Doisneau, 200 foto di Parigi, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

“Paris en liberté”, la mostra di Robert Doisneau dal 29 settembre 2012 al 3 febbraio 2013 a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, espone 200 fotografie originali della Ville Lumiere in una rassegna antologica del periodo 1934-1991. Sono immagini suggestive in  bianco e nero riprese nelle strade del centro e della periferia, nei bistrot e sui ponti della Senna, nei giardini  e negli atelier e gallerie d’arte. Offrono un vasto panorama della vita cittadina con la gente comune e i personaggi, giovani e anziani, ripresi nella vita quotidiana da un fotografo il quale  sa aspettare il momento giusto per fermare l’immagine che ne fa emergere la profonda umanità.

Un fotografo “di strada” innamorato di quel che vede

Spicca la celebre fotografia dei due giovani che si baciano davanti all’Hotel de la Ville incuranti dei passanti tutt’intorno, divenuta l’icona degli innamorati. Ma non si è sottratta alla sorte di altre foto celebri, di cui è stata contestata l’autenticità, come la “Morte del legionario” di Robert Capa e “Iwo Jima” di Rosenthal, rimaste comunque icone della guerra di Spagna e della fine del conflitto mondiale. La foto di Doisneau sarebbe una ricostruzione con i soggetti in posa ripresi mentre ripetono il bacio che il fotografo non aveva fatto in tempo  a”rubare”; divenuta celebre ha suscitato una folla di “pretendenti” all’identificazione, e dopo 40 anni due giovani hanno dimostrato di esserne i protagonisti con un autografo dato loro dell’autore all’epoca dello scatto. Al riguardo va ricordato che la prima esposizione di questa mostra si è tenuta a Parigi proprio all’Hotel de la Ville.

Nessuno scandalo, però, fa parte della documentazione della realtà che ha visto passare sotto i suoi occhi camminando incessantemente nelle vie di Parigi e anche fermandosi ad aspettare. “Aspettare chi? – ha detto – Non lo so, però aspetto. Io spero sempre, e quando uno ci crede con forza è difficile che qualcuno non finisca per arrivare. Dopodiché la messa in scena viene improvvisata all’insegna della fugacità”. Affermazione che spiega anche la messa in scena della celebre fotografia degli innamorati: con l’obiettivo vuole fissare la realtà quotidiana, a costo di reinventarla senza però deformarla neppure con effetti speciali, come il mosso e sfuocato e inquadrature dai tagli ricercati.

Viene dalla fotografia industriale, dalla pubblicità dei prodotti farmaceutici alla Renault, ma non lo interessava, preferiva assentarsi dal lavoro per cercarsi i soggetti nelle strade parigine, nel 1939 diventa fotografo-illustratore “free lance” e nel 1946 entra nell’agenzia Rapho; resisterà alle pressioni del suo grande amico Cartier Bresson per farlo entrare nell’agenzia Magnum.  Nel 1974 espone alla Galleria Chateau d’Eau di Toulouse e negli anni ’70 le sue fotografie si diffondono nel mondo, giungono premi e riconoscimenti. E’ diventato un testimone qualificato del suo tempo.

Ma non è stato questo il suo intento: “Oggi posso tranquillamente confessare che quella di lasciare alle future generazioni una testimonianza della Parigi dell’epoca in cui ho cercato di vivere è stata l’ultima delle mie preoccupazioni”, è una sua affermazione del 1984. “No. Nella mia condotta non c’è stato mai nulla di premeditato, A mettermi in moto è stata sempre la luce del mattino, mai il ragionamento. D’altronde che c’era di ragionevole nell’essere innamorato di quel che vedevo?”

In queste parole c’è un’ulteriore chiave della verità “reinventata” quando è sfuggita all’istantanea e ne è innamorato al punto di non volerla far svanire senza averla fissata sull’obiettivo; nella foto icona è lui ad essersi innamorato degli innamorati che ha visto baciarsi e non vuole perderli. Poi parla delle sue incessanti “camminate” per Parigi – tra il pavé e l’asfalto, da pedone instancabile anche nelle ore “rubate” al lavoro – che hanno prodotto fotografie a lui particolarmente care.

E’ l’opposto del reporter di guerra o semplicemente di viaggi, tanto più in luoghi esotici: “I lunghi viaggi mi hanno sempre turbato. Non posso sopportare gli sguardi sprezzanti degli indigeni. Mi vergogno. A Parigi l’indigeno sono io fuso nella massa. Faccio parte della scenografia: francese medio, statura media, segni particolari: nessuno”. Però con la macchina fotografica al collo portata senza ostentazione, come se ne vedono tanti: “Discreto, efficiente, mi confondo nel gregge dei pedoni”. E cerca anche punti di vista diversi: “Un giorno, tuttavia, mi sono voluto levare la voglia di vedere la città con gli occhi dei turisti organizzati”, sale su uno dei loro pullman per poi seguirli nel Quartiere latino, a Montmartre fino ai campi Elisi, alla fine si ritrova sul marciapiede, stordito.

“All’indomani di quella spedizione, ho scoperto il raro lusso dell’immobilità”, lui che ha camminato incessantemente “solcando in lungo e in largo per mezzo secolo la città”. Ecco come spiega questa folgorazione: “In una città in cui tutto è in movimento bisogna avere il coraggio di piazzarsi in un punto e di restarci immobili: e non per qualche minuto, ma per un’ora buona, magari anche due. Bisogna trasformarsi in una statua senza piedistallo”. Allora si diventa parte integrante dell’umanità che passa, quelli che chiama “i naufraghi del movimento” si fermano a chiedere informazioni. Per lui “vedere, a volte, significa costruirsi, con i mezzi a disposizione, un teatrino e aspettare gli attori”. Qualche volta, aggiungiamo, chiedendo di replicare la scena cui si è assistito.

Gli itinerari variano “per non cadere nel confort dell’abitudine, che porta alla fiacca”, ci sono i quartieri dalla vita difficile  dove “i gesti della vita vengono compiuti con semplicità e i volti di coloro che al mattino si alzano presto sono commoventi”;  e quelli dove “la vita è invisibile, come nascosta per i suoi traffici segreti”. Ci sono anche “i fantasmi”, la città cambia nel tempo, lui non piange sulle demolizioni, “la bellezza, per commuovere, dev’essere effimera”; ma lo turba aver “visto sparire uno a uno i miei punti di riferimento personali. Quello che mi dà più fastidio, è la confisca delle mie oasi. I miei poli d’attrazione funzionano solo per me, sono riservati, per così dire, al mio uso personale”. Sono le parole di un innamorato che ci racconta la sua Parigi in libertà.

La Parigi “a casaccio” e dei parigini

Al Palazzo Esposizioni le 200 fotografie sono in sezioni senza soluzione di continuità, la narrazione di una Parigi vista nell’umanità che circola per le strade in oltre mezzo secolo è unitaria e coerente. Le sezioni sono ricavate nel grande salone all’ultimo piano del palazzo, si è mantenuta la struttura appropriata dei massicci separé realizzata per la mostra del grande fotografo russo Rodcenko.

Pur avendo l’occhio rivolto alle immagini esposte, per il loro raggruppamento ci piace riferirci alle categorie evidenziate nel monumentale Catalogo Alinari, che danno loro un preciso ordine logico: Parigi a casaccio e La Parigi dei parigini, Parigi si ribella e Parigi si diverte, fino a Parigi e il cemento. E soffermarci sulle immagini forse più amate dall’autore, come si vede dai suoi commenti.

La prima Parigi, “Parigi a casaccio”, è quella dell’assemblaggio casuale delle istantanee di strada, dove alla curiosità del fotografo risponde l’umanità della gente nella varietà dei luoghi in cui sono state scattate: i giardini e le vie cittadine, i bistrot e i posti più celebri, Torre Eiffel in testa.

Ci soffermiamo su un tema che fa riflettere il fotografo, le sedie: se sono vuote le ritrae pensando a chi le ha occupate, riprende i bimbi che ci giocano trovandole abbandonate, in altre immagini si vede un’anziana coppia seduta in primo piano con l’ombra di una grande costruzione sul fondo, lui legge il giornale, lei ha tra le mani forse un rosario; o due donne sedute tra i passanti, che guardano tre aerei in formazione nel cielo, fino alle due donne che si allontanano portandosi via le rispettive sedie. Quasi una sequenza cinematografica che sembra di vivere come se le figure fossero animate.

Il dinamismo è massimo nelle foto dei “posti maledetti”, come Place de la Concorde in cui “alcuni individui, particolarmente agili riescono a sfuggire alla muta degli automobilisti”. E qui una impressionante teoria di pedoni nel mirino del traffico urbano, singoli  e gruppi ripresi mentre evitano correndo di essere investiti dalla massa di autoveicoli che sembra una mandria di bisonti, nella mostra ne è stata fatta una gigantografia che copre una parete. Solo i bambini riescono a rendere festoso l’impatto con le auto, nella foto che li vede bloccare il traffico in una fila gioiosa, mentre è  inquietante il campo lungo della donna sola che spinge la carrozzella nella foresta di auto.

Dalle auto alle persone protagoniste, i pedoni ripresi innanzitutto mentre superano ostacoli nei marciapiedi, e con fotografie tagliate per evidenziare le gambe che si muovono rapidamente; poi nell’umanità dei singoli, grandi e piccoli, ripresi nei più diversi atteggiamenti. L’artista è attirato dai gruppi, in particolare i musicisti: “Non solo si parlava, ma anche si cantava insieme”, dice. Però torna presto a riprendere i singoli soli con se stessi, come nella serie di immagini della “Vetrina di Romi”, dove i passanti si fermano guardando il dipinto di nudo femminile con le espressioni più diverse, nella mostra sono inserite in un box verde allestito appositamente per renderne l’effetto.

Oltre a questa normalità sia pure molto speciale, le sorprese, dalle capriole dei bambini alla scalinata con ai piedi il barboncino bianco e 15 gradini sopra l’uomo che tiene il lungo guinzaglio, fino alla foto celebre del bacio davanti all’Hotel de Ville tra i passanti impassibili, siamo nel 1950.

Si torna alla normalità parigina con i bistrot, visti nei tavolini all’esterno e negli interni, frequentati da gente di varia umanità, dal barbone Coco nel “bistrot dei mendicanti” ai turisti nelle “grandi brasseries scintillanti di luce”, come le chiama lui stesso. Aggiungendo: “Personalmente preferisco i bistrot meno vistosi dove, a ore fisse, alcuni habitué  si ritrovano alla luce di lampade discrete per scambiarsi discorsi dettati da una riposante complicità”, e ne dà la dimostrazione con le immagini.

Ci sono poi alcuni personaggi come Georges Simenon e luoghi celebri, come la Torre Eiffel con la gente sotto le grandi arcate, il Carrousel con il vasto piazzale disseminato di turisti sparsi o in gruppo; e le immagini affettuose delle statue con le Ninfe alle Tuilleries, nella delicata irrisione che sono prese di mira dai piccioni.

“La Parigi dei parigini”  prosegue il discorso della “Parigi a casaccio” con fotografie “mirate”  su luoghi e momenti che ne rendono la vita del tutto speciale. Come “Les Halles”, il mercato  con gente che “si dava del tu, diffondeva allegria e buona volontà”, per la sua sparizione “Parigi perde il suo ventre e un po’ del suo spirito”: e qui una galleria di immagini in campo lungo e primi piani delle bancarelle di macellai, pescivendoli e pollivendoli ripresi nella loro umanità con un‘attenzione affettuosa. E poi lavandai e falegnami, fotografati anche mentre lavorano in strada.

Le immagini di questa Parigi sparita alternano inquadrature da lontano e da vicino dei gestori di piccoli esercizi, anche poveri bistrot ben diversi da quelli “scintillanti di luce”, come di portinai e varia umanità ripresi in interni raccolti e suggestivi. Veri e propri bozzetti, con ricordati i nomi dei fotografati quasi fossero dei grandi personaggi, mentre si tratta di macchinisti e facchini, mobilieri e suonatori, l’uomo dei palloncini e il giardiniere,il collezionista e il duellante bonapartista, il pittore straccivendolo e lo scultore ultimo bohemien. Non manca il colore locale sui ponti della Senna, con il pescatore e i passerotti di Parigi, e i tuffi all’ombra della Torre Eiffel, in preziose inquadrature.

La Parigi vista in momenti speciali fino ai momenti felici 

E’ rievocato anche “il film dell’orrore dell’occupazione” con i cavalli di frisia a Piazza della Concordia ma soprattutto con le immagini di riscossa raccolte sotto “Parigi si ribella”:dalla rivista clandestina alla barricata di Rue des Panoyaux, dove è ritratto anche  un bambino e un giovane con bandoliera che vi si appoggia esausto, e i resistenti con i fucili spianati. Poi la liberazione, scene di massa delle piazze gremite e De Gaulle che scende nei Campi Elisi acclamato, baci ai liberatori.

Ma è una parentesi, Parigi è sempre Parigi nelle immagini di “Parigi si diverte”. E’ una pittoresca galleria dal teatro delle pulci ai giocolieri di piazza della Bastiglia, dal treno fantasma  di Foire du Trone al club del Vieux Colombier, dalla palestra Constant al Concert Mayol: non sono i luoghi celebri, ma locali raccolti dei quali viene resa al’atmosfera festosa e intima, che trasuda umanità nei frequentatori e nei gestori e attori come Anita che, ricorda il fotografo, “senza neanche alzare gli occhi, mantenne quell’atteggiamento di ostinata modestia che tanto le donava”. Come folgorata: “E da quel giorno del 1951, Anita non si è più mossa”. Danze di sala e feste, individui e gruppi, suonatori e ballerini acrobatici fino alla serie di seducenti nudi femminili nel Concert Mayol.

Non manca nulla, la Parigi che si diverte non sarebbe completa senza il French cancan del Moulin Rouge, le ballerine del Casino du Paris e delle Folies Berger, riprese in immagini molto espressive. Compare anche Maurice Chevalier, icona degli chansonnier francesi, ripreso tra la gente.

“Dei due, o forse tre, anni trascorsi a ‘Vogue’ mi restano solo ricordi nebulosi che si sfilacciano con il passare del tempo”, dice nell’introdurre la parentesi “glamour”, fu scelto per il suo “sguardo nuovo” di estraneo a quegli ambienti. E qui una carrellata di immagini ben diverse da quelle “popolari” fin qui descritte. Sono i grandi personaggi, “artisti, scrittori, creativi di ogni genere”, le indossatrici “ritratte in varie parti della città, oppure contro il temibile sfondo bianco dello studio”, gli eventi mondani, “quelli che mi hanno lasciato i ricordi più duraturi”.

Siamo all’inizio degli anni ’50. Ecco mademoiselle d’Origny e il “grande matrimonio”, la festa danzante dai baroni de l’Espées, il ballo nel castello di Corbeville in tanti scatti, con “i pettegolezzi di Elsa Maxwell”.  Prima e dopo le foto del “teatro della moda” con le indossatrici riprese mentre si preparano nel back stage e nelle immagini patinate costruite con maestria. Sono ritratti anche i grandi maestri della moda, da Hubert de Givenchy a Christian Dior, oltre a creativi e scrittori.

Ma c’è anche “La Parigi del cemento” ed è il contrario della “Parigi in libertà”, perché “il fascino della città è come quello dei fiori, ossia in parte è dovuto al tempo che vi vediamo scivolare sopra. Il fascino necessita dell’effimero. Niente di più indigesto di una città-museo, consolidata da protesi di cemento”.  Fotografa vecchie facciate che trasudano di vita interna a fronte di grattacieli freddi e squadrati con i quali “la città diventa astratta. Riflette solo se stessa” e non la sua vita interna. Oggi, denuncia Doisneau, “ogni spontaneità è messa al bando, la vita fa paura”. E qui le immagini sono eloquenti: in “La casa degli inquilini” del 1962  l’edificio fotografato mostra gli interni delle stanze dei diversi piani animati e vitali;  in “L’innesto, Place de Fetes”del 1975  la prospettiva fa nascere il grattacielo dal tronco di albero tagliato. Negli spazi tra i grattacieli i bimbi giocano senza allegria né umanità.

L’artista torna a sorridere quando incontra il suo “maestro di felicità”, Maurice  Baquet, e lo fotografa a Port de Vanvas nel 1982 davanti a una grande farfalla graffita su un muro di cemento con sopra una gru. Crediamo sia uno dei momenti più belli che gli fanno dire: “Certi giorni basta il semplice fatto di esistere per essere felici. Il ricordo di quei momenti è il mio bene più prezioso. Forse perché sono così rari”. E’ una lezione di vita che ci lascia il grande Doisneau, del resto la sua non è solo “Parigi in libertà”, ma la vita in libertà. Le sue fotografie sono un campionario dei momenti vissuti in modo libero camminando e aspettando di poterli fermare con l’obiettivo.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Orari domenica e da martedì a giovedì ore 10,00-20.00; venerdì e sabato 10,00-22,00, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Il biglietto d’ingresso permette di visitare tutte le mostre del Palazzo: dal 29 settembre al 26 ottobre 2012 intero euro 7,00, ridotto euro 5,50; dal 27 ottobre 2012 al 3 febbraio 2013 intero euro 12,00, ridotto euro 10,00. Catalogo: Robert Doisneau, Paris en liberté, Fratelli Alinari., Ed. italiana “L’Ippocampo” Milano 2010, volume fotografico grande formato cm 25×32, pp. 400, euro 50,00.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Palazzo delle Esposizioni, si ringraziano gli organizzatori con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.

