Cinema, 3. Ciriello e i bozzetti di altri artisti, a Montecosaro

di Romano Maria Levante

Si è chiuso il 17 novembre a Roma il “Festival internazionale del film” con il Marc’Aurelio d’oro  a  “Marfa Girl” di Larry Clark, il premio alla regia a Paolo Franchi e alla migliore attrice a Isabella Ferrari, entrambi  per il film “E la chiamano estate”. Al posto della cronaca del finale di un Festival  dimesso, mentre cala il sipario sulla festa del cinema ci piace concludere in bellezza la nostra carrellata sui bozzetti originali creati dai pittori cartellonisti per i manifesti cinematografici,  oltre 100 opere esposte nella mostra permanente di Montecosaro, Macerata, “Cinema a Pennello”.

Averardo Renato Ciriello con Johnn Wayne in “Sentieri selvaggi”,  regia John Ford, 1956

Il realizzatore, Paolo Marinozzi,  accanito collezionista,  li ha raccolti nel palazzo patrizio di famiglia e li ha riprodotti e descritti nel bel Catalogo edito dal suo “Centro del Collezionismo”. Ne abbiamo parlato nel primo articolo, ricordandone la genesi, mentre nel secondo articolo abbiamo  descritto la prima parte della galleria espositiva; ora concludiamo il racconto della visita con altri artisti e il decano Averardo Renato Ciriello.

Manfredo e Crovato, Biffignandi e Nano, Casaro e Gasparri

Facciamo la conoscenza dei bozzetti di Manfredo Acerbo:  nero è l’inatteso sfondo di “Sette uomini d’oro” e “Costa azzurra” dato il diverso cromatismo dei titoli, nero il tratto marcato de contorni del corpo femminile in”Sette volte donna”, nero lo sfondo di “L’amante sconosciuto”. E’ blu invece lo sfondo che fa risaltare il viso dorato di Laurence Olivier in “Amleto”, mentre la grafica dello sky line a tratti stilizzati in marrone scuro rende più luminosi i due volti in primo piano anche perché hanno “Il sole negli occhi”.

E’ stato  premiato nel 1954 come miglior pittore cinematografico dell’anno con Campeggi, attivo anche nella ritrattistica e nelle opere sacre in cui si firma con il solo nome “Acerbo”.  Marinozzi  usa questi termini: “Il cinema ha in lui  il pittore capace di innalzare ad arte il messaggio di un’immagine fugace”.  Che in fondo è la migliore definizione che si possa dare ai cartellonisti cinematografici.

Luciano Crovato  ha lavorato nello studio Casaro e ha collaborato con Rodolfo Gasparri, curando in modo particolare la grafica, il colore e la composizione, elementi fondamentali del cartellone cinematografico come della pittura. “Nel costruire le immagini – citiamo ancora Marinozzi  – privilegia sempre la supremazia dell’elemento narrativo, tracciato attraverso quello che i formalisti russi definirebbero ‘i motivi’ del racconto”.

Andiamo a verificare questa definizione  con i bozzetti esposti, come “Rullo di tamburi” e “L’ultimo gladiatore”, spicca la figura del protagonista che brandisce la pistola e il gladio, mentre in “Moby Dick”  è molto espressivo Gregory Peck con in mano l’arpione su un mare tempestoso.  Molto diversi i ritratti ammiccanti di Totò in “I soliti ignoti”, e di  “Miranda”  incorniciata da un grande cuore, come quelli di “Il maresciallo Rocca” e “Linda e il brigadiere”, con Nino Manfredi, Gigi Proietti e Stefania Sandrelli.

Scene affollate disegna  Alessandro Biffignandi in “Guerra e pace” e “Scandali a Hollywood”; poi le figure e i volti pensosi dei protagonisti in “La diga sul Pacifico”, che spiccano sugli sfondi scuri.

Entrato a 17 anni nello studio Ciriello, all’inizio i suoi disegni sono completati dal maestro, poi passa allo Studio Favalli.  Illustratore di libri e riviste, è attivo anche sul mercato americano.

Tutt’altro che “nano” appare Silvano Campeggi, nonostante  usasse tale attributo scherzoso come propria sigla. E’ stato allievo addirittura di Ottone Rosai, fu introdotto nel cinema da Luigi Martinati; ha innovato nella cartellonistica con il suo tratto essenziale e originale.

Troviamo  audaci intuizioni  in “Non mangiate le margherite”, tre fiori giganti coprono  il corpo nudo di Doris Day su uno squillante sfondo verde; uno sfondo anch’esso uniforme ma celeste è in “Uno straniero a Cambridge ” con una spilla altrettanto gigante. Originalissima  “La pantera rosa” con la testa di Claudia Cardinale inserita nel corpo, peraltro grazioso e delicato, dell’animale.  L’attrice è vista nella sua leggiadria in “La ragazza con la valigia”,  un’immagine deliziosa, mentre in “Un fidanzata per papà”  le attrici diventano carte da gioco. Tradizionali ma pur sempre con tratti originali “Una donna di paglia” e “La ragazza del quartiere”, dovei le due coppie con Sean Connery nel primo e Robert Mitchum  nel secondo sono riprese in modo non convenzionale.

Alfredo Capitani è passato dalla scenografia teatrale iniziale alla grafica di manifesti per manifestazioni di varia natura nel ventennio fino al cartellonismo cinematografico, espresso anche in striscioni e insegne per le sale a Roma. Poi l’incontro decisivo con Ballester  e Martinati con i quali fondò un’agenzia di pubblicità cinematografica intitolata alle loro iniziali B.C.M.

Non segue lo stile preciso nei dettagli di Ballester, punta sull’immediatezza e sul colore per la “chiamata” dell’osservatore come una “revolverata”, per usare le sue parole riportate da Marinozzi; alcuni bozzetti sono dipinti con Martinati e firmati “Maralca”. L’attenzione viene richiamata su Rita Hayworth  in “Gilda” e in “Gli amori di Carmen”, sempre con lo stesso partner, Glenn Ford.

Pure Renato Casaro agli inizi si impegna in cartelloni per un cinema cittadino, poi la Lux lo chiama a Roma dove si forma nello Studio Favalli come illustratore firmando Renè.  Studia lo stile dei maggiori del settore italiani e stranieri non per conformarsi ma per innovare rispetto al livello raggiunto, fino ad assumere una posizione di spicco nel cartellonismo cinematografico.

La sua modernità spicca nelle originali interpretazioni di “Gli anni ruggenti”, con il berretto marziale che lievita in alto e “La cosa buffa”, con le tessere del puzzle a comporre il nudo di donna; nonché nella cupola portata via dal deltaplano in “Manolesta” e nella grande testa sospesa sulla folla di “Un pomeriggio di un giorno da cani”. Ma sa essere anche  fumettistico nei film mitologici  e comico in quelli di Franchi e Ingrassia. Raggiunge il culmine nei ritratti, come quello straordinario di Claudia  Cardinale su fondo verde nel bozzetto di “Nell’anno del Signore”.

Anche Rodolfo Gasparri ci dà un ritratto di alto livello dell’attrice, tinta pastello su fondo bianco, per “C’era una volta il West”; tinte e  sfondi chiari ai ritratti dei visi  in “I quattro dell’Ave Maria” e, in diverso contesto, “La matriarca”. Altri ritratti di notevole efficacia quelli di Giancarlo Giannini in “Mimì metallurgico ferito nell’onore”, in due diversi atteggiamenti esilaranti, e di Gian Maria Volontè,  dall’espressione decisa in “Sbatti il mostro in prima pagina”, la sua  testa sembra uscire dalla pagina  con le sagome scure dei carabinieri nella fotografia della scena del delitto. 

Una vocazione ferma la sua, tanto che venne a Roma con la decisione di  dipingere per il cinema. Suoi anche i bozzetti per i film del figlio Marco attore nella serie “Mark il poliziotto”. La maggior parte di quelli esposti  è a tinte forti  e  fondi scuri come in “Nevada Smith” e “Il dito nella piaga”, “Gott mit uns, Dio è con noi” e “Né onore né gloria”.

Sta per concludersi questa carrellata, siamo a Giorgio Olivetti che precede il clou della nostra rassegna, Averardo Renato Ciriello con cui divise nel 1956 il premio di miglior pittore cinematografico dell’anno. E’ stato illustratore di libri per l’infanzia e del “Calendario di Frate Indovino”.  L’opera più rinomata è il manifesto per “la Dolce vita”, nei cataloghi delle case d’asta.

Sfondo nero in “Una pistola per Ringo” e “Cyrano di Bergerac”, arancio dorato in “I cavalieri del Nord ovest”, verde in “La notte senza legge”. In “Gengis Khan, il conquistatore”, ritroviamo il titolo a  caratteri monumentali visto in “Bn Hur”, con il cuneo umano della cavalcata mongola.

 Manfredo Acerbo con Laurence Olivier in “Amleto”, regia Laurence Olivier, 1948  

Il decano dei pittori cinematografici: Averardo Renato Ciriello

La carrellata dei bozzetti in mostra è particolarmente vasta, meriterebbe una trattazione  ben più ampia, ma siamo giunti al termine della visita, abbiamo detto al “clou”:  Marinozzi ci guida alla sala riservata ad Averardo Renato Ciriello, nelle pareti un caleidoscopio di immagini  coinvolgenti.

Abbiamo lasciato Ciriello per ultimocome si fa per l’ingresso in scena del protagonista, lo è stato nella stagione di creatore di migliaia di bozzetti per il cinema preceduta e accompagnata dall’attività di illustratore eclettico di riviste e libri. Grande esperto di disegno e di tempera, nelle sue opere molto curate c’è la padronanza della tecnica unita all’estro e alla passione del pittore autentico.

Ha creato un modello di eccitante bellezza femminile nelle copertine della “Signorina Sette”, proseguendo questo filone in “Menelik” con gli audaci nudi di attrici; tra i libri da lui illustrati  per ragazzi “L’isola del tesoro”, “Il principe  e il povero” e “Ben Hur”. Ha avuto, tra gli altri premi, la “Tavolozza d’argento” per il manifesto di “Sansone e Dalila e il premio  nel 1956 del migliore cartellonista dell’anno con Giorgio Olivetti. E’ pittore di tele ad olio dall’elevata caratura figurativa, attività divenuta esclusiva allorché è terminata  quella di illustratore e cartellonista cinematografico per l’ingresso delle nuove tecnologie nei settori prima per lui prevalenti.

Marinozzi ne parla con affetto ed ammirazione, e scrive: “E’ ritenuto un vero e proprio mito vivente sia dai colleghi pittori che dai numerosi estimatori. Attualmente risiede e dipinge a Roma”.

Nella sala a lui dedicata sono esposte opere dai criteri compositivi e pittorici diversi. Il primo particolare che notiamo è  l’ingegno nel concepire le teste dei due protagonisti che si innestano nei due corni d’Africa in “Ci rivedremo all’inferno”  e nel raffigurare la corsa del cavallo sul pelo dell’acqua in “Assassinio sul Tevere”, nonché la grande pistola sulla testa come un copricapo in “Il giustiziere della notte” e il rosso violento sulle braccia di Lancaster e Curtis  mentre volteggiano in “Trapezio”, per esprimere visivamente la tempesta di passione che li fa avvampare.

Ma i bozzetti che ci hanno colpito di più sotto il profilo artistico sono quelli con la turba di indiani dietro il protagonista, uno è un gigantesco John Wayne  nel pieno della battaglia di “Sentieri selvaggi”, l’altro  “Il conquistatore” di Dick Powell. Ebbene, si ha una incredibile sensazione di movimento, le nuvole di polvere sembrano materializzarsi e così gli indiani a cavallo le cui figure si ricompongono da lontano per la maestria con cui sono solo sbozzate in modo da rendere il loro effetto pittorico solo alla distanza in cui avviene la visione.  

Il motivo della scena di massa in secondo piano dietro i protagonisti lo ritroviamo anche in ambienti storico-mitologici, da “Il gladiatore di Roma” e “Ercole contro Moloch” a “Sodoma e Gomorra” e nelle immagini di guerra come “Quella sporca dozzina” e “Marines: sangue  e gloria”.

Da queste composizioni su un doppio livello alle sintesi con i soli protagonisti: dall’arguzia maliziosa di “Irma la dolce”  alla forza icastica da tre dimensioni di “Sfida a White Buffalo”. Sono tante le immagini che sfilano dinanzi ai nostri occhi, con fissati i momenti più drammatici o esilaranti: dal corpo appeso nudo sopra le fiamme di “Un uomo chiamato cavallo” al viso verde terrorizzato di “La coda dello scorpione” fino al cappio sulla testa in “Viva la muerte…tua”; e poi l’espressione comica del protagonista che contrasta con le minacce intorno a lui in “L’arbitro” con i tifosi scatenati e “Lo chiamavano tressette… giocava sempre col morto”, con le pistole spianate.

Il fatto che a immagini di vicende appassionanti di ogni genere si affianchino le procaci “pin up” delle sue copertine mostra in tutta  evidenza  l’ampiezza del suo raggio stilistico e di contenuti. Che lo qualifica tra i più grandi e poliedrici, in grado di nobilitare con l’arte i soggetti rappresentati. 

Anche per questo, e non solo per essere il decano dei pittori cinematografici, ci siamo soffermati in modo particolare sulle sue opere e siamo andati a trovarlo nella sua casa romana con Graziano Marraffa, fondatore e presidente dell’Archivio storico del cinema italiano, in un incontro da ricordare.  Ci attendiamo ulteriori celebrazioni della sua opera che resta nell’arte e nel costume.

Silvano Campeggi (Nano) con Doris Day in “Non sfogliate le margherite”, regia Charles Walters, 1960

Dai bozzetti il film della memoria personale e collettiva

Termina così la nostra carrellata. Abbiamo descritto l’opera di alcuni dei maggiori artisti in mostra, per lo più citati nel racconto di Marinozzi o autori dei bozzetti riprodotti in questo e nei due precedenti articoli come esempi della forza trasmessa ai manifesti cinematografici nei quali l’aggiunta di titoli e nomi in caratteri vistosi  poteva oscurare il livello pittorico, più evidente nei bozzetti originali, veri quadri d’autore.  Dal parziale e rapido excursus  derivato dalla nostra visita alla mostra si può avere un’idea di ciò che i visitatori vi possono trovare su scala molto più vasta.  

Il film a cui si assiste passando in rassegna i bozzetti pittorici in originale è quello della memoria personale, quindi di noi stessi, delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti.

Ma questo film ci parla anche di una storia collettiva, dove vanno collocate le singole vicende. E’ la storia del nostro costume  nazionale e di quello di altri grandi paesi. Si rivivono le stagioni  cupe del banditismo e quelle tristi dell’emigrazione, i drammi di ogni tipo, poi i tanti momenti lieti come quelli immortalati dalla commedia all’italiana come specchio di caratteri e di vita vissuta.

L’epopea del  Far West alimenta una parte consistente della storia americana, e troviamo tanti altri stimoli drammatici e comici, poetici e leggeri: incontri e scontri di sentimenti, amore e morte, epica e farsa, gioia e dolore. La vita dipanata in tanti quadri d’autore.

Sono vicende riassunte nelle parole di Paolo Marinozzi “Lotte, intrighi, duelli, ritmi, gelosie, tormenti”. E allora possiamo  dire che il più grande spettacolo del mondo è proprio qui.

Lo ricordiamo alla chiusura del “Festival internazionale del film”, che forse potrebbe ritrovare maggiore “appeal”  richiamandosi di più alle sue radici. Di queste fanno parte i bozzetti cinematografici di artisti troppo spesso sottovalutati e dimenticati che hanno concorso alla storia del cinema e del costume nazionale, saldamente ancorata alla memoria e alla sensibilità popolare. Che è la grande assente in un cinema relegato dalle grandi praterie del passato alla riserva indiana odierna.

Info

Montecosaro (Macerata), Palazzo Marinozzi a Porta San Lorenzo, visite guidate su Appuntamento. Infoline 0733.229164. museo@ cinemaapennello.it; www. cinemaapennello.it.  Catalogo “Cinema a Pennello. Un bozzetto di storia”, di Paolo Marinozzi, edito dal “Centro del Collezionismo”, Montecosaro, giugno 2011,  formato 24×28 cm, pp. 304 su carta patinata a colori.; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sulla mostra sono usciti in questo sito  il 15 e 17 novembre 2012: sono illustrati con le immagini dei bozzetti, il primo con quelli di Casaro e  Ballester, Brini e Iaia dei film “Nell’anno del Signore” e “Fronte del porto”,  “Bellissima” e “I dieci Comandamenti”, protagonisti rispettivamente Claudia Cardinale e Marlon Brando, Anna Magnani e Charlton Heston; il secondo con i bozzetti di Cesselon e Putzu, Maro e Simeoni dei film  “La donna più bella del mondo” e “La vita agra”“La prima notte di quiete” e “Accattone”, protagonisti Gina Lollobrigida e Ugo Tognazzi, Alain Delon e Franco Citti.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’autore Marinozzi con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura Averardo Renato Ciriello con Johnn Wayne in “Sentieri selvaggi”,  regia John Ford, 1956;  seguono Manfredo Acerbo con Laurence Olivier in “Amleto”, regia Laurence Olivier, 1948 e Silvano Campeggi (Nano) con Doris Day in “Non sfogliate le margherite”, regia Charles Walters, 1960; in chiusura Gian Maria Volonté in “Sbatti il mostro in prima pagina”, regia Marco Bellocchio, 1972.

 Gian Maria Volonté in “Sbatti il mostro in prima pagina”, regia Marco Bellocchio, 1972
 

Mondrian, 2. L’approdo nella “perfetta armonia”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Abbiamo ricordato come un capolavoro di Mondrian sia esposto tra i precursori  alla mostra sull'”Arte astratta italiana” in corso alla Gnam fino al 27 gennaio 2013:  cosa che lo ripropone a un anno dall’evento espositivo “Mondrian, la perfetta armonia” svoltosi a Roma al Vittoriano dall‘8 ottobre 2011 al 29 gennaio 2012. Resta inoltre il bel  Catalogo Skirà del curatore, Benno Kempel, direttore del Gemeentemuseum dell’Aia, prestatore  di gran parte delle opere esposte, che fa rivivere le intense emozioni provate nella visita.  Dopo aver parlato della sua figura e ispirazione e delle opere del primo periodo, realismo e simbolismo, completiamo il percorso con gli altri stili da lui praticati, il luminismo e il puntinismo, il cubismo  e l’astrattismo fino alla “perfetta  armonia”.

