazione fra Romani e alleati (i ‘socii ’, appunto) fu uno scontro durissimo e atroce, sinistro preludio dei tanti lutti e delle devastazioni che coinvolsero l’Italia all’epoca delle guerre civili tra Pompeo e Cesare prima e successivamente fra il Divi Filius e Marco Antonio”.
Viene citato il caso emblematico dell’”antico santuario federale e politico dei Sanniti”, Pietrabbondante, e soprattutto di Asculum, la moderna Ascoli Piceno dove l’intervento dei Romani fu ancora più brutale perché vendicativo dell’uccisione – durante una festa religiosa con la popolazione riunita – del pretore Servilius, mandato dal Senato per scoprire l’origine di una “seditio”: si scatenò dopo un assedio di due anni, con un finale tragico, il comandante si uccise dopo aver fatto uccidere tutti i filo-romani.
“Un cupio dissolvi – conclude Pesando – che ad Asculum, come in tante altre città devastate dai conflitti civili, si stemperò solo dopo molti anni, con la faticosa creazione di un unico, grande soggetto politico e sociale, diviso nelle undici regiones augustee che rimandavano quasi sempre nei loro nomi al ricordo dei popoli che le avevano abitate”.
L’Italia unificata da Roma e prospera con ‘l’età dell’oro“ di Augusto
Da questo finale tragico si passa come per incanto all’”età dell’oro” augustea in cui rifulge la “pax romana”, ottenuta e anzi imposta a prezzo di tante nequizie, ma tradottasi in un benessere largamente diffuso con la sublimazione di tutti i motivi di grandezza del Principe. Ne rievochiamo i principali aspetti con riferimento all’attenta ricostruzione che ne fa Carmela Capaldi.
Innanzi tutto spicca la consapevolezza di Augusto di rappresentare, con il suo principato, il culmine di un processo nel quale la conquista dell’Italia con la formazione dell’impero era avvenuta con la forza militare, ma per merito della corretta amministrazione “Roma era stata in grado di armonizzare le disuguaglianze garantendo a tutti pace, sicurezza e prosperità”.
Lo dimostravano “la magnificenza dell’architettura pubblica e il lusso della vita privata”, con ville simili a regge persiane, nelle parole del geografo Strabone, rese possibili dalle disponibilità dei materiali nelle città dell’Etruria, Luni con le sue cave di marmo, Pisa con le cave di pietra ed il legname. Nel “Res Gestae” Augusto esalta la gigantesca opera di riassetto urbano, di cui parla anche il “De Architectura” di Vitruvio, fino alla celebre espressione di Svetonio secondo cui Augusto aveva trovato “una città di mattoni e la lasciò di marmo”.
La “magnificentia” urbana era “funzionale – osserva la Capaldi – a quel programma di di rinnovamento culturale ed etico-religioso che il futuro Principe intraprese già prima di diventare, con la vittoria di Azio su Marco Antonio e Cleopatra nel 3 a. C., l’arbitro unico dei destini di Roma”. Un totale rinnovamento, anzi un potente rilancio, “i valori fondanti del nuovo sistema politico furono Pietas e Virtus, la prima richiama il rispetto delle tradizioni religiose nazionali, con la legittimazione della dinastia nelle sue origini; la seconda l’orgoglio nazionale legato alle capacità militari e anche qui alle origini troiane della “gens Iulia” con il valore insito nella predestinazione di un futuro ora compiutamente realizzato.
Non era solo propaganda, anche se non mancava l’accorta trasmissione dei messaggi al popolo con immagini e toni enfatici; con la fine della guerra civile si presentava come “rifondatore della città”, successore ideale del fondatore capostipite della sua casata, tanto che uno dei primi atti fu il restauro del tempio di Giove Feretrio dove Romolo aveva consacrato l’armatura strappata al nemico Acron che aveva ucciso.. Questo unito a gesti altamente simbolici, come la restituzione nel 28 a. C. dei poteri eccezionali “al Senato e al Popolo” dopo le vittorie in Illiria, Egitto e ad Azio, mentre di fatto la sua “auctoritas” ne faceva l’unico indiscusso reggitore delle sorti della città.
I luoghi dove ci si riuniva diventavano teatro della sua esaltazione, lo stesso Foro appariva come lo “spazio di rappresentanza della gloria del Principe e della sua stirpe” mentre gli edifici e i monumenti sulle glorie passate “diventano sfondo della gloria recente”. Gli viene dedicato il Tempio del divo Julius, facendolo entrare a far parte, come era stato per Cesare, della religione di Stato: nasce un Foro a suo nome, spazio pubblico di esaltazione della “gens Giulia”. Sono molti i modi con cui si realizza, unendo la realtà alla mitologia e alla leggenda fino alla favoleggiata “età dell’oro”.
Nelle decorazioni, come nell’interpretazione dei versi di Virgilio, si manifesta la storia che dalle rovine di Troia alla fondazione di Roma raggiunge il culmine con Augusto, età dell’oro preconizzata dalla Sibilla Cumana nel segno, oltre che del benessere, della Virtù e della Giustizia; anche nel rigore dei costumi, come dimostra la sua severità nei confronti della figlia Giulia, segregata per punizione in una villa a Ventotene. “La condotta del principe, che a Roma promuove culti, restaura e innalza templi – è sempre la Capaldi – finanzia opere di pubblica utilità e di abbellimento della città, coinvolgendo nella committenza a vari livelli tutta la comunità, si riflette nell’incremento delel attività edilizie nelle regioni d’Italia e nelle provincie dell’Impero”.
In ogni città italica, divenuta romana, sorgono edifici, monumenti e statue dedicati ad Augusto e alla sua famiglia, o si rinnova il patrimonio edilizio esistente, soprattutto pubblico, con ampio uso di marmo oppure, se il marmo non è disponibile, di pietra calcarea. Vanto dell’imperatore era aver fondato 28 colonie all’insegna del benessere degli abitanti, e di avere donato terre ai veterani rimasti a stabile presidio dei territori occupati.
In tal modo si crea una “corrispondenza d’intenti tra governante e governati” nel clima molto favorevole di benessere economico e riconquistata pace dopo tante guerre sanguinose, sia all’esterno, sia all’interno con la guerra civile e quella fra i triumviri. L’”Ara Pacis Augustae” decisa il 4 luglio del 13 a.C. (un altro 4 luglio….!) e “consacrata” nel 9 a. C. “rappresenta la sintesi di quel campionario iconografico messo in essere dalla propaganda augustea per comunicare il messaggio di riconciliazione e rinascita da cui prendeva forza il nuovo ordine politico”.
Era riuscito a ricomporre a unità il caleidoscopio e il variegato mosaico di genti e costumi, nonostante le guerre intestine e le distruzioni punitive, mediante una romanizzazione discreta ma penetrante e lo proclamava: ma non era propaganda, bensì realtà tangibile e inconfutabile.
La galleria dei reperti, i riti funerari e le lingue
La storia che abbiamo brevemente riassunto sulla base dell’accurata ricostruzione fatta per la mostra dagli studiosi citati, a partire da Osanna e dalla Verger, si snoda come in un film nelle 10 sezioni della galleria espositiva dei reperti dal IV sec. a. C. all’era di Augusto, a cavallo tra il I a.C. e il I d. C. Con una 1^ sezione intitolata Tota Italia nella quale sono esposti 3 reperti di quest’ultimo arco di tempo: “Monumento funerario con fanciulle danzanti” e “Trono decorato a rilievo” del I sec. a. C, “Altare dedicato a Marte, Venere e Silvano” del I sec. d. C. Sono emblematici per raffinatezza e perfezione stilistica dei rilievi, il primo funerario, gli altri dedicati uno agli dei, l’altro al sovrano.
Si entra subito nel cuore delle diversità italiche e della progressiva romanizzazione nella 2^ sezione sui Riti funerari nei quali le differenze sono marcate: al Nord vigeva la cremazione con raccolta delle ceneri in un’urna, in Etruria la tomba “a camera” richiamava l’abitazione lasciata, al Centro e al Sud un ricco corredo con gli oggetti più amati che lo accompagnavano nell’al di là, in Magna Grecia simboli che ne attestavano la posizione sociale.
Una “Lastra dipinta con scena di accoglienza del defunto” apre la galleria, testimoniando le tombe dipinte a Paestum e nel lucano, espressione di un fiorente artigianato: una donna porge un vaso a un guerriero a cavallo, siamo nella 1^ metà del III sec. a. C.; di un secolo più antica la “Lastra dipinta con scena di ritorno del guerriero”, risale alla 1^ metà del IV sec. a. C., stessa forma di accoglienza con una scena più nitida e di più ampio respiro.
Frequenti nelle tombe le immagini di armati e armature vere, per lo più pesanti in Etruria e Magna Grecia, leggere da cavalleria al Sud, in Lucania, ma anche al Nord nella terra dei Veneti. Le vediamo nel “Corredo della ‘tomba dei due guerrieri’”, sepolti in momenti distinti nella stessa tomba “a camera” rinvenuta a Lavello, nella 2^meà del IV sec.: elmo “a bottone” e corazza insieme a un “bacino rituale” a figure rosse con un auriga sul carro trainato da due cavalli, un vaso con linee istoriate, e soprattutto un vaso e delle brocche a decorazione plastica e policroma
Inoltre facciamo la scoperta del “Corredo di una tomba femminile”. dalla necropoli del “Ricovero di Este”, con un “modello di mobile” istoriato da cavalli al galoppo, e una serie di oggetti di abbigliamento che mostrano come le donne si adornassero nel III sec. a. C. Ed ecco una corona con elementi che richiamano forme vegetali e bracciali dalla necropoli di Montefortino d’Arcevia Corona; poi componenti di una collana, fibule e orecchini d’oro, fino a uno “Specchio a scatola con coperchio decorato a sbalzo” in cui viene rappresentata Afrodite seminuda con intorno degli Eroti, dalla tomba a Canosa di Taranto, di una defunta d’alta classe, dato che oltre alla specchio sono stati trovati un diadema, oggetti d’oro, d’argento e ceramiche.