Berengo Gardin e Giacomelli, due mostre fotografiche, al Museo di Roma

di Romano Maria Levante

Al Museo di Roma in Trastevere due mostre fotografiche molto diverse, tra le straordinarie esposizioni permanenti sulla romanità con un’ampia selezione dai 120 acquerelli di Ettore Roesel Franz, la galleria di dipinti e annessa ricostruzioni di scene di Roma sparita con manichini e ambienti tipici. Sono la mostra di Gianni Berengo Gardin, 65 fotografie su “L’Aquila prima e dopo”, apertadal 26  settembre all’11 novembre 2012e quella di Mario Giacomelli, “Fotografie dall’archivio di Luigi Crocenzi” dal 12 settembre  al 20 gennaio 2013 , 90 scatti dei 250 dell’archivio acquistato dal Craf, immagini che coprono un ventennio, dagli anni ’50 agli anni ’70.

di Gianni Berengo Gardin

Berengo Gardin: la cronaca documentata con “L’Aquila prima e dopo”

Cominciamo da Gianni Berengo Gardin per dare la precedenza all’attualità, la sua mostra ha inaugurato l’VIII edizione di “FotoLeggendo”, promossa e organizzata da “Officine Fotografiche”. che si protrae per un intero mese . L’esposizione è nei primi ambienti del Museo, sono immagini della città martoriata dal terremoto, le fotografie di devastazione  sono poste a confronto  con quelle riprese nei medesimi luoghi 16 anni fa dallo stesso fotografo.. Ora vi è tornato tre anni dopo il sisma e nulla di visibile fa salutare il ripristino ambientale, i raffronti sono tra l’integrità e la distruzione.

Bastano poche note per ricordare chi è Berengo Gardin: un “testimone della nostra epoca” come lui stesso si è definito, impegnato a documentarne i diversi aspetti perché ne resti una traccia fedele per la storia. La sua arte fotografica si è ispirata all’inizio al cinema e alla televisione, sempre in bianco e nero al quale resta legato, il colore secondo lui distrae l’osservatore sviandone l’attenzione dai contenuti. Gli scatti della sua assidua opera di registrazione di luoghi, situazioni ed eventi, superano di gran lunga il numero di un milione, i libri fotografici e le mostre più di 200, i premi tanti, ricordiamo due estremi prestigiosi, il “World Press Photo” del 1963 e il “Lucie Award” alla carriera del 2008.  Sempre senza ricercare effetti speciali, con la cronaca viva della realtà presente.

Sulla sua “missione” aquilana ha detto: “Ciò che mi ha più impressionato è il silenzio che c’è per le strade. Non passa nessuno, non c’è nessuno. Non ci sono i bambini che giocano, le donne che fanno la spesa, la gente che va in ufficio. C’erano solo quattro cani abbandonati che giravano”. La stessa atmosfera desolata che ricorda dopo il bombardamento del quartiere di San Lorenzo a Roma.

Poche le persone da lui ritratte, per lo più operai impegnati nella messa in sicurezza. Si nota subito un elemento comune a tutti gli scatti, come suo costume neppure ora Berengo Gardin cerca effetti speciali nelle inquadrature o nelle esposizioni: il risultato è una cronaca scarna ed essenziale, più che un reportage per impressionare, le dimensioni delle immagini sono ridotte quasi per un senso di discrezione. Si avverte un certo pudore nelle riprese di luoghi colpiti e di ambienti martoriati, per non penetrarne più che tanto l’intimità; le uniche fotografie di grandi dimensioni sono quella delle macerie di palazzi distrutti su cui svetta soltanto la chiesa, unico edificio integro e quella della griglia di tubi d’acciaio per impedire lo sgretolamento di un edificio, diviene la metafora della foresta impenetrabile che finisce per soffocare la città, sembra un quadro astratto ma è vero e reale.

Delle chiese devastate dal sisma ce ne sono diverse, innanzitutto Santa Maria di Collemaggio, prima e dopo il sisma, la volta dell’abside squarciata con la copertura provvisoria trasparente dei vigili del fuoco e la chiesa di San Bernardino. Le  foto delle rovine dei palazzi distrutti o gravemente danneggiati,dei monumenti mutilati, vicine a quelle sui piccoli danni familiari nella chincaglieria andata in frantumi ripresa dall’obiettivo, discreto e penetrante insieme, che fruga negli interni delle case terremotate.  Un esterno tragico, la Casa dello studente crollata con le sue giovani vittime, il Palazzo del Governo  con un sorta di timpano imbragato, un segno dell’impotenza delle istituzioni. 

Un momento anch’esso intimo, quasi una metafora dell’arte che è stata offesa  oltre che nelle architetture devastate, pitture e sculture sfregiate, nei suoi protagonisti, lo abbiamo vissuto con le due fotografie al pittore aquilano Marcello Mariani nel suo studio in una chiesa sconsacrata: prima del sisma un ambiente raccolto ed evocativo, dopo il sisma è sconquassato e desolato, ricordiamo che il pittore è stato tra i protagonisti della recente mostra per la rinascita “Archè”  nella basilica di Collemaggio. Così per uno storico ristorante e per il giardino di un convento con le suore, il prima e dopo è rappresentato in modo semplice per documentare, senza la ricerca di effetti per stupire.

Eppure è un maestro del quale ricordiamo i virtuosismi estetici, pur sempre aderenti alla realtà, del libro fotografico edito nel 2012 da “Contrasto”. Così nei campi lunghi di Venezia del 1959 e 1960, quest’ultimo con una piazza San Marco allagata e due piccolissime figure al centro di una prospettiva e di un’atmosfera metafisica; e se realtà è il grande albero di “Calabria 1966” con la piccola autovettura sovrastata dalla gigantesca chioma, nel rappresentarla la trasfigura con la sua stessa evidenza pur senza cercare effetti speciali a parte le due dimensioni così contrastanti.

Ma ricordiamo due fotografie di Venezia che ce lo fanno accostare a Mario Giacomelli, e quindi  ci sembrano la migliore introduzione all’altra mostra del Museo di Roma che ci accingiamo a visitare. In  “Venezia 1958” dei ragazzi in gran movimento venivano ripresi dall’alto mentre giocavano a pallone, tra loro un prete, tema consueto nelle foto più celebri di Giacomelli; come sono consuete le immagini mosse e sfuocate, rare in Berengo Gardin che in “Venezia 1956” ci dava un primo piano di donna ripresa di spalle sfuocata in una vasta  composizione con figure molto più piccole sotto l’ombrello e una grande nave alla fonda con a lato una scalinata.  Due accostamenti che ce li fanno sentire vicini nell’arte come nella fama e nell’eccellenza, ora in contemporanea nel Museo di Roma.

di Gianni Berengo Gardin 

Mario Giacomelli: il coinvolgimento emotivo in una realtà trasfigurata

Vicini ma molto diversi nella forma e nei contenuti, come si vede dalla mostra “Mario Giacomelli. Fotografie dell’archivio di Luigi Crocenzi”. Un archivio di 250 foto “vintage” acquistato nel  1995 dal Craf, il Centro di ricerca e archiviazione della fotografia; la raccolta si è formata per la vicinanza dei due personaggi, Giacomelli collaborò con Crocenzi  nella sceneggiatura di “A Silvia”, “Un uomo, una donna, un amore” all’inizio degli anni ’60, fino a “Caroline Branson”intorno al ’70.

Lo mostra, curata da Walter Liva, è antologica e diversificata, non monotematica,  le 90 immagini selezionate dall’archivio coprono venti anni di attività e non due momenti come per Berengo Gardin. Perciò per raccontarla occorre spigolare nella critica che ne sottolinea le peculiarità, partendo dal pittorialismo di chi da pittore è divenuto fotografo di fama internazionale con opere acquistate dal Moma di New York nel 1963, la serie “Scanno”  entrata nel catalogo “Looking at Phptographers”; restando legato alla “Tipografia marchigiana” che ricostruì e gestì con costanza.

Seguiamo il giudizio di Arturo Carlo Quintavalle, suo biografo, che parla di discorso “simbolico”: il suo è “un espressionismo fotografico che esasperava l’aspetto emotivo della realtà sottolineato dai contrasti, dai segni ed inoltre, al pari di Fellini nel cinema, Giacomelli ribaltò completamente il punto di vista del realismo introducendo una nuova poesia tonale anche onirica e realizzando racconti fotografici che si esprimevano sia nei racconti come nei paesaggi, escludendo inutili dettagli e che fecero di lui  il più importante fotografo italiano del Novecento autonomo a quel punto rispetto a ogni scuola”.

Come si manifesta questo orientamento? Antonio Arcari già nel 1965  diceva che con le sue fotografie era tra i primi  a tentare “le vie nuove del racconto e a rinnovare per ogni racconto modi e forme espressive”.  E questo non per un’innovazione fine a se stessa, ma “per un’intima e profonda necessità di conoscere la realtà e di riproporcela secondo un  suo metro, in un’oggettivazione nuova e corrispondente alla sua visione”.

Oggi Roberto Maggiori parla di un formalismo dove “la forma ha un ruolo completamente sganciato dalla realtà e dalle leggi che questa dispensa. Il particolare formalismo del fotografo marchigiano è difatti un modo per allontanarsi dalla verità della forma, è semmai un formalismo che conduce al deforma”. In questa chiave analizza le due serie più famose, “Scanno” e “Io non ho mani che acarezzino il viso” con i seminaristi: “Da una parte c’è il mosso dovuto ai lunghi tempi d’esposizione, dall’altro il bianco e nero si fa veramente tale: le ombre che danno fisicità ai corpi, ai visi, ammantati di nero, e sovraesposti su fondi resi abbacinanti dalla neve o  da lastricati in pietra”.   Giacomelli  disse: “Le foto di Scanno le scattai volutamente con un tempo basso. Utilizzando la tecnica dello sfocato e del mosso riuscii a rendere l’atmosfera del paese ancora più magica”. Per la serie dei seminaristi “volevo che le immagini fossero fuori del reale come a Scanno e questo contrasto dei bianchi dà un’immagine un po’ più magica della realtà”. Non ci sono scale di grigi.

“Motivi suggeriti dal taglio dell’albero”  è una serie in cui i tronchi tagliati sembrano, sempre  secondo Maggiori, “figure astratte ricondotte a un vissuto reale. I segni parlano del vissuto dell’opera dell’uomo, partono dall’informe per arrivare alla forma stilizzata.  E figurativa”. Prima di tutto c’è la “La buona terra”,  sin dal periodo iniziale scompare il cielo e i campi non sono come si vedono ma come li sente, marcati da profondi solchi che testimoniano la fatica dell’uomo. Lo stesso Giacomelli ne parla così: “Li potrei fare anche sulla carta, nel mare, ma sarebbero tutti voluti quindi tutti falsi. A me interessano i segni che l’uomo fa senza saperlo ma senza far morire la terra”.

Molta attenzione all’umanità e ai sentimenti: giovanili in “Un uomo, una donna, un amore”, con immagini intense e appassionate; dell’età avanzata in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che presenta gli anziani spaesati in un ambiente alienante, nel quale si rischia di perdere anche la dignità quando si è più fragili, le immagini più che la realtà esteriore evidenziano la sofferenza interiore. E poi “Mare” e “Paesaggi”, “Nudi” e “A Silvia”, “Puglia” e “Lourdes” fino all’ultimo periodo con “Caroline Branson”, ne evoca la presenza in una magia resa da effetti di grande suggestione; la serie, del 1971-73, è ispirata da una poesia della “Spoon River Antology” di Edgard Lee Masters.

Ancora Giacomelli sul proprio modo di esprimersi: “Più che quello che avevo davanti agli occhi volevo rendere quello che avevo dentro di me”. Non cerca di documentare per i posteri, come avviene naturalmente a Berengo Gardin, ma di esternare ciò che prova lui stesso: non una finestra sul mondo ma sull’animo del fotografo, la macchina fotografica come il pennello dell’artista che non ritrae la natura nella sua realtà ma cerca di dare l’immagine di ciò che gli trasmette e gli suscita.

di Mario Giacomelli

Berengo Gardin e Giacomelli

C’è qualcosa che unisce i due grandi maestri, entrambi qualificati come i più grandi del Novecento. Nell’ultimo libro di Berengo Gardin “Inediti (o quasi)”, di “Contrasto”, troviamo anche questo suo ricordo di Mario Giacomelli, a commento di una fotografia che lo vede con lui e con Italo Zannier: “Mario Giacomelli è stato un grandissimo amico. Era già famoso quando ci siamo conosciuti. Io, e con me altri della mia generazione, lo guardavamo con rispetto e con invidia per il successo che aveva avuto in America. Con gli anni, durante la nostra amicizia, mi lusingava dicendomi che i migliori fotografi italiani per lui eravamo Scianna ed io”. Il racconto si fa sempre più confidenziale: “Mi telefonava spesso, per chiedere informazioni, per parlare di fotografia o anche solo per farmi gli auguri. E ricordo che mi chiamava sempre Gardin Berengo e a me faceva tanto ridere”. 

Questa amicizia rievocata in allegria ci sembra la migliore conclusione per le mostre di due grandi artisti della fotografia che per motivi diversi fanno meditare: l’una per la forza nel documentare una tragedia, l’altra per i sentimenti espressi nelle immagini sulla natura e sulla vita.

Info

Gianni Berengo Gardin, “L’Aquila prima e dopo”; Mario Giacomelli.” Fotografie dall’archivio di Luigi Crocenzi”, Museo di Roma in Trastevere, pizza S. Egidio 1B, adiacente a piazza di Santa Maria in Trastevere, da martedì a domenica ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso: intero euro 6,50, ridotto 5,50, residenti 1 euro in meno, gratuito per le categorie previste dalle disposizioni vigenti. Tel 06.0808, http://www.museodiromaintrastevere/. it

Foto

Le immagini delle foto esposte sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo di Roma in Trastevere all’inaugurazione delle due mostre, si ringraziano gli organizzatori, in particolare Contrasto, Craf, Centro di ricerca e archiviazione della fotografia e Zètema, con i titolari dei diritti.  Le prime due foto sono di Berengo Gardin,  le altre due di Giacomelli.

di Mario Giacomelli 

Zevi, la mostra di Pesce e il decennale della Fondazione, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale di Arte Moderna a Roma   “Omaggio a Bruno Zevi anticlassico.  50 bassorilievi di Gaetano Pesce” in resina flessibile colorata della Biblioteca Laurenziana di Michelangelo, in mostra  dal 24 ottobre  2012 al 27 gennaio 2013. Viene celebrato il decennale della Fondazione Bruno Zevi  anchecon una conferenza di Pesce, scultore, designer e architetto.

Ci sono modi diversi di rendere omaggio a una grande personalità  dopo la sua scomparsa: farne una celebrazione agiografica oppure, in sintonia  con la sua incessante attività creativa, procedere nel cammino  sulla strada tracciata in modo da perpetuarne l’insegnamento. Questa seconda via è seguita dalla Fondazione Bruno Zevi per continuare l’opera del maestro con una serie di iniziative che lasciano il segno, in occasione del decennale della Fondazione meritevole di essere celebrato..

A dodici anni dalla scomparsa di Bruno Zevi alle iniziative della Fondazione si è aggiunta questa  mostra molto particolare, “Omaggio a Bruno Zevi anticlassico.  50 bassorilievi di Gaetano Pesce” in resina flessibile colorata della Biblioteca Laurenziana di Michelangelo.

La mostra e la conferenza di Gaetano Pesce

I bassorilievi fortemente colorati dei quadretti trasmettono calore e vivacità, nello spirito dell’autore che ne parla  così: “Negli ultimi 30 anni ho cercato di restituire al’architettura la sua capacità di essere ‘utile’, citando immagini figurative riconoscibili, comunemente associate alla vita di strada e alla cultura popolare, e creando nuove tipologie”.  Questo nasce dalla denuncia del  decadimento sotto gli occhi di tutti  nell’abitato soprattutto di periferia: “L’architettura del passato recente ha prodotto prevalentemente risultati freddi, anonimi, monolitici, asettici, standardizzati, incapaci di ispirare”. La sua reazione: “Io ho cercato di comunicare sensazioni di sorpresa, scoperta, ottimismo, stimolo, sensualità, gioia e femminilità”. Ci sembra ci sia tutto, non mancano gli strumenti con cui cerca di realizzare questo ambizioso  programma: “Mi sforzo di trovare nuovi materiali che si adattino alla logica del costruire, fornendo al contempo prestazioni che rispondano ai bisogni reali”.

In questo spirito la mostra alla Galleria Nazionale è stata preceduta da una conferenza dello stesso Gaetano Pesce alla Facoltà di Architettura dell’Università “La Sapienza” su“L’architettura è noiosa”, seguita dal video “La Fondazione Bruno Zevi 2002-2012” di Emiliano Auriemma e dall’annuncio del vincitore della 6^ Edizione del Premio Bruno Zevi per un saggio storico-critico.

La figura di Bruno Zevi

E’ un  insolito omaggio alla figura di Bruno Zevi, all’elevata caratura  professionale e culturale in una  vita movimentata che lo ha visto molto impegnato anche a livello politico. A 20 anni, nel 1938, dopo le leggi razziali parte dall’Italia per gli Stati Uniti dove nel 1942 si laurea in architettura alla Harvard University, nella “Graduate School of Design”, diretta da Walter Gropius; due anni prima si era sposato con Tullia Zevi, che avrà un ruolo preminente nella Comunità ebraica italiana.

Il richiamo dell’Europa e della sua terra è prepotente, nel 1943 torna a Londra, dove aveva fatto tappa nel trasferimento negli Stati Uniti, e nel 1944 rientra in Italia dove  fonda l’Associazione per  l’architettura organica e l’anno dopo la rivista “Metron”.  Inizia la sua vita accademica a Venezia nel 1948 come docente di  Storia dell’architettura nell’Istituto universitario di architettura, nel 1964 è professore ordinario alla Facoltà di Architettura alla “Sapienza” di Roma,

La critica lo vede  presto impegnato sul piano giornalistico, dal 1954 al 2000 scrive ogni settimana  su temi di architettura nella  rivista “Cronache”” e quindi   “L’Espresso”;  fonda il  mensile specializzato “L’architettura. Cronache e storia” nel 1955.  Una concezione di sincretismo culturale la sua, si batte per superare la cesura tra storia dell’arte e storia dell’architettura con critici cui fu legato come Giulio Carlo Argan,  Cesare Brandi e Carlo Ludovico Ragghianti. Fu tra i fondatori dell’Istituto Nazionale di Architettura, con cui collaborò negli anni ’70, e al vertice di organismi quali l’Istituto nazionale di urbanistica  e il Comitato internazionale dei critici di architettura.