“Composizione con grande piano rosso, giallo, nero, grigio e blu”, 1921

Luminismo e puntinismo

Superato l’iniziale  realismo con il simbolismo, anch’esso una fase di transito sotto la spinta dalla teosofia,  ecco il luminismo, passaggio determinato dall’incontro con Jan Toorop, che aveva introdotto in Olanda questi tre movimenti, e del quale sono esposte in mostra delle opere, come di van Heemskerck e Gestel, altri artisti in contatto con lui frequentandone con Mondrian  la residenza estiva.

Era situata nella cittadina di Domburg, sulla costa della Zelanda, che  fu come la celebre Barbison  per gli impressionisti francesi o l’altrettanto nota Bretagna per Van Gogh: la scoperta della luminosità della natura si traduceva nell’esplosione  dei colori. Siamo nel 1908, è la rivoluzione, dai paesaggi scuri e monocromatici a una vivacità cromatica e forti contrasti segnati dall’abbagliante luce solare: spiccano il rosso, il giallo e l’azzurro-blu, diventeranno esclusivi alla fine del percorso come colori puri. In questa fase  la pennellata si spezza: come negli impressionisti, è fatta di tocchi rapidi e interrotti, che visti a distanza ricompongono l’effetto della luce.

Mondrian non si ferma qui, passa al puntinismo nello stile di Seurat  in modo che la scomposizione delle pennellate consente di aggiungere alla luce il dinamismo.

Cambia tutto, dunque? No, pur nella forma cromatica e stilistica del tutto nuova si ritrovano molti soggetti precedenti, in particolare le “Dune” e i “Fari”, nonché i “Campanili”, con il significato simbolico legato all’orizzontale, segno femminile, e al verticale, segno maschile, che interagiscono combinando la fluidità naturale con il moto ascensionale  verso l’armonia teosofica. Il cromatismo figura spesso nel titolo, come “Duna, schizzo a colori vivaci” e “Duna, schizzo in arancione, rosa e blu”, “Mulino Ootzijdse con cielo blu, giallo e viola”e “Faro a  Westkapelle in rosa”, fino a “Studio pointilliste di una duna con crinale a destra”.  

E’ difficile che chi ha nella mente il Mondrian astrattista geometrico possa soltanto immaginare queste opere senza prenderne visione. La natura resa nella morbidezza dei colori puntiformi diventa quasi un’immagine onirica ma reale; non solo dune ma anche “Due alberi” e “Pineta spontanea”,dal cromatismo delicato; fino alle tinte forti di un rosso intenso in “Notte di luna II, Laren”  e “La nuvola rossa”,  esempi del nuovo cromatismo su soggetti consueti: nel secondo c’è in più la volontà di andare oltre, verso una semplificazione delle forze che agiscono a livello cosmico.

Puntinismo dai forti colori  anche in rari “Ritratti” di persone, come “Contadino della Zelanda”, segno che ha voluto provare questo stile  persino su soggetti che esulavano dalle sue scelte primarie.

Sono  30 i dipinti della mostra che hanno documentato le tre correnti pittoriche, simbolismo, luminismo e puntinismo, dopo il realismo. Ma non saranno le ultime prima dell’astrattismo.

Dal cubismo al “clou” dell’astrattismo puro 

Ancora frastornati dall’esplosione impressionista di colori dopo l’oscurità realista dei paesaggi iniziali, nella visita alla mostra siamo saliti al piano superiore del Vittoriano dove è cambiato ancora tutto: abbiamo visto più di 20 quadri cubisti, di cui 13 diMondrian. Sono state citate nella presentazione dell’artista le parole del curatore Tempel sulla sua scoperta del cubismo, soprattutto di Picasso, nel 1911: si era trasferito a Parigi e, dato che i suoi tentativi erano fuori strada, ricominciò con la scomposizione delle immagini, prendendo le distanze dalla realtà.

Nella mostra questa ricerca è stata documentata con precisione dalla serie di “Alberi ” con la progressiva segmentazione che, riducendoli a linee spezzate e frammentate su un piano senza profondità, segna il rivoluzionario abbandono della prospettiva. Su un soggetto che racchiude i motivi di sempre – il tronco verticale e i rami orizzontali che interagiscono perdendo la configurazione realistica e il colore – domina il monocromatismo marrone e verde scuro dei cubisti.

Ha un valore didattico la sequenza degli alberi perché rivela come si consumi in modo progressivo il distacco crescente dal figurativo verso l’astrazione restando ancorati alla realtà di partenza che appare però trasfigurata nei segni divenuti puri. Una sequenza dello stesso tipo porta alla “Composizione in ovale con piani di colore 9”  attraverso una serie di ovali sempre più stilizzati della facciata di una chiesa.

In “Paesaggio con alberi”, un incastro di forme indistinguibili, la mutazione va oltre il cubismo pur desumendone gli elementi compositivi di base. Lo fa anche van Heemswkerk con un soggetto analogo, ma torna presto nella riconoscibilità in “Bosco I”  e “Bosco II”,  nonché in “Albero”.

La figura umana resta rara soprattutto nel Mondrian cubista: c’è un “Autoritratto”, disegno con forti tratti a segnarne le fattezze del viso, e “Il grande nudo”, una volumetria statica di particolare rigidità.

Siamo, dunque, al superamento della rappresentazione figurativa della realtà andando oltre i cubisti che scomponendola come le facce di un diamante esaltavano le tre dimensioni e mantenevano la profondità; Mondrian cerca la semplificazione e l’essenziale, in lui, sono parole di Kempel, “il gioco ritmico delle linee acquisisce un’importanza vitale”.

Ma c’è ancora un riferimento alla realtà naturale pur se trasfigurata. Il Rubicone dell’arte astratta lo passa con una serie di quadri ispirati alle facciate di palazzi parigini in demolizione con dei manifesti. Furono fonte di ispirazione, precisa il curatore, “soltanto per via del gioco ritmico di linee e piani che l’artista vi scorgeva” e non per l’aderenza alla realtà che veniva definitivamente abbandonata. Siamo nel 1914, segue di un anno il primo quadro astratto di Kandinskij del 1913.

Ora non è più a Parigi, è rientrato in Olanda per una breve visita al padre, ma vi è dovuto restare per lo scoppio della prima guerra mondiale; ormai ha preso l’abbrivio e non gli serve più il clima parigino al punto che, tornato nella capitale francese dopo la guerra, lo trova sorpassato rispetto ai propri progressi. Il soggiorno olandese è fondamentale, nel 1917 con Theo van Doesburg e altri fonda il movimento De Stijl il cui manifesto del 1918 parla di maturazione dell’artista opposto alla “dominazione dell’individuale nelle arti plastiche, e cioè alla forma e al colore naturali, alle emozioni” per una nuova arte con “proporzioni bilanciate tra l’universale e l’individuale”.

Mondrian le ha raggiunte con l’universalità dalla sua arte unita a una forte impronta individuale. Nel suo articolo “A New Realism” aveva scritto che “l’arte non è un’attività istintiva ma intuitiva”, quindi non è conservativa, e “la cultura mira allo sviluppo dell’intuito a spese dell’istinto”, favorendo l’innovazione e il cambiamento. E’ alla ricerca dell’equilibrio ottimale tra colori e loro assenza, tra linee e piani, tra l’orizzontale e il verticale, cioè tra i suoi motivi di sempre che non ha mai trascurato pur nella copiosa produzione con espressioni artistiche molto diverse.

Trova questo equilibrio all’interno della concezione di De Stijl che concepiva l'”opera d’arte totale”, con pittura e scultura, architettura e design riunite senza alcuna gerarchia, nella quale anche la musica aveva il suo posto con il senso del ritmo che dava il movimento vitale e insieme l’armonia ricercata. Il nuovo verbo era il “neoplasticismo”, nel quale la plasticità della realtà era superata con una forma astratta fatta di linee e piani e con i colori primari: le linee seguivano regole semplificate, soltanto orizzontali e verticali, nessuna obliqua, i colori puri rosso-giallo-blu con i “non colori” bianco, nero e grigio, nessun colore derivato. La composizione doveva essere asimmetrica ma con un forte dinamismo in modo da dare la sensazione di una perfetta armonia tra linee, piano e colori;

Una particolarità di Mondrian sta nell’aver sostituito un effetto spaziale alla tradizionale prospettiva e alla distinzione tra sfondo e primo piano, in questo andando oltre gli artisti di De Stijl; con i quali condivide il dinamismo dato dal colore al piano: il giallo sembra che si allarghi, il blu si restringa e il rosso resti fermo. I relativi piani interagiscono con le linee orizzontali e verticali in una fusione dinamica con il colore, senza gerarchie neppure tra queste componenti. Non solo si ha un effetto tridimensionale, ma l’immagine sembra estendersi oltre la cornice  per ricongiungersi alla parete in modo da integrare pittura e architettura, un punto chiave della concezione di De Stijl sulla compenetrazione tra le diverse arti. Il tutto si traduce in una sensazione di equilibrio e di armonia.

E’ un primo traguardo raggiunto dopo tanta ricerca. Come nella vita con l’approdo a New York, preceduto dalla breve sosta a Londra, per sfuggire alla minaccia nazista dopo che nel 1936 il suo “atelier”  in Rue deu Départ era stato demolito: vi trovò ciò che cercava, modernità e dinamismo, vitalità e frenesia, in altri termini l’allegria come nella musica jazz che tanto lo coinvolgeva. Intanto negli anni ’30 la sua fama cresceva, i musei acquistavano le sue opere, si moltiplicavano le mostre.

Per vedere le opere con cui Mondrian raggiunge il culmine della vita artistica, al Vittoriano abbiamo lasciato il piano con il cubismo suo e di altri artisti olandesi e siamo tornati al piano inferiore da cui eravamo saliti dopo il realismo e simbolismo, il luminismo e puntinismo.

Siamo entrati nel “sancta sanctorum”, con la musica in sottofondo alla visione per penetrare  nello spirito dell’artista che traduceva il ritmo musicale nel dinamismo del quadro; e  anche in un senso della vita anch’esso dinamico, tradotto nella passione ludica per il jazz e per il ballo.

Ecco le sue opere che rappresentano il “clou” della sua arte e quindi della mostra, il raggiungimento dell’essenza della realtà superandone l’apparenza da cui era partito esplorandone le forme e i contenuti con diverse modalità stilistiche ed espressive. Per questo i titoli sono anodini, quasi tutte “Composizioni” identificate da un numero e spesso dai colori, ne abbiamo contate 11; così anche le 20 opere esposte di altri artisti olandesi, come Moss e Gorin, forse a lui i più vicini  con Huszàr; poi Vordemberge-Gildewart e Domela, Dekkers e Baljeu. Al centro la famosa “Sedia rossa e blu” di Rietveld e la ricostruzione della “Casa privata” di Theo van Doesburg, che porta in architettura le linee e i colori puri, nel vederla sembra che dalla “planimetria” dei quadrati e rettangoli di Mondrian  si sia passati ai volumi dell’abitazione,  un effetto che non si dimentica.  

L’impressione di una visita così diversa dalle altre resta negli occhi e nelle orecchie: si continua a sentire anche dopo il “Rag time” con cui sfumavano le musiche in successione nella colonna sonora della sala dove la “perfetta armonia” diveniva qualcosa di percettibile.

Nulla di meglio per concludere delle parole di Mondrian del 1914 che rappresentano una summa della sua arte: “Costruisco combinazioni di linee e di colori su una superficie piatta, per esprimere una bellezza generale con una somma coscienza. La Natura (o ciò che vedo) mi ispira, mi mette, come ogni altro pittore, in uno stato emotivo che mi provoca un’urgenza di fare qualcosa, ma voglio arrivare più vicino possibile alla realtà e astrarre ogni cosa da essa, fino a che non raggiungo le fondamenta (anche se solo le fondamenta esteriori!) delle cose”.

In che modo? “Attraverso linee orizzontali e verticali costruite con coscienza, ma non con calcolo, guidate da una intuizione, e create con armonia e ritmo”. Sono “forme basilari di bellezza” che possono diventare “un’opera d’arte, così forte quanto vera”.

Questo abbiamo potuto vedere nel “clou” della mostra al Vittoriano al culmine del suo percorso movimentato di arte e di vita; e si può rivivere nella carrellata di forme e di colori delle  diverse sezioni del Catalogo Skirà, con l’approdo alla “perfetta armonia” di un equilibrio anche interiore.

Info

Catalogo: “Mondrian. La perfetta armonia”, a cura di Benno Tempel, Skirà,  formato 28 x 30, pp. 224, ottobre 2011. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 13 novembre 2012.

Foto

Le immagini sono state cortesemente fornita da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, che si ringrazia, con il Gemeentemuseum dell’Aia  e i titolari dei diritti. Sono tutti dipinti di Mondrian: in apertura l’approdo alla “perfetta armonia” in “Composizione con grande piano rosso, giallo,nero., grigio e blu”, 1921, seguono tre sue opere anteriori di cubismo e astrattismo. Nell’articolo precedente sono inserite le immagini di altre 4 opere di Mondrian di realismo, puntinismo e luminismo.

Cinema, 2. I bozzetti di Cesselon e altri artisti, a Montecosaro

di Romano Maria Levante

Nel giorno di chiusura a Roma del “Festival internazionale del film”, 17 novembre, descriviamo la carrellata dei bozzetti originali creati dai pittori cartellonisti per i manifesti cinematografici,  esposti nella mostra permanente di Montecosaro, Macerata, “Cinema a Pennello”: sono  più di 100 per un elevato numero di film, ambientati nello spazio espositivo d’eccezione costituito dalle sale su due piani di Palazzo Marinozzi. Il padrone di casa è il collezionista appassionato che li ha raccolti  riproducendoli anche in uno splendido Catalogo edito dal  “Centro del Collezionismo” dove racconta la sua accanita “caccia al bozzetto d’autore”. Ce ne ha parlato nella visita alla mostra.

Angelo Cesselon con Gina Lullobrigida in “La donna più bella del mondo”,  regia Leonard e Pierotti, 1955 

Abbiamo già dato conto di questa “caccia” a cui va riconosciuto il merito di aver messo al sicuro un patrimonio d’arte e di costume che rischiava di andare disperso. Ma ora, come raccontare un set così vario e articolato, 100 opere di oltre sessanta artisti, alcuni presenti con parecchi bozzetti ?

Ne indichiamo un nucleo che riteniamo rappresentativo del quale citiamo gli autori, nella gran parte noti solo agli addetti ai lavori,  con qualche cenno biografico tratto dal ricco Catalogo di Paolo Marinozzi; e i titoli dei film che sono entrati nella memoria collettiva. In alcuni casi descriviamo le opere come avviene nel raccontare le mostre d’arte, ma per lo più dobbiamo limitarci ai titoli con qualche riferimento agli attori raffigurati. Crediamo sia sufficiente per farsi un’idea dei bozzetti.

Lasciamo così  al lettore l’esercizio di richiamare alla mente i manifesti dei film di allora fino a quando potrà recarsi a visitare la mostra di persona, cosa che consigliamo caldamente; è una gita piacevole nel ridente paesino delle Marche con il Palazzo Marinozzi  che svetta sulla collina. Con le illustrazioni di questo e degli altri due articoli sulla mostra diamo un quadro  di “come eravamo”.

Nella scelta dei protagonisti facciamo riferimento soprattutto ai nomi citati da Paolo Marinozzi nel racconto sulla genesi della sua preziosa collezione, ricordando  alcuni “mostri sacri” del  cartellonismo cinematografico alla base del quale, non va dimenticato, c’è anche la vera pittura.

Cesselon e Ballester, Iaia e Putzu, Maro e Brini

Cominciamo con Angelo Cesselon, che invece di cercare sintesi narrative preferisce l’espressione dei volti, concentrandosi su occhi e bocca. Per Marinozzi “nell’esecuzione pittorica dei volti la sua perfezione stilistica è semplicemente insuperabile”. I colori sono brillanti, nel 1955 fu premiato come migliore artista dell’anno, nel 1958 come miglior ritrattista internazionale.  Dopo questa presentazione quello che ci interessa  è il set dei suoi bozzetti nella saletta a lui dedicata: c’è la storia del cinema italiano e di quello americano, lo si vede subito dai titoli.

Per Cinecittà “Ladri di biciclette e “Umberto D”, “Due soldi di speranza” e “Don Camillo”, “Sette uomini d’oro” e “L’armata Brancaleone” ; per Hollywood  “Il grande campione” e “I marciapiedi di New York”,  “L’uomo di Laramie” e ” Il Gigante”,  “I due volti della vendetta” e “Il ritratto di Jennie”, quest’ultimo manifesto è riportato nella copertina del Catalogo, con il tenero bacio di Joseph Cotten sulla guancia di Jennifer Jones, per l’occasione evanescente rispetto alla sensualità prorompente di “Duello al sole” e “Ruby fiore selvaggio”. Restano impressi il viso incantevole e il florido busto di una splendida Gina Lollobrigida in “La donna  più bella del mondo” e la figura imponente di un fiero Victor Mature in “Zarah Khan”.

Da Cesselon ad Anselmo Ballester, vero “mostro sacro”: inizia a dipingere bozzetti per il cinema appena diciassettenne, continua per 50 anni divenendo, sono sempre parole di Marinozzi, “l’esempio artistico più alto per tutti gli altri cartellonisti”, siamo al vertice universalmente riconosciuto. Punta sull’espressione dei personaggi come riflesso dei sentimenti mossi dalla trama, usa colori forti associati a tinte scure a sottolineare la drammaticità della vicenda soprattutto per il cinema americano.

Ritroviamo l’atmosfera infuocata di “Ombre rosse” e “Fronte del porto”, il vortice nero di “Io ti salverò” e il forte abbraccio di “Tom Dooley”. Nel cinema italiano i suoi bozzetti ci riportano ai film popolari strappalacrime,  come “La sepolta viva” e “La cieca di Sorrento”, “La nemica” e  “Il padrone delle ferriere”. Il volto drammatico di Anna Magnani di “Roma città aperta” e la figura delicata di Michele Morgan di “Senza domani” concludono la sua galleria di figure intense.

Il rosso colpisce in alcuni  bozzetti di Ermanno (Piero) Iaia, vincitore nel 1956 di un premio internazionale della Metro Goldwin Mayer, illustratore di libri e riviste, copertine di dischi e figurine. Vediamo questo colore brillante  nel mantello del  maestoso Charlton Heston sul terreno roccioso  di “I dieci Comandamenti” e  nello sfondo corrusco di “I compagni”; che diventa infuocato in “Giù la testa” e chiude come in una gogna la testa di Burt Lancaster in “Novecento”.