Un terzo tipo di corredi funerari era rappresentato dai servizi per banchetto, soprattutto per la carne e il vino che erano le principali componenti del pranzo. Le differenze anche qui sono notevoli, nei modi con cui si procedeva al pranzo, e nel vasellame utilizzato, tra le forme etrusche e greche, celtiche e italiche.
Fanno parte del “mosaico di popoli” che oltre negli usi e consuetudini si manifesta con particolare evidenza nelle Lingue, cui è dedicata la 3^ sezione, che riflettono le diverse culture: si va dall’etrusco all’osco, dall’umbro al venetico, fino al latino arcaico, con notevoli differenze nell’alfabeto e nella costruzione delle parole, nella grammatica e nella sintassi.
Ciò si riscontra sia se provengono dallo stesso ceppo sia da altri, tutte fortemente identitarie fino a quando sono state soppiantate dal latino che divenne la lingua ufficiale; ma non solo restarono a lungo nel parlato comune, ma hanno influenzato il latino classico, evoluzione del latino arcaico, e le lingue moderne sue derivate.
Il “mosaico di lingue” è evocato nella mostra dall’esposizione di reperti molto antichi. Spettacolare la “Cisti portagioielli con iscrizione in latino arcaico”, detta “Ficoroni” dall’antiquario e primo proprietario, IV sec. a. C., rinvenuta nel 1738 nella necropoli di Colombella a Palestrina, l’antica Praeneste: con due ricchi fregi su un episodio degli Argonauti, scene idi caccia al cinghiale, termina con piedi in bronzo raffiguranti zampe feline che schiacciano una rana, al culmine un gruppo di 3 statuette in bronzo fuso con Dioniso e satiri.
E’ esposta anche la “Spada ripiegata con iscrizione in latino arcaico” un po’ meno antica, IV-III sec. a. C., rinvenuta nel Santuario italico di Fonte Decima vicino a Cassino, spuntata e piegata come offerta votiva, derivata da modelli celtici, con una stella di tipo mediterraneo a otto punte e la scritta affine quella della cista Ficoroni appena citata con la firma dell’artigiano, dal nome osco, si legge in caratteri capitali “Pomponio”.
Del IV sec. a. C. la “Stele in lingua osca con cinghiale”, rinvenuta nel 1889 nel santuario del Fondo Patterelli nella zona dell’antica Capua, con inciso il nome osco dell’offerente, un cinghiale e una focaccia che rappresentavano le offerte rituali del santuario.
Più recenti, “Testo giuridico in lingua etrusca”, II sec. a C., da Cortona, vediamo esposte 7 tavolette incise con chiari caratteri in lettere capitali, e “Modello di fegato per pratiche divinatorie con iscrizioni in etrusco”, del 100 a. C., ritrovato vicino Piacenza nel 1887, testimonianza preziosa del rituale di predizione del futuro dalle viscere degli animali, nel caso il fegato, come organo connesso con l’origine del sangue, quindi della vita.
Dalle lingue nelle versioni funerarie alle religioni il passo è breve, si entra sempre di più nell’anima delle popolazioni con le diversità amalgamate nel crogiolo della romanizzazione. Ne parleremo prossimamente dando conto delle ultime 6 sezioni della mostra: i culti e i contatti col Mediterraneo, le guerre e l’organizzazione del territorio, il lusso e i volti dell’Italia romana, con il finale sull’Italia “unita” nel nome di Augusto.
Info
Scuderie del Quirinale, Roma, Via XXIV maggio n. 16. info@scuderiequirinale.it, tel. 02.92897722. Nel periodo di apertura della mostra visita da lunedì a domenica ore 10-20 (ingresso fino alle 19), entrate contingentate con obbligo di “Green Pass”, e protocollo di sicurezza, su mascherine, distanza di 2 metri, igienizzazione, biglietto euro 17,50, ridotti over 65, giovani e altre categorie. Catalogo “Tota Italia. Alle origini di una nazione”, con sottotitolo IV secolo a. C. – I secolo d. C., a cura di Massimo Osanna, Stéphane Verger, pp. 168, formato 16 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo, nonchè le immagini dei reperti esposti in mostra. Cfr. i nostri articoli, in www.arteculturaoggi.com sulla mostra di Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019 per la punizione a Marsia da parte di Apollo nella musica, la mostra di Augusto 9 gennaio 2014, e www.archeorivista.it “Villa Giulia a Ventotene, la capacità umana di far soffrire anche in Paradiso” 24 ottobre 2010, per la punizione a Giulia, la figlia di Augusto. (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, disponibili, saranno trasferiti su altro sito).
Photo
Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore e la Presidenza delle Scuderie del Quirinale, che lo ha messo a disposizione, e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. E’ inserita la sequenza di una immagine per ciascuna delle 10 sezioni, poi un’altra sequenza con qualche eccezione. In apertura, inizia la sequenza completa delle 10 sezioni, “Trono decorato a rilievo” I sec. a. C; seguono, “Corredo di una tomba femminile” III sec. a. C., e “Cisti portagioielli con iscrizione in latino arcaico” IV sec. a. C.; poi, “Statua di Mater con dodici figli” fine IV sec. a. C., e “Terracotte architettoniche di un edificio templare” II sec. a. C.; quindi, “Architetture greche in frammenti” III sec. a. C., e “Cippo di delimitazione del territorio” 131 a. C.; inoltre, “Il recupero dal mare di una statua di Ercole” prima metà I sec. a. C., e “Ritratto di sacerdote con corona d’allora e spighe” metà I sec. a. C.; ancora, “Rilievo con raffigurazione di un tempio” prima metà II sec. d. C, e continua con la seconda sequenza mancante della 1^ e 9^, “Corredo della “tomba dei due guerrieri’” III sec. a. C, , e “Stele in lingua osca con cinghiale” IV sec. a. C.; prosegue, “Ercole in riposo con dedica a M. Attius Peticius Marsus” II sec. a. C., e “Terracotte architettoniche da un edificio templare– Lastra di rivestimento (antepagmentum) con motivo naturalistico”, II sec. a. C.; poi, “Architetture greche in frammenti” III sec. a. C., e “Statua di Marsia con ceppi da schiavo” III sec. a. C.; infine, “Blocco con suonatrice di cetra da un monumento funebre” seconda metà I sec. a. C. e, in chiusura,“Ritratto di Giulio Cesare” inizio I sec. d. C.
Si è svolta, alle Scuderie del Quirinale, la mostra “Tota Italia. Alle origini di una nazione”, celebrativa del 160° anniversario dell’Unità d’Italia dei tempi moderni attraverso la ricostruzione, documentata da un’accurata ricerca storica, di un itinerario epocale evocato mediante più di 400 reperti dell’antichità che ne segnano lo diverse tappe. Ricorre anche il 150° di Roma capitale, legata alla composizione dell’identità italica dai tempi più antichi, e il 75° anniversario della Repubblica, un tris d’assi che viene calato, per così dire, nella sede espositiva assurta a un livello istituzionale da quando, da pochi anni, è stata affidata ad Ales S.p.A. del Ministero della Cultura con presidente e A.D. Mario De Simoni. La mostra, aperta il 14 maggio, si è chiusa il 25 luglio 2021, ma la sua importanza va ben oltre il troppo breve periodo espositivo per la permanente validità della ricostruzione storica e artistica effettuata. Alla realizzazione, con Ales S.p.A. hanno concorso oltre 30 Musei e Soprintendenze di Stato con il contributo dei Musei civici. E stata curata, come anche il Catalogo edito da “arte,m”, da Massimo Osanna, direttore generale Musei del Ministero della Cultura, e da Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano
“Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua”, è la citazione che rappresenta la prova della compiuta unità nazionale nell’antichità e da il titolo alla mostra, con essa si apre la presentazione del Ministro della Cultura Dario Franceschini che osserva: “Così nelle sue ‘Res Gestae’ Ottaviano Augusto, che con le sue parole attribuiva alla nazione italica la libera scelta di combattere al suo fianco nella guerra civile che lo contrapponeva a Marco Antonio, esprimeva l’idea della totalità dell’Italia”.
Un’unità sostanziale che precede di almeno 3 secoli l’impero augusteo, ma conclamata soltanto dal divo Augusto “anche ai fini dell’autorappresentazione del Princeps”, osserva il curatore Massimo Osanna. S ricomponeva, nelle forme e con i protagonisti più diversi, in occasione delle guerre, con e contro Roma, con la quale pure veniva vantata una contiguità di fronte alla quale la Città Eterna aveva un atteggiamento mutevole a seconda delle situazioni e convenienze; i “barbari”, invece, erano i popoli insediati all’esterno, ben diversi dalla “gens italica”.
Ma l’identità italica non si manifesta solo nell’alleanza in guerra, come quella che sottostava all’espressione augustea. “Il nome Italia – nota il presidente di Ales Mario De Simoni – cessò di essere un’espressione geografica ma indicò invece una unità politica, amministrativa, giuridica, la penisola chiamata Italia che, pur nel potere centrale riconosciuto nella figura del reggitore, ricomponeva e saldava il caleidoscopio etnico della Penisola”. E cita il programma imperiale per i bambini bisognosi, “alimenta Italiae”, come un antesignano del moderno “welfare”, in nome di una condivisione anche a livello sociale estesa all’intera Penisola considerata Italia a tutti gli effetti. Ma sebbene l’unificazione augustea avvenisse nel segno di Roma, veniva mantenuta la divisione regionale con le sue diversità unite nella consapevolezza di un destino comune.
E’ proprio il “caleidoscopio etnico” evocato da De Simoni, ricomposto unitariamente, ad essere presentato nella mostra con una accurata ricognizione basata sui fattori identitari che sono strettamente legati alle culture radicate nel tempo.
Il curatore Osanna sottolinea le difficoltà incontrate per la carenza e tendenziosità delle fonti letterarie, spesso celebrative della funzione civilizzatrice di Roma, quindi tendenti ad oscurare le civiltà autoctone, che spiccano con chiarezza negli antichi reperti risultati rivelatori, pur con le mancanze dovute al “naufragio” di parte della documentazione archeologica più antica.