Deluso dal degrado dell’Università in assenza della riforma sempre rinviata, nel 1979 lascia gli incarichi accademici.  La  sua acuta sensibilità politica lo aveva visto sotto il fascismo aderire al movimento clandestino “Giustizia e libertà”, e raccogliere fondi per sostenere il fronte democratico nella guerra di Spagna;  divenne anticomunista dopo l’assassinio a Barcellona di un anarchico. Negli anni di studio universitario in  America si impegnò nell’antifascismo con Lionello Venturi e Modigliani, Garosci e Salvemini; tornato in Italia entrò nel Partito d’Azione, poi in Unità Popolare, fino alla milizia nel Partito Radicale di cui fu anche deputato e presidente dal 1988 al 1999, quando ne uscì per protesta verso l’adesione al gruppo europeo con la destra di Le Pen. Morì nel 2000.

L’elenco di pubblicazioni è vastissimo, ne ricordiamo solo alcune dai titoli particolarmente espressivi: già nel 1945 “Verso un’architettura organica” e nel 1948 “Saper vedere l’architettura”, nel 1950 “Storia dell’architettura moderna” e “Architettura e storiografia”, nel 1973 “Il linguaggio moderno dell’architettura” fino a “Linguaggi dell’architettura contemporanea”  nel 1993  e  “Storia e contro storia dell’architettura italiana nel 1997  e 1998.

Ultimo suo libro è “Capolavori del XX secolo” nell’anno della scomparsa, ma ci piace citare  in conclusione un’espressione da “Architettura come profezia”, del 1993: “No all’architettura della repressione, classicista barocca dialettale. Si all’architettura della libertà, rischiosa antidolatrica creativa”. Ci sembra ne esprima la battaglia ideale e insieme la vis polemica e la indomita vitalità.

La Fondazione Bruno Zevi, dall’archivio ai premi, convegni  e libri

Continuarne l’opera, o meglio promuovere che questo avvenga,  è il cuore della missione della Fondazione, nello spirito della  sua inesauribile energia e volontà di ricerca e come seguito alle parole dette da lui  a Modena nel 1997  che ne sono il sigillo: “… Io sono felice perché so che, in qualsiasi momento, sentendomi mancare, posso rivolgermi a voi, dicendo: continua tu, tu, tu, tu”.

La Fondazione persegue la sua missione incoraggiando le attività di coloro che sono appassionati di architettura e soprattutto dei giovani  dei quali viene favorita la conoscenza del patrimonio architettonico nei suoi indissolubili legami con quello letterario e scientifico secondo il sincretismo culturale che era in cima ai pensieri di Zevi, in un’accezione umana del tutto antiaccademica.

Questa finalità ha alimentato un’azione in diverse direzioni convergenti verso l’obiettivo prefisso.

Innanzitutto è  stata aperta agli studiosi e al pubblico la vasta raccolta di libri e documenti accumulata in decenni di intensa attività culturale di Zevi: la biblioteca  e l’archivio. Oltre ai libri e a documenti di varia natura si accede anche all’archivio epistolare che raccoglie la fitta corrispondenza  con architetti e urbanisti, storici dell’arte e studenti, professori e amici.

Tra i libri si va dai testi più noti di Croce e Venturi, Ragghianti e Argan ai meno conosciuti, dai temi generali a quelli specialistici, sono 4.000 volumi che ne mostrano il  percorso intellettuale.

L’archivio copre quasi un settantennio, dal 1933 al 2001, è stato ordinato da Vincenzo De Meo e comprende un materiale vasto quanto eterogeneo nei molteplici campi di interesse di Zevi. La consultazione è agevole essendo stato ordinato in sezioni per le diverse fasi della sua attività, e personalizzato rispetto alle vicende biografiche e professionali: citiamo, tra le altre, le sezioni sull’attività didattica e universitaria, professionale ed editoriale, fino all’attività politica.

A  questo si unisce la promozione di borse di studio e  corsi per la formazione, aggiornamento e qualificazione professionale nei campi di interesse e il Premio internazionale di architettura, urbanistica e paesaggistica  per individuare soggetti non ancora affermati  che – si legge nel programma – “a partire dalle matrici organiche, espressioniste, informali e decostruttiviste, rifiuti canoni e teorie che non siano  quelle del vissuto esistenziale e del diritto alla città”. Una formula che ai non addetti ai lavori può sembrare astrusa, ma bastano i temi dei premiati per apprezzarne il valore. Citiamo quelli delle ultime due edizioni, tra le cinque intercorse dalla sua istituzione.

Sono saggi storico-critici sull’architettura, il premio 2010 a Paola Ardizzola, per il saggio “La linea eterodossa di Bruno Taut in Turchia” che dietro il titolo criptico tratta del rapporto tra tradizione locale e architettura moderna , e in particolare  dell’evoluzione dei principi sociali, tecnici, spaziali in una realtà  diversa da quella delle grandi capitali europee, “dimostrando come esso si adatti al linguaggio e alla tradizione locali, rispettandone la specifica cultura dello spazio”.

Il premio 2011, conferito il 17 maggio 2012,   a Maria Clara Ghia per il saggio “Basta esistere. Leonardo Ricci: il pensiero e i progetti per la comunità”, dove la  progettazione è vista come impegno comunitario, organico e integrato alla terra come una pratica che non contrasta con la tecnica soltanto se questa è padroneggiata dall’architetto e non porta alla prevaricazione;  al contrario deve poter trasferire l’immaginario in un a realtà nuova, responsabile e fonte di felicità.

Sono iniziative contigue all’organizzazione di convegni, conferenze e seminari e altre manifestazioni culturali. Citiamo i due convegni internazionali del 2010, nella “Città dell’altra economia” il 21 gennaio e all’Auditorium del Maxxi  il 28 settembre, perché molto significativi.

Il primo sul tema “Per un’architettura frugale”, che associamo, sia pure in un diverso contesto, all’impostazione di Gaetano Pesce di cui abbiamo detto all’inizio. L’architettura frugale si pone in contrapposizione all’architettura moderna, anonima e comunque avulsa dall’ambiente nei materiali e nei sistemi costruttivi; è frugale perché  impiega e ricicla materiali locali, internazionale ma non globalizzata in quanto su misura delle identità locali; non è utopistica, in un workshop di due giorni dopo il convegno si è progettato uno spazio abitativo secondo i canoni dell’architettura frugale

L’altro convegno del 2010 che vogliamo ricordare è  “Progettare per non essere progettati: Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi e l’architettura” che ha celebrato il centenario della nascita di Argan e il decennale della scomparsa di Zevi, uniti da una profonda amicizia basata su comuni ideali etici e politici. Un  sodalizio fatto di collaborazioni  e di dissensi ma senza mai rinunciare a battersi per il rinnovamento dell’architettura moderna . E’ stato analizzato l’intreccio della loro azione e sono stati seguiti i singoli percorsi, fino agli aspetti attuali del concetto di progettazione lasciato in eredità.

La ricerca,, dunque,  continua. Oltre i convegni le mostre:da “L’architettura in copertina ” del 2003 a “Eur: se Terragni avesse vinto…”  del 2006, quest’ultimo ci consente di passare ai libri pubblicati tra i quali ci limitiamo a citareproprio “Una guida all’architettura moderna all’Eur”, presentata il 25 ottobre 2010 a New York,  che documenta quanto visualizzato in mostra descritto con queste parole invitanti: “Un itinerario che si aggira fra edifici reali, progetti e immagini virtuali, che sovrappongono al progetto originario degli anni Trenta ciò che è stato costruito nei decenni a seguire, fino ad oggi”. Sono  36 progetti bocciati nei concorsi del 1937-38, tra  i nomi dei candidati   quelli di Lucio Fontana e del sopra citato Giuseppe Terragni, con gli interventi successivi, da Luigi Moretti fino a Massimiliano Fuksas.  “I progetti per l’Eur irrealizzati, si aggiunge, indicano ciò che sarebbe potuto essere uno dei piani urbanistici più moderni e coraggiosi d’Europa”.

Fa parte delle pubblicazioni della Fondazione anche il saggio “Una guida all’architettura frugale”, di cui abbiamo citato il convegno del 2010 e i testi sugli altri convegni, oltre ai saggi dei vincitori del Premio internazionale. Tra questi ricordiamo il testo di Zeuler Lima, “Verso un’architettura semplice”, che riconduce all’architettura frugale e quindi ad un’architettura a misura d’uomo.

Se questo tema resta vivo e vitale è merito dell’opera di Bruno Zevi  e della Fondazione che ne porta avanti il messaggio. E bene ha fatto la Galleria Nazionale di Arte Moderna a fornire a questa missione uno spazio autorevole, nella sua sensibilità a tutti i temi legati all’arte e insieme alla vita.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Viale delle Belle Arti  138, Roma. Martedì-domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45); lunedì chiuso. Ingresso:  intero  euro 12,00, ridotto 9.50 (18-25 anni e insegnanti di arte UE) , con accesso anche all’esposizione permanente del  Museo e alle altre mostre temporanee come quella in corso su Paul  Klee;  gratuito per minori di 18 anni e maggiori  di 65 limitato a questa mostra  e al Museo.

Foto

Le immagini dei bassorilievi colorati di Gaetano Pesce sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione alla Gnam,  si ringrazia la Galleria con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.

Afghanistan, quattro volti in 60 foto al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

“Obiettivo Afghanistan. La terra oltre la guerra”, 60 fotografie a Roma, al Palazzo Esposizioni, dal 27 settembre al 28 ottobre, 15 per ciascuno di 4 fotografi internazionali, nell’ambito del “V Festival della letteratura di viaggio” che si svolge con una serie di iniziative a Villa Celimontana, organizzato da National Geographic e Federculture. I fotografi sono Monika Bulaj di National Geographic Italia, Reza, franco-iraniano di National Geographic, Riccardo Venturi vincitore di due World Press Photo, Zalmai, nato a  Kabul fuoruscito in Svizzera.  Curatore Riccardo Venturi, ideatori  Nicola Minasi e Donata Pacces per l’associazione culturale “Dialogando”.

Opera della polacca Monika  Bulaj 

Il volto dell’Afghanistan sotto il burqa

E’ ben nota la tormentata vicenda dell’Afghanistan. Il suo territorio è stato ed è un campo di battaglia  nel quale si sono fronteggiati nemici diversi: terminata la resistenza sanguinosa all’invasione sovietica c’è stata una violenta restaurazione tribale seguita a sua volta da un nuovo conflitto dove ai terrorismi fondamentalisti si è contrapposto un altro esercito straniero di segno opposto a quello sovietico in una guerra infinita che strazia il paese con combattimenti e attentati.

Sono cronache di tutti i giorni che entrano nelle case di tutti, l’ultima ferita per il nostro paese la morte dell’alpino italiano nel conflitto a fuoco nel quale i nostri soldati impegnati nell’addestramento delle forze afghane sono stati l’obiettivo dell’agguato terroristico.

Non sempre si ricorda come il conflitto endemico, che con poche interruzioni tormenta e devasta il paese da oltre trent’anni, abbia generato, oltre a un’ecatombe di morti, il maggior numero di rifugiati, ben 8 milioni. Intimidazioni, contrasti e scontri provengono anche dalla gestione di una situazione umana e sanitaria allarmante. E non sono in vista miglioramenti sebbene qualcosa si sia fatto sul piano delle infrastrutture, anche perché il pur auspicato ritorno alla pace con la partenza degli eserciti di stanza nel paese non viene visto come risolutivo, si teme un’ulteriore fase di profonda instabilità con la fine dell’economia di guerra e dei suoi pur perversi stimoli dati dalle risorse impiegate dagli occupanti e con l’abbandono del paese alla sua arretratezza endemica.

Nonostante sia alla ribalta da un trentennio per le sanguinose vicende belliche e i raccapriccianti episodi terroristici, il vero volto dell’Afghanistan è rimasto nascosto dagli eventi eclatanti, con l’immagine di arretratezza e integralismo religioso espressa nell’imposizione del burqa alle donne. E’ meritevole, quindi, la mostra che ne rivela il vero volto togliendo il burqa virtualmente imposto al paese, con le immagini scattate da quattro grandi fotografi di diversa nazionalità ed estrazione.

Ognuno di loro ne ha dato la sua visione , che non è la sua verità, bensì la sua interpretazione di una realtà quanto mai complessa e multiforme. Sono quattro verità compatibili, anzi complementari, perché considerano angolazioni diverse e compresenti nella complessa realtà afghana. C’è l’Afghanistan al femminile, con la condizione della donna in primo piano e l’Afghanistan di ieri, dopo la guerra di liberazione contro i sovietici,  l’Afghanistan di oggi ancora squassato dai conflitti, fino all’Afghanistan senza età, nei suoi connotati umani e naturali, identitari e pittoreschi.

La fotografia ha la capacità di rendere con immediatezza situazioni per le quali occorrerebbero fiumi di parole senza avere la stessa efficacia. E’ come se si materializzassero, tanta è l’evidenza spettacolare, donne e uomini, giovani e anziani, gente al lavoro o in riposo, in preghiera o in lotta; e i grandi spazi, gli ambienti che sono il teatro della loro vita, monti e altipiani, accampamenti e villaggi. Sono scenari e fondali di grande fascino che diventano protagonisti di una vita difficile.

Questi i motivi che balzano subito agli occhi nel visitare la mostra. Un primo gruppo di 5 immagini ciascuno vede affiancati i 4 fotografi nella rotonda centrale dello Spazio Fontana, poi il “racconto” di ognuno continua con altre fotografie nei corridoi laterali. Dopo la visione corale al centro, il visitatore segue i diversi percorsi tornando poi nella rotonda per una sintesi visiva finale.

Tanti sono gli aspetti evocati dalle 60 fotografie, quelli che sono rimasti dietro gli eventi e ora si possono intravedere nelle immagini di ambienti e persone, ripresi in istantanee suggestive. Emergono la storia e la cultura, la religione e la spiritualità, le arti e i mestieri, la vita quotidiana e le tradizioni, la povertà e l’orgoglio, gli individui e le etnie, i diritti negati e i conflitti; e gli ambienti in cui si dipanano le vicende, i grandi spazi aridi e le montagne, le vallate e le città, gli accampamenti. Sono visti dalle diverse angolazioni degli autori dietro la cui caratura internazionale ci sono differenti personalità legate alla loro storia e alla loro nazionalità: polacca, iraniana, italiana, diary.

Opera del franco-iraniano Reza 

Sotto l’obiettivo di 4 grandi fotografi

Visitiamo la galleria espositiva  iniziando dal percorso di Monika Bulaj, polacca, che  dà un’immagine al femminile, secondo la sua sensibilità per tale angolazione. Le donne sono viste negli esterni e in interni molto intensi, cercando di portarne alla luce la sensibilità, spesso compressa se non oppressa: donne sole o in gruppo, che negli sguardi e nelle pose esprimono sentimenti di gioia o dolore, fanno pensare ai sogni e alle speranze, alle delusioni e alla disperazione, alla fatica del lavoro e al sollievo di ritrovarsi insieme per condividere momenti felici.

La loro immagine va ben oltre quella risaputa del burqa, anche se questa veste medievale non manca nelle fotografie esposte: in una di esse la donna che lo indossa stringe in braccio un bambino, vicino a lei delle ragazze a viso scoperto, ma c’è anche la risata che la fotografa è riuscita a cogliere sotto la corazza di stoffa.  Scopriamo l’intimità e la vita familiare, come anche l’impegno e la sofferenza. Ma anche l’immagine delle due donne accucciate nel carcere, che sembra mostrare una penosa segregazione, rivela a ben guardare un atteggiamento sereno, intente come sono a raccogliere dei grani in una piccola ciotola. Il viso di una giovane donna alla finestra è radioso, assorti altri visi, ma colpiscono soprattutto due immagini in primissimo piano: il volto di donna anziana, quasi un simbolo identitario di etnia, e la tenera composizione della madre che stringe il piccolo, un quadro di madonna con bambino. E poi occhi socchiusi e spalancati, scene di vita.

C’è un uso del colore molto particolare, con un’intensità cromatica anche violenta, e forti contrasti di luci e ombre. E’ un importante contributo alla conoscenza del mondo femminile che ha un’importanza capitale nel progresso del paese, perché chi cerca di fermarlo lo fa mantenendo l’oppressione sulle donne e impedendo loro di emanciparsi. La loro lotta, espressa anche con poetesse ed eroine antiche contro l’ostracismo alla loro istruzione che risale al 1800,  è la lotta per l’uscita del paese dal medioevo, perciò va ben oltre la pur fondamentale emancipazione della donna.

Il franco-iraniano Reza,  storico fotografo di National Geographic, mette in campo la sua profonda conoscenza dell’Asia di reporter attento ed esperto, con immagini dai colori sfumati e delicati che spaziano in un ventennio tra altipiani e montagne, città e villaggi. Sono gli scenari delle guerre senza fine in cui gli afghani hanno combattuto contro i russi e i talebani, ed ora sono presi tra il terrorismo fondamentalista e gli eserciti stranieri  ancora presenti sul territorio. Scene di grande suggestione, che esprimono una profonda umanità.

Foto di persone, come quella impegnata nel periglioso passaggio su una sconnessa e instabile passerella o il ragazzo sull’altalena, e ancora l’uomo col turbante bianco che avanza,  in uno scenario di neve, a lato del cavallo con sopra una figura avvolta nel mantello, un’immagine del mondo islamico che richiama la “fuga in Egitto” del mondo cristiano. E scene di ambiente, accampamenti e sfondi naturali, un’antica spettacolare costruzione che sembra un miraggio, una cavalcata nell’altipiano,  fino all’eroe della resistenza Massoud in un interno con due finestrelle ripreso mentre legge. L’umanità nelle persone viene fissata al di là degli aspetti pittoreschi di un’etnia antica e indomita.