Sfuma nell’arancio lo sfondo di “Sedotta e abbandonata” con un affollarsi di teste angoscianti dietro la morbida figura della Sandrelli.  Ma ci sono anche i verdi di “La Grande guerra” e “La parmigiana”,  “La voglia matta” e “Una breve vacanza”, e poi l’immagine cult di “Il Padrino”. Suo il ragazzo in corsa la cui figura viene moltiplicata come nel celebre dipinto di Balla “Bambina che corre sul balcone”, ma qui le repliche dei fotogrammi più che dinamismo esprimono dissolvenza, via via più sbiadite fino a sfumare nel nulla, è il film “Il sole anche di notte” dei fratelli Taviani.

Arnaldo Putzu con Ugo Tognazzi in “La vita agra”, regia Carlo Lizzani, 1964

Arnaldo Putzu è passato al cartellonismo cinematografico come grande ritrattista, furono inizialmente le tipografie che frequentava a promuoverlo presso i produttori. Punta sulle scenette piuttosto che sui singoli anche se poi richiama l’attenzione  sui  protagonisti: lo vediamo nel  bacio in primo piano di “Addio alle armi” e  nella “passeggiata” di Marisa Allasio di “Poveri ma belli”, che ricorda quella famosa di Marilyn Monroe in “Niagara” tre anni prima; ritroviamo la Allasio in primo piano su un fondale di scenette esotiche in “Maruzzella”. Spiccano la prorompente Sophia Loren di “Ieri, oggi, domani” e  il volto dall’espressione disincantata di Ugo Tognazzi in  “La vita agra”.

Il cinema americano è ben rappresentato dalla  figura di  Yul Brynner  che spicca su un fondale arancio di teste e di girasoli in “Il romanzo di un ladro di cavalli”, e dalla grande testa nera  su un fondo più intenso del precedente in “Io sono il più grande”.

Di Otello Mauro Innocenti (Maro) va ricordato che fu disegnatore ufficiale della Titanus per film dalla “Ciociara” a “Rocco e i suoi fratelli”, da “Il sorpasso” a “Il giardino dei Finzi Contini”. Vediamo esposto lo splendido bozzetto di “La prima notte di quiete”, su fondo nero la figura del protagonista Alain Delon diventa un cielo azzurro, immagine di intensità straordinaria;  in “I nuovi mostri” lo sfondo è bianco, nera è la figura di Alberto Sordi irridente con quattro gambe, intorno le teste dei coprotagonisti. 

E’ anche il cartellonista dei film “musicarelli” e di quelli di Franchi e Ingrassia, di “I vichinghi” e “Detenuto in attesa di giudizio”, “L’armata Brancaleone” e “I magliari”, tante sono le corde del suo arco.

Una tecnica fortemente espressiva quella di Ercole Brini, che nel 1953 riceve il premio di miglior pittore cinematografico dell’anno.  Comincia con il cinema neorealista ma sarà molto attivo anche nel cinema americano. Grande capacità di sintesi, esemplare l’immagine di “Bellissima” che riassume l’intera vicenda  negli occhi della Magnani mentre stringe a sé la sua bambina.

Uso dell’arancione in “Ben Hur” del quale è divenuta una pietra miliare l’immagine scolpita del titolo, e in “La collina del disonore”, mentre con “Una rosa per tutti” sceglie la seducente figura femminile in primo piano. E che dire di “La caccia” e “Quel treno per Yuma”, “La collina del disonore” e “La notte”?

Otello Mauro Innocenti (Maro) con Alain Delon in “La prima notte di quiete”,  regia Valerio Zurlini, 1972 

De Seta e Simeoni,  Giuliano e Lorenzo Nistri, Mos e Picchioni

Enrico De Seta è stato innanzitutto illustratore satirico, ha fatto parte della redazione di “Marc’Aurelio” e di “Il Travaso delle Idee”; per questo abbondano le immagini umoristiche, da “Gli zitelloni” a “La congiuntura” di Ettore Scola. Il suo campo d’azione spazia poi dalle figure serene di “I vitelloni” e “Fortunella” a quelle altamente drammatiche di “Uragano sul Po” e “Il brigante Musolino”.

Il cinema americano è presente con un cartellone nel cartellone, l’immagine di Spencer Tracy in “L’ultimo hurrà”. Un presidente anche nei bozzetti del figlio Bob, “Quei quattro giorni di novembre”, con John Kennedy dietro la bandiera americana  macchiata del suo sangue.

Particolarmente ricca l’iconografia bozzettistica di Alessandro Simeoni, sia nella scala cromatica sia nella cifra stilistica, dal figurativo all’astrattismo e alla pop art. Le sue scenette sono popolate e movimentate, fondi scuri da cui spiccano le immagini.  Così “La dolce vita”, il monumentale manifesto divenuto prezioso,  e “La notte brava”, i due bozzetti di “Accattone” insieme a “Il bell’Antonio” per l’Italia;  “Splendore nell’erba” e “I tre volti della paura” per il cinema americano.

Tra gli italiani  anche le serie sulla violenza urbana  come “Roma a mano armata”e “Squadra volante”  e i delicati “I girasoli” con i protagonisti distesi nel mare di fiori e “Per grazia ricevuta” come un collage di immagini votive,  mentre “La morte cammina coi tacchi alti” ha una sequenza di immagini surreali dall’espressione allucinata alla “Munch”che via via si schiacciano al suolo.

Giuliano Nistri, grande illustratore e disegnatore anche satirico, dalla “Tribuna illustrata” al “Travaso delle Idee”,collabora con la Rko e la Lux. Rende l’atmosfera del film fissando un’emozione: così “I vitelloni” in due bozzetti molto diversi, uno il pontile con le piccole sagome nere sul fondale della gigantesca testa rossa di Sordi, l’altro con gli sfaccendati al caffè immersi in un’atmosfera resa crepuscolare dal celeste dello sfondo e del pavimento.

In  “La strada” una scena violenta in primo piano contrasta con il grande viso della Masina clown sullo sfondo; così in “Zorba il greco” dove dietro i due che lottano c’è la grande testa di Antony Quinn. E’ in primo piano invece l’intenso abbraccio di”Gli indifferenti”, intrigante ossimoro con il titolo, mentre lo slancio interiore  in “Summit”  è nelle due figure accostate prima dell’abbraccio.

Lorenzo (Enzo) Nistri, un autodidatta che si ispira prima a Ballester, Martinati e Capitani,  poi è attirato dalla modernità di Brini, collabora  con alcuni dei maggiori registi, Germi, Rosi e Visconti. Lavora anche nella grafica pubblicitaria e nell’editoria come autore di copertine di libri.

Usa tinte forti per film intensi del cinema americano, da “Notorius” a “Lo spaccone”, “La donna che visse due volte” e “Intrigo internazionale”.  Colpisce  il bozzetto di “La dolce ala della giovinezza”  – dove ritroviamo in primo piano Paul Newman già visto nel bozzetto di “Lo spaccone” –  per l’intensità dell’abbraccio, e quello di “Va e uccidi” per il contrasto delle tre figure, la ragazza allucinata in primo piano, l’uomo in piedi con la pistola e il grande viso rosso fuoco che occupa l’intero fondale. Tutt’altro clima, naturalmente,  in “Pane,  amore e…” e “Colazione da Tiffany”, chiari e sereni. C’è poi la galleria di ritratti inediti di grandi dive: Audrey Hepburn  in due versioni, una sofisticata l’altra sportiva,  Marilyn Monroe, Claudia Cardinale e Sophia Loren.

Di  Mario De Berardinis (Mos) va ricordata la naturale propensione per l’illustrazione e la passione per il cinema: scattata la scintilla tra i due poli eccolo a Roma ispirarsi a Ciriello e a Gasparri, di quest’ultimo frequenta lo studio grafico. E’ stato un protagonista della cartellonistica italiana e internazionale, con diverse firme, dal nome intero alle iniziali fino a Mos e Almos.

Nei suoi bozzetti  emergono tratti calligrafici con tinte e sfondi chiari  come in “Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica” e  “Roma bene”;  e toni  intensi in “Il giorno della civetta” e “La stanza del vescovo”, con il rosso e il nero a marcarne l’atmosfera.

Sfondi chiari e anche intensi in Franco Picchioni (P. Franco),, grafico pubblicitario attivo nel mondo editoriale  come illustratore fino ad entrare nello Studio Paradiso e quindi nel mondo del cinema dove incontra Casaro cartellonista in ascesa. Unisce l’abilità ritrattistica negli intensi primi piani  alla cura dell’ambientazione documentandosi con metodo e rigore.

I bozzetti in mostra vanno da un forte primo piano di Clark Gable in “Mogambo”, con a lato  il bel viso di Ava Gardner, all’inusuale panoramica della partita di calcio in “Il profeta del goal”, passando per le immagini vigorose di “Gi invasori” e “Perseo l’invincibile”.

Una latitudine espressiva e compositiva  quanto mai vasta, in  questo come nella gran parte dei pittori cartellonisti. Diventa sconfinata nella galleria che presenta le loro opere: non è terminata, continua prossimamente per dare nuovi e sempre emozionanti stimoli alla nostra memoria.

Info

Montecosaro (Macerata), Palazzo Marinozzi a Porta San Lorenzo, visite guidate su Appuntamento. Infoline 0733.229164. museo@ cinemaapennello.it; www. cinemaapennello.it. Catalogo “Cinema a Pennello. Un bozzetto di storia”, di Paolo Marinozzi, edito dal “Centro del Collezionismo”, Montecosaro, giugno 2011,  formato 24×28 cm, pp. 304 su carta patinata a colori; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sull’impostazione della mostra e la sua genesi è uscito in questo sito il 15 novembre 2012, con i bozzetti di 4 artisti che fanno parte dell’odierno excursus: Casaro e Ballester, Brini ed Ermanno (Piero) Iaia, per i film “Nell’anno del Signore” e “Fronte del porto”, “Bellissima” e “I dieci Comandamenti”, con protagonisti rispettivamente Claudia Cardinale e Marlon Brando, Anna Magnani e Charlton Heston. Il 19 novembre  uscirà l’articolo conclusivo con altre 4 immagini: in apertura, il bozzetto di Ciriello per “Sentieri selvaggi” con John Wayne e una straordinaria carica di indiani. poi  bozzetti di Campeggi con Doris Day, Manfredo con Laurence Olivier e Gasparri con Gian Maria Volontè.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’autore Marinozzi con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura,  Angelo Cesselon con Gina Lollobrigida in “La donna più bella del mondo”,  regia Leonard e Pierotti, 1955;  seguono Arnaldo Putzu con Ugo Tognazzi in “La vita agra”, regia Carlo Lizzani, 1964, e Otello Mauro Innocenti (Maro) con Alain Delon in “La prima notte di quiete”,  regia Valerio Zurlini, 1972; in chiusura, Alessandro Simeoni  con Franco Citti in “Accattone”, regia Pier Paolo Pasolini, 1961. Abbiamo scelto quest’immagine conclusiva in omaggio al poeta, scrittore e grande regista di film coraggiosi e innovativi scomparso tragicamente nel 1975 sul quale è in corso a Roma, al Palazzo Incontro,  una mostra celebrativa attraverso le interpretazioni date da 22 artisti contemporanei ad 11 sue poesie selezionate, di forte impegno civile. La mostra dal titolo “PPP: Una polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”  sarà aperta fino al 23 dicembre 2012, ne raccontiamo la visita in due articoli usciti su questo sito l’11  e 16 novembre 2012.  

Alessandro Simeoni  con Franco Citti in “Accattone”, regia Pier Paolo Pasolini, 1961 
 

Cinema, 1. Cento bozzetti originali nel museo permanente, a Montecosaro, Macerata

di Romano Maria Levante

Il Festival del film a Roma ripropone dal 9 al 17 novembre 2012 l’annuale rassegna e il “red carpet”, ma come il cinema non suscita le emozioni del passato. Le abbiamo rivissute visitando la  mostra permanente “Cinema a Pennello” a Montecosaro, Macerata, Palazzo Marinozzi, dove sono esposti i bozzetti originali di più di 100 film, raccolti con pazienza certosina e autentica passione da Paolo Marinozzi, che si è mobilitato con il suo “Centro del Collezionismo” realizzando con questa ricca esposizione un “unicum” al mondo in un delizioso borgo di  provincia nelle Marche. Ci sembra un doveroso riconoscimento ricordare la mostra a margine dei programmi del Festival.

Renato Cesaro con Claudia Cardinale in  “Nell’anno del Signore”, regia Luigi Magni, 1969 

Ne è stata madrina Claudia Cardinale,  che nel presentare la mostra ha  candidamente espresso il suo stupore perché “questa iniziativa, particolarmente significativa, anziché in città predisposte come Roma, Venezia, o Cannes, avvenga in un minuscolo centro marchigiano”. 

Sottolineare queste sue parole nei  giorni del Festival del film romano dovrebbe  servire a richiamare l’attenzione  del mondo del cinema verso quella  parte della sua storia legata all’arte pittorica,  e alla storia del costume. E’ una storia che rimanda agli artisti i quali hanno portato le vicende dei film nella fantasia popolare  fissandole in immagini che ne evocavano mille altre: arte pittorica ma anche capacità di sintetizzare contenuti vasti e profondi con la magia del pennello.

Una eccezionale galleria iconografica

Basta sfogliare lo splendido  Catalogo edito dal “Centro del collezionismo” che contiene  una eccezionale, preziosa  galleria iconografica:  i bozzetti su carta patinata dai brillanti colori  con schede biografiche degli artisti. Se ne scopre  la vita e la formazione, l’attività professionale  spesso di illustratori che si incrocia con il lavoro per i manifesti cinematografici. Una sorpresa per noi: vi troviamo Walter Molino, che nel 1941 successe ad Achille Beltrame come copertinista della mitica “La Domenica del Corriere”:  solo pochi manifesti per dei film comici, che comunque lo collocano nella schiera dei  cartellonisti cinematografici, ha poi ritratto molti personaggi dello schermo. Il suo successore nell’ultima fase della “Domenica”, Averardo Renato Ciriello, invece, ha una posizione di preminenza nel gotha dei cartellonisti cinematografici, con migliaia di manifesti al suo attivo.

Ci sono anche gli “anonimi ma belli”, artisti non identificati di cui la mostra espone immagini di film invece molto noti, da “Viva Zapata!”  di Kazan a “Il fiore delle mille e una notte” di Pasolini,

E’ una straordinaria rassegna d’arte e di costume, perché i manifesti dei film che sono stati poi stampati  in diversi casi esposti nella mostra a confronto con i bozzetti,  hanno contribuito molto al successo della pellicola: “Più del titolo del film, talvolta, attira la locandina. Anticipa la trama, l’ambientazione, il nome dei protagonisti”, è il commento anonimo ma veritiero dietro un bozzetto.

Anche questa “massima” è stata scovata da Paolo Marinozzi, che la contrappone alla scarsa considerazione dei committenti verso l’autore del bozzetto, definito “artista senza fama” nelle etichette poste sul retro, ma la spiegazione è evidente: soltanto così potevano evitare gli oneri molto maggiori di una valutazione come opera d’arte. Era  un mecenatismo alla rovescia che svaluta la propria committenza con una miopia pari all’attenzione esasperata ai costi della fase promozionale.

L’umiliazione che ne derivava non riguarda solo gli artisti, ma tutti gli spettatori grandi e piccoli che si sono immedesimati in quelle immagini per la loro forza espressiva, segno di grande valore artistico. Fa bene Marinozzi a dare risalto alle parole di Milo Manara, che consideriamo una consacrazione di questo valore: “Da bambino pensavo che gli autori dei manifesti del cinema fossero i più grandi artisti mai esistiti in ogni tempo. Altro che Michelangelo, altro che Van Gogh”. E lo spiega: “C’era una tale potenza e contemporaneamente un tale realismo in quelle immagini che ne ero totalmente soggiogato. Mi affascinavano molto di più degli stessi film”.  Ed ecco il perché: “Su una unica immagine, a tinte forti e drammatiche, era racchiuso molto di più di quanto il film mi avrebbe poi raccontato in un’ora e mezza”. Se questo è vero, e crediamo lo sia, si può immaginare lo “tsunami” di emozioni che dà una mostra in cui di questi “racconti” ce ne sono un centinaio.

Anselmo Ballester con Marlon Brando in “Fronte del porto”, regia Elia Kazan, 1954 

Gli incontri fatali di Marinozzi

Ma se è travolgente e immediato l’effetto visivo ed emotivo della straordinaria galleria di bozzetti,  la ricerca è stata lunga, la raccolta paziente. Ce ne ha parlato direttamente Marinozzi, guidandoci nella visita: la stessa individuazione degli autori dei bozzetti spesso è risultata problematica, e non è stato facile poter avere le loro opere in molti casi disperse anche a causa della loro sottovalutazione. 

Ricorda ogni momento della sua accanita “caccia al bozzetto”,  a partire dal “colpo di fulmine” avuto nel 1992  quando nel 25° anniversario della scomparsa di Totò organizzò come collezionista una mostra di oggetti e riviste, programmi teatrali e brochure, foto di scena e … manifesti cinematografi. Armando Giuffrida titolare della libreria Metropolis lo introdusse nel mondo dei pittori dei manifesti che conosceva alla perfezione. Mentre  parlava delle loro qualità e diversità stilistiche, ricorda Marinozzi, “riuscì magicamente a trasmettermi una specie di suggestione ipnotica, identica a quella provata tanti anni prima, proprio davanti  a un cartellone del cinema, quando mi trovavo solo, attonito ed incantato ad ammirare quello splendore in cinemascope”.

Poi Antonio Decima, che ne aveva molti “tenuti come reliquie”, gli diede l'”assist”  per la mostra alla galleria romana del “Mascherino” curata da Stefano Dello Schiavo, dove finalmente riuscì ad avere i primi due bozzetti: “”Li tenni per un po’ tra le braccia, come si fa con un figlio atteso da tanto tempo. Fissai come folgorato quei dipinti per alcuni interminabili momenti in un  silenzio irreale… Tornai a casa in pullman con al mio fianco due nuovi compagni di viaggio”.

Ne raccoglie poi altri, insieme a dei manifesti  e  nel 1995 li espone all’aperto  sotto le logge di Sant’Agostino a Montecosaro;  lo aiuta  Benito Boschetti di un’agenzia di Servizi per il  Cinema, al quale si è rivolto per i manifesti dei film di Abbe Lane da lui celebrata  con una manifestazione alla quale presenziò lei stessa: un avvenimento per un piccolo paese marchigiano come Montecosaro. M il vero avvenimento per lui fu la mostra  romana al Palazzo Esposizioni nel centenario della nascita del cinema intitolata “Cinema dipinto”, che presentava alcuni capolavori del cartellonismo cinematografico; perché  poté conoscere di persona i maggiori artisti del settore.