Su questi reperti è costruita la mostra, una suggestiva immersione nell’antico resa possibile dalla mobilitazione dei nostri musei che – afferma con legittima soddisfazione De Simoni – “hanno fatto ‘rete’ per poter raccontare, in un momento tanto difficile, un così significativo periodo della storia del nostro Paese” mostrando “una storia e un patrimonio culturale unico al mondo”.
Le premesse più antiche dell’integrazione di Augusto
E’ una storia delle quale ci sembra necessario o comunque utile dare le principali coordinate in modo da collocarvi poi i reperti delle varie epoche che la documentano.
Partendo dall’Italia meridionale, viene individuato l’inizio di un progressivo accorpamento – che da interessato e spesso forzato diventa naturale e condiviso – nella “deditio” di Capua, che si consegnò a Roma e fu inclusa nel suo territorio allorché era assediata dai Sanniti: siamo nel 343 a. C. Seguono le colonie latine di Luceria e Venusia, fondate nel 314 e 291 a. C., con i coloni laziali spostati in zone non abitate portandovi costumi e tradizioni, e ulteriori interventi di Roma nel 285 a. C. in aiuto di Thurii assediata dai Lucani, fino alla resa, nel 206 a. C., di Taranto che si opponeva alle incursioni romane nel suo territorio, cui seguì la fondazione della colonia latina di Paestum.
In termini punitivi, si verificava l’ampliamento dell’”ager publicus” romano con le confische pur restando molto territorio agli Italici con i quali fu stretto un “foedus”. In altre aree sorgono colonie romane e latine. Benevento e Crotone tra le prime, Thurii e Hipponium tra le seconde, è l’inizio del II sec. a. C., nel 123 a. C. è la volta di Taranto e Scolatium.
Ma è con la “guerra sociale” del 90 a. C. che si ha una prima definizione dell’assetto territoriale, questa volta con gli Italici non “socii” di Roma, ma insorti contro la sua egemonia, in nome della libertà chiamarono “Italica” la loro precaria capitale e coniarono monete con la scritta “Italia” rivendicando la “consanguineità” con Roma, come aveva fatto essa stessa: “Del resto – ricorda Osanna – già dal III secolo a. C. Roma nei rapporti con territori esterni alla Penisola aveva utilizzato il concetto di Italia in senso etnico-culturale, come forma efficace di autorappresentazione”.
E precisa: “Si trattava non di una identità sostitutiva che annullava quella delle genti italiche ma di una sorta di veste identitaria aggiuntiva che si affiancava a quella delle varie genti che componevano la Penisola”. Non era mera promozione, ma autodifesa per scoraggiare gli Italici ad unirsi ai nemici, come nella 2^ guerra punica quando tendevano a passare con Annibale perché lo immaginavano vincitore o temevano il dominio di Roma.
Alla conclusione della “guerra sociale” fu concessa la cittadinanza romana agli “Italici” per cui l’intero territorio divenne “romano”, aggiungendo alla naturale integrazione sotto l’aspetto geografico quella politica e quella istituzionale. Nacquero i municipi omologando le diverse origini e radici, romane-latine, italiche e anche greche, in particolare al Sud, terra della Magna Grecia.
Quando “l’Italia nella sua interezza prestò giuramento per me di sua spontanea volontà” – sono le parole di Augusto della “Res Gestae” che abbiamo riportato all’inizio nella citazione testuale del ministro Franceschini – è andato a compimento un processo in atto da tre secoli con fasi alterne: era il 32 a. C. e non fu soltanto la conclusione formale di un fatto sostanziale, bensì un evento destinato ad avere effetti concreti molto rilevanti.
Solo con l’età di Augusto, spiega Osanna, “questo processo di unificazione potrà dirsi pienamente concluso anche da un punto di vista culturale e il concetto diventerà un formidabile strumento di consenso”. Ed ecco come: “Invocando la diversità degli altri si cementava così l’identità interna di una nazione nata da un mosaico di popoli e la cultura diventava uno strumento essenziale nella presentazione di questa unità, riconoscibile in tutti i tratti della vita quotidiana… e della religione”, anche nella “materialità degli oggetti, la monumentalità delle architetture, le decorazioni scultoree e pittoriche degli spazi di vita”. Unità voleva dire appartenenza e anche riconoscibilità di un tessuto comune, partendo da differenze identitarie, in un arricchimento a vantaggio di tutti.
De Simoni ha parlato di “caleidoscopio”, Osanna di “mosaico di realtà” e definisce “il panorama etnico e sociale” che si presenta a Roma nella sua progressiva espansione “estremamente disomogeneo”: perciò Roma lo affronta “con strumenti duttili” e “soluzioni diversificate”, per procedere all’integrazione.
Nei territori meridionali, con la sconfitta di Taranto, la penetrazione latina va via via scalzando la “grecità autonoma” con un ridimensionamento del ruolo delle città e il declino nelle necropoli del modello “democratico” dell’uniformità delle tombe della classe media per tombe anche monumentali con ricchi corredi pervenuti a noi come preziosa testimonianza.
Nella colonia “Neptunia” e in “Heracleia” , nelle sue vicinanze, si hanno esempi significativi dell’inserimento di una nuova comunità a fianco di quella greca con diverse tradizioni e modelli culturali. L’edilizia, con la spinta delle guerre che vi portavano il mondo romano, si evolve dal peristilio greco e dal cortile a grandi ambienti decorati e pavimenti a mosaico, con ampi porticati. Questo avviene per chi si sa adattare alle nuove condizioni, mentre i ceti medi decadono e lo si vede nella riduzione del “municipium” con larghe zone disabitate.
L’antica colonia greca di Poseidonia diventa colonia latina nel 273 a. C. dopo la trasformazione in centro lucano molto dinamico, anche a Paestum viene affiancata “una nuova città nella città” con la trasformazione dell’impianto viario e dell’assetto urbanistico, creando spazi per le funzioni pubbliche e i negozi per le attività commerciali. Ai santuari greci ooriginari si aggiungono quelli per le divinità romane, ad Athena – a Roma Minerva – si affiancano Giove, Giunone e Apollo.
Lontano dalle radici nella Magna Grecia, nel territorio appenninico poco urbanizzato si tende a concentrare gli insediamenti, prima sparsi, in strutture di tipo cittadino sui modelli coloniali latini. Nei monti della Lucania, invece, gli insediamenti abitativi già nel IV sec. a C. erano andati evolvendo verso strutture accentrate, anche circondate da mura, con la forma delle città, e i luoghi sacri venivano separati dagli altri, nel territorio coltivato sorgevano fattorie con colture anche specializzate.
Questo accadeva fino a quando con le guerre di Annibale e le guerre sociali il territorio si spopola anche per effetto delle confische che estendevano l’”ager publicus” destinato spesso a pascolo, ponendo fine a molti insediamenti preesistenti, anche se venivano mantenute le culture specializzate per i ceti più elevati.
Ne è derivato un impoverimento non solo del territorio, ma dell’intero tessuto sociale tanto che Strabone, riguardo ai Lucani, ha scritto parole inequivocabili all’epoca di Augusto: “Non sussiste più alcuna organizzazione politica comune a ciascuno di questi popoli, e i loro costumi particolari, di lingua, di armamento, di vestiario e di altre cose del genere, sono scomparsi”.
Con la precisazione: “E d’altronde, considerati singolarmente e a parte, questi insediamenti sono praticamente trascurabili”. Commenta Osanna al termine dell’accurata ricostruzione: “Del resto anche negli altri territori, all’epoca di Augusto, si doveva conservare assai poco degli antichi mores. Un mondo nuovo era cominciato”.
Lingua, armamenti, corredi funerari, dell’ibridazione italica più antica
Sugli antichi “mores” e sul processo evolutivo si soffermano altri studiosi nella loro rievocazione storica affiancata a quella del curatore Osanna. L’altra curatrice Stéphane Verger punta la sua attenzione su un evento, la battaglia di Sentino, che fece da catalizzatore, per così dire, negli equilibri instabili dei popoli italici rispetto a Roma. I Sanniti sconfitti crearono una coalizione con Etruschi, Umbri e Galli, ma era così precaria che i primi due popoli ne uscirono su pressione dei contingenti romani prima che l’alleanza si concretizzasse. La presenza, in diverse collocazioni, del “mosaico variegato dei popoli insediato intorno a Roma”, fornisce l’occasione per passare in rassegna le differenze negli aspetti più evidenti della loro presenza nel territorio.
Si confrontavano le più diverse organizzazioni politico-sociali dell’Italia, con le più diverse forme di organizzazione cittadina, accentrata o decentrata di tipo tribale nel territorio; e le diversità più evidenti pur con i segni della contaminazione e dell’omologazione.
In primo luogo la lingua: “a Sentino, i vari eserciti presenti parlavano una moltitudine di lingue”, ma sembra non fosse una Torre di Babele perché la più diffusa lingua “osca”, e le lingue dei Lucani e dei Bretti erano affini, e anche la lingua latina non era molto diversa, come non lo era quella degli Umbri. Invece nell’Italia centrale, particolarmente nel versante adriatico, alla locale lingua italica, affine alle “osche” e umbre, si aggiunge la “lingua indoeuropea allogena” dei Senoni, del tutto diversa, proveniente dai Galli dell’Europa centrale di cui tale popolo faceva parte come gli altri gallici insediatisi al Nord d’Italia — in particolare Lombardia e Piemonte dove si parlava un dialetto gallico sin dal VII sec. a. C.- e scesi fino alla zona adriatica.
Nella città di Felsina, i Galli sopraggiunti si fusero con la popolazione locale parlando l’etrusco, la lingua in uso nella futura Bologna da cinque secoli, che risultava molto diffusa oltre che nell’antica Etruria, nei centri etruschi campani, italici e perfino a Roma. Anche i Celti nel IV sec. a. C., con le unioni e i contatti di ogni tipo con quelle autoctone, parlavano l’”osco” e l’umbro, il piceno e il venetico. nei rispettivi territori, come risultato della convivenza tra popolazioni galliche e italiche.