Documentano gli anni ’90 le fotografie di Riccardo Venturi, in un bianco e nero che ne evidenzia il carattere retrospettivo anche se sono quanto mai attuali perché in forme e modi diversi il clima non è mutato di molto. E’ un paese medievale, dove è calata una cortina, non si legge la gioia di vivere neppure nei volti e nei giochi dei bambini, anche se è cessato il conflitto armato.

Il paese è sopravvissuto all’invasione russa, ma ci sono i talebani con l’imbarbarimento primordiale della loro ideologia che comprime ogni libertà e toglie alla donna qualsiasi possibilità di emancipazione,  escludendola dallo studio e al lavoro,  dalla libertà di pensare e quindi di sperare e di sognare.  L’eco della guerra infinita si sente nel guerrigliero con il kalashnikov in spalla, nei soldati in corsa che si lanciano verso un obiettivo in un’istantanea magistrale; si vive l’orgoglioso arroccarsi su una tradizione espressa dalle barbe e dai turbanti, oltre che dai burqa, in scene arcaiche e anche calligrafiche, come le due figure chiara e scura che si allontanano riprese di spalle.  C’è il lavoro e la sofferenza, la poesia e il dramma della guerra nella resistenza all’invasore.

L’afghano Zalmai chiude la nostra rapida panoramica,  l’obiettivo è penetrante, lui sa dove cogliere  sofferenza e dignità, degrado ed orgoglio, e come esprimerli nella fotografia.  Il suo è il paese odierno che cerca con grande fatica una propria strada diversa da quella bellicosa fin qui percorsa, magari aprendo spazi di libertà con le nuove generazioni; e in questo mostra dignità e orgoglio, la perdurante povertà e arretratezza riflette tradizioni ataviche, una cultura e una storia su cui costruire.

Vediamo immagini di sfollati a Kabul e di mendicanti con il burqa, un uomo accasciato su un carretto in attesa di un lavoro, questa l’umanità sofferente; ma non finisce qui, un volto che sprigiona forza e determinazione  si staglia su uno sfondo deserto, la barba bianca del vecchio ne esprime la dignità. E poi il misero accampamento e il fondale naturale di calanchi con la persona minuscola ripresa in lontananza, quasi una metafora del peso schiacciante di un ambiente avaro sulla vita di un popolo.

Le immagini sono accompagnate da testi di Nicola Minasi che raccontano la scena fissata nell’obiettivo come una sceneggiatura cinematografica. Tutto è documentato, località e protagonisti, in una sorta di narrazione collettiva che merita di essere fissata anche su carta per non disperdersi.

Opera delll’italiano Riccardo Venturi 

La terra oltre la guerra

Al termine della visita una sorpresa: dopo aver raccontato l’Afghanistan con le immagini fotografiche, la Sezione multimediale della mostra racconta il viaggio, o meglio l’odissea di chi ha lasciato il paese nel “cammino della speranza” per l’Italia, avendo come meta l’Europa. E qui sono raffigurati tanti ragazzi afghani, minori di età, che arrivano a Roma dopo una marcia di 6000 chilometri, spesso camminando a piedi. Le loro storie, riprese da video maker e fotografi italiani e afghani, sono impressionanti: tra gli autori dei reportage citiamo Martina Chichi e Paolo Martino, Francesca Mancini e Dawood Yousefi, il montaggio è di Matteo Minasi, con testi di Carla Ciavarella e Paolo Martino..

Quale sensazione finale si ricava dalle visione delle 60 immagini di quattro artisti della fotografia? Un’emozione forte per aver assistito a una rappresentazione della commedia umana che va al di là della collocazione geografica: il senso della vita emerge da situazioni apparentemente primordiali, nella forza della disperazione come nei barlumi di speranza, nella gioia e nel dolore, nella miseria e nella desolazione cui si accompagna il desiderio di riscatto e la volontà di conquistarlo.

Non è questo che ci ha mostrato e insegnato, in fondo, la storia dell’uomo?  Qui lo si vede con chiarezza in un’area che ha conservato connotati primordiali, è stata ed è come un laboratorio delle prove più severe cui l’umanità può essere sottoposta, guerra e terrorismo, fame e arretratezza, fondamentalismo e oppressione. Ma dalle quali riesce ad emergere mobilitando le energie più riposte, che vediamo negli occhi della gente e, perché no, anche nella risata colta sotto il burqa.

E’ vero ciò che evoca il titolo della mostra dopo “Obiettivo Afghanistan”;  “la terra oltre la guerra” c’è sempre, in ogni tempo e latitudine, ed è vittoriosa. E con la terra l’umanità che ne è espressione.

Info

Palazzo delle Esposizioni, entrata in via Milano 13, Roma. Tutti i giorni ore 10,00-20,00, tranne il lunedì chiuso. Ingresso gratuito.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni, Spazio Fontana, si ringrazia l’organizzazione della mostra con i titolari dei diritti, in particolare i quattro fotografi espositori, per l’opportunità offerta: sono dei 4 fotografi  inserite nell’ordine della citazione nel testo: la polacca Monika  Bulaj, il franco-iraniano Reza, l’italiano Riccardo Venturi, l’afghano Zalmai.

Opera dell’afghano Zalmai

L’Aquila, due dipinti restaurati e una proposta finale, a Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante

Folla delle grandi occasioni il 23 ottobre 2012  alla Sala dei Marmi di Palazzo Barberini. Viene presentato  il restauro di due dipinti di Giacinto Brandi del Museo Nazionale d’Abruzzo, gravemente danneggiati dal sisma dell’Aquila e recuperati con un lungo lavoro per iniziativa  dell’associazione Civita, e il concorso delle istituzioni: la Direzione regionale  per i beni culturali e paesaggistici d’Abruzzo, il Comune dell’Aquila e la locale Fondazione della Cassa di Risparmio,.i cui esponenti sono intervenuti, con la direttrice di Palazzo Barberini. Tra loro  il sottosegretario ai Beni Culturali Roberto Cecchi e, per Civita, il presidente Antonio Maccanico e il presidente onorario Gianni Letta. Per il Comune dell’Aquila l’Assessore alla Cultura Stefania Pezzopane.

La presentazione a Palazzo Barberini, al microfono Stefania Pezzopane, Assessore alla Cultura del Comune dell’Aquila  

Si accede alla Sala dei Marmi, al piano nobile del Palazzo, dopo i settantacinque bassi gradini della scalinata del Bernini, monumentale e avvolgente.  La maestosità dell’edificio e la consapevolezza di essere nel Museo dell’Arte Antica con il labirinto senza fine di sale cariche di capolavori emoziona. I marmi danno il nome alla sala perché è contornata da busti e statue, alle pareti vi sono una quindicina di grandi quadri. Per la circostanza ne sono stati aggiunti due, su cavalletti, in carattere come stile e dimensioni con quelli delle pareti: sono i due restaurati,  “La nascita della Vergine” e “Il transito della Vergine” di Giacinto Brandi, del XVII secolo, i cui dipinti e affreschi si trovano in diverse chiese barocche a Roma.

Il restauro è stato un complesso e delicato, date le condizioni in cui si trovavano – ci vengono mostrate alcune fotografie impressionanti “prima della cura” –  che ha richiesto un lavoro conservativo articolato e difficile, il risultato è d’eccellenza. Vengono restituiti alla città dell’Aquila il giorno dell’omaggio annuale al ricordo di Gianfranco Imperatori, operatore economico e  culturale sempre con un’attenzione particolare per l’Abruzzo e il patrimonio artistico aquilano.

L’omaggio a Gianfranco Imperatori

E’ stato tra i fondatori e per più di venti anni segretario generale dell’associazione promotrice del restauro, che si aggiunge ai tanti recuperi di opere d’arte operati nel corso della meritoria attività  svolta in campo culturale. Alla sua memoria il presidente Antonio Maccanico in apertura ha rivolto parole commosse, il presidente onorario Gianni Letta in chiusura ha dedicato una vera  e propria orazione. Gli altri intervenuti non hanno mancato di sottolineare i meriti e la visione lungimirante e illuminata della persona e dell’operatore culturale.

Ricordiamone con pochi tratti la figura di banchiere e imprenditore illuminato, docente e scrittore, dal raro pregio di tradurre le intuizioni e le idee in progetti e iniziative a carattere innovativo. Per dieci anni, da presidente del Mediocredito centrale lo ha trasformato in una banca d’investimenti risultata vero strumento di sviluppo del territorio anche con l’introduzione del “project financing”. Non si contano i ruoli di vertice in altre banche e istituti finanziari e non solo, al riguardo ci interessa sottolineare che nelle funzioni svolte ha cercato sempre di promuovere la cultura come parte integrante di un modello di sviluppo basato sulla valorizzazione in termini economici, oltre che culturali, dei beni di interesse storico e artistico coinvolgendo anche il mondo delle imprese.

Il suo impegno, oltre che da banchiere, operatore economico e promotore di iniziative assistenziali, si é espresso in campo culturale nella presidenza dell’Accademia Belle Arti di Roma e nella creazione e gestione dell’associazione Civita, risultato di un incontro, che ebbe la lungimiranza di organizzare nel 1987 a Civita di Bagnoregio,  con i due attuali presidenti Maccanico e Letta, oltre a Portoghesi, Mostacci e Pompei. L’associazione è stata in grado di svolgere un meritorio lavoro di promozione e recupero di beni culturali, del quale il restauro dei due dipinti presentato in suo omaggio è solo l’ultima espressione, particolarmente significativa per il valore che assume.

Giacinto Brandi, “La nascita della Vergine”, XVII sec. 

Il significato del restauro per L’Aquila

Nelle due opere  che vengono restituite all’Aquila restaurate è stato visto il segno di una svolta. Citiamo  per tutti le parole di Stefania Pezzopane: l’Assessore alla Cultura  del Comune ha definito la riconsegna dei dipinti recuperati  “dono preziosissimo per la rinascita della nostra città”. E ha aggiunto che la tragedia del sisma ha interrotto tante iniziative, ma è tempo di “riprendere il cammino nella visione di una città e di un territorio che nella cultura e nell’arte, nella storia e nell’identità trovano la loro forza, per cui vanno recuperati tali valori in modo da aprire le strade del futuro”.

Per questo il restauro dei due dipinti, oltre ad evocare il restauro che ancora si fa attendere del centro storico da ricostruire, ha un significato simbolico: i due momenti estremi della vita della Vergine, la nascita e il trapasso, racchiudono l’intero ciclo vitale, riportarli all’Aquila è  come riportarvi la vita.  L’assessore ha annunciato che saranno esposti al Palazzetto dei Nobili come primo atto di un percorso che vi prevede altre mostre e la sede delle iniziative per la candidatura dell’Aquila a Capitale Europea della Cultura per il 2019. Alle istituzioni e alle forze economiche è richiesto il solidale sostegno.

L’autore Giacinto Brandi

Ed ecco le due opere – commissionate da Filippo Carli per la cappella della chiesa di San Filippo Neri – dal forte chiaroscuro e dalle espressioni intense, i critici vi trovano influenze di Lanfranco e più in generale notano come l’artista contemperi la formazione bolognese con i modelli napoletana.

Intanto un cenno alla sua vita artistica: nato a Poli nel 1621, dopo un apprendistato nelle botteghe di Algardi e di Sementi passò  in quelle di Magni e di Lanfranco, dove rimase fino al 1646. Lavorò a Napoli,  a Roma dal 1647 dove  fece parte dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon  e frequentò l’Accademia di san Luca fino a diventarne “principe” nel 1668.  Morì nella città eterna nel 1691.

Le sue opere si trovano in diverse chiese barocche romane: sono suoi gli affreschi nella volta della basilica dei santi Ambrogio e Carlo al Corso e di San Silvestro in Capite, le pale d’altare nella basilica di Santa Maria in Lata e nella chiesa di Gesù e Maria, la “Trinità” nella basilica di santa Francesca Romana. Suo anche il ciclo di affreschi nel Palazzo Pamphili a Piazza Navona.

Nel Museo Nazionale d’Abruzzo, oltre ai due dipinti ora restaurati  provenienti dalla chiesa di San Filippo, di questo pittore – tra  i  150 presenti nel Museo – c’è anche il dipinto sul “Beato Bernardo Tolomei”, proveniente dalla chiesa  di Santa Maria del Soccorso, una bianca figura su fondo blu.

Giacinto  Brandi, “Il trapasso della Vergine”, XVII sec.

I due dipinti restaurati

Ma osserviamo i due dipinti esposti di fronte a noi ai lati del tavolo degli oratori, sono delle stesse vistose dimensioni: due superfici pittoriche che misurano 176 cm di altezza per 243 di larghezza.

“La nascita della Vergine”  concentra l’attenzione sull’angolo destro della scena, anche se parte della composizione è nell’angolo sinistro, ma le due ancelle che preparano la culla guardano alla loro destra, dove sant’Anna dal giaciglio accarezza l’infante Maria che è tenuta dalla nutrice con san Gioacchino. I due angoli animati, separati dalla diagonale centrale vuota e scura, sono ravvivati oltre che dal biancore delle tuniche, dal rosso della veste di una delle due ancelle e delle fasce della neonata.  Il gruppo a destra, anche per l’atteggiamento delle ancelle assorte, sembra un’apparizione.

L’altro dipinto, “Il transito della Vergine”, è di impianto più tradizionale, nella composizione e nella scena anche se, con l’altro della nascita, l’artista raffigura due momenti poco rappresentati dagli artisti, interessati  soprattutto alla Madonna  in gloria, quasi sempre  con il Bambino. Qui è distesa sul letto bianco, nella sua veste rosa e celeste, con intorno gli apostoli. Tra gli altri si notano san Giovanni al capezzale con le mani giunte, san Tommaso in ginocchio in fondo al letto, san Paolo seduto alla sinistra chino nella lettura di un libro. La  luminosità dell’immagine al centro la fa risplendere,  contornata  dal cromatismo scuro degli apostoli che vegliano tutt’intorno.

I valori artistici delle due opere sono riconosciuti, ci sono  anche valori simbolici evidenti. Il ciclo di vita cristiano termina in gloria, il transito, nel segno della fede, è verso una vita migliore.

Il bambino felice in volo sull’aquila simbolo della rinascita

Da quanto si è detto nell’incontro sulla ricostruzione dell’Aquila  è emersa la spinta verso un rilancio che possa far decollare la città sulle ali della cultura  in un nuovo inizio per una nuova vita.

Per questo abbiamo voluto avvicinare al termine l’assessore Stefania Pezzopane e ricordarle l’idea da noi lanciata il 3 settembre 2009 in un articolo su “cultura.inabruzzo.it” dedicato alla Perdonanza a cinque mesi dal terremoto: prendere a simbolo della rinascita una scultura che rende visivamente questo slancio, si tratta di “Vivere insieme”,  rappresenta un bambino felice che spicca il volo a braccia  aperte in groppa a una grande aquila. Ha rappresentato l’Italia all’Expo di Siviglia del 1992, è stata  apprezzata al punto che l’allora presidente della Repubblica francese,  Mitterand,  insignì l’autrice della  Legion d’Onore e la definì “artista di valore”.  Si tratta di Gina Lollobrigida, l’attrice che con tenacia ha saputo risorgere dal declino come diva per affermarsi nel mondo dell’arte –  come fotografa prima, scultrice poi –  è un tocco in più che non guasta, tra l’altro le sue origini ciociare e la sua genuina vena popolare la accostarono al suo esordio alla gente abruzzese.

A distanza di tre anni ci sembra che la proposta sia sempre attuale, tanto più nel momento in cui le immagini della Vergine in fasce e nel trapasso vengono restituite all’Aquila ancora sfigurata dal sisma. Dopo vent’anni dalla sua realizzazione la composizione scultorea con le ali spiegate e il nobile profilo del bambino felice potrebbe essere adottata come segno di crescita e di speranza.

In fondo è la profetica traduzione visiva della volontà e della forza  che è nella città e attende solo di potersi esprimere in tutta la sua energia, nella dignità e nella fierezza della propria natura. Del resto, i ritardi sono stati tali che impongono di ripartire da zero, lasciando cadere i fardelli e appellandosi all’innocenza primigenia.  Soltanto così si potranno superare remore e incertezze, e decollare.  

Con questa e con le altre opere scultoree, più di 60, la Gina nazionale degli anni ’50 è risorta a una nuova vita nell’arte, testimoniando come sia possibile rinascere se lo si vuole. Per l’Aquila la sua scultura può diventare un simbolo  per moltiplicare le energie verso la sospirata ricostruzione .

Soccorre anche il mito della bellezza, che l’Arcivescovo Molinari evocò nella Perdonanza del 2009 dicendo: “E la bellezza che non morirà mai. Ricordalo sempre, amatissimo popolo dell’Aquila. E con l’aiuto di questo Dio, Signore del tempo e della storia, riprendi subito il tuo cammino, per una storia nuova, piena di Bellezza e di Speranza”. Il simbolo che proponiamo evoca tutto questo.

La fatina di Pinocchio dopo la madre  di Cristo dei due dipinti? La rinascita della città ferita ha bisogno di miracoli  e anche di sortilegi, come  quello del bambino che spicca il volo felice in groppa  all’aquila. Ci piace riscriverlo con la  maiuscola:  il bambino felice in volo in groppa all’Aquila, per superare di slancio le troppe delusioni e poter riprendere il cammino della storia.