A questo punto Marinozzi diventa un fiume in piena, nel raccontare la sua caccia al bozzetto seguendo la pista degli artisti conosciuti e degli altri che riuscì a identificare a poco a poco. Il suo racconto è punteggiato di  notazioni personali. come l’ “impresa titanica” di fare scambi con il collezionista che usava la tattica “della supervalutazione del suo usato e della rottamazione del mio”. Ma l’avventura inizia con quella mostra, riporta  a casa il primo bozzetto, dipinto da Pietro Ermanno Iaia, con Stefania Sandrelli in “Sedotta e abbandonata” ,  da allora fu lui a esserne sedotto.

Seguirono molti incontri fatali. Con Arnaldo Putzu del bozzetto di “Marisa, la luna e tu”; che ritrasse anche sua moglie Valeria, un segno degli stretti rapporti  che è riuscito a stringere con gli artisti.  La Magnani in “Bellissima”  nel bozzetto di Ercole Brivi è stata la conquista successiva.  Anche gli incontri con gli eredi dei maggiori artisti sono stati intensi, ricorda quelli con la figlia di Angelo Cesselon, di cui avrà tra gli altri il  bozzetto di “Umberto D”  e con le figlie di Anselmo Ballester, il più grande pittore di cinema, il cui “Fronte del Porto” gli fu portato da Giuffrida.

L’incontro con Averardo Renato Ciriello, che definisce “il più celebre degli illustratori viventi” e loro decano, ispirato dall’omaggio resogli da Vincenzo Mollica, è stato speciale: l’artista di persona gli ha portato a Montecosaro non solo i bozzetti, vere opere d’arte come lo spettacolare “Sentieri selvaggi”, ma anche ritratti di attrici “messe a nudo” per il settimanale Menelik dopo aver creato le pin up per le  copertine  della rivista “Signorina Sette”, un fenomeno di costume.

Viene poi  Sandro Simeoni  di cui ricorda: “Quando mi portò il bozzetto di “Accattone” sembrava tenere in braccio una creatura, la sua creatura descrittami nei minimi particolari con pasoliniane memorie, davanti al camino, come se raccontasse una autentica favola. E per me lo era veramente”.

Enrico De Seta , scomparso ultracentenario, lo incontrò nella sua villetta nella campagna romana, e fu prodigo di racconti e di aneddoti della sua lunga vita artistica. Fu il figlio Bob, con il quale visionò parte della produzione artistica del padre, a dargli il bozzetto di “I vitelloni””,  “che ad ogni sguardo riesce sempre ad emozionarmi”,  esclama con la sua consueta vena autentica e spontanea.

Conosce nel 2005 Enzo e Giuliano Nistri, autori dei bozzetti dei film di Catherine Spaak, ad una manifestazione in onore dell’attrice, e la figlia del pittore Mario De Berardinis, incontrerà poi la compagna di vita di Manfredo Acerbo, ma non riuscirà a strapparle la “Tunica”,  e Luigi Crovato, cui si deve il bozzetto di “I soliti ignoti, Alessandro Biffignardi e Silvano Campeggi, il grande “Nano”, Renato Casaro e la moglie del pittore Rodolfo Gasparri, di Castelfidardo.

Dei film del regista marchigiano, Romolo Marcellini, è riuscito a recuperare  i bozzetti di Ballester, per “M.A.S.”, e di Mauro Innocenti per “Tabù n. 2”. Ci teneva molto, “forse anche a questo spirito campanilistico devo qualcosa, come riuscire ad accumulare in tanti anni di intense ricerche, alcuni esemplari di pezzi unici che, in questo piccolo paese, raccontano la storia iconografica del cinema mondiale”.  E non sono mancate “scelte sofferte”, cita solo la rinuncia al Rolex e a preziose tavole.

Ercole Brini con Anna Magnani in “Bellissima”, regia Luchino Visconti,  1951 

Racconti e immagini che fanno storia: dell’arte, del cinema e del costume

Sono racconti che fanno storia, la storia dell’arte figurativa al servizio del cinema, in una simbiosi che oggi assume aspetti molto diversi. Non c’è più il pennello degli artisti, alla pittura si sostituisce la tecnologia digitale, fatta di computer e di “mouse”, l’estro si esprime con la freddezza della grafica. Marinozzi  si dichiara “nostalgico di antiche emozioni, vissute come uno dei tanti bambini incantati davanti ad un grande cartellone”, e ci fa ripensare al film di Jacques Tatì che esprimeva visivamente questo sentimento che non è retrogrado ma molto umano.

Ma proprio questo dà alla sua opera un valore definitivo,  come la riscoperta di “civiltà sepolte” , o meglio di reperti che potevano andare perduti. Invece non solo sono salvati dalla distruzione che sarebbe seguita all’oblio, ma sono stati portati alla luce e messi a disposizione di tutti in una  terra aperta alla cultura, esposti nell’antico palazzo patrizio, ai margini del borgo medioevale,  che  fa pensare a un castello a protezione di questi valori dell’arte e dell’umanità.

Entrati nella memoria personale e collettiva , meritano di essere riproposti  per continuare a sognare. “Il sogno è sempre più sbiadito e lacerato”, dice Marinozzi; ma per merito suo torna a brillare e a risplendere.

Il racconto di Paolo Marinozzi si è dipanato  con aneddoti e particolari pittoreschi, il tutto animato da una forte passione e da  una gioia quasi infantile nel descrivere le sue conquiste. Un film nel film, va definito, dato che il film principale è da lui realizzato nel set del palazzo di famiglia.

Dopo il racconto, la visita alle numerose sale e salette dei due piani del palazzo dove sono esposte le opere. E non a caso abbiamo parlato di set, i bozzetti si integrano nell’ambiente al quale danno il colore e il calore delle  loro immagini, non sono semplici quadri in  successione ma tessere di un mosaico in cui il palazzo nobiliare ha una parte non secondaria. Sembra il terreno in cui  si svolge una storia  piuttosto che una sede espositiva, ed è giusto che sia così. Perché i  bozzetti oltre a raccontare con la loro sintesi artistica la propria vicenda, nella  loro successione incalzante esprimono la storia di un costume e forse di una civiltà, al di sopra delle frontiere: vi è rappresentato il cinema mondiale, in un percorso di oltre  mezzo secolo.

Come nei due tempi cinematografici, la storia si sviluppa in due piani del palazzo, nel susseguirsi di scene tra una stanza e l’altra. Sono unite, come nelle antiche case nobiliari, con la continuità delle singole “enclave”  nelle quali sono esposti i quadri. Fino all’arrivo al salone centrale, dal soffitto riccamente affrescato, dove la sensazione di assistere a  una vera storia che si snoda in un ambiente “vissuto” è reso plasticamente dalle riproduzioni , questa volta in manichino, delle  attrici sedute sulle sedie quasi in una magica evocazione. Ma non si incontrano i misteri dei castelli, tutto è aperto e palese, sono stati ricavati anche degli angoli con suggestivi abbinamenti tra bozzetto e manifesto.

La visita sta per iniziare, non si può esaurire in poche battute, ne parleremo prossimamente.

Info

Montecosaro (Macerata), Palazzo Marinozzi a Porta San Lorenzo, visite guidate su Appuntamento. Infoline 0733.229164. museo@ cinemaapennello.it; www. cinemaapennello.it. Catalogo “Cinema a Pennello. Un bozzetto di storia”, di Paolo Marinozzi, edito dal “Centro del Collezionismo”, Montecosaro, giugno 2011,  formato 24×28 cm, pp. 304 su carta patinata a colori.; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 17 e 19 novembre 2012, il primo con i bozzetti  di Cesselon, Putzu, Maro e Simeoni, il secondo con quelli di Ciriello, Campeggi, Manfredo e  Gasparri.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’autore Marinozzi con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; per la  figura e l’opera degli autori delle immagini inserite nel testo cfr. i due articoli successivi del 17 e 19 novembre. In apertura, Renato Cesaro con  Claudia Cardinale in  “Nell’anno del Signore”, regia Luigi Magni, 1969; seguono  Anselmo Ballester con Marlon Brando in “Fronte del porto”, regia Elia Kazan, 1954, ed Ercole Brini con Anna Magnani in “Bellissima”, regia Luchino Visconti,  1951; in chiusura, Ermanno (Piero) Iaia con Charlton Heston in “I dieci Comandamenti”,  regia Cecil B. De Mille, 1956. 

Ermanno (Piero) Iaia con Charlton Heston in “I dieci Comandamenti”,  regia Cecil B. De Mille, 1956

Vermeer,1. Lo sguardo e la luce, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Una mostra dall’allestimento molto particolare a Roma, alle Scuderie del Quirinale, dal 27 settembre 2012 al 20 gennaio 2013, “Vermeeer il secolo d’oro dell’arte olandese”, organizzata dall’Azienda speciale Expo con MondoMostre, curata da Arthur K W heelock  jr della National Gallery di Washington e Walter Liedtke del Metropolitan Museum di New York con Sabrina Bandera soprintendente  al patrimonio artistico di Milano e Antonio Paolucci, presidente del Comitato scientifico delle Scuderie.  50 opere  di artisti del secolo d’oro olandese che fanno corona a 8 opere di Vermeer, delle 35 esistenti; sono di piccole dimensioni, con grande forza espressiva.

Vermeer, “La stradina”, 1658

Un allestimento sobrio e speciale

E’ inconsueto raccontare la mostra soffermandosi sull’allestimento, ma è la chiave per seguirne il percorso didattico e di ricerca insieme, e dare al sottotitolo il suo vero significato. Questa volta non si tratta dell’operazione alquanto frequente di lanciare il grande nome come specchietto per le allodole la cui presenza serve ad accreditare una platea di artisti minori cui si riferisce la scritta in piccolo. Del grande nome sono presentati, sì, “solo” 8 quadri, ma sono  poco meno di un quarto di quelli esistenti  gelosamente custoditi e inibiti al trasporto per la loro fragilità; inoltre i 50 quadri di pittori olandesi  della sua era non sono riempitivo, trattandosi di artisti di qualità che hanno condiviso e innovato  con lui motivi, stile e contenuti, in una stagione di intenso fervore artistico.

L’allestimento è in carattere con tutto questo, nelle 10 sale delle Scuderie dopo l’apertura  con un celebre “esterno” di Vermeer, gli esterni dei suoi conterranei coevi, poi si susseguono i temi salienti di interni  vissuti da persone e visi in una vita quotidiana  intima e raccolta, con l’interpretazione degli altri artisti e al centro, quasi incastonato, il “suo” quadro.  Sulla tonalità neutra del grigio dei rivestimenti alle pareti, spiccano a caratteri vistosi i titoli delle singole opere come capitoli di un libro da tenere a mente, in aggiunta alle consuete etichette recanti tutte le indicazioni. In ogni sala sono esposte opere con un filo conduttore comune, i titoli danno conto dei singoli svolgimenti.

Più che a sorprendere con effetti spettacolari si mira a far riflettere, a penetrare lo spirito del “secolo d’oro” per trovare al centro di ogni tematica  il culmine dell’arte rappresentato dall’opera di Vermeer. Un’eccellenza da scoprire nel confronto ravvicinato, alla ricerca della specialità nel segno e nel colore, nell’espressione e nella luce che lo rende il più grande tra pur valenti e rinomati artisti.

L’Olanda del secolo d’oro

Ma cos’è questo “secolo d’oro” della pittura olandese? Come nasce e attraverso quali circostanze della storia e della vita si è elevata la figura di Vermeer, così diversa dai grandi pittori di sempre? Sono domande a cui è bene trovare una risposta per  poter apprezzare appieno i capolavori esposti, e dare alla visita un valore  pedagogico con una vera ricerca del significato di stili e contenuti.

Dopo un conflitto durato quasi un secolo, dal 1568 al 1648,  l’Unione delle Province Unite che si erano ribellate al dominio absburgico con la pace di Munster nel 1583 raggiunge l’indipendenza: ogni provincia ha un governo autonomo, e la provincia olandese assume un ruolo dominante. La strenua lotta per raggiungere l’indipendenza, insieme a quella per difendere le terre poste sotto il livello del mare con le dighe, dà al popolo olandese una grande forza che si manifesta in un fiorente sviluppo dei commerci e dell’economia, con il sorgere di una borghesia molto intraprendente. Pur nel rigore del calvinismo protestante, dopo l’aspra lotta religiosa con i cattolici, c’è tolleranza e apertura alle scienze e alle arti, che crea spazi per esercitare liberamente lo spirito creativo. Rembrandt ad Amsterdam,  Hals alla vicina Haarlem, Vermeer a Delft sono stati i più grandi.  

La classe borghese con il suo interesse ad acquistare quadri sul mercato privato viene a sostituire il mecenatismo imperiale, ecclesiastico e  aristocratico presente in altre nazioni oltre che in altre epoche. Ne deriva che l’arte non è più vincolata ai temi religiosi, mitologici o nobiliari,  ma si orienta verso la realtà di quel periodo, fatta di vita quotidiana  e virtù civili;  non c’è più la rabbia dei decenni precedenti quando i soggetti erano violenti e dissoluti, con la pace va in scena la vita familiare. Gli artisti possono esprimere la propria creatività  ispirandosi a ciò che vedono, trovano sbocco solo nel mercato interno, quindi i quadri sono di piccole dimensioni  e i temi intimi e privati.

Già nel 1550, mentre Vermeer è in fase di formazione su temi mitologici e religiosi, troviamo De Hooch e  Steen con cortili e scene che si svolgono in strada  oppure in ambienti domestici in una disarmante semplicità; e Ter Borch, a cui si ispirò per riprendere scene di vita domestica, mentre l’elemento psicologico irrompe con  Van Mieris. La luce è la grande specialità di Fabritius che  ebbe un’influenza diretta su una delle  opere più celebri di Vermeer  il quale aveva due suoi quadri.

Siamo passati, nel “secolo d’oro”, dagli esterni agli interni, alla psicologia e ai volti con espressioni intense che la riflettono: altri nomi si aggiungono, De Witte e Van der Heyden, Maes e  Metsu, Sweerts e Shalcken,  Dou e  Ochtervelot,  Netschwer e Van Vliet, tutti presenti in mostra. E non sono semplici comprimari, anche se Vermeer è  l’eccellenza: è una carrellata di ambienti raccolti e di figure sommesse che dà la misura della pittura civile e intimistica di un’Olanda libera da qualunque vincolo che ne limiti la libertà politica, economica, e  soprattutto, artistica.

Van der Poel, “Veduta di Delft con l’esplosione del 1654”, 1654

La vita e l’arte di Vermeer

La città dove Vermeer è nato ed è rimasto per tutta la vita, a parte  qualche viaggio ad Amsterdam e L’Aia, è tra le più fiorenti:  Delft con 35 mila abitanti è al centro di commerci  anche di arazzi e porcellane cinesi, c’è una ricca classe borghese interessata all’arte. Si ritiene che, pur nel clima di libertà e autonomia da vincoli di committenza, Vermeer possa aver avuto un riferimento preciso, con un compratore abituale che forse gli ha suggerito alcuni particolari di dettaglio, ma non è certo.

E’ noto che dipingeva non più di un quadro ogni 4 mesi, in media 3 all’anno, impegnandosi con cura certosina e utilizzando materiali di pregio; collegando questo aspetto con la fine prematura a 43 anni si comprende perché abbia prodotto meno di 50 quadri in tutta la sua vita, per di più di piccole dimensioni, un decimo di quanti ne producevano altri artisti, senza pensare alle grandi pale. Piero Citati lo attribuisce alla pigrizia, agli impegni per la famiglia e il commercio o alla mancanza di compratori, e aggiunge: “O invece aveva bisogno di molto tempo perché i motivi si formassero e, a poco  a poco, lentamente, cristallizzassero, come perle prodotte da una misteriosa conchiglia”.  

Fu eletto decano della “Gilda” di San Luca di Delft nel 1662-63 e poi nel 1670-71, ma a parte questo non si metteva in vista. Nelle sue opere si riflette il suo riserbo e la riservatezza, discendeva da una famiglia modesta,  a vent’anni sposò Catharina Bolnes, una ragazza cattolica benestante  e abbracciò quella religione in modo convinto. La sua casa era vicina a una chiesa e a una scuola di Gesuiti;  era modesta, anche se dipingeva interni eleganti con la sua immaginazione. Ebbe 11 figli, viveva anche con la suocera vera padrona di casa essendo la moglie sempre incinta,  la sua vita procedette senza difficoltà fino alla crisi del 1972: la guerra con la Francia lo abbatté sul piano economico e psicologico, sopravvisse soltanto per tre anni vissuti nell’indigenza e nell’angoscia.

L’esordio come artista e la sua formazione furono ben diversi nella forma e nei contenuti da quella che sarebbe stata la sua cifra pittorica. Iniziò dipingendo scene mitologiche e opere religiose di grandi dimensioni, secondo la pittura tradizionale, fino alle nuove tendenze che si andavano profilando nell’ambiente artistico e che contribuì a determinare. Nel 1955 a 23 anni abbiamo “Santa Prassede”, che riproduce un quadro di un pittore fiorentino, al punto da mettervi la doppia firma,  come si vedrà in mostra; poi “Cristo nella casa di Maria e Marta” e “Diana e le compagne”.  

Ci si chiede se questi primi lavori, che forse trovarono acquirenti in parenti o amici, sono il frutto della conversione al cattolicesimo e se sperasse in grandi committenze ecclesiastiche . Di certo la situazione politica ed economica  dell’Olanda  e di Delft  non poteva portare a committenze di questo tipo, mentre si aprivano gli sbocchi cui si è accennato nel libero mercato dell’arte alimentato dagli acquisti della borghesia che non prediligeva simili temi ma soggetti vicini alla vita reale.

Questo lo portò alla pittura di genere cominciando con le vedute cittadine e con scene di vita quotidiana sin dalla seconda metà degli anni ’50 nel ‘600,  già dipinte da artisti dell’epoca che ebbe modo di conoscere rendendosi conto che aveva doti ben superiori per eccellere in quel campo. D’altra parte la formazione su temi  religiosi e mitologici lo aveva portato a una visione improntata alla dignità e alla nobiltà che, in soggetti e modalità ben diverse, rimase comunque il suo sigillo.

De Hooch, “La camera da letto”, 1658-60

Il giudizio di uno scrittore e di un poeta

Cosa si può dire della sua arte, come preparazione alla visita  delle sue opere in mostra?  Ci piace premettere il giudizio di uno scrittore e di un poeta ai commenti critici dei realizzatori, con i quali introdurremo la visita alle opere esposte.