Sul piano militare, tale contaminazione e ibridazione è confermata dalle tattiche dei tanti contingenti schierati a Stettino: diventavano assimilabili nel comportamento dei soldati che si conoscevano e avevano combattuto come alleati e anche come nemici, sebbene in astratto si differenziassero tra “quella romana, ordinata e misurata, e quella sannitica e gallica, confusa e precipitata”. Gli armamenti italici spesso si ispiravano a forme allogene, come l’elmo etrusco dalla forma dei primi elmi celtici, diffuso largamente in Italia dal Nord al Sud tra la gran parte dei popoli, dai Liguri e i Galli ai Piceni, Sanniti e Lucani, fino ai Romani; così per lo scudo e la lancia.
Nei corredi funerari del Nord e del centro Italia nel IV e III sec. a. C. lo stesso fenomeno di “ibridazione culturale”: in una tomba nella Felsina una spada celtica di ferro insieme a un elmo etrusco di bronzo, vasellame etrusco e oggetti delle popolazioni guerriere italiche di allora.
Nel corredo della tomba detta “Nerka Trostaia” ad Este, gli oggetti rappresentano “tutta la storia e la topografia culturale dell’Italia pre-romana, dal momento preciso in cui, nell’Italia centrale e meridionale, Roma comincia a prendere il sopravvento sui suoi vari avversari”: con elementi di vario tipo greci ed etruschi insieme ad altri introdotti dai Galli, in particolare nell’abbigliamento.
L’ibridazione era indotta dai “collegamenti culturali e diplomatici da una parte all’altra dell’Adriatico”, anche tra Taranto e la Magna Grecia fino alla Pianura Padana attraverso il Piceno, evitando così i territori controllati da Roma; fino a quando, con la presa di Taranto nel 272 a. C. e l’assoggettamento di Sanniti, Piceni e Umbri, fondata nel 268 la colonia latina di Amminium, Roma controllava lo sbocco sull’Adriatico cui era collegata dalla via Flaminia. “A partire dal 220 a. C. – conclude la Verger – si potevano impostare le tappe dell’ultimo conflitto con i Galli della Cisalpina, con il quale si sarebbe conclusa la totale presa di possesso della Penisola”.
Siamo nella fase più antica del processo che culminerà nella piena omologazione augustea la quale sarà florida nello sviluppo economico, nella trasformazione urbana nel segno dell’opulenza, e nelle virtù civili oltre che militari, come nell’auto-rappresentazione del Princeps collegata agli antichi valori della più nobile discendenza dal fondatore di Roma. Ma prima ci sarà la fase intermedia, tra il II e il I sec. a. C. nella quale dalle alleanze e condivisioni con Roma si passa alle repressioni per una “pax romana” fondata sull’assoggettamento di popoli peraltro accomunati ormai alla Città eterna nel processo di “ibridizzazione” di cui abbiamo ricordato gli inizi.
Di queste due ulteriori fasi – romanizzazione forzata del I e II sec. a C. e consacrazione di Augusto – parleremo prossimamente iniziando anche la rassegna dei reperti esposti in mostra che ne danno la documentazione visiva e l’emozione per un contatto così stretto e diretto con l’antico; rassegna che concluderemo successivamente.
Info
Scuderie del Quirinale, Roma, Via XXIV maggio n. 16. info@scuderiequirinale.it, tel. 02.92897722. Nel periodo di apertura della mostra visita da lunedì a domenica ore 10-20 (ingresso fino alle 19), entrate contingentate con obbligo di “Green Pass”, e protocollo di sicurezza, su mascherine, distanza di 2 metri, igienizzazione, biglietto euro 17,50, ridotti over 65, giovani e altre categorie. Catalogo “Tota Italia. Alle origini di una nazione”, con sottotitolo IV secolo a. C. – I secolo d. C., a cura di Massimo Osanna, Stéphane Verger, pp. 168, formato 16 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo, nonchè le immagini dei reperti esposti in mostra.
Photo
Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore e la Presidenza delle Scuderie del Quirinale, che lo ha messo a disposizione, e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. E’ inserita la sequenza di una immagine per ciascuna delle 10 sezioni, poi un’altra sequenza con qualche eccezione. In apertura, inizia la sequenza completa delle 10 sezioni, “Monumento funerario con fanciulle danzanti” metà I sec. a. C; seguono, “Lastra dipinta con scena di ritorno del guerriero” prima metà IV sec. a. C., e “Testo giuridico in lingua eterusca” II sec. a. C.; poi, “Statua di offerente in trono con porcellino” IV-III sec. a. C., e “Statua di pugile in riposo” I sec. a. C.; quindi, “Piatto votivo con raffigiurazione di elefante da guerra” III sec. a. C., e “Tabula con una legge latina, riutilizzata per una legge in lingua osca” II-I sec. a. C; inoltre, “Rappresentazione di Iside-Fortuna e di un giovane nudo con iscrizione graffita” I sec. d. C.; ancora, “Ritratto di filosofo su erma iscritta, Parmenide” I metà I sec. d.C., e “Ritratto di Livia” fine I sec. a. C.; continua con una nuova sequenza, mancano la 1^ e 10^ sezione, “Lastra dipinta con scena di accoglienza del defunto” primi decenni III sec. d. C. e “Modello di fegato per pratiche divinatorie con iscrizioni in etrusco” 100 a.C. circa; prosegue, “Stipe votiva dlla dea Reita – Statuetta di guerriero a cavallo” IV sec. a. C., e “Terracotte architettoniche di un edificio templare– Lastra di rivestimento (antepagmentum) con motivo a palmette alternate”, II sec. a. C.; poi, “Rilievo con navi da guerra” terzo quarto del I sec. a. C., e “Iscrizione in lingua osca con riferimento alla viabilità di Pompei” II sec. a. C.; infine, “Triade capitolina” II sec. d. C. e, in chiusura,“Ritratto femminile” seconda metà I sec. a. C.
Nel ventennale dal crollo delle Torri Gemelle colpite da 2 aerei di linea lanciati come kamikaze completiamo la rievocazione del tragico evento tratta dal nostro romanzo-verità “Rolando e i suoi fratelli, l’America!”, pubblicando la 4^ e ultima puntata, dopo le 3 uscite in questo sito l’11, 13 e 15 settembre. 2021. L’evento viene seguito “in diretta” da un personaggio del romanzo, il figlio del protagonista, che l’ha veramente vissuto in prima persona. Dopo aver fatto rivivere l’angoscia e lo sconcerto dinanzi a un atto inimmaginabile e così disumano, si è passati all’impegno nei soccorsi e alle prime riflessioni. Ora dalla disperazione si passa alla reazione indignata e orgogliosa che porta alla mobilitazione contro l’infame attacco alla civiltà e alla vita di tutti.Le immagini, a differenza di quelle inserite nelle 3 puntate precedenti, relative alle scene di distruzione delle torri e dell’intera area, fotografano l’assetto attuale, con il memorial “Ground Zero” che ricorda l’evento e tutte le vittime con i loro nomi come in un sacrario, e il grattacielo “”One World Trade Center” , costruito tra il 27 aprile 2006 e il 30 agosto 2012, ideale erede delle Torri Gemelle e dei valori da esse evocati, per questo detto “Freedom Tower”, nel rinnovato contesto urbanistico del “New World Trade Center” ; precedono le luminose visualizzazioni virtuali delle torri che furono elevate a loro memoria. Il grattacielo è alto 1776 piedi, l’anno della dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, 541 metri al pennone e 417 metri al tetto, con 104 piani.
“…E’ rientrato nella sua abitazione dopo una giornata di tregenda. Tutto il giorno e parte della notte è restato nella zona del disastro adoperandosi per dare un aiuto. Con i volontari ha lavorato a fianco dei vigili del fuoco e dei poliziotti, ha messo a disposizione le proprie capacità organizzative oltre alle mani nude per cercare tra le rovine. Ha voluto rendersi utile alla città colpita a morte, ed è fiero di averla aiutata a ricominciare a vivere, a risollevarsi dal baratro in cui è precipitata. Si è impegnato finché le autorità e i corpi municipali, tramortiti dall’immane tragedia, hanno ripreso il controllo. E’ riuscito a parlare con i suoi, li ha tranquillizzati, se può usare questa parola in un momento simile.
Si distende sul letto. Vorrebbe allontanare la visione sconvolgente della mattina e lo spettacolo desolante del pomeriggio e della sera. Ha ancora negli occhi l’immagine agghiacciante delle persone che precipitano dall’alto in un volo disperato, delle persone che escono stravolte dagli edifici in fiamme correndo all’impazzata, dei vigili del fuoco che fanno il percorso inverso cercando di contenere le proporzioni della tragedia, della gente che vaga smarrita e sgomenta non sapendo come rendersi utile, delle imponenti torri prima in fiamme come fumaioli che hanno preso fuoco, poi crollate inesorabilmente una dopo l’altra.
L’ultima immagine ò quella della notte. Dalle fotoelettriche, sciabolate di luce si proiettano su un paesaggio spettrale, un deserto di rovine sovrastate da una specie di tragica quinta teatrale fatta di un rivestimento sottile come un paravento rimasto miracolosamente in piedi a marcare un’identità cancellata, così precario e irreale da ricordare inquadrature da film dell’orrore, gli sembra di sentirne il sinistro cigolio. Un deserto di morte, brulicante di uomini con le divise fosforescenti alla ricerca del nulla, cioè di tutto. Delle vite annientate, dissolte, polverizzate.Trascorrono inquiete le ore. A poco a poco riprende contatto con la dimensione umana della vita dopo averne conosciuto da vicino la dimensione disumana.
Il day after di New York inizia con un sole malato, quasi timoroso di aprire un nuovo giorno nell’orrore del massacro delle torri. Massacro di migliaia di esseri umani disintegrati dalle migliaia di tonnellate dei piani superiori che si sono riversati sui piani inferiori travolgendoli e sbriciolandoli in una voragine che li ha inghiottiti.
Le migliaia di tonnellate precipitate a valle col boato delle valanghe erano avvolte dalla palla di fuoco che ha liquefatto le possenti strutture di acciaio progettate per resistere agli impatti più violenti, dal vento rovinoso del tornado fino all’aereo impazzito.