Foto

Le immagini della sala  e dei due dipinti  sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione del restauro nella Sala dei Marmi di Palazzo Barberini, si ringrazia l’associazione Civita con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  Sta parlando dal podio Stefania Pezzopane, nel tavolo alla sua sinistra siedono tra gli altri  Antonio Maccanico e Gianni Letta.  Per la raffigurazione della scultura “Vivere insieme”  si è fatto ricorso al sito ufficiale di Gina Lollobrigida che ringraziamo per  averci consentito di illustrare visivamente la nostra proposta.

Gina Lollobrigida, “Vivere insieme”, 1992 

Guercino, capolavori da Cento a Roma, a Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante

E’ stata un evento la prima mostra monografica “Guercino 1591-1666. Capolavori da Cento e da Roma”, nei nuovi spazi espositivi di Palazzo Barberini. Nello storico edificio di Roma dal 16 dicembre 2011 al 29 aprile 2012 sono state esposte 40 opere dell’artista, al secolo Francesco Barbieri, metà delle quali provenienti daCento, la città natale che è una mostra permanente dei suoi dipinti nelle chiese e nel museo; da giovane addirittura vi affrescava i muri delle abitazioni

Guercino, “Ritratto del cardinale Bernardino Spada”, 1631

Ma prima di parlare della mostra non possiamo ignorare la straordinaria collocazione, al piano terra del grande palazzo nobiliare che nei due piani superiori ospita il “Museo nazionale d’arte antica”, in ben 34 sale che nelle pareti recano opere di alto livello fino al culmine della “Fornarina” di Raffaello, di fronte alla quale è stata esposta, sia pure temporaneamente, un’“Immagine di Ragazzo” del periodo giovanile con un incrocio di sguardi suggestivo dal quale era difficile liberarsi fino a quando “Giuditta e Oloferne”  di Caravaggio rompeva l’incantesimo con la sua drammaticità, temperata dal vicino “Narciso”, dello stesso “pittore maledetto”.

I dipinti di Giovanni Baglione, il biografo-rivale, ci hanno riportato a quel periodo ma poi siamo stati presi dalle visoni paesistiche, dalla Venezia del Canaletto alla provincia romana cara a Van Wittel; le visioni religiose sono una costante dell’arte antica, e nelle sale ce n’è un’overdose da “sindrome di Stendhal”. Aiuta a superarla l’enorme “Sala Pietro da Cortona”,con il gigantesco affresco della volta il cui autore le ha dato il nome. Ma il motivo della visita è stata la mostra del Guercino, del quale si sono altri quadri nel Museo, quindi siamo scesi alla “Sala dei marmi” per la presentazione percorrendo la scalinata del Borromini; eravamo saliti dalla scalinata del Bernini,  una “ronde” da capogiro sui gradini di questi grandi maestri.

La presentazione del Guercino

Nella “Sala dei marmi” impreziosita da 16 grandi dipinti di soggetto religioso, l’ideatrice e curatrice della mostra, Rossella Vodret, soprintendente museale e non solo, di Roma, ha sottolineato come questa fosse la prima di una serie di mostre temporanee monografiche nella sede del Museo permanente dell’arte antica. E’ stata dedicata a Denis Mahon, che ha studiato il Guercino nella sua vita terminata di recente dopo il compimento dei 100 anni.  

Alla mostra sono state associate visite guidate a un palazzo romano con dipinti del Guercino, altrimenti non aperto al pubblico, oltre che alla Pinacoteca Capitolina dov’è stabilmente una sala con i suoi dipinti dominati dalla gigantesca pala della “Sepoltura di santa Petronilla”, della quale è stato esposto un bozzetto. Il soprannome dell’artista viene dall’affezione a un occhio derivata da uno spavento avuto da piccolo, e la Vodret ha invitato ad indagare su tracce della visione “monoculare” nelle prospettive dei dipinti, “chissà se il fascino della sua pittura non dipenda da questo!” Una battuta più che un vero dilemma.

Il sindaco di Cento, la città del Guercino fornitrice di metà delle opere esposte, ha portato la voce dell’istituzione cittadina: “Per noi il Guercino è un ambasciatore nel mondo di una piccola città di 37 mila abitanti che è permeata dalle sue opere e mantiene viva la memoria del concittadino illustre che la lasciò solo per brevi periodi”. Ruberti di Civita, ha sottolineato la collaborazione tra istituzioni, il sindaco di Cento e la soprintendenza museale romana, “una strada che va percorsa con sempre maggiore impegno e convinzione”.  

La Direttrice della Galleria nazionale d’arte antica Lo Bianco, ha parlato del nuovo spazio per le mostre temporanee: “Così si conclude un recupero che sembrava impossibile, anche per merito della stampa e dell’opinione pubblica, per avere qui un museo per la città”, e ha citato i nomi di Settis e Gianni Letta. “E’ una  Galleria monumentale con 34 sale, all’offerta così vasta si aggiungono ora i capolavori del Guercino”.

Il curatore, con la Vodret, della mostra, Bruno Gozzi, ha parlato a lungo del protagonista, il Guercino. Ha ricordato l’origine del soprannome divenuto molto più noto del nome Francesco Barbieri. Sin dai 13-14 anni si cimentò negli affreschi sui muri delle case centesi. La sua qualità artistica fu riconosciuta anche da maestri come Ludovico Carracci, che nel 1617 in una lettera scrisse di lui “che dipinge con tanta felicità di invenzione, è gran disegnatore e felicissimo coloritore, e mostro di natura e miracolo da far stupire…”. Insieme a Carracci, Caravaggio e Guido Reni, il Guercino è ritenuto uno dei giganti del barocco europeo.

Talento innato, assorbì l’influenza della scuola ferrarese fino a quella della classicità romana; a Roma medita di cambiare stile preso dal fascino dell’antico. Visse 75 anni, fu pittore molto prolifico e lasciò un’accurata documentazione della sua vita quotidiana e del lavoro di artista nel “libro dei conti” con registrati i ricavi, le spese e in particolare le commissioni per i quadri con indicati caparra e saldo. Riguardavano 12-13 quadri per volta, si faceva pagare 100 ducatoni per la figura intera, 50 per la mezza figura e 25 per altre scene. I nipoti eredi delle case di Cento e Bologna con 5000 disegni e 200 quadri non li vendettero, lo fece il figlio di Cesare.

La mostra ha rievocato questi aspetti ma soprattutto ne ha rivelato l’arte: piaceva ai romani per il linguaggio con un chiaroscuro che sfumava i toni: recepiva le caratteristiche tonali del classicismo romano e dei Carracci in un stile che è molto personale. Il soggiorno a Roma fu un periodo magico per lui e per la sua arte.

Guercino, “Madonna con il Bambino benedicente”, 1629

I dipinti esposti

Arriva il momento della visita, i dipinti si succedono nelle sale in una sequenza cronologica  che isola i due momenti fondamentali, Cento e Roma. Ne diamo conto con l’immediatezza con cui abbiamo scritto il resoconto subito dopo. 

Si inizia con opere di Cento, in primis il suo Ritratto di Benedetto Gennari che lo raffigura a lato di un dipinto, poi gli affreschi staccati con “Il Padre Eterno” e “L’Annunciazione”, del 1613-14, come  i due su “San Carlo Borromeo”, il santo che ritroviamo nelle “Nozze mistiche di santa Caterina”, del 1614-15; degli stessi anni, fino al 1614-16, due dipinti religiosi sui “Misteri del Rosario” e la “Madonna col Bambino” e uno mitologico con “Prometeo”.

Del 1518  sono esposte 5 opere di soggetto religioso, due “Madonne con Bambino” e tre santi, “San Bernardino da Siena”, “San Pietro” e “San Girolamo” in due versioni molto simili. Poi, fino al 1622, l’anno dell’andata a Roma, “Erminia e Tancredi”  e “Sibilla”, “Et in Arcadia Ego”una “memento mori”, fino a “San Luca” e “San Matteo e l’Angelo” dipinti con altri.

Il Guercino a Roma si presenta con il bozzetto o copia della grande pala della “Sepoltura di Santa Petronilla,dipinta nel 1622-23 per la basilica di San Pietro da cui fu rimossa nel 1730. cui si è accennato.

Negli anni successivi temi come “Sansone porta il favo di miele” e “Il ritorno del figliol prodigo” si alternano ai temi religiosi di “Cristo risorto” e “Madonna con il Bambino benedicente”. Per gli anni ’30 del XVII secolo sono esposti “Ritratto del cardinale Spada” e “Allegoria di Pittura e Scultura”, “Santissima Trinità” e “San Pietro piangente”. Gli anni ’40 iniziano con il sensuale “Cleopatra davanti a Ottaviano”, seguito dai  mistici “Estasi di san Filippo Neri” ed “Ecce Homo”,  patetico e idealizzato secondo lo stile di Guido Reni che Guercino assorbiva trovandosi a Bologna, ma con una vibrante umanità.

L’alternanza di temi religiosi e profani continua con “Santa Margherita di Antochia” ancora a Bologna, e “Saul contro David”, la languida “Sibilla Persica” e lo statuario “San Giovanni Battista nel deserto”, siamo nel 1650, artista  è a Cento. Siamo giunti alle ultime due opere esposte che si trovano entrambe a Roma: “Flagellazione”, due figure statuarie e nel contempo vibranti,  e “Diana cacciatrice”, un’immagine arcadica dalle delicate tinte pastello.

Siamo nel 1658, morirà dopo otto anni, nel 1666, era nato nel 1591. Il Catalogo del’editore Giunti curato da Rossella Vodret e Fausto Gozzi oltre ai 40 dipinti in mostra contiene la riproduzione e il commento di ulteriori 30 sue opere visibili a Roma e a Cento.

Alimentare un turismo dell’arte seguendo i percorsi delle opere dei grandi artisti è quanto di più meritevole. Rossella Vodret si sta adoperando in  questo senso anche con Guercino, dopo averlo fatto con Caravaggio, mediante visite guidate. Confidiamo che abbia un seguito anche per altre mostre l’iniziativa che alla selezione esposta in mostra unisce, quando ciò è possibile,  la visita “in loco”  alle opere nel loro habitat in cui esprimono tutta la vitalità e la suggestione originaria. 

Info

Palazzo Barberini,via Quattro Fontane, 13, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la bilglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso:  intero euro 10, ridotto 8, scuole 4. Tel. 06.32810. Catalogo: “Guercino 1591-1666. Capolavori da Cento e da Roma”, a cura di Rossella Vodret e di Fausto Gozzi, Giunti Editore, dicembre 2011, pp. 192, formato 26 x 28,5, euro 35,00; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. 

Foto

Le immagini delle opere del Guercino sono state riprese da Romano Maria Levante il giorno della presentazione della  mostra a Palazzo Barberini, si ringraziano gli organizzatori con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Ritratto del cardinale Bernardino Spada”, 1631; segue, “Madonna con il Bambino benedicente”, 1629; in chiusura, “Sibilla Persica”, 1647. 

Guercino, “Sibilla Persica”, 1647
 

Quirino, 2. Il Grande Teatro nel cartellone 2012-13

di Romano Maria Levante

Al centro del “teatro globale” al “Quirino-Vitttorio Gassman” diRomala stagione di spettacoli nel cartellone principale 2012-13, cui nella gestione di Geppy Gleijeses si aggiungono quelli del “Quirinetta” e altri, dall'”Autogestito” al “Teatro ragazzi”, da “In scena diversamente insieme” alla “Mad Revolution.. Titolo della nuova stagione: “Il Grande Teatro”, dopo “La stagione del sorriso” e “”La grande stagione”, nel cartellone tale nome trova un preciso riscontro.

“Miseria e nobiltà”,  con Lorenzo Gleijeses, Lello Arena e Marianella Bargilli

A prima vista il titolo sembra riferirsi al prestigio del “Quirino”,  la dedica a Gassman ne ha voluto segnalare la costante presenza: lo ricordiamo in uno spettacolo nel quale recitava  una ragazza bionda  che l’anno precedente avevano notato quando ci accompagnò al posto come mascherina del teatro, miracolo della sua “bottega”, laboratorio di giovani da sconosciuti trasformati in attori. Ma  a ben guardare gli spettacoli in cartellone emerge che si è attinto al meglio del teatro nelle sue espressioni più elevate ben più che in  precedenza. “La stagione del sorriso” dello scorso anno rendeva onore al titolo, era uno scacciapensieri di qualità in un periodo difficile, mentre “La grande stagione” dell’anno precedente, sempre della gestione Geppy era un inizio scoppiettante.

Il “Quirino” partiva alla grande e si è mantenuto su quei livelli raddoppiando spettatori, incassi e abbonamenti, finché la crisi  non lo ha risparmiato anche se la sua vitalità è espressa dal 3° posto in assoluto tra i teatri italiani, con una percentuale di utilizzo del 92% dei circa 1000 posti al 31 dicembre 2011, poi come abbiamo ricordato, l’escalation dello spread  ha inciso fortemente. Come fare per reagire, indurre gli amanti del teatro a rinunciare ad altre spese e non a questa?  Portando in cartellone il meglio degli spettacoli, far leva sull’importanza e la solennità dei testi e degli attori.

Lo si vedrà quando scorreranno ad uno ad uno i titoli, un vero “parterre de roi” , un appello, quasi una chiamata alle armi della passione teatrale al quale non si può che rispondere “presente”.  Alla presentazione al “Quirino” con molti dei protagonisti si è evocata l’immagine di una ridotta, quasi un fortino nel quale gli attori hanno voluto essere presenti con la loro capacità di resistenza. Hanno parlato dei propri spettacoli dai propri posti sparsi in platea, mentre sul palco dietro un piccolo tavolino c’erano Geppy Gleijeses, Marianella Bargilli e il direttore organizzativo Shapour Yazdani.

Di titoli così famosi non serve riassumere i contenuti, nel cartellone evidenzieremo il filo rosso che li unisce, oltre alla qualità e notorietà dei testi e dei protagonisti: la penetrazione all’interno dell’animo umano nelle sue più diverse espressioni e manifestazioni, quasi un’autoanalisi a puntate in un momento così difficile per il teatro e per gli spettatori, che fa vacillare consolidate certezze.

Gli 8 spettacoli dell’autunno-inverno 2012-13

Il “”Grande teatro” inizia alla grande, è il caso di dirlo,  con Michele Placidonel “Re Lear” di Shakespeare, dal 16 al 28 ottobre 2012, di cui è anche il regista insieme a Francesco Manetti.  Tanti sono gli aspetti dell’animo umano evocati da questa “tragedia da fine del mondo”, come viene definita, ma il “il motore fondamentale è l’amore, un amore abnorme che porta distruzione e morte, crea mostri”. L’amore espresso nelle sue varie forme muove i diversi personaggi , misterioso, tenero e spietato; forte e virile; erotico o disperato; devoto fino al sacrificio in chi riesce a emergere dalle macerie: “Sta a lui costruire il futuro dell’umanità e le sue ultime parole ci danno speranza nel genere umano: bisogna dire ciò che sentiamo, non ciò che dobbiamo”.

Si scava ancora nell’animo umano con un’altra tragedia shakespeariana, “Otello”, protagonista Massimo Dapporto per la regia di Nanni Garella, dal 30 ottobre all’11 novembre. Due visioni contrapposte, quella di Otello  fondata sulla lealtà e l’amore, quella di Iago sull’abiezione e la volgarità. “Da un lato – secondo il regista – un’idea del mondo e della natura umana che volge lo sguardo alla convivenza, alla bellezza e all’armonia, dall’altro la totale assenza, machiavellica, di ideologia, il pragmatismo empirico più spregiudicato”.  Tutto viene espresso nel linguaggio e nella corporeità del teatro, anche “la notte buia, il cupo abisso in cui precipita a volte la mente umana. E la dissoluzione di un mondo di valori, come famiglia, patria, amore, lealtà, coerenza morale”.

Con “Il discorso del re”, di David Seidler, interpretato da Luca Barbareschi e Filippo Dini, dal 13 novembre al 2 dicembre, si passa dai grandi drammi catartici shakespeariani al filone che pone al centro del teatro la voce e l’importanza delle parole. Ancora la monarchia inglese al centro, ma nel XX secolo, allorché i progressi nelle comunicazioni acuiscono la,necessità di adoperare le giuste parole e farlo nel modo giusto da parte del potere. La “disarticolazione verbale” del Re è all’origine del suo dramma  esistenziale per la  responsabilità e la dignità del ruolo, e della sfida alla sua forza di volontà e ai valori della solidarietà familiare, per Barbareschi “una commedia umana, sempre in perfetto equilibrio tra toni drammatici e leggerezze, ricca di ironia ma soffusa di malinconia”.

“Rain man” , con Luca  Lazzareschi 

Un altro dramma esistenziale vissuto inconsapevolmente in “Rain man”, un adattamento di Dan Gordon dal celebre film, regia di Saverio Marconi, con Luca Lazzareschi  nel panni di Raymond dal cui nome viene il titolo e Luca Bastianello in quelli di Charlie, nel film rispettivamente Dustin Hoffman e Tom Cruise, un confronto da far tremare le vene e i polsi. Ma Lazzareschi si è mostrato sicuro, ha parlato di come si è calato nella mente degli autistici, dalla memoria prodigiosa che trae dagli oggetti squarci onirici, ha sottolineato “i 90 sì” pronunciati senza alcun colore e  significato; c’è anche il sentimento che si scontra con l’interesse, l’amore incondizionato torna in primo piano.

Il passaggio all’anno nuovo vede dal 26 dicembre 2012 al 20 gennaio 2013  “Miseria e nobiltà”, di Eduardo Scarpetta, interpretI Geppy Gleijeses, Lello Arena, Mariannella Bargilli, regista Geppy Gleijeses, trio collaudato con i recenti successi di “Lo scarfalletto” dello stesso Scarpetta e “A Santa Lucia”  di Raffaele Viviani.  Nell’operare la riduzione  Geppy si è riferito al testo originale e agli adattamenti di Eduardo De Filippo e di Mario Mattioli per il film con Totò.  Torna l’amore, in lotta contro gli ostacoli posti dallo scontro tra miseria e nobiltà intese nelle varie accezioni, mentre esplodono i contrasti tra falsità e verità, in una commedia che scava anch’essa nella natura umana.