Ecco il pensiero dello scrittore Pietro Citati, in un commento molto approfondito  che raggiunge toni lirici: “Non gli interessava inventare ma vedere”. La forma e il colore, gli oggetti e le persone, e soprattutto la luce, Citati li vede atteggiarsi “in modo sempre nuovo, nello splendore quieto della sua mente.  Tutto accadeva nella sua mente, che era il suo occhio, la sua mano, la sua luce, la sua camera oscura”. Della luce dice che non la riproduce come la vede, essendo molto diversa da quella reale che, tra l’altro, dopo un attimo è già mutata mentre viene fissata sulla tela. La sua luce “arbitraria, illogica, irrazionale”  fa sì che il momento non sia né effimero né eterno, “con un tocco sottilissimo lo rende assoluto”; l’azione è sospesa tra quiete e movimento, tra presenza e assenza, attesa e contemplazione, equilibrio e delicatezza. Perché “la sua mente guardava il mondo, lo rispecchiava e lo rifletteva in se stessa”.  Il  tutto nella quiete data da sentimenti raccolti nel profondo dell’anima, comprimendo “la ricchezza dell’immaginazione in un  piccolo spazio, in qualche tocco di colore e in pochi sprazzi di luce”.  Ma anche se le composizioni sono semplici, nei soggetti, nelle figure e nei particolari, la luminosità toglie ogni senso di ristrettezza, apre l’immagine dandole un’ampiezza e un’intensità che rispecchia i sentimenti.

Il grande  Giuseppe Ungaretti ha scritto: “Lo dicono il pittore della luce. Dicono che cercasse la luce. Difatti cercava la luce. Si veda com’essa vibri, per lui, dai vetri, com’essa muova l’ombra, ombra della luce, ombra quasi impalpabile di ciglia mentre lo sguardo amato si socchiude, sguardo quasi – nel suo protrarsi nella memoria e nel desiderio –  imitasse il segno dell’ombra”. Ma precisa subito: “Bisogna però stare attenti nel parlare di luce. Forse, cercando la luce, Vermeer trovava altro, forse la meraviglia sublime della sua pittura è nell’aver trovato altro”.  Un enigma anche questo che il poeta risolve così: “Il  vero resta nella giusta sua misura, pur scappandone e divenendo metafisico, facendosi idea, forma immutabile, per non divenire alla fine se non puro colore, o meglio accorta, misurata distribuzione di puri colori, l’uno nell’altro compenetrandosi, l’uno dall’altro isolandosi”. Perché la luce è “essa stessa un colore” ed è anche “l’anima d’ogni colore”.

Neppure Ungaretti, dunque, come Proust  e Giorgio Morandi,  Ingmar Bergman ePietro Citati,  ha resistito all’attrazione fatale di Vermeer e si è immerso nella sua poetica pittorica riportandoci agli aspetti visivi e cromatici che sono la manifestazione esteriore dei misteri metafisici. A  questo punto è venuto il momento di visitare  la mostra in cui il grande artista è in buona compagnia, contornato com’è da tanti campioni del “secolo d’oro” nel ‘600  olandese. La racconteremo prossimamente.

Info

Roma, Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Domenica-giovedì ore 10,00-20,00; venerdì-sabato ore 10,00-22,30, lunedì chiuso, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro  9,50. Tel. 06.39967500. http://www.scuderiequirinale.it/; http://www.mondomostre.it/.  Catalogo “Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese”, a cura di Sandrina Bandera, Walter Liedtke, Arthur K. Wheelock Jr., Skira 2012, pp. 248, formato 24×28, euro 38; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I successivi due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 20 e il 27 novembre 2012. 

Foto

Le immagini sono state fornite dalle Scuderie del Quirinale, si ringrazia  l’Ufficio stampa con i titolari dei diritti per la cortese concessione. In apertura “La stradina”, 1658, di Vermeer,  seguono “Veduta di Delft con l’esplosione del 1654”, 1654, di Van der Poel  e “La camera da letto”, 1658-60 di De Hooch; in chiusura “Santa Prassede”, 1655, di Vermeer.

Vermeer, “Santa Prassede”, 1655

Mondrian, 1. Il percorso d’arte e di vita, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

‘L’esposizione di un quadro di  Mondrian tra i riferimenti ideali, nella mostra in corso alla Gnam dal 20 ottobre 2012 al 27 gennaio 2013 su “L’arte astratta italiana”,  riporta alla ribalta la mostra “Mondrian, la perfetta armonia” svoltasia Roma al Vittoriano dall‘8 ottobre 2011 al 29 gennaio 2012. E’ stato un evento del quale resta un segno profondo a distanza di un anno, trattandosi dell’accurata ricostruzione, rigorosamente strutturata in termini cronologici e stilistici, del suo percorso di vita e di arte con l’esposizione di 70 sue opere relative a tutte le fasi pittoriche, e il contorno di ben 40 opere di altri artisti olandesi in un’interessante associazione di stili e contenuti.

“Faro a Westkapelle con nuvole” 

Per dare il senso dell’evento, ben al di là di una pur importante mostra, iniziamo ricordando l’intervento degli Assessori alla cultura di Comune, Provincia e Regione, dopo l’introduzione di Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando”, nonché il saluto dell’ambasciatore olandese, Alphonsus Stoelinga; mentre il giorno dopo, ospite d’onore all’inaugurazione la principessa ereditaria d’Olanda Maxima con il Ministro dei beni culturali Giancarlo Galan.

Il motivo di tanta mobilitazione? Il livello di eccellenza dell’artista e le sue poche mostre in Italia; a Roma mancava dal 1956, quando lo portò Palma Bucarelli. L’itinerario da paesaggista a simbolista, da luminista a puntinista, da cubista ad astrattista, ne fa una figura eccezionale sul piano artistico e umano: “Una crescita continua e un cambio di passo fino a raggiungere la sua perfezione: ‘l’armonia perfetta’, come si intitola la mostra”, è la premessa di Alessandro Nicosia.

L’assessore al Comune Dino Gasperini ha dato una notizia, il lancio del logo unico del sistema espositivo romano all’inaugurazione della mostra, che corrisponde ai 140 anni dell’artista.  E dopo la parola delle istituzioni, quella della cultura artistica: a presentarlo sono stati Claudio Strinati  e il curatore della mostra e del Catalogo Skirà Benno Tempel, direttore del Gemeentemuseum dell’Aia che ha offerto i prestiti della vasta Collezione di opere di Piet Mondrian e di altri artisti olandesi.

La presentazione di Tempel e le musiche scelte da Strinati

Strinati ha parlato della scelta di brani musicali, da lui curata, il corredo sonoro alla parte finale della mostra: si è ispirato al tema dell’armonia. Mondrian  era molto appassionato di musica, dopo cena a New York andava nei locali da ballo e pur essendo per altri versi un esempio di sobrietà amava l’aspetto ludico della vita.

I brani musicali prescelti sono ripartiti tra Europa e America, dal futurismo – con la musica che nasce dalle macchine – al boogie-woogie; poi quelli ispirati all’altro aspetto di Mondrian, figura simbolica e per certi aspetti  mistica, musica dodecafonica, del tardo romanticismo e musica geometrica-razionale. La corrispondenza tra questi brani e le opere del periodo più maturo sta nel ritmo: per lui l’opera d’arte, che non aveva steccati di genere, doveva dare un senso di benessere e soddisfazione, come fanno le musiche.

Il curatore Tempel ha evocato l'”armonia perfetta” che si crea tra il museo dell’Aia e le opere di Mondrian esposte in tale sede; e ha cercato di riprodurla nell’allestimento della mostra. L’immagine dell’artista non può essere quella stantia del passato, il suo percorso corrisponde allo sviluppo dall’arte dal XIX al XX secolo. Ha iniziato da paesaggista, quando questa era la visione dell’epoca con un’Europa essenzialmente agricola, poi ha seguito l’evoluzione della vita nelle città; in fondo è stato analogo il percorso delle generazioni di europei passati dalla vita in campagna all’urbanesimo.

La sua qualità è stata sempre altissima in ogni fase; l'”armonia perfetta” si crea quando si avvicina alla teosofia. Parla del rapporto tra orizzontale e verticale, presente già nelle opere paesaggistiche improntate al realismo; e cita le dune  orizzontali e i fari verticali. Altro elemento teosofico è che “distruggere è positivo perché porta il nuovo”. Una prima svolta nel 1911, quando scoprì il cubismo e capì che per essere moderno doveva cambiare stile e soggetti e abbandonare l’Olanda. Fu un gesto coraggioso, a 40 anni era uno dei pittori più famosi nel suo paese, lasciò tutto per andare a Parigi dove non era conosciuto. Si mise a studiare e dipingere opere cubiste, ma superò presto questa fase.

Cercava l’armonia tra verticale e orizzontale per cui andò oltre Picasso dipingendo su un unico piano. Tornato in Olanda nel 1917 fondò “De Stijl”, uno dei movimenti più moderni che cercava un nuovo stile per proiettarsi nel futuro, e nella prima guerra mondiale si diffuse anche in Germania, lanciando il “neoplasticismo”. L’evoluzione di Mondrian nella modernità fu tale che quando tornò a Parigi dopo la guerra fu deluso, per lui gli artisti avevano fatto passi indietro, compreso Picasso.

Il suo “atelier” veniva dipinto con gli elementi della sua pittura, fino a configurare un ambiente tridimensionale. L'”armonia” nella sua concezione si riferiva anche al movimento, alla musica, al ritmo. Fino al gusto ludico del ballo come inno alla vita, una vita strettamente aderente all’arte.

Un’opera di realismo

Dal realismo al simbolismo

Il curatore della mostra ha inquadrato così la persona e non solo l’artista con tratti precisi che ne rendono lo spessore culturale e umano. Tutto il suo percorso ha dello straordinario, e sovverte tanti criteri consolidati come quello che veniva richiesto, la coerenza stilistica e di contenuti sul piano artistico; in lui abbiamo invece una adesione alle correnti pittoriche in auge nei diversi periodi della vita senza che questo possa essere ascritto a conformismo, è il voler essere sempre  al passo dei tempi in una ricerca che sin dall’inizio ha un obiettivo preciso, la “perfetta armonia”.  

E quando ha raggiunto tale obiettivo, si è avuta una vera esplosione di opere che segnano il compimento del suo percorso, divenute punti di riferimento anche per il design, la moda e la pubblicità odierne: l’espressione più moderna del senso ludico della vita da lui amato.

Per la “perfetta armonia” oltre che all’arte si rivolge alla dottrina teosofica, cercando soluzioni non semplici nè convenzionali, e mostrando una piena coerenza arte-vita pur nei cambiamenti radicali in entrambe: così nel passaggio tra uno stile pittorico e l’altro, e dall’Olanda ad altri paesi, tra l’Europa e l’America, con l’approdo a New York nel quale trovò la modernità a cui puntava nell’arte.

Gli stessi suoi “atelier” ne sono una prova, anche senza voler entrare nello stile di vita dove il ballo e il senso ludico sono stati sempre importanti: dall’arredo tradizionale con vecchi mobili e tappeti dello studio di Amsterdam a quello spettacolare di Parigi dove – lo dice Tempel “i visitatori  avevano come l’impressione di entrare fisicamente in un quadro dell’artista”, fino all’ultimo in America, spoglio ed essenziale, rinnovato ogni giorno per riprodurvi “il ritmo pulsante di New York e dell’amata musica jazz”.  Di qui l’idea di introdurre la sua musica nell’esposizione.

Ma seguiamone l’evoluzione nel percorso della mostra iniziata con i dipinti paesaggistici improntati al realismo della Scuola dell’Aia i quali, se confrontati con quelli della piena maturità artistica, lasciano increduli che si tratti dello stesso artista: sono molto scuri, di un figurativo in cui la gente comune è inserita nell’ambiente in modo tale da esserne assorbita, come lo era la loro vita di contadini, pastori e pescatori.

Tonalità monocorde senza vivacità cromatiche né contrasti, vi si adatta la definizione di “Scuola grigia” data agli artisti dell’Aia, ma solo sul piano esteriore. In realtà dietro c’era la concezione del filosofo francese Hyppolyte Taine sullo stretto rapporto tra opera d’arte e costumi di un popolo, e sull’influenza dell’ambiente. L’attenzione al paesaggio era, dunque, un fatto culturale oltre che artistico, e in questo spiccano le peculiarità dell’Olanda, in lotta con il mare che ha un livello superiore alla terraferma, dal quale si protegge con dune e dighe.

Nella prima  sezione abbiamo visto circa 30 opere, oltre alle sue quelle di Maris e Weissenbruch, Roelofs e Gabriel.  Del primo ben 5 dipinti, l’“Ovile” e il “Mulino di pietra”“Scena di foresta” e “Mucche tra i giunchi”, ambiente georgico anche se non arcadico per certe ombre molto cariche; di Marris anche “La sposa”, molto diverso, una suggestiva apparizione luminosa nelle tenebre. Degli altri tre artisti visioni molto simili di specchi d’acqua in ambiente lacustre o paludoso.

Un’opera di simbolismo 

Per Mondrian citiamo alcuni titoli che ne rendono il contenuto, siamo tra il 1894 e il 1907.

In una delle prime opere  troviamo il rosso, eccezione alla tinta scura monocorde: è “Timpani posteriori di  una casa colonica di Achterhoek con figure”,  inconsueto il primo pano della donna con in braccio il  bambino.  Paesaggi ricorrenti sono il “Boschetto di salici” e “Boschetto di salici vicino all’acqua”,  il “Canale di irrigazione”con  mucche o salici e “Case coloniche” con corda di bucato o alberi lungo il fiume, “Un’ansa del Gein” e “Corso d’acqua”, “Sera, ovile e cascina” e “Campo”, “Pineta” e “Due alberi”.

Rileviamocome gli alberi siano un motivo persistente e vedremo che non è solo perché il realismo porta a ispirarsi alla natura e l’albero è un elemento centrale del paesaggio. Dell’albero farà il ponte tra realismo ed astrazione con una progressiva inarrestabile stilizzazione. Intanto vi trova gli elementi simbolici a lui cari, nella verticalità del tronco e nell’orizzontalità dei rami; quelli che diventano centrali nei “Fari” e nelle “Dune”  e indicano che anche in questa fase iniziale del suo percorso cerca di andare oltre la realtà.

Abbiamo accennato alla matrice spirituale, la ricerca dell’armonia per un’arte universale, secondo i principi del movimento teosofico di Rudolf  Steiner ed  Helena  Blavatsky che seguì nei primi anni del ‘900; ma solo con la  creazione del gruppo De Stijl, oltre un decennio dopo, furono precisate le incidenze delle concezioni filosofiche sulla sua arte pittorica, che è stata sempre molto personale, ai massimi livelli e con la continuità di una copiosa produzione in tutte le proprie tappe stilistiche.

Si può dire che dopo il realismo abbracciò il simbolismo insito nella teosofia, ma come ispirazione piuttosto che come uso di simboli nei suoi dipinti. I motivi  sono diversi,  alcuni paesaggistici dal “Molino”  in un fondale tenebroso o ripreso in primo piano sempre in campo scuro, al “Grande paesaggio” gravido di ombre; altri sui temi a lui cari, come il “Faro a Westkapelle con nuvole”  o gli “Studi per 5 silouette di alberi”, delicati disegni a carboncino che mostrano l’interesse ai dettagli  mentre l’olio su tela “Profilo di albero”  immerge di nuovo nell’oscurità simbolista. E poi i fiori, il dipinto della “Calla”, un’orgia di rossi e verdi, niente a che vedere con il candore dei quadri che farà Georgia O’ Keeffe su analogo soggetto; e gli studi a carboncino del “Giglio  a coda di volpe”. con la stessa cura nel riprendere i particolari degli studi sugli alberi.

Il simbolismo si fa evidente  in dipinti su temi inconsueti, come i ritratti: lo vediamo dagli occhi spalancati in “Ritratto di ragazza in rosso” e soprattutto dall’intero impianto di  “Devozione”, una giovane figura femminile dai lunghi capelli rossi il cui corpo quasi si trasfigura negli steli dei fiori, vi è stato trovato un simbolo  di “stato  mentale”; in “Passiflora”, altra figura femminile diafana dagli occhi chiusi  con due corolle di fiori  ai lati, è stato visto un “simbolo di malattia”;mentre in “Metamorfosi, crisantemo morente, il fiore funerario è considerato il simbolo teosofico che morte e distruzione sono un progresso verso l’alto, non la fine.

Chiudono la sezione due suoi “Autoritratti”, uno qualificato  “Volto isolato”, l’altro “Occhi”, in carboncino dal segno marcato che ne fa una figura tenebrosa d’altra epoca: simbolo anche questo.

Il percorso continua con il luminismo e il puntinismo, poi il cubismo fino all’astrattismo puro per il raggiungimento dell’“armonia perfetta”. Ne parleremo prossimamente.

Info

Catalogo: “Mondrian. La perfetta armonia”, a cura di Benno Tempel, Skirà,  formato 28 x 30, pp. 224, ottobre 2011. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito il 18 novembre 2012.

Foto

Le  immagini sono state cortesemente fornita da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, che si ringrazia, con il Gemeentemuseum dell’Aia  e i titolari dei diritti. Sono tutte opere di Mondrian: in apertura “Faro a Westkapelle con nuvole”, seguono sue opere di realismo, simbolismo, luminismo.

Un’opera di luminismo

Astrattismo, 2. 50 opere nel 60° di Editalia, alla Gnam

di Romano Maria Levante

La mostra sull'”Arte Astratta Italiana nella collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna”, espone a Roma, alla  Gnam, dal 20 ottobre 2012 al 27 gennaio 2013,  50 opere dell’astrattismo italiano  nella celebrazione dei 60 anni di Editalia, ora nella Zecca-Poligrafico dello Stato. La Casa editrice con la rivista “QUI arte contemporanea”, dal 1966 al 1977 ha inciso profondamente, in stretto rapporto con la Gnam di Palma Bucarelli, sugli sviluppi dell’arte italiana aperta alle avanguardie, in particolare l’astrattismo di cui alla mostra pittorica.

Attraverso l’esposizione antologica delle avanguardie artistiche del periodo, si celebra l’importanza dell’opera di Editalia e della rivista “QUI arte contemporanea” nei loro rapporti con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna: E quando si parla di avanguardie ci si riferisce a quelle stimolate da influssi internazionali e anche sviluppatesi sulla matrice italianissima di futurismo e metafisica.