-Al fuoco dell’inferno non si resiste se si è inermi rispetto alle forze del male e si è abbandonati alla mercé di Satana! Sono espressioni che lo fanno inorridire mentre l formula, tanto sono apocalittiche.
Balza giù dal letto,corre allo specchio. Scruta il proprio viso, ha paura che Satana gli abbia prodotto mutazioni da richiedere l’esorcista. Ripensa al film che gli aveva suscitato una reazione di disgusto e disprezzo, e non ai film catastrofici nei quali erano la natura e l’imponderabile, anche la delinquenza o la cattiveria ad agire, ma entro limiti più contenuti, in un certo senso più umani.
-Sono state superate le Colonne d’Ercole dell’umanità per sconfinare nel regno dell’orrore senza limiti, senza ragioni! esclama. Inutile cercare un motivo, per quanto abietto, inutile tentare di capire! E se si fosse trattato di un incubo?
Attaccato a questa ancora di salvezza si avvicina alla finestra della camera. Guarda il cielo di sfuggita, teme di vedere lo skyline mutilato. le sue parole sono un’invocazione.
-Dove sono le torri? Ecco, se comparissero i due campanili svettanti sulla foresta pietrificata tutto sarebbe risolto. Dio mio, fa il miracolo per l’umanità, non per me, è stata sfregiata la civiltà, distrutta la vita in modo infame violando i valori più sacri. Non può essere vero. E se ti fossi distratto puoi rimediare. Ora e subito, ci credo, ci conto! L’invocazione termina con una pretesa più che con una preghiera. E’ stato lo sfogo di un momento. Non regge al vaglio della fede oltre che della ragione. La forza del ragionamento torna a farsi strada.
-Non è possibile semplificare il mistero della vita e della morte, del bene e del male, dell’onnipotenza e dell’onniscienza, e insieme del libero arbitrio dell’uomo che giustifica tante brutture non attribuibili alla volontà divina. E nemmeno spiegare la sconfitta del bene, troppo spesso condannato a soccombere sotto i colpi delle forze del male lasciandoci attoniti e smarriti.
Ritira l’assurda pretesa. Si riscuote. Riesce di nuovo a ragionare.
-Niente ora e subito, non ci conto, non ci credo. L’infamia è opera dell’uomo, l’essere umano ha tirato fuori la parte disumana della sua natura. Non serve scrutare il mio viso, né guardare nel vuoto sperando di vedere le torri intatte, magari avvolte dall’arcobaleno. Bisogna affrontare la realtà e non occorre lo specchio, non ha senso affacciarsi alla finestra.
Peraltro ci vuole poco per vedere e molto per non vedere la colonna di fumo mefiti conche si solleva dal luogo dov’erano le torri. In un’amputazione il dolor persiste nel punto dov’era l’arto mancante, così avviene nella città mutilata dei suoi simboli. E delle vite che si sono disintegrate in un pozzo senza fondo.
Un’immagine affiora alla sua mente, con il disgusto e il disprezzo per le mutazioni sataniche.
-Rammento che daddy mi raccontò di aver visto un gatto sfrecciare privo della coda troncata dal morso di un coccodrillo, terrorizzato per quella violenza innaturale quasi fosse l’attacco di un alieno. E aggiunse scherzando che il gatto alza la coda quando lo accarezzi per farti capire che è finito il gatto. Voleva sdrammatizzzare, però ottenne l’effetto contrario, l’angoscia di un gatto senza più carezze mi rimase dentro.
Guarda lo skyline senza le torri, un’amputazione innaturale di proporzioni incalcolabili.
-Ecco inquietudine che diventa orrore, l’angoscia che diviene terrore. Come dinanzi all’invasione di alieni spietati, dalle terrificanti sembianze di infernali coccodrilli pronti a chiudere le loro fauci smisurate su migliaia di esseri incolpevoli. All’inquietudine e all’orrore, all’angoscia e al terrore si aggiunge una lacerazione profonda, un dolore lancinante che non ha eguali, un male insanabile che scava dentro. New York ha subito un’amputazione sanguinaria e assassina, senza le torri resterà mutilata per sempre di qualcosa di unico. Non ci sarà la stessa gioia di vivere nel microcosmo gravitante sulla Plaza dove il lavoro e il divertimento diventavano una festa collettiva. E’ stata depredata delle tante carezze che non si potranno più dare alle innumerevoli vittime. E delle carezze che non si potranno dre alla “città che on dorme mai” ora che è stata spogliata della sua parte più viva e vitale.
Ha un soprassalto d’orgoglio.
-Non è la fine della civiltà, bensì una tragedia che pone enormi responsabilità. Il mondo non puù soccombere alla più bestiale assenza di umanità, deve reagire!
In Johnny non c’è solo l’idealista, c’è il manager. Abituato a ribattere colpo su colpo alle azioni dei concorrenti, a tradurre le minacce in opportunità. Glielo raccomandava sin da bambino il pdre che aveva dovuto fare un duro cammino per passare dall’ago al milione, dai sette dollari dello sbarco nel porto di New York al completo benessere. E lo ha affinato nelle scuole di management.
Nelle lezioni sulle strategie aziendali, e poi nelle riunioni all’alta direzione della merchant bank, l’imperativo era quello dello judo, utilizzare contro l’avversario la sua stessa forza. Una civiltà millenaria lo ha insegnato.
-Che sto proclamando? Non sarò io a elaborare la strategia di difesa. O di offesa. Sì, di offesa, protesta on un fremito di ribellione.
E’ impossibile fermare i propri pensieri, si conosce bene.
-Sarebbe sbagliato concludere che si è giunti alla fine della storia. L’ho pensato per un momento quando le immagini che avevo davanti agli occhi evocavano l’eclissi della civiltà. Finora se n’era parlato per l’appiattimento del mondo sotto la superiorità americana, e non era giusto. Non sarebbe giusto, a maggior ragione, neppure l’opposto: cioè la resa dell’America, e del mondo con essa, alle forze del male.
Allontana dalla mente i versi che il padre declamava nell’affrontare i confronti più difficili, “io sol combatterò, procomberò sol io”.
-Combatteremo tutti, combatteranno tutti. E’ una sfida decisiva, nessuno dovrà sottrarsi. Da una minaccia è necessario cogliere un’opportunità.
Torna il proposito quasi ossessivo e gli fa trovare la risposta all’interrogativo che lo assilla.
-Che opportunità trarre dalle fiamme dell’inferno, se non la spinta per reagire con una forza pari alla violenza con cui è stata inferta l’immane ferita? A un’azione spaventosa deve contrapporsi una reazione uguale e contraria. Lo dicono le leggi fisiche, lo insegna la natura. Anche se la primordiale legge del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”, è superata dal progresso e dal messaggio altrettanto antico “nessuno tocchi Caino”, chi ha portato l’inferno a Manhattan non merita pietà. In questa sfida si ridesteranno energie assopite, adagiate nel benessere e nella sicurezza, per annientare le minacce infernali ovunque si annidino, in modo da ricavare del bene dal male assoluto. Saranno le forze disumane del male a far recuperare all’umanità la forza intemerata del bene per la mossa di judo vincente.
Emerge un nuovo imperativo, ritrovare lo spirito della frontiera per rianimare un corpo svuotato dalla mancanza di stimoli che ha perduto la voglia di mobilitare tutte le energie per una causa.
-Altrimenti per cosa mobilitarle? si chiede. Per il super sofisticato modello di automobile dalle centinaia di cavalli di potenza con le sbalorditive diavolerie futuristiche e la megatelevisione satellitare al plasma dai mille canali con l’apertura globale al mondo interattiva e senza confini, per l’onnipotente personal computer con accesso illimitato a un’Internet onnisciente e il telefonino ipertecnologico divenuto terminale dalle possibilità sconfinate, per l’avveniristico gadget elettronico e la playstation dalle più fantasmagoriche simulazione computerizzate? O per l’abitazione accessoriata e automatizzata, tecnologica e cablata imposta da una domatica fantasiosa e invasiva , la villa sempre più spettacolare con piscina e contorno di barca da diporto e le seconde residenze sparse nelle località più attrattive? E’ la meta del lavoro quotidiano, con l’orario che lascia parte del pomeriggio a disposizione per lo shopping o per rasare il prato, e due giorni di week end sacro e intangibile. Un risultato, quest’ultimo, raggiunto in un’America all’avanguardia della crescita economica per merito dei suoi cittadini, anche se per tanti resta un miraggio. Adesso non basta più, neppure quando l’attività copre l’intera giornata e non lascia spazi riservati per la propria persona.
La giornata lavorativa di Johnny supera le dodici ore, solo a notte fonda può dire di aver finito dopo incontri, riunioni, stesura di relazioni, spesso tra aerei e alberghi. Non vi è sabato e domenica che tenga, il week end non esiste allorché l’impegno è totale e assoluto.
Se domanda se sono aggettivi da usare ancora. O c’è qualcosa in più da fare? Cosa è cambiato?
-Nel mio impegno manca un elemento decisivo, non mi si chiede di rischiare la vita! esclama. Mentre lo spirito della frontiera unisce il rischio supremo alla mobilitazione totale e assoluta.
Domande assillanti gli affollano la mente.
-Le migliaia di lavoratori e di visitatori delle Twin Towers sapevano di rischiare la vita? Sapevano che li attendeva la fine più orrenda, scomparire nell’eruzione di un vulcano apertosi all’improvviso nel luogo più sicuro non lasciando la minima traccia di loro corpi? I sopravvissuti sapevano di dover riemergere dall’inferno stravolti, coperti di polvere e ferite, increduli della salvezza in un cataclisma che ne ha risparmiato il corpo ma ne ha marcato in modo indelebile lo spirito? E i passeggeri degli aerei sapevano di poter essere trasformati in missili a testata umana nella più orribile azione di kamikaze della storia?
Immediata è la risposta, uno sfogo che nasce dal cuore.