L’amore è al centro dello spettacolo dal 22 gennaio al 10 febbraio, con  “Cyrano de Bergerac”, di Edmund Rostand  interprete e regista Alessandro Preziosi, che dai travolgenti successi sul grande e piccolo schermo passa di nuovo al palcoscenico, sua grande passione, la si sente nel suo intervento alla presentazione. Ma non c’è solo l’amore nel personaggio da lui interpretato con la sua passione, c’è “la sua geniale temerarietà, la drammaticità della sua fiera esistenza, vissuta pericolosamente all’insegna del non piegarsi mai alla mediocrità ed alle convenienze, costi quel che costi”; ciò che ne fa  “un autentico eroe romantico e un personaggio straordinariamente moderno”.

I contrasti si acuiscono in “Il principe di Honburg”, di Heinrich von Kleist, traduzione e regia di Cesare Lievi, dal 12 al 17 febbraio, tra gli interpreti  Lorenzo Gleijeses nel ruolo del principe, Stefano Santospago e Ludovica Modugno. A 200 anni dalla morte dell’autore, una voce poetica intrisa di una “sconvolgente, contraddittoria umanità”,  si parla allo spettatore d’oggi, come dice Luigi Reitani, assessore alla cultura di Udine il cui “Teatro Nuovo Giovanni da Udine” lo mette in scena: non c’è solo “il contrasto tra sentimento elegge, libertà e obbedienza, inconscio e norma”, ma la proposta dell’autore, assolutamente moderna, di una soluzione: “Da ogni conflitto si esce grazie a un sogno. Non importa se è destinato a cedere e crollare sotto il principio di realtà, anzi”.

Dal 19 febbraio al 10 marzo irrompe lo spirito napoletano  con “La grande magia”, di Eduardo De Filippo, interprete e regista Luca De Filippo, una commedia rappresentata soltanto da Eduardo e poi da Gorgio Strehler dal 1985. Scritto nel primo dopoguerra  con la disillusione verso un mondo che non guarda in faccia la realtà, mette in scena il rapporto tra realtà e illusione attraverso una  vicenda di tradimenti e pentimenti imperniata su una scatola magica.

 “La vita è un gioco – sono parole di Eduardo su “Il Dramma” del marzo 1950 – e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede… Ogni destino è legato ad altri destini in un gran gioco eterno del quale non ci è dato scorgere se non particolari irrilevanti”.

“Otello, con Massimo Dapporto

I 5 spettacoli della primavera 2013

Il “grande teatro”  non allenta la presa con l’arrivo della primavera, gli spettacoli  in cartellone sono nella fascia della grande offerta teatrale, quasi una chiamata a raccolta dei maggiori protagonisti per riportare  nella platea e nei palchi del Quirino chi ha tagliato un “superfluo” da rendere necessario.

Solo l’inizio è “leggero”, quasi un siparietto di vita familiare quanto mai attuale. Dal 12 al 24 marzo “Due di noi”, di Michael Frayn, con Lunetta  Savino ed Emilio Silfrizzi, regia di Leo Muscato, prodotto da Roberto Toni.  Tre atti unici, con paradossali ma emblematiche “scene da un matrimonio”: “Black and Silver“,  il confronto, tenero e amaro tra passato e presente; “Mr. Foot”, dialogo surreale con il piede del marito; “Chinamen”, il virtuosismo di cinque ruoli diversi degli stessi attori, in un meccanismo al limite della farsa con entrate e uscite fino al paradosso conclusivo.

Dalla commedia sulla coppia si passa al dramma sulla crisi dell’uomo dal 2 al 14 aprile con “La coscienza di Zeno”, adattamento di Tullio Kezich dal romanzo di Italo Svevo, interprete Giuseppe Pambieri, regia di Maurizio Scaparro. Si celebrano i 90 anni dalla pubblicazione del  romanzo, avvenuta nel 1923, sul tema eterno della vita come lotta e come “malattia”. E’ fonte di inquietudine e angoscia esistenziale che considera “la nostra coscienza un gioco comico e assurdo di autoinganni più o meno consapevoli”; ed è proprio l’autoconsapevolezza  a rendere più acuta la crisi  dell’uomo. Il romanzo fu portato sulle scene nell’adattamento di Kezich già nel 1964, interprete Alberto Lionello, seguito da Giulio Bosetti nel 1987 e Massimo Dapporto nel 2002. Sempre grandi successi.

Maurizio Scaparro è  regista anche del successivo spettacolo, dal 16 al 29 aprile, “La governante” di Vitaliano Brancati, con Pippo Pattavina e Giovanna di Rauso, anche qui una celebrazione, i 60 anni di un’opera, pubblicata nel 1952. la cui rappresentazione fu all’inizio vietata dalla censura perché “contraria alla morale. Ha detto  Scaparro, intervenendo alla presentazione, che “Zeno e la Governante sono  due facce della stessa medaglia”; e ha scritto che  “accese una querelle non solo letteraria e teatrale, ma civile e politica, nella quale è inevitabile cogliere nodi tuttora irrisolti in termini di intolleranza, negazione della libertà di espressione, perbenismo, mali cronici di una società che annega  nell’ipocrisia e si dibatte in un insanabile conflitto tra morale e pregiudizio”.  Anna Proclemer, moglie di Brancati e prima interprete, nel sottolineare come “sia morale rappresentare il caso di coscienza di un essere che si dibatte nelle spire di un vizio che non vuole accettare”, aggiunge in termini più generali: “O il teatro diventa specchio della nostra vita personale e segreta, ci rappresenta cioè a tutti i livelli, non soltanto a quelli intellettuali e ideologici, o saremo ridotti all’alienazione e alla nevrosi”. Non può ridursi soltanto ad “esercitazioni di stile”.

Resta altissimo il livello con l’opera in scena dal 2 al 12 maggio, “Il fu Mattia Pascal”, versione teatrale di Tato Russo, che è anche il regista, del romanzo di Luigi Pirandello, dieci attori  con in testa Katia Terlizzi. Il tema è ancora il rapporto con se stessi e con il mondo circostante, il protagonista risponde alle domande con le parole “Mi chiamo Mattia Pascal”. Si afferma nella presentazione che “così inizia il suo viaggio attraverso i vari modi d’apparire di se stesso a se stesso e agli altri, il viaggio tra gli intrighi di una vita moltiplicata forse all’infinito che ci impedisce  tra convenzioni e compromessi di capire chi siamo veramente. Alla ricerca dell’ES, dell’altra parte di sé, o della propria vera identità”. Per  ritrovare “la propria unica ragione d’esistere”.

Il “grande teatro”  si congeda dal 14 al 19 maggio con il passaggio del testimone da Pirandello ad Oscar Wilde, autore di “Un marito ideale”, con Valentina Sperti, Pietro Bontempo e Roberto Valerio che è anche regista. E’ una commedia che affronta con leggerezza un tema molto serio e quanto mai attuale, la corruzione politica e l’integrità dei governanti, e pone domande  anch’esse all’ordine del giorno quali: “E’ possibile una politica senza compromessi? La questione morale è un fatto privato o pubblico? Esiste ancora un limite, oltrepassato il quale, si prova vergogna delle proprie azioni?” Dal pubblico si passa al privato con le domande sull’amore: è rivolto a un’immagine di perfezione  oppure se questa viene meno è capace anche di comprensione?

Il viaggio intorno all’uomo nel cartellone 2012-13 del “Grande teatro” termina  così, coinvolgendo entrambe le dimensioni, quella pubblica e quella privata, nella realtà e nell’apparenza. “Iucunda oblivio vitae” e “Castigat ridendo mores” sono definizioni teatrali impresse  in noi dall’infanzia, erano iscrizioni sul cinemateatro “Apollo” a Teramo che ci facevano riflettere sin da allora. Torneranno valide in tempi migliori, come sembravano quelli della “Stagione del sorriso”, per ora la crisi ha chiamato a raccolta opere con le quali non si ride né si dimentica, ma si riflette.

E qui interviene l’effetto catartico con la sua azione rasserenante, in fondo lo stesso risultato. Per questo siamo grati a Geppy Gleijeses e alla nuova magia del suo Quirino-Vittorio Gassman.

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Biglietti interi comprensivi prevendita: platea euro 32, I balconata 26, II balconata 21, galleria 19: Abbonamenti in vendita dal 18 maggio (rinnovo da confermare entro l’8 settembre): 12 spettacoli a posto fisso  da galleria euro 125 a platea euro 290; 10 spettacoli a posto fisso da g. 110 a p. 270; 11 spettacoli sabato pomeriggio posto fisso da g. 110 a p. 250; card 7 spettacoli, data e posto liberi da g.  70 a p. 165; card 4 a data e posto libero da 95 a 110; card Giovani 6 spettacoli data e posto libero mar-mer-gio II balc. e gall. euro 50. Over 65 e under 26 prezzi ridotti del 15% ca. Tel. 06.6794585 – info 800.013.616; http://www.teatroquirino.it/   L’articolo precedente è stato pubblicato su questo sito, nella stessa data del presente articolo, con 4 immagini di protagonisti della stagione: Michele Placido Luca Barbareschi, Luca Lazzareschi e Luca De Filippo. .. 

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’ufficio stampa del teatro “Quirino-Vittorio Gassman”, che si ringrazia con i titolari dei diritti. In  apertura “Miseria e nobiltà”,  con Lorenzo Gleijeses, Lello Arena e Marianella Bargilli, seguono  “Rain men”  con Luca  Lazzareschi e “Otello, con Massimo Dapporto;  in chiusura “Cyrano di Bergerac” con Alessandro Preziosi. 

“Cyrano di Bergerac”,  con Alessandro Preziosi

Quirino, 1. Il teatro globale di Geppy Gleijeses

di Romano Maria Levante

Al Teatro Quirino-Vittorio Gassman di Roma, il 14 maggio 2012  si è svolta l’annuale presentazione della nuova stagione da parte del poliedrico Geppy Gleijeses, imprenditore teatrale, regista, attore, animatore impareggiabile. La platea del teatro rinnovato con la sua gestione dopo quella del disciolto ETI, affollata di giornalisti e soprattutto gente del teatro: presenti quasi tutti i protagonisti della nuova stagione, che hanno presentato al microfono i loro spettacoli. Ma prima  Geppy ha parlato del suo “teatro globale” che non lascia ma raddoppia pur in un periodo difficile.

Michele Placido in “Re Lear” 

Anche al Teatro Quirino di Geppy Gleijeses si è sentito il morso della crisi. A differenza dello scorso anno, nel quale la nuova stagione fu presentata all’insegna degli spettacolari risultati conseguiti nella gestione – raddoppio di spettatori, abbonamenti e incassi – di quest’anno è  stato dato solo un fotogramma, il dato del dicembre 2011 con lo straordinario 92% di utilizzazione dei  1000 posti disponibili. Ma, ha aggiunto Geppy,  l’escalation dello “spread” ha determinato il blocco degli abbonamenti, la gente ha tagliato legittimamente ciò che veniva ritenuto non indispensabile.

Cita l’ammonimento di Oscar Wilde: “Puoi fare a meno di tutto, tranne del superfluo”. E se molti spettatori non se la sono sentiti di seguirlo, la direzione del  Teatro Quirino lo ha fatto proprio. Soprattutto quando il “superfluo” ha nome “Quirinetta” e “Accademia Internazionale di Arte Drammatica”, “Autogestito” e “Teatro per i ragazzi”, fino a “Diversamente insieme” per il recupero degli emarginati attraverso il teatro praticato come attori e non solo frequentato come spettatori.

Per questo ci voleva la lampada di Aladino, il gigante buono nei panni di Willer Bordon per il ritorno del “Quirinetta” alla sua vocazione teatrale e soprattutto di Emmanuele F. M. Emanuele  per il contributo della Fondazione Roma alle iniziative culturali, estese così anche al teatro oltre che all’arte e letteratura, poesia e musica, in una collaborazione e sinergia nella quale la finanza si sposa allo spettacolo attraverso forme di partecipazione nel terzo settore ad onlus filantropiche.

Come abbia fatto Geppy a calarsi anche in questa parte, dopo quella di attore e regista, produttore e imprenditore teatrale è un mistero solo per chi non ne conosce le straordinarie capacità interpretative: è un modo di fare teatro nella vita impersonando personaggi sempre nuovi, come avviene sulla scena, con risultati tangibili sul piano culturale economico, sociale e umano.

Il suo “teatro globale” è anche questo, una continua trasposizione arte-vita proiettata nel concreto, con l’apertura agli altri nella promozione del suo grande amore per il teatro: un amore totale, che lo ha preso interamente, coinvolgendo altrettanto moglie, figlio e figlia, attori affermati o emergenti.

Non manca la quotidianità in tale concezione “globale” del teatro che tende a trasmettere  a tutti, spettatori e non. Per questo il suo non è un teatro che apre la sera per lo spettacolo per poi chiudere i battenti: resta aperto 18 ore su 24 per 330 giorni l’anno,  e offre adiacente alla storica gloriosa sala  un “bistrot”  con 250 posti sempre gremiti anche per i modici prezzi, e per essere diventato un luogo di incontro in cui darsi appuntamento. Fornito di una biblioteca con oltre 3000 titoli, allietato da una videoteca di film a soggetto teatrale, tutto a disposizione degli avventori che possono incontrare attori e gente del teatro, e magari gettare lo sguardo oltre i pesanti tendaggi dietro i quali si fanno le prove dello spettacolo serale. Un’immersione naturale nel mondo del teatro che lo fa sentire familiare, allontanando ogni forma di soggezione per un’arte aderente all’umanità più genuina.

Luca Barbareschi in “Il discorso del Re” 

L’Accademia internazionale di arte drammatica

Ci siamo resi conto ancora di più di questa caratteristica del teatro scorrendo il programma della “Scuola Internazionale di Arte Drammatica del Teatro Quirino-Vittorio Gassman”, che il contributo della Fondazione Roma ha fatto divenire realtà nel vicino Quirinetta. La dirige Alvaro Piccardi, storico collaboratore di Vittorio Gassman nella Bottega Teatrale di Firenze, vi insegnano stabilmente o partecipano a stage di approfondimento maestri della scena, citiamo solo i più noti al grande pubblico, da Ugo Pagliai a Michele Placido, dai fratelli Taviani a Francesco Pannolino, da Lello Arena a Geppy Gleijeses che non poteva mancare, viene dallo scuola di Eduardo! Si attinge a  maestri stranieri già docenti nel teatro Stabile di Calabria, che con Geppy gestisce il Quirino: anche qui solo alcuni nomi, Marilyn Fried, che partecipò alla fondazione dell’Actor’s Studio di New York, e Nikolaj Karpov, direttore del Gitis di Mosca, Lindsay Kemp e Yves Lebreton, Eimuntas Nekrosius e, per le nuove tendenze, l’Odin Teatret protagonista fisso della Mad Revolution.

Cosa ci ha colpito del programma, oltre a questi nomi? Dei tre anni di corso accademico tenuto al Quirinetta, cui possono accedere per concorso i minori di 40 anni, le 20 discipline nelle quali viene vivisezionata la materia teatrale nel primo anno sono concentrate sulla “conoscenza di sé intesa come conoscenza del proprio strumento di lavoro (il corpo) attraverso il rapporto con lo spazio e con la relazione con gli altri”. Da qui nasce una riflessione sulla profonda  “umanità”  del teatro: l’attore inizia a studiare “la padronanza dell’io” come opportunità espressiva, poi entra “in rapporto profondo con il proprio vissuto attraverso l’improvvisazione”; la scoperta dello spazio scenico passa attraverso “il rapporto con altri corpi nello spazio”,  ne deriva l’espressività e la “creatività come necessità scenica”, la dizione e l’espressione corporea, la voce naturale e la sua drammatizzazione. Il tutto  sfocerà quest’anno in un evento spettacolare, “La ballata del corpo incandescente”, in scena al Quirinetta il 16 e 17 giugno: gli allievi mostreranno i risultati del processo creativo vissuto; tra le dimostrazioni del lavoro compiuto si citano anche “Motiv-azioni” e “E’ un brusio la vita”.

Acquisita coscienza di sé e del proprio strumento di lavoro nel 1°anno propedeutico, l’allievo la mette al servizio del personaggio e della scena nel 2° anno di qualificazione, con lo studio dei linguaggi teatrali nella storia e con la recitazione e costruzione dei personaggi Al termine il saggio-spettacolo “Aspettando il futuro” curato da Rosa Masciopinto il 27-28 giugno 2012 al “Quirinetta”.

Nel 3° anno, di perfezionamento e  alta specializzazione, dopo la qualificazione, si approfondisce la storia del teatro e la drammaturgia anche in laboratori diretti da maestri della scena europea. Il risultato, oltre al diploma teatrale agli allievi, è stato un vero spettacolo per il teatro “Quirino” il 22 giugno: “La pazzia di Orlando”, a cura del direttore del corso Alvaro Piccardi, frutto di un laboratorio intensivo, spettacolo destinato anche a una breve tournée. C’è ancora dell’altro: è stato messo in scena ai teatri “Quirino” e “Quirinetta” a fine luglio, dai tre corsi unificati, un capolavoro di Giovan Battista Marino “poco conosciuto e mai rappresentato”, “Adone”,  con un evento curato da Sergio Basile, , “la maratona di Adone” dal tramonto all’alba del 14- 15 luglio tra i luoghi canonici  di questo “teatro globale”, il “Quirino”, il “Quirinetta”, la “Fondazione Roma”.