Si tratta delle tante opere di arte astratta italiana nelle collezioni della Gnam che si aggiungono ai capolavori  dei massimi artisti in esposizione permanente nelle sale dove il pubblico può accedere nel visitare il Museo.  Hanno avuto un’importanza capitale nella storia artistica del ‘900 rivelando  l’apertura internazionale su alcune basi tipicamente nazionali. E’ un percorso che ha visto nascere ed esaurirsi movimenti sorti nel furore creativo degli artisti e nelle conseguenti dispute, in una dinamica incessante che si  manifesta per cinquant’anni in collegamento con le avanguardie europee e nel dopoguerra con gli influssi americani, oltre all’iniziale a matrice futurista e metafisica.

Motivo comune dei gruppi è il linguaggio dell’astrazione, che si contrappone a quello tradizionale legato alla natura e alla realtà oggettiva per una visione della mente in grado di trasformare e anzi di creare una realtà completamente nuova con la forza dell’intelletto.

Dall’anteguerra all’immediato secondo dopoguerra

Si parte dai futuristi che tuttavia  mantengono un legame con la realtà nell’evidenza geometrica, definita “la nuova grammatica espressiva”. Siamo ancora ai primordi, poi verrà l’aerofuturismo in cui la mistica del movimento mette le ali alla pittura.  Intanto negli anni ’20 subentra l’arte meccanica di Prampolini, artista animatore di mostre e riviste,  con Filla e Pannaggi. Del primo sono esposte 5 opere, su fondo rosso o giallo un intreccio di forme e segni paralleli o incrociati.  

L’arte si sprovincializza nei collegamenti europei, gli astrattisti  italiani entrano in contatto con quelli russi e tedeschi, francesi e olandesi, le avanguardie di questi paesi si muovono in direzioni coerenti. Come riferimenti per l’Europa basta citare i nomi di Mondrian, di cui è esposta un’opera particolarmente significativa, Malevic e Kandiskij, c’è anche il testo teorico “Astrazione ed empatia”; per l’Italia la metafisica di de Chirico eil futurismo di Balla e tanti altri.

La galleria milanese “Il Milione”  si segnala organizzando una mostra di Kandiskij nel 1934 e pubblicando nel 1935 il saggio di Carlo Belli sull’astrattismo pittorico e l’architettura razionalista;  intorno ad essa si era raccolto un gruppo orientato verso un  astrattismo geometrico ispirato  a Malevic, pur se in piena  autonomia sul piano cromatico e compositivo.  Il gruppo è formato da Reggiani e Fontana, Licini, Veronesi e, Soldati. Notiamo le forme nere e azzurre di Reggiani e la geometria rosso mattone di Veronesi, poi  le composizioni molto diverse di Soldati: ne sono esposte 5, una dai comparti precisi con figurette all’interno, in altri c’è qualcosa che ci ricorda Klee, in mostra nelle sale attigue.

Anche a Como nasce un gruppo di astrattisti, che mantiene stretti contatti con quello di Milano, intorno all’architetto Terragni: ne fanno parte  Radice e Rho, Galli, Badiali e Carla Prima. Di Radice colpisce lo schematismo  compositivo in un cromatismo a  tinte neutre.  

Nel primo dopoguerra, precisamente nel 1946,  nasce la “Nuova Secessione Artistica Italiana”, sull’onda del manifesto del realismo che si pone in contrasto con il novecentismo, oltre che con le scorie del fascismo da poco caduto. Ne fanno parte Birolli e Cassinari, Morlotti e Pizzinato, Santomaso, Vedova e Viani.  Nelle opere esposte, di Birolli notiamo i colori freddi, verde e celeste, in Santomaso il giallo e viola ravvivano l’insieme in tinta neutra,  in Cassinari e Pizzinato prevalgono le forme curvilinee. Di Vedova due composizioni diverse, stilizzate e cromatiche.

L’astrattismo  e il realismo tra arte  e ideologia

Dopo un anno, nel luglio 1947, in occasione di una mostra milanese, il gruppo si allarga con l’ingresso di Guttuso e Turcato, Campora, Fazzini e  Franchina mentre ne  esce Cassinari e assume il nome di “Fronte Nuovo delle Arti”.  Le critiche di Argan e Venturi sottolineano  il netto distacco dal post cubismo. Il movimento si presenta alla Biennale, ma una mostra d’arte contemporanea a Bologna nel 1949 lo fa implodere:  la scintilla è data dalla stroncatura di Togliatti  su Rinascita, diventano inconciliabili le visioni divergenti sui rapporti tra arte e ideologia.

Un’anticipazione di ciò che avverrà  in Unione sovietica quando Krushev  nel visitare una mostra a Mosca nel 1962 –  dove una sala era dedicata alle nuove espressioni in “Stile severo” – tuonò contro “Geologi” di Nikonov  dai contorni marcati su forme e sfondi sfumati, l’opposto dei canoni del  Realismo socialista con cui si assoggettava la creatività dell’artista all’ideologia e agli interessi propagandistici del regime, fino a “normalizzare” lo stesso Malevic e fargli ripudiare l’astrattismo.

Tredici anni prima in Italia l’astrazione geometrica rischia di venire ripudiata nel nome del realismo e la liberta creativa dell’artista subordinata alla matrice ideologica. Molti reagiscono, altri fanno la scelta opposta e si allineano. Guttuso sceglie il realismo e lascia il Fronte che si scioglie.

Poco prima della formazione del Fronte, nell’aprile 1947, esce una rivista che dà il nome al “Gruppo Forma 1”,  costituito da Carla e Ugo Accardi, Consagra e Dorazio, Guerrini e Perilli, Sanfilippo e Turcato, dichiarati “formalisti e marxisti”. Si propongono di conciliare astrazione e impegno ideologico, astrattismo e realismo in un formalismo che reagisce all’espressionismo. Il segno e la forma sono visti nella loro funzione di dare un senso oggettivo alle intuizioni dell’artista senza astrazioni né riferimenti simbolici e contenutistici. La rivista uscirà per un solo numero, quindi resta come manifesto formalista,  poi nel 1951 il gruppo si scioglie e gli artisti prendono strade diverse, chi nel realismo chi nell’astrattismo. Dei quadri in mostra notiamo i colori opachi ma netti di Carla Accardi e la geometria  con forte cromatismo nei triangoli di Dorazio e nei segni marcati di Guerrini,  lo schematismo a fasce di Perilli e le forme con linee e tinte neutre di Turcato.

L’anno dopo Forma 1, nel 1948,  nasce il movimento “Arte concreta”, con Soldati e Dorfles, Monari e Monnet,  dopo la mostra “Arte astratta concreta” di Milano.  Il ripudio del figurativo è totale, così  viene meno qualsiasi legame con il mondo naturale e la vita reale; come riferimento concreto anche qui l’approccio geometrico che aveva il Futurismo, e in particolare Balla. Prima uscita in una mostra a Milano, poi si estende dal Nord  con Milano, Torino, Genova, verso il  centro a Roma e Firenze, fino al Sud a  Napoli e Catania.  La geometria di riferimento è  costruttivista, quindi il gruppo accoglie, oltre a pittori   e scultori,  architetti e grafici compresi designer industriali. Ha diramazioni all’estero in contatto con un gruppo parigino. E’  numeroso,  vengono citati  25 pittori e 10 architetti, vi  sono collegati anche i pittori romani del gruppo Forma 1.   Oltre a quelli prima indicati ricordiamo Reggiani e Veronesi già nel Milione,  Rho  nel gruppo di Como.

Nel  1950, dopo l’implosione del Fronte nuovo per la reazione alla deriva ideologica, anzi più propriamente politica, i critici di questa involuzione si riuniscono in un gruppo, sono Birolli e Corpora, Merlotti e Santonastaso,  Turcato e Vedova.  Lionello Venturi diventa il portatore delle loro posizioni alla Biennale di Venezia, e nasce il “Gruppo degli otto pittori”, i sei iniziali più Afro e Moreni. Coerente con la linea “astratto-concreta” da lui portata avanti, Venturi li definisce né astrattisti né realisti, perché ogni schematizzazione cadrebbe nel manierismo o comunque limiterebbe la spontaneità e quindi la creatività.  Di Corpora due opere, su fondi in giallo variegato e azzurro intersecati da linee nere, due anche di Vedova molto diverse, una con segni marcati neri, linee e cerchi, l’altra  con forte cromatismo e forme curvilinee. Notiamo anche i colori del quadro di Turcato, fondo rosso mattone con giallo e blu con linee e griglie.

Lo stile adottato è un modo per non essere risucchiati dalle contrapposizioni artistiche e soprattutto ideologiche tra astrattismo e realismo e  non venire invischiati nei contrasti tra le diverse direzioni prese dall’astrattismo. Ci si allontana sempre più dal futurismo geometrico e dal cubismo picassiano per uno spontaneismo naturalistico e gestuale che per sua stessa natura non si traduce in indirizzi coerenti ma prelude alla discesa nell’informale. Il successo non manca, ma le divaricazioni interne si accentuano, si va verso la disgregazione del gruppo dopo  che nel 1954 ne esce  Vedova.-

Termina la rassegna delle opere degli artisti inquadrati nei  gruppi. Nell’avviarci alla conclusione non possiamo non citare i due quadretti di Capogrossi, dove affiorano timidamente le forme che si tradurranno nelle celebri “forchette” dei grandi dipinti dell’artista dell’esposizione permanente.  E poi l’intarsio di Soffici dal cromatismo delicato e i piccoli quadri orizzontali di Balla, con triangolini contrapposti o più grandi in forme allungate nel movimento, pensiamo alle grandi tele in mostra stabile. Infine  Afro e  Cagli in  un intarsio di forme curvilinee e colori discreti, quasi mandolini.

Una riflessione finale sulla cavalcata nel primo astrattismo italiano

Cosa si può dire al termine della visita alla mostra? L’allestimento in ambienti che si succedono senza soluzione di continuità formando spazi raccolti e ravvicinati crea un’atmosfera di vicinanza e di accoglienza, non si avverte la freddezza di molte mostre di arte contemporanea, ma un calore dato dal cromatismo e dalla varietà di forme e di stili che non provocano reazioni negative neppure nel visitatore più tradizionalista. Queste non si avvertono neppure nella sala con le 3 tele monocrome, di Verna, Strazza e Battaglia, e le 5 opere in materiali metallici tra cui la monumentale installazione vibrante di Soto, di ben 25 metri, che ha una storia tutta particolare, le lunghe aste orizzontali di acciaio di Carrino, e quelle verticali colorate, le altre di Santoro e Uncini in alluminio o lucido acciaio inossidabile, ben diverso dal ferro delle sculture di Colla che abbiamo visto nella grande sala  dopo l’atrio d’ingresso.

L’atteggiamento positivo è  merito della confidenza che si prende con l’arte contemporanea quando è autentica e propone veri capolavori, mentre la minaccia alla sua accettazione è data dalle possibili mistificazioni contro le quali la rivista “QUI Arte contemporanea” metteva in guardia fin dall’inizio assumendo la missione di prevenire riconoscimenti tendenziosi  in modo da aiutare ad apprezzare il “nuovo” nell’arte, frutto di genuina inventiva, a dispetto delle facili e troppo frequenti mistificazioni: “Dacché eminentemente inventiva, la ‘tradizione del nuovo’  si presenta alla discrezione e all’arbitrio dell’ultimo venuto”, cosa che si può ammettere solo “a patto che l’ultimo arrivato appartenga alla ristretta famiglia degli inventori autentici”.

Lo si leggeva nell’editoriale del terzo numero nel marzo 1967, sono parole da sottoscrivere anche oggi:  vuol dire che l’insegnamento di “QUI Arte contemporanea” non è stato effimero, anche per il grande pubblico che si vede confortato nella sua diffidenza ma insieme  esortato a rimuovere barriere di comprensione e di accettazione dell’arte vera anche se fuori dagli  schemi consueti .

Nella  mostra che abbiamo raccontato, sono esposte 50 opere degli artisti i quali hanno dato vita al fervore creativo che ha fatto la storia dell’astrattismo italiano fin dai primi anni del secondo dopoguerra. Editalia e “QUi arte contemporanea”  con la loro celebrazione hanno consentito anche questa riscoperta di una storia che è patrimonio di tutti noi, come storia di arte e anche di vita.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna,  Via delle  Belle Arti 131, Roma.  “QUI arte contemporanea 1966-1977”, dal 20 ottobre 2012 al 27 gennaio 2013. Martedì-domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45), lunedì chiuso.  Ingresso (con visita alle altre mostre e all’esposizione permanente del Museo): intero  euro 12,00, ridotto  euro 9,50 (18-25 anni e docenti  UE), ridotto speciale solo mostre  euro 7,00  (minori di 18 e maggiori di 65 anni) . Gratuito museo: minori di 18 anni e maggiori di 65 anni. Tel. + 39.06.32298221; www.gnam.beniculturali.it. Il primo articolo sulla mostra è uscito ieri, 5 novembre 2012.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che si ringrazia con  l’organizzazione e i titolari dei diritti: nell’ordine sono quadri di Soldati, Vedova, Dorazio e Turcato.

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Pinelli, e i tesori nascosti della Provincia di Roma, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

E’ una mostra a tre stadi quella aperta al Vittoriano, dal 13 ottobre al 18 novembre, nel quadro delle iniziative “La Provincia delle Meraviglie. Alla scoperta dei tesori nascosti” : il primo è “Bartolomeo Pinelli e altre storie”, dalle raccolte della Biblioteca Provinciale; il secondo “Immagini di un conflitto. La memoria della seconda guerra mondiale nella provincia di Roma”; il terzo  “Cammini. Itinerari del sacro e dell’arte nel territorio della provincia di Roma”. Tre modi di riscoprire l’identità di un territorio attraverso protagonisti nell’arte,  vicende storiche vissute,  percorsi dai pregi paesaggistici e  culturali con potenzialità da valorizzare. Le mostre sono progettate e realizzate da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia.  

Bartolomeo Pinelli e altre storie della Roma sparita

Le opere del celebre incisore della vita popolare nella provincia romana sono la parte prevalente della rassegna celebrativa dei preziosi testi conservati nella Biblioteca  Provinciale specializzata in arte e storia, costume e tradizioni popolari, nel suo centenario, essendo stata istituita nel 1812;  ora è nella nuova sede di palazzo Altieri  ma espone i suoi “gioielli” al Vittoriano nel Salone Centrale.

Oltre alle opere di Pinelli ve ne sono di altri autori:  antiche piante di Roma, ritratti di celebri famiglie dello Stato Pontificio, incisioni su reliquie e reperti antichi, fortezze e torri di difesa, armi e coltivazioni, ponti  e luoghi celebri, fino a documenti storici come la Costituzione della Repubblica romana e altri atti del 1798-99. Il tutto in grandi tomi e  cartigli offerti alla vista del pubblico nelle apposite vetrinette. Qualche nome degli autori? Nolli e Bernardini, Visconti e Ruscelli, Fauno e Kircher, Bonini e Zabaglia.

E non solo libri e documenti, non mancano oggetti di uso quotidiano  con decorazioni artistiche in cui si sente lo spirito del tempo: zuppiere e saliere, coppe e tanti piatti con decorazioni quali la famiglia di pecorari in una grotta o trasteverini che giocano alla ruzzica, e donne di paese.

Vediamo anche opere in terracotta, ancora donne in costume e gruppi nei quali si riconoscono il pifferaio e lo zampognaro, e anche i briganti, sono degli inizi dell”800: ci sorprendiamo nel vedere che l’autore è Bartolomeo Pinelli, il fine incisore che in queste opere ha l’abito dello scultore.

Queste terracotte sono diffuse nell’intera sala, accompagnano la cavalcata pittorica nel costume romano attraverso circa 60 incisioni di Pinelli: quelle isolate sono nelle serie di quadretti alle pareti, le altre fanno parte di volumi di grande formato aperti in una pagina rispetto alle molte che li compongono. Non è possibile sfogliare i grandi tomi chiusi nelle vetrinette, ma verrebbe voglia di farlo, per questo c’è la Biblioteca con le sue regole e le opportunità che offre di consultazione.

Ma seguiamo l’esposizione, inizia con le “Grandi storie”, come quelle di Dante e Don Chisciotte, con tavole di 60 x 45 cm., incisioni anche su lliade, Odissea ed  Eneide, vediamo esposte le  storie di Telemaco.  Poi una serie di tavole su “Costumi, vita quotidiana e vita di briganti”, che evidentemente faceva parte della quotidianità, ci sono costumi veri o “inventati” dalla fantasia dell’artista; alcuni sono definiti per questo “pittoreschi”. Non si limita all’attualità sotto i suoi occhi, Pinelli scava nella romanità storica con le “Immagini del mondo antico” , disegni improntati alla classicità. Sono centinaia di raffigurazioni, evidenziate attraverso pagine aperte a campione.

Poi ci sono i quadretti alle pareti, varie diecine di diverse dimensioni  che contengono una carrellata di immagini nelle sottili incisioni caratteristiche dell’artista.  La leggerezza è la sua cifra stilistica, mentre nei contenuti mostra  un acuto spirito di osservazione per cogliere gli aspetti della realtà da cui, quando vuole, sa uscire con invenzioni fantasiose.  Romano di Trastevere,  figlio d’arte di un modellatore di statue,  si dedicò però a disegno, pittura e incisione anche se non mancò di cimentarsi con la terracotta come abbiamo visto dai piccoli gruppi scultorei esposti. La prima serie di incisioni è  la “Raccolta di cinquanta costumi pittoreschi incisi all’acquaforte”, del 1809, l’anno in cui si sposò  a 28 anni, ebbe due figli, il maschio di nome Achille  seguì le orme del padre; sono del 1816 le illustrazioni sulla “Storia Romana” e del 1821 quelle sulla “Storia greca”; per citarne alcune caratteristiche e pittoresche ricordiamo le 52 tavole per“Meo Patacca”  del 1822-23 e le ultime per illustrare il  “Maggio romanesco” incompiute per la morte avvenuta nel 1835.

Le immagini che ci ha lasciato sono un inno alla vita nelle sue espressioni popolari più genuine, disegnate con maestria e raffinatezza di tratto.  Il fatto che la celebre canzone “Arrivederci Roma” lo citi espressamente è un ulteriore segno della sua forte presa nell’animo dei romani e non solo.

Immagini di un conflitto, la II guerra mondiale da Anzio a Roma

Nello stesso Salone Centrale opportunamente diviso in settori,  la mostra  fotografica“Immagini di un conflitto”, come terza fase dell’iniziativa  “La memoria della II guerra mondiale nella provincia di Roma”,  curata da Umberto Gentiloni nell’ambito della “Provincia delle meraviglie”. In tre anni si è arricchita di nuovi materiali e testimonianze, ricordiamo la precedente  mostra “22 gennaio 1944: lo sbarco” ad Anzio,  e quella del 2010 “Tracce e testimonianze sul territorio”, cui hanno partecipato cittadini, comuni e associazioni, tutte al Vittoriano. 