-Ma allora nell’impegno totale deve entrare anche il rischio della vita, come epr il pioniere, come per nonno Giovanni. Nella favola vera vissuta in terra di frontiera nelle miniere dell’Alaska incombeva sempre l’insidia di una frana o di un’inondazione, di un’esplosione o di un cataclisma, di un incidente o di un’imboscata dei rapinatori. Gravi pericoli che si sentiva di affrontare a costo della vita. Sarò degno di lui!
Ha di nuovo il controllo dei pensieri. E dei sentimenti. Con il ricordo del nonno, cuore e ragione si sono saldati. Può ripensare la propria esistenza. Finora ha dedicato le sue giornate alla merchant bank di cui è dirigente. Adesso, al di là dell’insicurezza calata sui grattacieli di Manhattan, è pronto a rischiare la vita sul campo di battaglia. E’ il rischio supremo che accetta in difesa dell’umanità, ne è consapevole.
La sua analisi è lucida, ha ripreso a ragionare. Da manager e da uomo.
-Si dovrà dare battaglia a chi ha scatenato l’apocalisse, nel segno della civiltà senza confini che l’essere umano ha costruito in una storia millenaria a prezzo di incredibili sofferenze e sacrifici. Civiltà che ha visto aberrazioni inenarrabili segnare nei secoli individui e generazioni, popoli e stati, ma lungo un percorso di faticosa, difficile, e tuttavia innegabile crescita. Non deve venire annullata dalla follia omicida che provoca la strage più orribile e non arretra dinanzi all’inimmaginabile per farci regredire alle angosce più tremende ai momenti più bui. Occorre unire le forze in una mobilitazione alla quale chiamare i cittadini e le nazioni che hanno subito una ferita insanabile nella loro vita. E non sarà più la vita di prima, sprofondata com’è nell’orrore di ciò che è avvenuto e nel terrore che possa ripetersi, non si sa ad opera di chi, dove, come, quando e neppure perché.
Pensa all’angoscia piombata sul mondo, cerca di mantenere la mente fredda.
-E’ un terrore che riporta alle minacce e alle paure ancestrali per i fulmini e i terremoti, gli incendi e le inondazioni, le carestie e le pestilenze, le invasioni dei barbari e le incursioni dei predoni, gli assedi e le guerre, fino all’incubo dell’olocausto nucleare; minacce e paure affrontate e sconfitte. Questa minaccia è invisibile e può annidarsi in ogni luogo, non viene dalla natura né da nemici dichiarati bensì da spietati terroristi dissimulati tra di noi con sembianze umane pur essendo disumani. La paura è che qualunque aeroplano, tra le molte migliaia che quotidianamente solcano i cieli, potrebbe trasformarsi in una spaventosa bomba umana scagliata da inafferrabili kamikaze su tanti innocenti.
Si ribella l’intero suo essere.
-Non è possibile vivere tutti sotto il ricatto del terrore e dell’orrore, occorre reagire all’unisono mobilitandosi contro chi ha lanciato la sfida mortale. Si mobilitavano i pionieri del Far West nell’America nascente. Si è mobilitata, dopo Pearl Harbour, l’America divenuta grande e prospera. Si mobiliterà, dopo la nuova Pearl Harbour che ha funestato l’inizio del terzo millennio, l’America superpotenza mondiale insieme alle nazioni del mondo civile!
E’ tornato in ufficio. Ha dimenticato la routine quotidiana e non ha idea di quali siano i suoi impegni, se ha senso continuare ad averne. L’alto dirigente che attendeva la mattina della tragedia per l’iniziativa nel digitale non si è fatto sentire, del resto non avrebbe potuto con ciò che è successo e lui non aveva affatto pensato di cercarlo. Né ha intenzione di farlo ora, ha ben altro per la testa.
Ancora non si è riavuto. Dov’erano le Twin Towers vede levarsi un fil di fumo che non evoca Madama Butterfly, ma un’esalazione da gigantesco forno crematorio. Volta le spalle alla vetrata, non vuole più guardare fuori.
Deve fare qualcosa. Prende il fascicolo sul digitale rimasto sopra la scrivania, apre l’armadio per rimetterlo a posto. Si accorge che sta ripetendo i movimenti del giorno prima in senso inverso, quasi volesse riportare la realtà al punto di partenza. Rammenta un film nel quale “Superman” con la sua forza aveva fatto girare la terra all’indietro invertendo il moto di rotazione e annullando quanto avvenuto nel frattempo. La coscienza dell’impossibilità di un tale evento lo deprime ancora di più. Siede dietro la scrivania, dove il calendario da tavolo è sempre aperto sulla pagina dell’11 settembre, martedì. Deve voltarla subito e voltare pagina anche dentro di sé, tornare al lavoro, alla vita. Lo fa con un gesto rapido, ma non basta.
Squilla il telefono. Prova sollievo, se questo è lo stato d’animo che si ha nel risollevarsi da una simile angoscia. Il lavoro lo chiama, e non per l’appuntamento saltato il giorno prima. Deve andare nel Michigan, a Detroit, per trattare la partecipazione a un’iniziativa in campo aeronautico promossa da un’impresa leader nel settore. L’incontro non è stato annullato. Tuttavia i voli nazionali degli aerei passeggeri sono bloccati per motivi di sicurezza, i terroristi hanno utilizzato proprio le linee interne. Si è trovata la soluzione, ed è l’oggetto della telefonata. Nel pomeriggio lo verrà a prendere l’aereo dell’impresa con un volo privato.
Intanto può incontrare i colleghi, riunire i collaboratori, prepararsi per la missione. Non parlano della tragedia del giorno prima. Ognuno sta combattendo la propria battaglia personale per tornare alla vita. Il lavoro si rivela la cura migliore per sconfiggere l’indicibile angoscia.
Finalmente va all’aeroporto. Non vede l’ora di ricominciare a lavorare. Perché significa ricominciare a vivere. L’aereo “executive” sta atterrando. Un ricordo gli si presenta, una bella immagine illumina la sua mente.
-Mi sembrano tornate le rondini ad annunciare l’arrivo della primavera. E’ la prima rondine ed è troppo presto per parlare di primavera nel cupo inverno abbattutosi su New York e sul mondo. Comunque è bello avvertirne il soffio.
Nella splendida giornata di settembre del giorno precedente era calato il gelo di una tragedia oltre ogni limite che aveva mostrato quanto di più disumano possa albergare nell’uomo e quanto di peggio possa capitare nella vita degli individui e delle nazioni. Ora pensa che il soffio della primavera tornerà sulla città, sulla gente. Che è la sua città, la sua gente. E’ fiero di farne parte.
Assorto sale i pochi gradini della breve scaletta ed entra nll”executive”. Con la mano sul cuore mormora commosso un’invocazione.
-God bless America!
Questo, ne è sicuro, è il suo nuovo inizio”.
Fine
Info
Si tratta della 4^ e ultima parte della rievocazione della cronaca vissuta in diretta dell’attentato alle Torri Gemelle nel romanzo-verità di Romano Maria Levante, “Rolando e i suoi fratelli, l’America”, Andromeda Editrice, 2005, pp. 366. L’intera cronaca è alle pagg. 321-344, la 4^ parte sopra riportata è alle pp. 338-344. La 1^ parte è uscita, in questo sito, l’11 settembre 2021, a 20 anni, la 2^ e la 3^ sono uscite il 13 e il 15 settembre.
Photo
Le immagini sono tratte da siti web di pubblico dominio, si ringraziano i titolari precisando che l’inserimento è a titolo meramente illustrativo, senza alcun intento di natura economica nè pubblicitaria, qualora tale nostra pubblicazione non fosse gradita le relative immagini verranno immediatamente rimosse su semplice richiesta. Non si tratta più nè di immagini delle Torri Gemelle in fiamme e col pennacchio di fumo, alternate con i vigili del fuoco al lavoro, nè del deserto di detriti e polvere con i vigili come formiche smarrite; ma dell’attuale situazione della zona del World Trade Center: le prime 13 immagini sul “Ground Zero”, tra cui le 3 iniziali fissano i vuoti rimasti dov’erano le torri, le 10 successive mostrano il “sacrario” con tutti i nomi delle vittime, le rose votive e le bandiere, fino alla preghiera di papa Francesco e all’abbraccio commosso dei due giovani; seguono 2 immagini con i fasci di luce virtuali che furono elevati temporaneamente in memoria, e 5 immagini finali sul “New World Trade Center” in cui spicca l'”One World Trade Center”, la risposta orgogliosa alla perdita delle Torri Gemelle, la torre più alta, la 6^ al mondo, chiamata “Freedom Tower” per i valori evocati. I siti, indicati nell’ordine in cui sono inserite le rispettive immagini, sono i seguenti: viator.co, newyorkcity.it, avvenire.it, fattodiritto.it, viaggi-usa.it, settimanenews.it, italiani.it, ilmattino.it, marcotogni.it, today.it, avvenire.it, vaticannews.va, dilei.it, ansa.it, marcotogni.it, newyorkfacile.it, 123rf.it, getyourguide,it, infobuildenergia.it, rainews24.it. Ancora grazie a tutti i titolari dei siti citati per l’opportunità offerta.
Siamo alla 3^ puntata della rievocazione in 4 puntate dell’infernale cataclisma abbattutosi sulle Torri Gemelle l’11 settembre 2001 per mano umana, anzi disumana; è tratta anch’essa dal nostro romanzo-verità “Rolando e i suoi fratelli, l’America!”, nel quale si rivive il terribile evento in “diretta” con un personaggio del libro che vi ha partecipato passando dall’angoscia e dalla disperazione, all’impegno nei soccorsi e alla presa di coscienza finale di mobilitarsi anche rischiando la vita contro terroristi che minacciano le nostre civiltà oltre alle nostre vite. In questa puntata, dalla “spada di Damocle” del secondo crollo, poi avvenuto, alla tragica “suspence” degli altri attatcchi, al Pentagono e forse alla Casa Bianca, fino allo sgomento per la perdita di qualcosa di irripetibile e soprattutto al dolore inconsolabile per le vittime innocenti, 2.750 incolpevoli civili, 343 eroici vigili del fuoco. Le immagini mostrano il vuoto lasciato dalle torri crollate, e la devastazione di detriti con i vigili del fuoco come formiche smarrite cui è stato distrutto il nido e che stentano a recuparare una dimensione umana.