Luca Lazzareschi inRain Man” 

L’Autogestito, il Teatro ragazzi e non solo

Oltre al “superfluo” nell’accezione di Oscar Wilde che lo ritiene più necessario dell’indispensabile, il “teatro globale” di Gleijeses comprende l’“Autogestito” a cura di Mariannella Bargilli, dal 22 al 30  maggio 2012.  E’ stata una “Rassegna di teatro indipendente giovane curioso civile”,  dieci spettacoli, di cui 7 al Quirino e 3 al Quirinetta, offerti da compagnie di tutta Italia previa selezione: praticanti  di teatro per passione messi a contatto con i professionisti nella cornice d’eccezione di teatri storici, e con i tanti giovani spettatori che come nelle prime edizioni hanno affollato con entusiasmo gli “spalti”. Aperto il 22 maggio con “Suicidi? Tangentopoli in commedia”, di e con Bebo Storti e Fabrizio Coniglio. Bebo Storti ne ha parlato, lo scorso anno rappresentò l’uccisione di Calipari su cui si svolse un dibattito, questa volta protagonisti della discussione Antonio Di Pietro e Camillo Davigo. Degli altri  titoli, tra “Idoli” e “Rottami”,  colpisce “Come fu che in Italia scoppiò la rivoluzione ma nessuno se ne accorse”,  di Davide Carnevali, 28 maggio al “Quirinetta” e “La signora Baba e il suo servo Ruba”, 28 maggio al “Quirino”, dei  “Nim, Neutroni in movimento

Il “Teatro ragazzi”  è all’insegna del programma “Dire Fare Vedere Teatro”, per le fasce di età dalla scuola dell’obbligo alle superiori e per le loro famiglie: un’immersione nel mondo teatrale con laboratori e visite guidate, concorsi e incontri con i protagonisti.  Le scelte produttive vanno dalla letteratura per ragazzi ai classici del teatro fino a temi di attualità; l’intento è di unire al divertimento l’insegnamento dei valori fondamentali, lealtà e non violenza, integrazione e giustizia sociale, democrazia e uguaglianza, libertà e onestà; contro il bullismo e la discriminazione. Un titolo che abbiamo colto?  “I Promessi sposi”, non poteva mancare, è una summa di valori.

Ci sarà anche “In scena diversamente insieme”, il teatro praticato dagli emarginati per etnia, diversità, situazione personale con un posto di rilievo ai carcerati, anche con lunghe degenze di 30 anni e “fine pena mai”, vincitori dell’Orso d’Oro di Berlino con il film dei fratelli Taviani. C’è stato intanto un accenno, poi se n’è riparlato per l’importanza dell’iniziativa con la “Fondazione Roma”.

Invece non si è neppure accennato alla “Mad Revolution”, il festival delle avanguardie teatrali degli ultimi due anni. Alla presentazione era “lo spettacolo che non c’è”, abbiamo chiesto notizie al suo animatore e direttore dell’Area Sperimentale Lorenzo Gleijeses. Il programma è allo studio, ci ha detto, si prevede di trasferirlo al “Quirinetta”. Lorenzo era in camicia bianca da attore, non più nella canottiera di tendenza dello scorso anno quando presentò la “Mad Revolution”. Nella nuova stagione è il principe di Homburg nell’omonimo dramma di Heinrich von Kleist; e con questa citazione entriamo nel cartellone del quale parleremo prossimamente. Aggiungiamo che Lorenzo è protagonista anche in 2 degli 8 spettacoli prodotti o coprodotti, altro aspetto del “teatro globale”;  in 3 dei restanti 6 c’è Geppy  con Mariannella Bargilli, che è protagonista da sola in un altro spettacolo. Un pizzico di orgoglio anche per questo exploit familiare quando Geppy ha ringraziato, citando tutti coloro che rendono vivo e vincente il suo coraggioso e sorprendente “teatro globale”.

Info:

Per gli spettacoli al “Quirino”: Biglietti interi comprensivi prevendita: platea euro 32, I balconata 26, II balconata 21, galleria 19: Abbonamenti in vendita dal 18 maggio (rinnovo da confermare entro l’8 settembre): 12 spettacoli a posto fisso da galleria euro 125 a platea euro 290; 10 spettacoli a posto fisso da g. 110 a p. 270; 11 spettacoli sabato pomeriggio posto fisso da g. 110 a p. 250; card 7 spettacoli, data e posto liberi da g. 70 a p. 165; card 4 a data e posto libero da 95 a 110; card Giovani 6 spettacoli data e posto libero mar-mer-gio II balc. e gall. euro 50. Over 65 e under 26 prezzi ridotti del 15% ca. Tel. 06.6794585 – info 800.013.616; www.teatroquirino.it.  Il secondo e ultimo articolo del servizio in questo sito, nella stessa data, è dedicato al cartellone del teatro Quirino dal titolo “Il Grande Teatro”.

Foto

Le immagini degli spettacoli della stagione 2012-13 sono state fornite cortesemente dall’ufficio stampa del teatro “Quirino-Vittorio Gassman”, che si ringrazia con i titolari dei diritti. In apertura, Michele Placido in“Re Lear”; seguono, Luca Barbareschi in“Il discorso del Re“, poi, Luca Lazzareschi inRain man”; in chiusura, Luca De Filippo in  “La grande magia”.

Luca De Filippo in  “La grande magia”

Tagore, l'”ultimo raccolto” del poeta pittore, alla Gnam

di Romano Maria Levante

“The Last Harvest”, la mostra di pittura di Tagore, tenuta a Roma,  alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 29 marzo al 27 maggio 2012, curata da R. Siva Kumar della Visva Bharati University, ha presentato per la prima volta in Italia 100 dipinti provenienti dall’archivio Rabindra Bhavana e dal Kala Bhavan Museum. E’ l'”ultimo raccolto” artistico del grande poeta e scrittore indiano, uomo di teatro e musicista, divenuto pittore dopo i 60 anni con straordinaria creatività. La mostra era  in 4 sezioni con immagini suggestive di animali e paesaggi, personaggi e ritratti.

Parlare subito delle opere come si fa per i pittori senza soffermarsi sulla loro vita sarebbe lacunoso perché Rabindranath Tagore cominciò ad esprimersi in forma pittorica solo nel 1924, a 64 anni, mentre nell’arte letteraria era stato precoce, le prime poesie uscirono a soli 14 anni, mezzo secolo  prima, a 20 anni la raccolta “Canti del mattino” seguita da un’altra “Canti della sera”. Nel 1913 il Premio Nobel per la letteratura grazie ai suoi poemi religiosi “Gitanjali” che lo resero famoso in Usa e in Europa. Fondò la scuola di “Santiniketan”, trasformandola nel 1921 nell'”Università internazionale Visna Barati”, fu presidente del Congresso filosofico delle Indie e con i suoi scritti  anticonvenzionali incise sulla letteratura e la lingua della sua terra, il Bengala, e dell’India. Nato in una famiglia di antica nobiltà, i fratelli scrittori e musicisti, la sorella autrice di romanzi e racconti; lui poeta  e romanziere, scrittore di racconti e opere teatrali, saggista e compositore  e infine pittore.

Alla presentazione della mostra, nel quadro delle celebrazioni per il 150° anno dalla sua nascita nel 1861 che ha coinciso con il 150° dell’Unità d’Italia, ha fatto gli onori di casa la soprintendente della Galleria Maria Vittoria Marini Clarelli ed è intervenuto, oltre al curatore Siva Kumar in abito tradizionale indiano, l’ambasciatore dell’India in Italia, Shri Debabrata Saha. Ci siamo sentiti di  collegare il riconoscimento a Tagore al momento particolare dei rapporti tra i nostri paesi per la vicenda dei marò arrestati, apprezzando la presenza dell’ambasciatore con l’auspicio di una pronta riconciliazione: ha risposto che questo era nello spirito del grande Tagore, del resto sappiamo che ha ricercato sempre la sintesi, anche tra Oriente e d Occidente, per raggiungere verità universali.

Ci limitiamo a questi pochi tratti, il solo accennare ai suoi temi filosofici e alle sue opere di poeta, scrittore e autore di teatro porterebbe molto lontano, ne parla diffusamente il numero speciale del 2010 della rivista “India – Perspectives” a lui dedicato con  24 articoli sui singoli temi illustrati da fotografie e riproduzioni dei suoi dipinti, sintesi efficace di un autore dalla bibliografia sconfinata.

Alcuni tratti sull’opera pittorica

Sulla sua pittura va premesso che, oltre ad iniziare in tarda età, si pose al di fuori degli schemi della produzione artistica indiana per cui non fu apprezzato subito nel suo paese, tutt’altro. Ma nel 1930  ci fu la prima mostra a Parigi, poi itinerante tra l’Europa e l’America, e i suoi dipinti furono esposti a Londra e Berlino, Monaco e New York, nel 1931 a Philadelphia. Una lunga serie di viaggi in questi paesi lo mette a contatto in modo sempre più stretto con l’arte occidentale, l’espressionismo e il fauvismo erano le correnti più avanzate, se ne sentono gli influssi nelle sue composizioni.

Era molto legato alla sua terra da cui traeva l’ispirazione, e lo dichiarava; tuttavia il suo pensiero ha avuto diffusione in tutto il mondo forse per la continua ricerca di un tema unificante, una verità universale attraverso le varie forme d’arte letteraria e musicale, infine visiva da lui praticate.

Un’impostazione la sua che va molto oltre la scelta stilistica e di contenuto nell’opera pittorica, a stare a quanto scriveva nel 1917 in “My Reminiscenses”, sette anni prima delle sue iniziali opere grafiche. C’è la compresenza e insieme il contrasto tra la parte esteriore e quella interiore, anche la Chiesa parla di “foro esterno” e “foro interno”. All’esterno gli eventi, all’interno le immagini che vi si riflettono: “I due aspetti corrispondono ma non sono la stessa cosa. Non abbiamo la possibilità di vedere con chiarezza questo mondo di immagini all’interno di noi. Una piccola porzione, di quando in quando, attrae la nostra attenzione, ma la maggior parte rimane in ombra, fuori dalla nostra vita”. E a proposito di chi dipinge  “le immagini sulle tele della memoria” scrive:  “Non sta lì con il suo pennello semplicemente  a replicare ciò che accade. Prende e toglie a seconda del suo gusto e, ingigantendo e rimpicciolendo a suo piacimento, non ha imbarazzi a mettere nello sfondo ciò che  era in primo piano. In altre parole, dipinge immagini, non scrive la storia”.

Due anni dopo, per il “Centre of Indian Culture”, scriveva: “E’ bene ricordare che le grandi epoche della rinascita nella storia furono quelle in cui l’uomo scoprì all’improvviso i semi del pensiero nel granaio del passato. Coloro che, sfortunati, hanno perduto il raccolto del passato, hanno perso il loro presente”. Crediamo che sia nata da queste sue parole  l’intitolazione  della mostra “The Last Harvest”, cioè  l’ultimo raccolto: la sua espressione pittorica ha coperto i 17 anni conclusivi di vita, il periodo appunto del raccolto finale del suo passato come dei precursori nel granaio della storia. Per questo la visita alle opere, guidata dal curatore R. Siva Kumar della “Visva Barati University” creata da Tagore, è stata una retrospettiva della sua ispirazione e un vero compendio spirituale.

Le 4 sezioni: animali  e paesaggi, figure e volti

Per chi, come noi, si poneva il problema del rapporto tra scrittura letteraria e rappresentazione pittorica, il curatore ha rivelato che i suoi primi dipinti derivano dagli scarabocchi sui manoscritti per dare un senso estetico alle cancellature in un a sorta di “giocosa inventiva”.  Comincia con gli animali, veri o immaginari,  poi il paesaggio con la solitudine e quindi, in progressione, l’essere umano come corpo e gestualità, fino a concentrarsi sui visi  alternando le maschere ai ritratti.

I suoi dipinti, per lo più a inchiostro colorato e acquarello di piccolo-medio formato, sono senza riferimenti espliciti, né date né titoli: è un narrazione che lascia libero l’interprete, cosa che ne accresce il valore universale, sganciato dalle contingenze locali e temporali. La selezione presentata, del tutto inedita nel nostro paese, è una piccola parte del vasto “corpus” pittorico di 1600 opere nel Rabindra Bhavana e di un centinaio al Kala Bhavan Museum, entrambi prestatori della mostra. I fondi sono per lo più scuri, i colori densi e pastosi, le immagini dai contorni netti e precisi.

Ecco la prima sezione, con 20 pitture ispirate ad animali rappresentati in forme primitive quasi  totemiche, alcune richiamano figure reali, altre esseri fantastici. Linee continue e curve o spezzate bruscamente, posizioni erette o forme stilizzate; espressioni  fiere o meste, gioiose o imploranti. Colpiscono gli occhi spalancati del pappagallo e l’atteggiamento tenero del piccolo rispetto alla madre accigliata. Un bestiario particolare, dunque, con dei sentimenti che avvicinano il mondo animale all’umanità, nel sincretismo universale di Tagore, uomo di pensiero..

Dagli animali ai paesaggi nella seconda sezione, con 13 dipinti accomunati dalla severità dell’ambiente, non riconoscibile sebbene nel giallo del cielo dietro gli alberi di alcuni quadri siano stati visti fenomeni naturali a Santiniketan. Gli alberi dalla chioma folta hanno un colore molto scuro che ispira protezione mista ad oppressione. In alcuni dipinti alla staticità subentrano altri motivi: il senso del ritmo, come nei due alberi, questa volta dal fogliame rado,  piegati dal vento; il senso dell’equilibrio che manca nel tempietto con colonne e scalinata visibilmente sbilanciato.

La terza sezione, dedicata alle figure umane, ha occupato un corridoio con 15 dipinti e la sala successiva con altri 16 dipinti.  Anche qui, come negli animali, qualcosa di totemico, di grande fascino nelle tinte scure e intense anche con rossi e blu molto carichi, e nelle forme arcaiche nette e decise. C’è molta attenzione alla gestualità, di tipo quasi teatrale. Le figuresi stagliano per i contrasti coloristici, non si intravedono riferimenti ad opere letterarie  e neppure ad eventi riconoscibili; assumono un valore simbolico di ricerca spirituale, dalla riflessione interiore alla meditazione. Si vedono divinità, figure singole e gruppi  che sembrano immersi in preghiera.

Nella quarta sezione, come in un “blow up” cinematografico, dopo gli animali, l’ambiente e le figure, l’obiettivo dell’artista si posa sui volti, ne vediamo ben 30, i chiaroscuri e i contrasti cromatici sono ancora più intensi;  ritratti molto particolari che diventano in alcuni casi maschere quasi teatrali. Anche qui, tuttavia,  nessun riferimento esplicito, come per le figure della sezione precedente: sono studi di personaggi piuttosto che tratti colti sul momento. Le espressioni sempre intense, siano cupe e aggrottate oppure calme e distese,  rimandano alla personalità del soggetto ma lasciano un senso di mistero come se la personalità più profonda non fosse raggiungibile.

In fondo, il sentimento che resta dopo l’immersione nel mondo pittorico di Tagore è il senso del mistero; a ciò concorre una certa cupezza espressiva e l’aspetto  primitivo e totemico che dà a tante immagini l’aspetto di vere e proprie icone. Ma questa non è l’espressione di una mentalità contemplativa, Tagore aeva un atteggiamento orientato all’azione alimentata dalla sua fede nell’umanesimo universale; e neppure di una visione pessimistica, diceva “ho sviluppato una mia idea personale dell’ottimismo”, nel senso di non accanirsi ma cercare la “porta” giusta o costruirla.

E allora qual è la logica complessiva? Forse la si trova nel suo concetto di “raccolto”, nell’esigenza di  attingere sempre al “granaio del passato”, al quale ci riportano le sue forme arcaiche e totemiche:  “Qualcosa di straordinario avverrà, indipendentemente da quanto sia oscuro il presente”, ha detto una volta con l’ottimismo della volontà che deve prevalere sul pessimismo della ragione. Riferendo le sue immagini dal cromatismo scuro e dalle espressioni  tese e nervose  al “granaio del passato” si può conciliare l’espressione pittorica all’ottimismo di base.  Che lo ha portato a dire: “Ho dormito e sognato che la vita è gioia. Mi sono risvegliato ed ho visto che la vita è servizio. Ho servito ed ecco, il servizio è gioia”. Una grande insegnamento per tutti, una vera lezione del professor Tagore.

Info

Visite alle mostre permanenti e temporanee della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Viale delle Belle Arti 131: da martedì a domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, biglietteria aperta fino alle ore 18,45. Ingresso: intero euro 10,00, ridotto 8,00. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Gnam alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria e l’organizzazione, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.

di Romano Maria Levante

“The Last Harvest”, la mostra di pittura di Tagore, tenuta a Roma,  alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 29 marzo al 27 maggio 2012, curata da R. Siva Kumar della Visva Bharati University, ha presentato per la prima volta in Italia 100 dipinti provenienti dall’archivio Rabindra Bhavana e dal Kala Bhavan Museum. E’ l'”ultimo raccolto” artistico del grande poeta e scrittore indiano, uomo di teatro e musicista, divenuto pittore dopo i 60 anni con straordinaria creatività. La mostra era  in 4 sezioni con immagini suggestive di animali e paesaggi, personaggi e ritratti.

Parlare subito delle opere come si fa per i pittori senza soffermarsi sulla loro vita sarebbe lacunoso perché Rabindranath Tagore cominciò ad esprimersi in forma pittorica solo nel 1924, a 64 anni, mentre nell’arte letteraria era stato precoce, le prime poesie uscirono a soli 14 anni, mezzo secolo  prima, a 20 anni la raccolta “Canti del mattino” seguita da un’altra “Canti della sera”. Nel 1913 il Premio Nobel per la letteratura grazie ai suoi poemi religiosi “Gitanjali” che lo resero famoso in Usa e in Europa. Fondò la scuola di “Santiniketan”, trasformandola nel 1921 nell'”Università internazionale Visna Barati”, fu presidente del Congresso filosofico delle Indie e con i suoi scritti  anticonvenzionali incise sulla letteratura e la lingua della sua terra, il Bengala, e dell’India. Nato in una famiglia di antica nobiltà, i fratelli scrittori e musicisti, la sorella autrice di romanzi e racconti; lui poeta  e romanziere, scrittore di racconti e opere teatrali, saggista e compositore  e infine pittore.