Il  materiale, spesso inedito, proviene dall’istituto Luce e dagli archivi inglesi, americani e tedeschi, in una ricomposizione simbolica delle parti in conflitto; anche i contributi dei cittadini sono valorizzati nella “Banca della memoria della provincia di Roma”.

L’importanza della documentazione storica risiede nel fatto che la provincia di Roma fu uno dei punti in cui si concentrò la  fase cruciale della guerra tra la primavera del 1943 e l’estate del 1944 per l’apertura del fronte meridionale nel paese diviso in due tra la velleitaria Repubblica sociale di Mussolini al Nord e  gli sforzi degli alleati per risalire lo stivale superando la resistenza tedesca. In mezzo c’era Roma lasciata in balia dei tedeschi  dopo la fuga del Re e degli alti comandi militari.

Siamo all’inizio del 1944,  dopo lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 e  di quello a Salerno del settembre, prima dello sbarco in Normandia del giugno 1944, che fu seguito dalla liberazione di Roma ponendo termine all’operazione “Diadem” con lo sfondamento della “linea Gustav”.  Ci sarà poi un nuovo arresto  sulla “linea Gotica”, tra Pesaro e Massa Carrara, ma la via era stata aperta.

Con lo sbarco di Anzio – dopo quello in Sicilia troppo decentrato  per consentire una rapida liberazione della penisola  e, in particolare, della Capitale –  si tentò l’aggiramento delle linee tedesche trincerate sulla linea Gustav:  ci fu l’impasse lunga e sanguinosa a Cassino, divenuta città martire per i bombardamenti che dopo aver distrutto la storica abbazia di Montecassino si accanirono sull’abitato dove i tedeschi si erano asserragliati.

Si rivivono queste fasi nella mostra, tramite le fotografie  dal vivo dello sbarco  e dei bombardamenti, degli incontri dei soldati con i bambini  e la popolazione locale,  dei disagi della gente sfollata e della tragedia delle distruzioni con la perdita di tante vite umane.

Lo sbarco di Anzio non fu particolarmente drammatico, avvenne senza trovare resistenza, le immagini rendono soprattutto la complessa logistica di quei momenti. Diventano drammatiche nell’entroterra quando gli alleati commettono l’errore  di consolidare la testa di ponte invece di pressare subito il nemico consentendogli di ricevere rinforzi. Il conflitto fu sanguinoso, il territorio distrutto dai bombardamenti e i suoi abitanti protagonisti di una vicenda tragica ed epica insieme. I comuni rappresentati  sono ventuno, impressiona vedere gli abitati distrutti mentre le didascalie segnano il comune dove sono riprese le azioni belliche.  Fino all’ingresso  trionfale a Roma.

Il motivo ricorrente, oltre a quello bellico, cioè il coraggio della gente  nel sopportare i disagi,  dà alle immagini un valore ancora più alto, è questa presenza a differenziarle dagli scatti di guerra nelle prime linee . Viene immortalata l’umanità  sofferente ma indomita  che viene fuori in  tutte le guerre in qualsiasi parte del mondo e in ogni epoca. Il nemico è visto con umanità, le immagini che vengono dagli archivi tedeschi  mostrano i soldati partecipi loro malgrado della stessa lotta cruenta; le foto dei prigionieri in attesa di essere tradotti non sono crude, mostrano pietà e dignità insieme.

Le varie fasi sono documentate con immediatezza, si sente il respiro della storia  e dei suoi protagonisti, militari e popolazione,  tutti presi da qualcosa  ben più grande di loro. Però  riescono a non farsi travolgere pur  nell’apocalisse delle distruzioni, dalle quali emerge sempre ciò che si salva per mantenere alto un simbolo, sia esso un monumento o una chiesa,  un palazzo o  altro che evoca anche dei valori, d’arte, di cultura o di fede.

I cammini della fede, dalla via Francigena a Santiago di Compostela

Siamo nel territorio che gravita su Roma, il centro della  Cristianità, la fede è la protagonista della terza mostra del trittico realizzato con la Provincia da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia. Si tratta di“Cammini. Itinerari del sacro e dell’arte nel territorio della provincia di Roma”. Le isole espositive  li visualizzano con immagini, filmati e percorsi virtuali che conducono alla scoperta di luoghi sacri, santuari e basiliche, eremi e abbazie, chiese e conventi, legati a culti che fanno parte delle più sentite tradizioni popolari.  E  con il senso del sacro, i siti monumentali, archeologici e storici sono anche permeati di arte e cultura, diventano luoghi dello spirito.

Nulla di statico, il territorio storicamente era meta dei pellegrinaggi, perché complementare con Roma la cui grandezza si esalta nella valorizzazione dell’hinterland.  La mostra ci presenta i cammini nel territorio della  provincia lungo la via Francigena, che attraversa l’Italia: in particolare  la via Francigena di san Francesco, la via Francigena del Sud e la via Francigena di Sigerico. 

In essi si svolge il viaggio dei pellegrini che vogliono ritrovare nel proprio intimo le radici cristiane più profonde, e insieme siano alla ricerca di se stessi. Questo scoprendo territori e tradizioni con scambi di esperienze e cultura attraverso gli incontri con altri pellegrini e con chi li accoglie nel territorio. I sei itinerari delle sezioni in cui si articola la mostra sono altrettante proposte di escursioni per “vivere la provincia”, irradiandosi da Roma verso Tivoli e Frascati, Palestrina e Subiaco, Anzio Nettuno e Castel Gandolfo dove si trova la residenza estiva del Papa.

Un aspetto di indubbio interesse è l’offerta selettiva del territorio, evidenziandone i pregi sul piano religioso e culturale, naturalistico e ambientale fino alle peculiarità a livello enogastronomico.  L’offerta è aperta a tutte le possibili varianti, ma si propone intanto di mostrare determinati percorsi nelle loro potenzialità tra le quali vi è anche la scoperta di pregi nascosti lasciata al viaggiatore.

L’iniziativa ha una viva attualità nell’Anno della  Fede, indetto da papa Benedetto XVI  con la lettera apostolica “Porta Fidei” dell’11 ottobre 2011 e iniziato l’11 ottobre 2012  nel 50°anniversario del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per questo evento religioso sono previsti notevoli flussi di visitatori a Roma,  viene fatta la cifra di almeno 2 milioni: una parte di loro potrebbe arrivare nel segno della tradizione dei pellegrini secondo il progetto di accoglienza preparato includendo il territorio della provincia oltre alla città eterna. Roma è il culmine ma non è l’unico interesse per chi voglia avvicinarsi  gradualmente o irradiarsi verso le aree circostanti nei percorsi di fede e cultura che  si  svolgono anche sulle orme degli antichi pellegrini.

Non è anacronistico o velleitario pensare  al cammino dei pellegrini oggi, nell’era dei voli aerei che catapultano i turisti  nella Capitale per soggiorni di cui viene lamentata l’eccessiva brevità. E non va ritenuto eccessivo citare Santiago di Compostela come realtà presente che rivive  l’antico cammino lungo itinerari opportunamente attrezzati che hanno fatto la storia anche della cultura oltre che della fede, basti pensare a Cohelo.  Al territorio provinciale non manca nulla per  una ripresa dei percorsi tradizionali  che portavano i pellegrini nella Roma papale, il  cuore della cristianità.

La mostra ha il merito di uscire dalle enunciazioni e rendere visibili tali percorsi, sapendo che c’è dietro l’impegno dei Comuni della provincia e la mobilitazione delle strutture di accoglienza.

Dalla “Roma sparita” di Pinelli  agli itinerari per una nuova stagione di  pellegrinaggi, tra questi due poli la rivisitazione del buco nero del dramma della guerra. Un trittico veramente magistrale!

Info

Complesso del Vittoriano, Roma,  lato Fori Imperiali, Salone Centrale  per le prime due mostre, lato Ara Coeli, Gipsoteca  per la terza mostra.  Tutti i giorni ore 9,30-19,30, accesso consentito fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.3225380.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla  presentazione della mostra.  Si ringrazia l’organizzazione, in particolare “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.

Astrattismo, 1. I 60 anni di avanguardia artistica di Editalia, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Un’occasione inconsueta quella offerta dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna  insieme a Editalia dal 20 ottobre 2012 al 27 gennaio 2013:  ripercorrere una stagione artistica d’avanguardia proiettata verso l’astrattismo con due chiavi di lettura convergenti, la storia della rivista “QUI Arte contemporanea”,  con la casa editrice  oggi della Zecca-Poligrafico dello Stato  che festeggia i 60 anni protagonista di questo percorso, e 50 opere  di arte astratta che ne esprimono i vari momenti in forma antologica. Questi motivi hanno solide fondamenta nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna che ha accompagnato tali sviluppi con un’attività meritoria di elaborazione critica, sollecitazione e promozione rivelatasi decisiva.

“QUI arte contemporanea”, una rivista di artisti

Come rendere questo iter così fecondo nelle sue multiformi manifestazioni?  La mostra dedica una sala alla rievocazione dei fasti della Rivista e delle edizioni Editalia, con le mostre dalla stessa realizzate. Vediamo delle gigantografie alle pareti  che prendono l’avvio sin dall’inizio, una splendida Gina Lollobrigida a una presentazione  del 1968, poi sfilano i protagonisti come la storica soprintendente della Gnam Palma Bucarelli insieme al grande critico Argan; non mancano i politici, addirittura Fanfani e Berlinguer, sono tempi lontani che rivivono in questa rievocazione.

Le vetrine della sala esibiscono i celebri volumi di artisti editi dalla Casa editrice e numeri della Rivista. Si entra nello spirito di quei tempi con i nomi di Burri e Capogrossi, Afro e Giacometti in grossi volumi loro dedicati. Spiccano i due monumentali libri d’artista donati per la celebrazione del 60°anniversario da Editalia alla Gnam: “Don Chisciotte” e “Ombre” di Mimmo Paladino, con una xilografia dello stesso artista, una litografia di Kounellis e sagome-collages di Carla Accardi.

Si è portati a ripercorrere quei momenti cruciali per l’evoluzione dell’arte italiana lungo direzioni consone ai fermenti  a livello internazionale. C’è anche un video che racconta gli anni della Rivista con le testimonianze di molti protagonisti, artisti e critici. Ascoltando le loro parole si può rievocare quanto hanno fatto la Rivista ed Editalia in generale, insieme con la Gnam onnipresente,  come premessa per meglio comprendere e apprezzare ciò che la mostra pittorica evidenzia concretamente.

Mariastella Minguzzi esalta il lavoro parallelo di Editalia e della Gnam, favorito da autorevoli collaboratori comuni, vengono ricordati Carandente e Argan, Brandi e Calvesi. Vi fu una spontanea divisione dei compiti, opere di artisti valorizzati dalla Rivista venivano esposte nella Galleria Nazionale, quando possibile acquistate se in esse si vedeva la vera arte in forme d’avanguardia che allora incontravano incomprensioni diffuse anche nel mondo artistico. Non parliamo del mondo politico, di cui un’istituzione pubblica come la Gnam doveva tener conto, per i “sacchi” di Burri  vi fu addirittura un’interrogazione parlamentare contro Palma Bucarelli. Viene definito “incredibile” il patrimonio di opere acquisito allora dalla Gnam che racconta molto di quell’epoca e del  valore degli artisti che consentirono al nostro paese di non restare indietro in campo internazionale.

L’amministratore delegato di Editalia, Marco De Guzzis, aggiunge una considerazione significativa sul rapporto della Rivista e della Casa editrice con la Gnam. Gli artisti erano personalmente coinvolti nella Rivista che oltre ad essere aperta ai maggiori critici, era “una rivista di artisti”, in questo c’è un contributo originale alla formazione della storia dell’arte italiana.  Gli ideatori e i primi redattori erano artisti come Capogrossi e Colla, Fontana e Leoncillo, Pasmore e Sadun, ai quali si aggiunsero giovani critici come Carandente e Boatto, Lorenza Trucchi e Marisa Volpi

 Frequentavano la casa dell’editore,  la cui figlia Raffaella Bozzini ricorda commossa le “giornate febbrili che hanno accompagnato le due nascite”, la sua e quella della Rivista.  Ecco alcune note del suo “pentagramma interiore”: “Turcato era il più simpatico, sembrava un po’ brillo, sornione affettuoso”, mentre Afro era un “distinto, affabile signore”. Di Burri “l’accostamento dei sacchi al saio dei frati mi fece comprendere la sacralità dell’arte”,  e le forme”psichedeliche di Carla Accardi erano il mare in cui nuotavo”; e poi “i ‘ferri’ di Colla mi hanno educato alla bellezza anche in ciò che di solito veniva considerato scarto”.  Le note diventano più intime: “Abitavano con noi le lunghe figure aliene di Giacometti”,  mentre “le forchette di Capogrossi erano il telaio dei luoghi in cui abitavamo” ; e ancora di più “il taglio di Fontana rappresentava la strada per l’aldilà”.

Si sviluppò così  per la prima volta l’incontro nella Rivista tra artisti e critici, offerto al pubblico dei lettori con promozioni oltremodo invitanti, come quella che per gli abbonati prevedeva un disegno di Fontana. Poi si unì la galleria omonima creata dall’editore Lidio Bozzini  nella sede di via del Corso e  la collaborazione con la Gnam che fece uscire sulla rivista i contributi di suoi esponenti e studiosi, negli  articoli a firma di Calvesi e Crispolti, Celant e Vergine, Spenser e Verdone.

Funzione  della rivista di Editalia nello sviluppo dell’arte contemporanea

Cerchiamo di capire meglio il ruolo della Rivista, insieme alla Gnam,  nella temperie artistica di quegli anni. Ne parliamo con Paolo Martore, tra i curatori della mostra e gli autori dei testi nel numero speciale celebrativo della rivista. Citiamo il Guggenheim per mettere a fuoco le differenze: certo qui non si avevano le disponibilità per il mecenatismo del museo statunitense,  ma  la Rivista faceva penetrare nel nostro ambiente le linee evolutive dell’arte americana e questo si tradusse in opere d’avanguardia che la sensibilità della soprintendente della Gnam Palma Bucarelliapprezzava per farne esposizioni e se possibile acquisizioni che, come si è detto, erano coraggiose. Ebbe anche donazioni, come quelle di Burri, Colla, Fontana, che sono ricordate con legittimo orgoglio.

Un’operazione portata avanti fu la valorizzazione del Futurismo, patrimonio d’avanguardia italiana oscurato nel dopoguerra per motivi politici, gli stessi che determinarono una pesante  ingerenza ideologica sulle correnti d’avanguardia rigettate nel realismo rispetto alla modernità dell’astrazione. Su questa matrice italiana fu possibile innestare gli sviluppi verso le forme astratte partendo dalle semplificazioni geometriche che riuscivano a segnare il passaggio dal figurativo senza traumi.

Più in generale ciò che veniva alimentata dalla Rivista era la sperimentazione, in uno spirito di ricerca senza intenti di natura promozionale e senza voler costituire cassa di risonanza; lo scopo era spiccatamente culturale, alieno da mercificazioni  mercatistiche di qualunque tipo. Però la caratura degli artisti era tale che si crearono rapidamente un proprio spazio di attenzione e interesse. Leggendo i nomi si resta attoniti nel vedere come sia nata da una rivista una tale fioritura di talenti.

Il  “carattere obiettivamente pubblicitario che acquisisce ogni affermazione”  in un’epoca già investita dai mezzi di comunicazione di massa fu denunciato nel 1966 dall’articolo di presentazione del primo numero della Rivista che metteva in guardia dalle “amplificazioni e deformazioni di un percorso non sempre prevedibile”, nel quale  “la superficialità del circuito produzione-assimilazione  ha di colpo snaturato il colloquio artista-critico e pubblico”.  Intento dichiarato era  ridare autenticità a un  rapporto alterato aprendo “una zona per così  dire ossigenata, ai fatti salienti nuovi o non sufficientemente conosciuti dell’arte di oggi”.  La finalità veniva così precisata: “Il suo scopo è dunque quello di individuare e segnalare consapevolmente le ideazioni originali e d autentiche, nell’ambito di un linguaggio artistico internazionale felicemente definito la tradizione del nuovo”. E si avvertiva che questo sarebbe  avvenuto “senza tentare di apporre a tali ideazioni etichette pubblicitarie di alcun genere”. Autenticità e trasparenza, cultura e non mercato.

C’era “in cauda venenum”, nella conclusione “che l’arte è fatta per pochi e, nei periodi di difficile focalizzazione della forma, come quello odierno, per pochissimi”. Non possiamo nascondere che quest’affermazione ci ha colpito,  anche se la stessa rivista  nel terzo numero dava l’interpretazione autentica nel senso dell’allargamento o almeno della valorizzazione di quei pochi, pochissimi: “Saranno relativamente pochi ad approfittare della possibilità  e a interessarsi dei problemi dell’arte contemporanea, ma è giusto che tale possibilità esista in concreto, non solo in teoria”.

Mentre cercavamo di coglierne la portata  retrospettiva e anche attuale, ci ha soccorso lo scritto di Paolo Martore nel numero speciale celebrativo, dandone una doppia chiave di lettura. La prima fa riferimento alla  “tradizione del nuovo” anch’essa evocata nella Presentazione, nell’accezione di Rosenberg, che partecipò  al dibattito promosso dalla Rivista  nel 1970 su “Critica e libertà”. Il critico americano respinge la distinzione tra massa incolta ed élite acculturata  perché il pubblico dell’arte viene calamitato dall’artista  che gli imprime un “carattere unico” prescindendo dal grado di istruzione. Anzi le novità hanno tale impatto sul pubblico da esporlo alla  manipolazione temuta dalla  Rivista dove sempre nel terzo numero vi è l’avvertimento  che  essendo “eminentemente inventiva, la ‘tradizione del nuovo’  si presenta alla discrezione e all’arbitrio dell’ultimo venuto” .

A questo si collega la seconda chiave di lettura, trovata  nell'”oggetto ansioso”  che secondo lo stesso Rosenberg sarebbe l’opera d’arte il cui significato non è compreso dalla maggioranza e quindi non ha una propria identità ma “la sua natura dipende dal riconoscimento che le viene dalla attuale comunità di esperti”.  Di conseguenza, osserva Martore, la rivista “coglie tutta l’urgenza di prevenire riconoscimenti tendenziosi e si fa carico di aiutare il lettore a discernere ed apprezzare la  categoria concettuale del ‘nuovo’ in arte, quella  dell’inventiva genuina ,  a dispetto della massificazione e mistificazione dilaganti nel panorama contemporaneo”.