“… Vengono fatti arretrare, il campo di battaglia è percorso incessantemente da vigili del fuoco e da poliziotti sui mezzi di soccorso e a piedi, Paul a poco a poco si riprende, vede un gruppo di colleghi che si sta riorganizzando e vuole raggiungerli. Resiste ai tentativi di fermarlo, si unisce a loro. Torna a fare il vigile del fuoco di New York in prima linea, e intanto affida Jane alle unità che assistono i sopravvissuti.
Figure coperte di polvere e sangue continuano ad aggirarsi come fantasmi, Ci si prepara al peggio.
-E’ crollata una delle torri, l’altra ha subito un colpo della stessa entità, ci si rende conto del pericolo? Si chiede Johnny con una stretta al cuore. In questa tragica confusione lo sgomento può prevalere sulla ragione, sull’intelligenza. E non far capire che anche la seconda torre può crollare seguendo la sorte che qualche volta unisce i gemelli fino all’esito funesto.
Vorrebbe correre a gridarlo a chi presta i soccorsi per fronteggiare gli effetti catastrofici della valanga. Ha fatto una riflessione.
-Per i soccorritori il rischio è altissimo. Il crollo è sopraggiunto trascorsa un’ora dallo scoppio iniziale sulla Torre Nord seguito dopo un quarto d’ora dall’esplosione sulla Torre Sud. Potrebbe ripetersi da un momento all’altro!
Nel riflettere sul pericolo incombente non pensa che è crollata proprio la Torre Sud, quella colpita dal secondo aereo. Un assurdo nell’assurdo.
Il dilemma angoscioso lo tormenta. Si sente impotente, cerca di reagire.
-Può essere imminente il crollo dell’altra torre o verificarsi molto più tardi. Oppure non verificarsi mai, s eil gemello resisterà. Ed io cosa posso fare di più? Avvicinarmi no, devo aspetatre.
Rimane immobile, paralizzato nell’attesa. Gli scorrono nella mente immagini recenti, vi si immerge per dimenticare il presente.
-Nell’opuscolo illustrativo erano citati coloro che hanno sfidato le torri, e io ripensavo agli ardimentosi del Niagara dei quali mio padre mi parlava quando ero piccolo trasformando in favole le loro imprese. Per primo un francese ventiquattrenne si spostò diverse volte dalla Torre Nord alla Torre Sud su una fune di quaranta metri stesa a quattrocento metri di altezza, mantenendosi in equilibrio aiutato solo dalla sbarra bilanciata con le braccia davanti al corpo. Successivamente giovani americani si sono lanciati con il paracadute e l’hanno scalata con le ventose lungo le intercapedini della facciata. Tutto è avvenuto sulla Torre Nord.
Anche nel Niagara le cascate sono due, ma gli ardimentosi si sono cimentati su quella canadese dell’Horseshoe. Perché penso questo, per cullarmi all’idea che sarebbe sufficiente la Torre Nord? Non si tratta di un organo che subentra all’altro per il raddoppio di alcune funzioni del corpo umano. Tuttavia, dinanzi all’avvenuta dissoluzione della Torre Sud, è l’ultima speranza a cui aggrapparsi. Sì, spero che almeno la Torre Nord resista, lo spero con il cuore e con l’anima!
Il tempo non passa mai, è la gente che passa spostandosi in un frenetico andirivieni. Johnny non se la sente di muoversi, lo tiene fermo in presentimento. Chiude gli occhi per scacciarlo, ora le immagini della sua mente diventano liete e festose, immerse nella consueta normalità. E cerca di non pensare che è stata sfregiata in modo irrimediabile dall’azione più infame.
Nella Plaza, dove sono le torri, inizia un itinerario pieno di sorprese. Si attraversa il ponte coperto per raggiungere il World Financial Centre e il palazzo di cristallo del Winter Garden dalla struttura curvilinea che contrasta con la verticalità della vicina Torre Nord, quindi si passeggia sul lungofiume dell’Hudson fino a Battery Park. Al ritorno si percorre un secondo ponte coperto passando nelle stradine che sfociano in Wall Street per approdare di nuovo al World Trade Center. In un microcosmo di caffè e ristoranti, ritrovi e negozi, boutique e bazar, l’ambiente ideale per curiosare, fare shopping, divertirsi.
-Oddio, sto delirando, tutto è stravolto, sfigurato, la Torre Nord è in fiamme, la Torre Sud non esiste più. Hanno strappato il cuore a un mondo sereno nel quale il lavoro si mscolava al divertimento in una gioia di vivere contagiosa.
Reagisce adoperandosi per aiutare chi si trova nei pressi, anche se non può far altro che mettere in guardia dal rischio incombente. Meglio così che abbandonarsi a un’attesa inerte quanto angosciosa.
Quasi tre quarti d’ora sono trascorsi dal crollo, li ha vissuti in una sorta di apnea, sostenuto prima dall’ossigeno dei ricordi, ora da una presenza attiva. Ed ecco improvviso il boato, la valanga. Si riproduce la catastrofe, un replay del terrore. Un nuovo inferno si spalanca.
L’onda d’urto non lo coglie di sorpresa con gli altri intorno a lui. Non servono tuffi da “Rambo”, si sono messi al riparo per tempo.
-Quante saranno le vittime? torna a chiedersi. Nel World Trade Center lavorano cinquantamila persone, e ventimila frequentano la zona per i motivi più diversi. Il numero dei presenti varia a seconda dell’ora. Fortunatamente era presto per lo shopping e la visita alle Torri Gemelle, il microcosmo della Plaza non si era ancora affollato di gente e molti impiegati non erano arrivati in ufficio. Quanti saranno stati dentro le torri, ventimila, trentamila? E quanti sono riusciti a venirne fuori prima del crollo?
Si muove con gli occhi fissi nel vuoto spettrale riempito di fumo. Dalla bocca gli escono aprole smozzicate.
-Le Twin Towers si sono dissolte, non esistono più, il “Titanic” si è inabissato con i due fumaioli inghiottito dal mare. Cioè dalla terra.
Non riesce a connettere, l’angoscia lo attanaglia. Pensando a coloro che lavoravano nella Torre Nord rivede i volti che ha incontrato nelle riunioni, quelli che ha conosciuto Non si dà pace.
-Con loro avrei dovuto dividere il lavoro, la vita, e ora forse la morte, se non fosse cambiato il programma e le circostanze non mi avessero portato in un altro grattacielo, con il rammarico che era meno prestigioso delle torri!
Finora ha prevalso lo spirito del buon samaritano che aiuta chi ne ha bisogno e non distingue tra gli amici e il prossimo, le persone conosciute e gli estranei. Adesso è assalito dalla preoccupazione per i colleghi dei quali non sa nulla.
Una radio gracida notizie sconvolgenti.
-E’ l’apocalisse! ripete incredulo ai vicini. Se ho capito bene, un terzo aereo si è schiantato sul Pentagono seminando terrore e morte, e un quarto apparecchio è scomparso per una missione suicida, si teme addirittura contro al Casa Bianca o il Campidoglio. Il Presidente è in volo per una destinazione ignota. Gli uffici pubblici evacuati, le alte cariche dello Stato condotte in località segrete. Che ne sarà della convivenza umana se un terrorismo folle e sanguinario può sconvolgere la maggiore potenza mondiale abbattendone i simboli, scompaginando l’esistenza dei suoi cittadini e delle istituzioni, seminando lutti inenarrabili con una orribile strage? Dobbiamo assistere impotenti alla vittoria di Satana e al trionfo delle forze del male?
Quasi fosse il temuto ed esorcizzato da sempre day after, Johnny nell’atroce hour after si aggira alla ricerca dei colleghi come dopo un attacco nucleare- Non ci sono più i due fumaioli e la bocca del vulcano non si staglia nel cielo. Il cumulo di macerie erutta fumo, lava e lapilli, sembra l’entrata dell’inferno. L’inferno newyorkese, peggiore dell’inferno dantesco.
Nella sua peregrinazione riceve notizie che lo confortano.
-I vigili dicono che il primo aereo ha colpito al Torre Nord sopra il novantesimo piano, è stato possibile evacuare dalle scale di emergenza i piani sottostanti dov’erano i suoi colleghi. Mentre per la Torre Sud l’impatto è avvenuto più in basso, tra il sessantesimo e il settantesimo piano, ma lì non ci sono nostri uffici.
Poi avrà riscontri diretti, tutti positivi.
-Si sono salvati venendo giù per centinaia e centinaia di scalini, grazie a Dio! Esclama . Hanno incrociato la colonna di vigili del fuoco che saliva fino a raggiungere il cielo degli eroi. La striscia gialla fosforescente delle divise puntava impavida verso l’alto al richiamo del dovere, la striscia nera e bianca con le macchie di colore degli abiti e delle camicie rotolava verso il basso dov’era la sospirata salvezza!
Adesso si ferma, per loro non c’è più da preoccuparsi. Per il resto si è in piena emergenza, l’inferno non è finito. Si spalancano nuovi gironi, le fiamme divorano i palazzi vicini alle torri, evacuati appena la tragedia si è manifestata. Anch’essi si sono dimostrati giganti dai piedi di argilla, castelli di carta tra nuvole di fumo nero. Tre crollano rovinosamente, altri quattro parzialmente, sette vengono gravemente danneggiati e altri sette subiscono danni alle strutture.
Un massacro nell’area di sessantaquattromila metri quadrati del World Trade Center. L’epicentro dello spaventoso terremoto provocato dall’infamia umana è nella Plaza, la spianata di ventimila metri quadri tra le torri con al centro la fontana e la grande scultura sferica di bronzo alta più di otto metri a fare da rilucente contrappunto alal verticalità degli edifici. Un’area più vasta della Piazza San Marco di Venezia, in una zona ricca di richiami culturali e manifestazioni artistiche con mille attrazioni, nel cuore dell’affascinante tour tra il Financial District e Battery Park, l’Hudson e la Statua della Libertà. Vede che la sfera di bronzo, risparmiata dalla distruzione, è rotolata a terra nella polvere, una metafora desolata dei sopravvissuti.
-E le vittime? Si chiede. Le figure riemerse dall’inferno sono stravolte, lacere, coperte di polvere. Dove saranno i feriti che si possono salvare se si arriva in tempo? Sono sepolti vivi nelle rovine dov’erano le torri? Com’è possibile che non ce ne siano, mentre nell’attentato all’autorimessa sotterranea che uccise sei persone furono più di mille? E com’è possibile che tutti quelli che non sono venuti fuori con le proprie gambe siano morti, disintegrati dal calore smisurato e dall’immenso peso dei cento piani crollati in una sequenza terrificante? Si deve cercare, cercare, cercare, scavare, scavare, scavare senza sosta anche con le mani nude. Va tentato il tutto per tutto. “Spes contra spem” diceva mio padre per i tentativi disperati.
Un tentativo disperato lo fa impegnando snella spasmodica ricerca di un segno di vita insieme ai vigili del fuoco che mai sono stati colpiti così pesantemente. La freddezza professionale che mostrano nelle missioni pericolose, immortalata nei film catastrofici, ha lasciato il posto a un’umanità sfigurata e smarrita.
Il comandante non potrà lanciare gli ammonimenti con cui il capo dei pompieri nell’”Inferno di cristallo” chiudeva la catastrofe cinematografica, ben più modesta di questa biblica fattasi realtà. E’ tra i caduti, ha voluto condividere la sorte dei suoi uomini gettandosi di nuovo nella bocca dell’inferno dopo esserne uscito per organizzare i soccorsi. Il suo nome è Peter Ganci, un eroe! Sacrificatosi alla testa dei trecentoquarantatre vigili del fuoco caduti nella tremenda giornata, novello Leonida alle Termopili. Ne ha condiviso la sorte il coraggioso cappellano. Sarà accertato che, come fu per il gesto epico dei trecento spartani, il loro sacrificio ha salvato molte migliaia di persone presenti nelle torri, venticinquemila ne sono uscite incolumi.
Duemilasettecentocinquanta purtroppo non risponderanno all’appello, si sono dissolte nel nulla: con i loro volti, le loro storie, le loro speranze, i loro sogni, la loro vita. Lasciando un vuoto incolmabile nelle migliaia di famiglie gettate all’improvviso nel lutto e nel dolore nel modo più tragico. Duemilasettecentocinquanta: un numero che esprime la spaventosa misura della tragedia umana, una catstrofe le cui dimensioni fanno venire i brividi.
Erano due torri imponenti, alte quattrocentoquindici metri, con facciate di sessanta metri di lato, centodieci piani, oltre cento ascensori superveloci ciascuna, ventitre express e gli altri locali. Non si vedrà più nel cielo la trapunta delle quarantatremila piccole finestre di cinquantacinque centimetri. I ventimila metri quadri di vetri, che sarebbero bastati per gli infissi di tremilaseicento case, si sono sbriciolati nel disastro. Sono spariti per sempre insieme alla miriade di riquadri delle strutture verticali, più ampi al culmine, e agli archi ogivali della parte più bassa, che all’ingresso ingentilivano la linearità delle forme con una variante delicata dal sapore delle “mille e una notte”. I venti metri di profondità delle fondamenta sino serviti solo a marcare visivamente la voragine scavata nel cuore pulsante della metropoli con il cratere che si è aperto dov’erano le torri.
Sono i numeri che ne hanno contrassegnato la fama mondiale oggi rappresentano la misura tangibile dell’immane orrore e dello sgomento dinanzi a una perdita incommensurabile.
Johnny rivolge un pensiero al progettista, morto nel 1986.
L’architetto giapponese che le ideò aveva studiato nelle università di Washington e New York e lavorato nello studio dove, prima degli anni trenta, era stato progettato l’Empire State Building, Minoru Yamasaki, espressione del “melting pot” che dà forza allo spirito di iniziativa degli americani, concepì il progetto nel 1962 ispirandosi, nelle partizioni geometriche, nelle fasce portanti e nelle pareti di vetro, allo stile di Mies van der Rohe e di le Corbusier, e gli diede forma nel 1964 scegliendo tra un centinaio di modelli predisposti per prova. I lavori iniziarono nel 1966, il complesso fu inaugurato nel 1973 ma venne utilizzato fin dal 1971.
E’ una riflessione che si spinge al di là dei dati da record delle torri, divenute un unicum in dimensioni e tecnologia. Gli torna lo sgomento, per un po’ stemperato ripensando ai particolari snocciolati dalla memoria.
-Yamasaki attribuiva agli edifici un significato emblematico, ben al di là della pur prestigiosa funzione di ospitare le strutture direzionali del commercio.”Poiché il commercio mondiale significa pace mondiale, il World Trade Center deve diventare la rappresentazione vivente della fede dell’uomo nell’umanità, del suo bisogno di dignità individuale, della sua fiducia nella cooperazione e, tramite quest’ultima, della sua capacità di trovare la grandezza. E’ un simbolo della dedizione dell’uomo alla pace universale”.
Che siano state le sue parole, in risalto nell’opuscolo informativo, da far scattare il disegno diabolico? A far prendere a bersaglio della furia distruttiva non solo l’America ma i simboli del bene assoluto, a livello individuale e collettivo, la rappresentazione vivente dei valori della civiltà? La fede e l’umanità, la dignità e la fiducia, la cooperazione e la grandezza, la pace universale? Se è così, le forze del male sono tanto inesorabili da stroncare ogni possibilità di resistere? Nella lotta tra il bene e il male, mi hanno insegnato, alla fine trionfa sempre il bene. Che accadrà ora?
Il cinema è attento a riprodurre il sentimento diffuso, e nell’hollywoodiano “happy end” di regola il malvagio viene battuto e punito in modo esemplare.
-Se il malvagio è il male assoluto, se Satana ha rivelato la sua potenza infernale, chi potrà batterlo? si chiede ancora. Se per “King Kong” e “Godzilla”arrampicati sulle Torri Gemelle servivano l armi degli elicotteri, la mitraglia e i fucili, quali armi potranno battere un potenza diabolica?
Medita la risposta, da manager abituato a reagire alle minacce senza indulgere a leccarsi le ferite. Sta recuperando questa facoltà e insieme l’istinto, sente tornare il coraggio.
-Occorre reagire e lottare, sconfiggere il male con tutti i mezzi. Sono pronto a rischiare la vita. Del resto, non l’ho rischiata oggi? Nel mio grattacielo che poteva venire ugualmente colpito, e in strafa al primo crollo?
Un pensiero lo assale all’improvviso. Finora ha vissuto il dramma che si svolgeva sotto i suoi occhi, con l’umanità dolente da aiutare e i colleghi in pericolo, quasi fosse solo al mondo.
-Ho una famiglia, dentro si me non l’ho dimenticato, ma che potevo fare? Dove sarà Lina che stamane doveva partire in aereo per raggiungere daddy e mamy in vacanza in Italia? Gli aerei utilizzati dai maledetti kamikaze sono delle linee interne, nessuno ha parlato delle linee internazionali. Per fortuna dovrebbe essersi imbarcata a Toronto, quindi è escluso che fosse a New York e potesse trovarsi nelle Twin Towers.
Cessato allarme, ha riflettuto che i genitori sono al paese e la sorella o è in viaggio per l’Italia oppure è ancora in Canada.
-Saranno molto preoccupati, pensa. Chissà se stanno cercando di chiamare? Le linee telefoniche sono saltate, capiranno. Telefonerò appena possibile. Forse stasera, adesso è inutile tentare.
Quando potrà avere la linea, dalla pensione di Pietracamela con l’insegna dell’”Antica Locanda” riceverà l’abbraccio del padre, che trema di paura sapendo che l’ufficio del figlio è a pochi isolati di distanza dalle torri e vi si reca spesso per incontri e riunioni, l’abbraccio della madre e della sorella. Lina era salita a Toronto sull’aereo per l’Italia e ora è al paese con i genitori che sono andati a prenderla all’aeroporto di Pescara”.
Continua...
Info
Si tratta della 3^ delle 4 parti della rievocazione della cronaca vissuta in diretta dell’attentato alle Torri Gemelle nel romanzo-verità di Romano Maria Levante, “Rolando e i suoi fratelli, l’America”, Andromeda Editrice, 2005, pp. 366. L’intera cronaca è alle pagg. 321-344, la 3^ parte sopra riportata è alle pp. 332-338. La 1^ parte è uscita, su questo sito, l’11 settembre 2021, a 20 anni dall’evento, la 2^ il 13, l’ultima seguirà il 17 settembre.
Photo
Le immagini sono tratte da siti web di pubblico dominio, si ringraziano i titolari precisando che l’inserimento è a titolo meramente illustrativo, senza alcun intento di natura economica nè pubblicitaria, qualora tale pubblicazione non fosse gradita le relative immagini verranno immediatamente rimosse su semplice richiesta. Non sono più alternate le immagini delle Torri Gemelle in fiamme e il lugubre pennacchio di fumo con quelle dei vigili del fuoco come nelle 2 puntate precedenti, al posto delle torri ci sono detriti e polvere, e i vigili del fuco sono immersi in questo allucinante deserto di morte come formiche smarrite, nelle ultime 6 immagini tornano nella loro dimensione umana. I siti, indicati nell’ordine in cui sono inserite le rispettive immagini, sono i seguenti: tag43.it, famigliacristiana.it, vanityfair.it, rainews24.it, sportsenators.it, wakeupnews.eu, notizie.tiscali.it, repubblica.it, sanpietroperugia.it, lefotografiechehannofattolastoria.it, ilsole24ore.com, huffingtonpost.it, tpi.it, lettoquotidiano.it, ilsussidiario.it, mondodimisteri.altervista.org, ilgiorno.it, famigliacristiana.it, ildigitale.it, pinterest.it. Ancora grazie a tutti i titolari dei siti citati per l’opportunità offerta.