Ci siamo soffermati sulla Presentazione iniziale della Rivista per dare un’idea della complessità delle tematiche che affrontava, in un fervore di idee che vide in successione i dibattiti per ridefinire la nozione di artista e arte sperimentale, quella su cui veniva calamitata l’attenzione,  fino ad enunciare “la fine dell’avanguardia”, nel numero 15 del 1975, perché il contesto,  dalle istituzioni al mercato allo stesso pubblico,  era in grado di normalizzare tendenze di rottura, una volta ritenute rivoluzionarie ma destinate ad essere neutralizzate da un  sistema che assorbiva ogni  sovversione.  La fine dell’avanguardia  segnò la fine della rivista nel 1977, “lasciando così l’impressione – commenta Martore – che nel momento in cui  il ‘nuovo’ è effettivamente diventato ‘tradizione’ e si è reso da questa discernibile, ‘QUI arte contemporanea’ abbia esaurito la sua missione”.

L’itinerario della rivista nel decennio 1966-77

Ma quanto lavoro in poco più di dieci anni! I rapporti di Editalia con la Gnam, peraltro, sono ben anteriori alla nascita della Rivista, investono la Casa editrice sorta nel 1962, 4 anni prima di “QUI Arte contemporanea”:  li ripercorre Mariastella Margozzi in una carrellata di eventi e personaggi. Troviamo la presenza di Carandente nei due ambiti,  che si traduce in pubblicazioni e mostre in sintonia fino al suo passaggio alla soprintendenza di Palazzo Venezia nel 1961, in tempo per pubblicare il volume su Giacometti dopo i cataloghi su Mondrian e i Macchaioli, Richter e Pollock,. Kandiskij ei Pittori tedeschi e italiani contemporanei, Melli e Malevic, i Pittori cinesi contemporanei e Modigliani. Tutti negli anni che precedono la Rivista. Con la Rivista entrano in campo Maurizio Calvesi e Nello Ponente, quindi Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi. 

Oltre alle circostanze  vengono illustrate quelle che la Margozzi chiama le “tangenze”, intese come “continuità delle mostre e degli argomenti trattati nella Galleria nazionale con quelli in calendario nel programma, non solo editoriale, di ‘QUI arte contemporanea’”.  La convergenza è notevole,  tra le presentazioni o anticipazioni sulla Rivista e le mostre  promosse da Palma Bucarelli, come  quella postuma di Colla la cui vedova regala delle sculture alla Gnam,  di Morandi  e del Cubismo, fino alle mostre di Capogrossi e di Umberto Mastroianni, l’ultima della Bucarelli che va in pensione.

Ed è lei al centro della sfilata di personaggi  rievocati con affetto e riconoscenza dalla Margozzi: sono quelli che abbiamo citato, Bucarelli e Carandente, Calvesi e Argan, Ponente,  Brandi e De Marchis.  Immagini d’epoca accompagnano la rievocazione delle loro iniziative e contributi.

Sta per venire  il momento di visitare le 50 opere dell’arte astratta sviluppata nella temperie culturale animata dalla Rivista  in  sinergia feconda con la Gnam. Ma prima una sorpresa, la Margozzi ci fa da guida in un percorso nell’esposizione permanente iniziando dal salone dove lo scritta “Ma questa è arte?” esprime la prima reazione di stupore dinanzi alle forme d’avanguardia.

Mentre ci si immedesima nella sperimentazione dell’epoca, animata dallo straordinario fervore artistico riflesso e stimolato dalla Rivista, si resta senza fiato dinanzi alle opere spettacolari di Burri, 8 grandi pannelli  su vari supporti, dai sacchi al legno alla plastica del “Grande rosso,” di Fontana, con il “Concetto spaziale” declinato in 10 tele dai celebri buchi  e tagli, alle 3 sculture in ferro di Colla, ai 3 “Achrome” di Manzoni.  Poi si procede verso le sale con le “forchette” di  Capogrossi e le sculture aliene di Giacometti, con la sorpresa della “Superficie lunare” di Turcato alla prima apparizione dopo il restauro della gommapiuma lacerata operato dalla Gnam. . Fino a Balla con  i Futuristi,  e alla metafisica di de Chirico, radici lontane dell’astrattismo italiano.

Racconteremo prossimamente la visita alle 50 opere della mostra temporanea. 

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna,  Via delle  Belle Arti 131, Roma.  Martedì-domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45), lunedì chiuso.  Ingresso (con visita alle altre mostre e all’esposizione permanente del Museo): intero  euro 12,00, ridotto  euro 9,50 (18-25 anni e docenti  UE), ridotto speciale solo mostre  euro 7,00  (minori di 18 e maggiori di 65 anni) . Gratuito museo: minori di 18 anni e maggiori di 65 anni. Tel. + 39.06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito domani 6 novembre 2012. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che si ringrazia con  l’organizzazione e i titolari dei diritti. Sono inserite 4 opere dell’esposizione permanente, degli artisti tra i più vicini alla Rivista di Editalia: nell’ordine  Burri in apertura, poi Capogrossi  e  Fontana, Colla  in chiusura.

Aiardi, 1. Un testamento spirituale negli ultimi due libri su Teramo

di Romano Maria Levante

Alberto Aiardi, scomparso nel giugno 2012,  ha compiuto nella sua vita politica un lungo viaggio nelle istituzioni locali e nazionali: da amministratore, vice sindaco di Teramo e Presidente del Consorzio industriale a deputato per cinque legislature e Sottosegretario al Bilancio e alla Programmazione Economica. E’ stato sottolineato che la sua militanza  politica ha avuto come matrice ideale le radici nel movimento cattolico, nel quale è stato Presidente diocesano della GIAC e Consigliere nazionale, nonché Presidente di Giunta Diocesana; e come direttrice costante la visione sociale che lo ha visto mobilitarsi in un’azione instancabile sui temi della vita civile del territorio e della nazione, tra i quali l’emigrazione come Vice Presidente Nazionale dell’ANFE, l’associazione italiana delle Famiglie degli Emigrati, fino all’immigrazione nel periodo più recente.

Questo impegno appassionato si è manifestato non solo sul piano politico ma anche su quello culturale. Il suo è stato un approccio da economista abituato ad approfondire i problemi con una ricerca assidua e minuziosa, nulla lasciando all’improvvisazione che contraddistingue la politica fine a se stessa. Come sbocco naturale di questa elevata caratura, oltre all’azione diretta in associazioni culturali come il Gruppo dei Personalisti di cui è stato presidente e l’associazione “J. Maritain-Società 2000″” da lui fondata e presieduta, ha scritto una serie di volumi pubblicati tra il 1969 e il 2012  nei quali ha raccolto le proprie analisi e riflessioni sulla evoluzione della società nei rapporti con i partiti e con la persona, e sui problemi dell’economia nei rapporti con la politica e l’etica, con un excursus  anche  su personaggi come Maria Federici  e sul movimento cattolico.

Nei due volumi pubblicati negli ultimi due anni la sua riflessione è stata di natura storica, quasi volesse lasciare il segno di quanto aveva potuto percepire e approfondire nella sua vita di impegno personale sui temi visti ora in una più vasta prospettiva temporale. Il loro contenuto ce li fa sentire come un vero e proprio testamento spirituale che lascia ai suoi concittadini da lui tanto amati.

L’Azione cattolica teramana tra il fascismo e la democrazia

Il penultimo libro, del febbraio 2011,“L’Azione cattolica a Teramo – Tra ventennio e ritorno alla democrazia (1919-1953 ” presenta una prima particolarità, è una testimonianza del periodo in cui era semplice “aspirante” che non si estende alla fase successiva, allorché fu  presidente della Gioventù di Azione Cattolica dal 1958 al 1964 e membro della Giunta Diocesana dal 1968 al 1970.

Lui stesso ne spiega le motivazioni: “Per ricostruire le basi di una memoria storica di un periodo che rischia altrimenti di perdersi nella indifferenza e nel nascondimento di movimenti e di uomini che hanno operato nella comunità locale, sollecitati ad un impegno di cattolicesimo militante, molto spesso difficile per contrapposizioni e prevalere di altre storie culturali e politiche”.

E indica i  motivi della scelta temporale: vuole addentrarsi, in “un tempo nel quale con la dittatura fascista viene meno la presenza del movimento strettamente politico dei cattolici, nell’esame di una presenza dell’azione di apostolato laicale”; inoltre intende verificare, del movimento cattolico, “il suo ruolo al momento del ritorno alle libertà democratiche; e quindi la sua capacità di ripresa organizzativa e di promozione nel primo decennio di cammino nel nuovo clima politico e sociale”.

Poi confida “una terza motivazione di carattere più strettamente personale: quella di rendere omaggio ad un gruppo numeroso di persone con le quali ho avuto il piacere e l’onore di incrociarmi per conoscenza e rapporti di impegno comune nel mio percorso di vita degli anni giovanili”.

Il pregio della sua rievocazione, oltre al valore storico,  sta nella capacità di far rivivere quei momenti evocando le figure di spicco nella vita associativa locale e componendo un mosaico di fatti e persone operanti nella provincia con sullo sfondo la più ampia prospettiva nazionale in un periodo così tormentato, segnato dalla dittatura prima e dal sospirato ritorno alla democrazia poi.

Scorrono nella sua precisa ricostruzione figure rimaste nella memoria di coloro che hanno vissuto quel periodo e possono confrontare con i propri ricordi le vicende emerse dal vivo racconto dell’autore.  Che non manca di trarne conclusioni valide per la realtà odierna, “in relazione alla esigenza di contribuire a rianimare, culturalmente ed eticamente, tale realtà, di fronte ai preoccupanti sintomi di incertezza, di smarrimento e di declino che vanno percorrendo il Paese”.

A tal fine, afferma, “forse torna importante, come nei momenti più difficili della Chiesa e della stessa comunità civile, ripensare la necessità di saper raccogliere le nuove sfide e di recuperare il ruolo più incidente di quella organizzazione dell’apostolato laicale, attuato nella più stretta collaborazione con la Chiesa pastorale”.

L’Azione cattolica, nella visione di Aiardi, dovrebbe tornare ad essere “strumento di concreta e capillare collaborazione dei laici all’azione della Chiesa”, ma non in una visione integralista, bensì con finalità di alto valore sociale e umano: “Un associazionismo che sia di reale aiuto ed animazione della vita parrocchiale, con le varie iniziative di formazione, di assistenza alle aree della emarginazione (anziani, povertà, handicap, ecc.), di comunicazione sociale sui beni di interesse comune'”. I gruppi di laici che ne fanno parte sarebbero così “impegnati ad essere, secondo l’antico motto di ‘preghiera, azione e sacrificio’, testimoni autentici con l’esempio e la parola ed educatori al sociale, mantenendo fermo il principio prioritario della scelta religiosa, ma con l’obiettivo di essere antenne sensibili ed intelligenti dei problemi del mondo”.

La storia economica e sociale del ‘900 teramano

Nel gennaio 2012 l’ultimo libro, “Breve storia economica e sociale della provincia di Teramo nel Novecento”, pubblicato solo tre mesi prima di essere colpito dal grave malore, presenta un vasto affresco dell’evoluzione socio-economica del territorio inquadrato nel contesto più generale delle vicende nazionali ed internazionali che è sua cura ricordare costantemente. E’ una ricerca minuziosa basata su una molteplicità di fonti dalle quali ricava le cifre più significative che interpreta con una analisi approfondita volta a percepire le trasformazioni che segnano l’evoluzione nel tempo.

I  mutamenti – non solo progressi ma anche battute d’arresto – sono evidenziati con  riferimento alle  iniziative che hanno mutato il volto all’economia e alla società teramana. Ciò consente a ciascuno di rivivere quel cammino confrontandolo con i propri ricordi. Viene rievocata la  partenza della lunga marcia del ‘900, allorché all’inizio del secolo il 90% della popolazione provinciale era dedito all’agricoltura, mentre un secolo dopo, nel 2001, la percentuale  è risultata  inferiore al 6%; Dietro queste due cifre estreme il capovolgimento epocale dell’economia e della società documentato attraverso un’accurata rilevazione statistica riportata con il rigore e la capacità interpretativa dell’economista insieme alla sensibilità del politico che consente di cogliere i movimenti profondi.

Altri dati estremi: 1901, sulla popolazione di 204.000 abitanti, solo il 13,5%  riguardava un’industria primitiva legata all’attività agricola; 2001, su 287.000 abitanti il 44 % lavora in un’industria con settori moderni, dalla componentistica all’impiantistica elettrica ed elettronica, e avanzati come l’ “area della ‘meccatronica’”. Nel terziario la crescita è ancora più impetuosa: dal 7% nel 1901 per le attività più elementari commerciali e creditizie, al 52% nel 2001  che  comprende attività complesse dalla logistica e comunicazioni, alla progettazione e consulenza.

C’è un “come eravamo” e “come siamo”,  in un excursus nel tempo reso non solo attraverso le evidenze statistiche e l’analisi economica, ma anche evocando di volta in volta le iniziative industriali sorte nella provincia, anche per sua diretta iniziativa di politico impegnato nella valorizzazione del territorio. Ricorda il Consorzio per il nucleo industriale  della Val Tordino, di cui è stato Presidente e quello per il Centro ceramico castellano, con gli insediamenti di tante iniziative produttive; e poi quelle della Val Vibrata nella confezione, abbigliamento, pelli e cuoio, di Mosciano Sant’Angelo e nel mobilio, di  Roseto nelle confezioni. Per promuovere il turismo le  iniziative di valorizzazione della costa e delle aree interne e montane, come il Consorzio per la valorizzazione del Gran Sasso ai Prati di Tivo. Le iniziative nella viabilità, l’autostrada Roma-Adriatico con il traforo del Gran Sasso in testa; l’università dell’Aquila creata nel 1959 e il consorzio delle università nelle altre province, con i corsi riconosciuti alla metà degli anni ’60.

I risultati di queste attività cui  ha dato contributi rilevanti nella sua attività politica?  La provincia di Teramo diventa modello di vitalità localistica nella direttrice adriatica, che ha portato il Censis a definire la Val Vibrata “la Milano del Sud”: le imprese, piccole e medie, nate per lo spirito di iniziativa alimentato dalle esperienze commerciali, artigianali e anche rurali maturate nel territorio.

Ma non è stata una marcia trionfale, si ripercorrono i momenti critici dei dopoguerra seguiti alla due guerre mondiali, con una minuziosa analisi dell’evoluzione nei diversi periodi; si rivive il fenomeno dell’emigrazione, al quale l’autore è molto sensibile, avendolo seguito dalle posizioni di vertice ricoperte nelle associazioni impegnate in un campo che coinvolge la storia familiare di ognuno.

I problemi? Produzioni soprattutto “mature” per consumi di base con scarsa diversificazione e specializzazione, insufficiente innovazione e fragilità organizzativa esposta ai mutamenti del ciclo economico. Ma Aiardi precisa: “Restava però la forza di reagire, espressione di quello spirito di iniziativa  che aveva prodotto l’avvio delle prime esperienze di imprenditorialità, anche artigianale”. Nei tempi recenti, poi, si aggrava la disoccupazione giovanile, lo spopolamento della montagna e l’invecchiamento della popolazione, con il fenomeno dell’immigrazione a parziale compensazione.

Gli elementi positivi non sono sufficienti “per quel salto di qualità necessario a consolidare il cammino finora realizzato e ad afferrare le opportunità dei nuovi percorsi”. Perché ad esse si associano le minacce crescenti che vengono dall’aspra competizione divenuta globale. Ciò richiede quel più elevato tasso di innovazione tecnologica, mancato per “la sottoterziarizzazione dell’economia locale, che produce un ritardo nella percezione dei processi innovativi e una conoscenza frammentaria degli stessi”, e perché “talvolta l’innovazione è stata spesso attuata per adattamento, anziché con continuità e sistematicità”.

Non si limita alla diagnosi Aiardi, alla capacità interpretativa dell’economista si aggiunge l’approccio operativo del politico di razza che cerca le soluzioni, soprattutto in una fase come l’attuale nella quale i problemi si sono ulteriormente aggravati ed “è indispensabile riattivare quel clima di iniziativa e di entusiasmo imprenditoriale che si espresse al meglio dando vita al localismo emergente”. Come farlo? “Il salto decisivo di qualità è quello di essere ‘cerniera attiva’, come realtà ormai facente parte a pieno titolo delle sinergie  dell’area centrale del Paese, con la capacità di guardare al nuovo secolo con rinnovato spirito di volontà ed intraprendenza”.

La via del futuro è dunque nella valorizzazione della posizione geografica, che da causa di isolamento diviene un’opportunità con una “contraddizione in positivo”: ciò si può realizzare  considerandola, come a volte è avvenuto senza però trarne i vantaggi, “zona vera di passaggio dal Sud al Centro, con una linea di demarcazione che la attraversava nel mezzo del territorio”.

Un testamento spirituale

Questo il messaggio che Alberto Aiardi ci lascia dopo l’excursus sul Novecento teramano, oltre al messaggio sull’azione dei cattolici nella politica, al termine di due libri nei quali si è cimentato con impegno e dedizione in accurate ricostruzioni storiche in una fase della vita in cui si preferiscono comode presenze di rappresentanza alla ben più faticosa ricerca culturale.

Ricordiamo i suoi due ultimi libri con commozione perché ce li aveva fatti pervenire lui stesso nel segno di un sodalizio culturale di una vita; e perché una  forza interiore ci aveva spinti a recensirli nei giorni di Pasqua, ignorando che proprio allora stava combattendo con l’improvviso  malore che poi gli è stato fatale. Un segno che ce li fa sentire come un testamento spirituale: abbiamo avuto il privilegio di raccoglierlo e lo presentiamo alla considerazione e alla gratitudine di tutti.

Info

Alberto Aiardi: L’Azione cattolica a Teramo – Tra ventennio e ritorno alla democrazia (1919-1953″, Galaad Edizioni, febbraio 2011, pp. 236, euro 14,00;  Breve storia economica e sociale della provincia di Teramo nel Novecento, Galaad Edizioni, gennaio 2012, pp. 170, euro 10,00. Il contenuto dei due libri sarà descritto in modo più ampio in due appositi articoli che usciranno in questo sito l’8 e 9 dicembre 2012: il primo dedicato al libro sull’Azione cattolica, il secondo al libro sulla Breve storia economiac e sociale della provincia di Teramo.