Alla presentazione della mostra, nel quadro delle celebrazioni per il 150° anno dalla sua nascita nel 1861 che ha coinciso con il 150° dell’Unità d’Italia, ha fatto gli onori di casa la soprintendente della Galleria Maria Vittoria Marini Clarelli ed è intervenuto, oltre al curatore Siva Kumar in abito tradizionale indiano, l’ambasciatore dell’India in Italia, Shri Debabrata Saha. Ci siamo sentiti di  collegare il riconoscimento a Tagore al momento particolare dei rapporti tra i nostri paesi per la vicenda dei marò arrestati, apprezzando la presenza dell’ambasciatore con l’auspicio di una pronta riconciliazione: ha risposto che questo era nello spirito del grande Tagore, del resto sappiamo che ha ricercato sempre la sintesi, anche tra Oriente e d Occidente, per raggiungere verità universali.

Ci limitiamo a questi pochi tratti, il solo accennare ai suoi temi filosofici e alle sue opere di poeta, scrittore e autore di teatro porterebbe molto lontano, ne parla diffusamente il numero speciale del 2010 della rivista “India – Perspectives” a lui dedicato con  24 articoli sui singoli temi illustrati da fotografie e riproduzioni dei suoi dipinti, sintesi efficace di un autore dalla bibliografia sconfinata.

Alcuni tratti sull’opera pittorica

Sulla sua pittura va premesso che, oltre ad iniziare in tarda età, si pose al di fuori degli schemi della produzione artistica indiana per cui non fu apprezzato subito nel suo paese, tutt’altro. Ma nel 1930  ci fu la prima mostra a Parigi, poi itinerante tra l’Europa e l’America, e i suoi dipinti furono esposti a Londra e Berlino, Monaco e New York, nel 1931 a Philadelphia. Una lunga serie di viaggi in questi paesi lo mette a contatto in modo sempre più stretto con l’arte occidentale, l’espressionismo e il fauvismo erano le correnti più avanzate, se ne sentono gli influssi nelle sue composizioni.

Era molto legato alla sua terra da cui traeva l’ispirazione, e lo dichiarava; tuttavia il suo pensiero ha avuto diffusione in tutto il mondo forse per la continua ricerca di un tema unificante, una verità universale attraverso le varie forme d’arte letteraria e musicale, infine visiva da lui praticate.

Un’impostazione la sua che va molto oltre la scelta stilistica e di contenuto nell’opera pittorica, a stare a quanto scriveva nel 1917 in “My Reminiscenses”, sette anni prima delle sue iniziali opere grafiche. C’è la compresenza e insieme il contrasto tra la parte esteriore e quella interiore, anche la Chiesa parla di “foro esterno” e “foro interno”. All’esterno gli eventi, all’interno le immagini che vi si riflettono: “I due aspetti corrispondono ma non sono la stessa cosa. Non abbiamo la possibilità di vedere con chiarezza questo mondo di immagini all’interno di noi. Una piccola porzione, di quando in quando, attrae la nostra attenzione, ma la maggior parte rimane in ombra, fuori dalla nostra vita”. E a proposito di chi dipinge  “le immagini sulle tele della memoria” scrive:  “Non sta lì con il suo pennello semplicemente  a replicare ciò che accade. Prende e toglie a seconda del suo gusto e, ingigantendo e rimpicciolendo a suo piacimento, non ha imbarazzi a mettere nello sfondo ciò che  era in primo piano. In altre parole, dipinge immagini, non scrive la storia”.

Due anni dopo, per il “Centre of Indian Culture”, scriveva: “E’ bene ricordare che le grandi epoche della rinascita nella storia furono quelle in cui l’uomo scoprì all’improvviso i semi del pensiero nel granaio del passato. Coloro che, sfortunati, hanno perduto il raccolto del passato, hanno perso il loro presente”. Crediamo che sia nata da queste sue parole  l’intitolazione  della mostra “The Last Harvest”, cioè  l’ultimo raccolto: la sua espressione pittorica ha coperto i 17 anni conclusivi di vita, il periodo appunto del raccolto finale del suo passato come dei precursori nel granaio della storia. Per questo la visita alle opere, guidata dal curatore R. Siva Kumar della “Visva Barati University” creata da Tagore, è stata una retrospettiva della sua ispirazione e un vero compendio spirituale.

Le 4 sezioni: animali  e paesaggi, figure e volti

Per chi, come noi, si poneva il problema del rapporto tra scrittura letteraria e rappresentazione pittorica, il curatore ha rivelato che i suoi primi dipinti derivano dagli scarabocchi sui manoscritti per dare un senso estetico alle cancellature in un a sorta di “giocosa inventiva”.  Comincia con gli animali, veri o immaginari,  poi il paesaggio con la solitudine e quindi, in progressione, l’essere umano come corpo e gestualità, fino a concentrarsi sui visi  alternando le maschere ai ritratti.

I suoi dipinti, per lo più a inchiostro colorato e acquarello di piccolo-medio formato, sono senza riferimenti espliciti, né date né titoli: è un narrazione che lascia libero l’interprete, cosa che ne accresce il valore universale, sganciato dalle contingenze locali e temporali. La selezione presentata, del tutto inedita nel nostro paese, è una piccola parte del vasto “corpus” pittorico di 1600 opere nel Rabindra Bhavana e di un centinaio al Kala Bhavan Museum, entrambi prestatori della mostra. I fondi sono per lo più scuri, i colori densi e pastosi, le immagini dai contorni netti e precisi.

Ecco la prima sezione, con 20 pitture ispirate ad animali rappresentati in forme primitive quasi  totemiche, alcune richiamano figure reali, altre esseri fantastici. Linee continue e curve o spezzate bruscamente, posizioni erette o forme stilizzate; espressioni  fiere o meste, gioiose o imploranti. Colpiscono gli occhi spalancati del pappagallo e l’atteggiamento tenero del piccolo rispetto alla madre accigliata. Un bestiario particolare, dunque, con dei sentimenti che avvicinano il mondo animale all’umanità, nel sincretismo universale di Tagore, uomo di pensiero..

Dagli animali ai paesaggi nella seconda sezione, con 13 dipinti accomunati dalla severità dell’ambiente, non riconoscibile sebbene nel giallo del cielo dietro gli alberi di alcuni quadri siano stati visti fenomeni naturali a Santiniketan. Gli alberi dalla chioma folta hanno un colore molto scuro che ispira protezione mista ad oppressione. In alcuni dipinti alla staticità subentrano altri motivi: il senso del ritmo, come nei due alberi, questa volta dal fogliame rado,  piegati dal vento; il senso dell’equilibrio che manca nel tempietto con colonne e scalinata visibilmente sbilanciato.

La terza sezione, dedicata alle figure umane, ha occupato un corridoio con 15 dipinti e la sala successiva con altri 16 dipinti.  Anche qui, come negli animali, qualcosa di totemico, di grande fascino nelle tinte scure e intense anche con rossi e blu molto carichi, e nelle forme arcaiche nette e decise. C’è molta attenzione alla gestualità, di tipo quasi teatrale. Le figuresi stagliano per i contrasti coloristici, non si intravedono riferimenti ad opere letterarie  e neppure ad eventi riconoscibili; assumono un valore simbolico di ricerca spirituale, dalla riflessione interiore alla meditazione. Si vedono divinità, figure singole e gruppi  che sembrano immersi in preghiera.

Nella quarta sezione, come in un “blow up” cinematografico, dopo gli animali, l’ambiente e le figure, l’obiettivo dell’artista si posa sui volti, ne vediamo ben 30, i chiaroscuri e i contrasti cromatici sono ancora più intensi;  ritratti molto particolari che diventano in alcuni casi maschere quasi teatrali. Anche qui, tuttavia,  nessun riferimento esplicito, come per le figure della sezione precedente: sono studi di personaggi piuttosto che tratti colti sul momento. Le espressioni sempre intense, siano cupe e aggrottate oppure calme e distese,  rimandano alla personalità del soggetto ma lasciano un senso di mistero come se la personalità più profonda non fosse raggiungibile.

In fondo, il sentimento che resta dopo l’immersione nel mondo pittorico di Tagore è il senso del mistero; a ciò concorre una certa cupezza espressiva e l’aspetto  primitivo e totemico che dà a tante immagini l’aspetto di vere e proprie icone. Ma questa non è l’espressione di una mentalità contemplativa, Tagore aeva un atteggiamento orientato all’azione alimentata dalla sua fede nell’umanesimo universale; e neppure di una visione pessimistica, diceva “ho sviluppato una mia idea personale dell’ottimismo”, nel senso di non accanirsi ma cercare la “porta” giusta o costruirla.

E allora qual è la logica complessiva? Forse la si trova nel suo concetto di “raccolto”, nell’esigenza di  attingere sempre al “granaio del passato”, al quale ci riportano le sue forme arcaiche e totemiche:  “Qualcosa di straordinario avverrà, indipendentemente da quanto sia oscuro il presente”, ha detto una volta con l’ottimismo della volontà che deve prevalere sul pessimismo della ragione. Riferendo le sue immagini dal cromatismo scuro e dalle espressioni  tese e nervose  al “granaio del passato” si può conciliare l’espressione pittorica all’ottimismo di base.  Che lo ha portato a dire: “Ho dormito e sognato che la vita è gioia. Mi sono risvegliato ed ho visto che la vita è servizio. Ho servito ed ecco, il servizio è gioia”. Una grande insegnamento per tutti, una vera lezione del professor Tagore.

Info

Visite alle mostre permanenti e temporanee della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Viale delle Belle Arti 131: da martedì a domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, biglietteria aperta fino alle ore 18,45. Ingresso: intero euro 10,00, ridotto 8,00. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Gnam alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria e l’organizzazione, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.

Papi della memoria, arte e papato, a Castel Sant’Angelo

di Romano Maria Levante

A Roma, Castel Sant’Angelo,  dal 28 giugno all’8 dicembre 2012 la mostra “I Papi della memoria” illustra la storia di alcuni grandi Pontefici della Chiesa come guide spirituali della Cristianità e promotori culturali attraverso un centinaio di documenti storici e opere d’arte provenienti dalle raccolte vaticane e da principali musei italiani. La mostra, organizzata dal Centro europeo per il Turismo di Giuseppe Lepore e dalla Soprintendenza museale di Roma di Rossella Vodret,  si avvale di un Comitato scientifico presieduto da Antonio Paolucci ed è curata da Mario Lolli Ghetti. E’ articolata in 8 sezioni in senso diacronico, dal 1° Anno santo del 1300 all’ultimo del 2000. Sono esposte, come avviene ogni anno, anche opere recuperate dalle forze dell’Ordine.

La carrellata artistico-culturale sui grandi Pontefici ha qualcosa di più del respiro storico, entra nel campo spirituale evocando il messaggio universale della chiesa “urbi et orbi”  che  investe la fede e l’arte, la cultura e la politica. Dalla sede romana il messaggio si è irradiato nello spazio e nel tempo con alcuni momenti fondamentali costituiti dai Giubilei e dai Concili, testimoniati dai documenti esibiti e dalle opere d’arte esposte,  nel segno di un mecenatismo raffinato e lungimirante.

Due elementi emergono in tutta evidenza: il ruolo centrale di Roma come centro di dottrina e fonte dell’arte; la forza della cultura come linguaggio utilizzato nella  missione universale della Chiesa e nel suo progetto politico: di qui gli interventi nell’urbanistica e la passione per l’antico, il collezionismo e la committenza di eccelse opere d’arte ai più grandi artisti succedutisi nel tempo.

Il ruolo dominante di Roma, iniziato con l’impero romano, assume una diversa fisionomia con la Roma cristiana  da Costantino ai giorni nostri. Questo è avvenuto  nel corso dei secoli – come ha detto  mons. Lorenzo Baldisseri, segretario della Congregazione dei Vescovi del Collegio cardinalizio e del Conclave  – “attraverso un’istituzione imponente, quella del Papato, che è divenuto l’asse portante della fede cristiana, della cultura, della politica e dell’arte, caratterizzante la civilizzazione occidentale”.

Per rendere questo cammino di 700 anni riproponendo il linguaggio dell’arte e il respiro della storia nei limiti di una mostra, pur vasta e rappresentativa, si è dovuto procedere alla drastica selezione dell’immenso materiale disponibile nel campo dell’arte e della letteratura, dell’architettura e dell’urbanistica, della religione e della politica. Il risultato è accompagnare il visitatore nel viaggio di fede e di vita, d’arte e di cultura nell’itinerario segnato dai grandi Pontefici. Le tappe di questo viaggio corrispondono alle 8 sezioni della mostra. L’esposizione è nell’incomparabile cornice di Castel Sant’Angelo, il museo è  nei locali che confinano con la terrazza superiore dalla vista mozzafiato, la collocazione aggiunge un fascino incomparabile alla suggestione di arte e storia.

700 anni di papato nelle 8 sezioni della mostra

Le 8 sezioni sono ricche di opere d’arte e di documenti e reperti preziosi, ma invece di inoltrarci in una velleitaria descrizione di un materiale tanto vasto, preferiamo dare un quadro sia pur sommario delle fasi che evocano, tutte percorse da eventi storici o artistici che lasciano il segno.

Un inizio di grande effetto, “Il primo Giubileo del 1300”, del quale mons. Baldisseri dice allusivamente “indetto proprio da lui, Papa Caetani, ben noto tra l’altro e in altro senso, sin dai nostri studi liceali della Divina Commedia”; nella quale, aggiungiamo, il sommo poeta, oltre a mettere all’inferno Bonifacio VIII ancora in vita, dà un marchio infamante a a papa  Celestino V,  l’eremita Pietro da Morrone strappato dal suo eremo tra i monti d’Abruzzo per le mene ecclesiastiche,  il cui “gran rifiuto” non fu “per viltade” ma per coerenza, e ciononostante lasciò il segno, tra l’altro ideando lui il Giubileo. Il grande afflusso di pellegrini per l’Anno Santo mise Roma al centro della cristianità e pose le basi per riaffermare il primato assoluto del papa.

Nella 2^ sezione, dedicata alla “Roma rinascimentale e umanista”,  questo primato si riflette nelle opere esposte, con Martino V dei Colonna, Paolo II Barbo e Sisto V della Rovere  che donò alla cittadinanza romana i bronzi della Lupa, dello Spinario  e del Camillo. Dopo la fine dell’esilio avignonese e dello scisma di Occidente la forza del papato si manifestò anche in campo artistico e culturale, papa Niccolò V fondò la Biblioteca Apostolica Vaticana e promosse il collezionismo e l’arte giubilare, siamo al 1450, Paolo II promosse il collezionismo antiquario, e sul nucleo della donazione di Sisto V nacquero i Musei Capitolini. 

La Roma rinascimentale è celebrata nella 3^ sezione, che pone l’accento sulla “Roma universale. Restauratio Urbis”: vi sono impegnati i più grandi artisti del Rinascimento, da Michelangelo a Raffaello, nelle  grandi iniziative  attivate dal mecenatismo dei papi Giulio II e Leone X Medici. E’ una Roma definita “fastosa e pagana”, che cerca collegamenti sempre più stretti con la Roma antica; finché il sacco del 1527  segna una drammatica cesura nella vita civile e artistica della città, diventata un deserto per l’abbandono della popolazione e degli artisti. Ma fu una parentesi, con Clemente VII Medici  che soffrì direttamente l’oltraggio dei Lanzichenecchi alla città eterna, ci fu anche la rinascita,  la città si ripopola, tornano gli artisti.

Alla crisi politica si aggiunge quella religiosa, con Lutero e la Riforma, cui il papato reagisce. Ne dà conto la 4^ sezione su “Roma della Controriforma”, con il Concilio di Trento indetto da Paolo III Farnese, grande collezionista. Le iniziative vanno dalla sistemazione urbanistica  alla riforma del calendario giuliano, e soprattutto ai grandi cicli decorativi. Basta per tutti il Giudizio Universale di Michelangelo.  L’esposizione presenta una carrellata evocativa di grande fascino e interesse.

“Roma triunphans. Il trionfo del barocco”  si intitola la 5^ sezione. Spicca l’opera di grandi architetti come Bernini e Borromini nella trasformazione urbanistica e monumentale mirata a renderla sempre più attraente e accogliente per i pellegrini e sempre più degna del suo ruolo universale di centro della cristianità, rispondente alla definizione di Giovanni Paolo II “Roma ospitale, madre e compagna di viaggio”.  L’arte e la fede appaiono in simbiosi sempre più stretta, mentre i problemi nascono nel progresso della scienza, dalla difficile convivenza tra fede e ragione.

Con la valorizzazione dell’antico si sviluppano le Accademie e con esse il “Classicismo arcadico” al quale è dedicata le 6^ sezione. Roma attrae i visitatori colti, non più solo i pellegrini, si diffonde lo studio della classicità in quel grande museo all’aperto che è la città eterna, Cristina di Svezia si segnala come animatrice dei circoli culturali e promotrice dello sviluppo dell’arte in contatto con i più grandi talenti. Viene illustrata anche l’opera dei papi nella tutela del patrimonio archeologico messo in luce dagli scavi, che con le donazioni viene fatto affluire ai Musei Capitolini.

Il tempo scorre, siamo nell”800, la 7^ sezione, intitolata “La Restaurazion e pontificia” dà l’illustrazione di come i papi hanno affrontato i complessi problemi dell’epoca in campo politico-sociale oltre che religioso. Dopo la Rivoluzione francese, Napoleone e la pace di Vienna, Pio IX  è alle prese con la fine del potere temporale segnata dalla breccia di Porta Pia; viene proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione, ma anche i temi sociali sono in primo  piano, Leone XIII dedicherà loro l’enciclica “Rerum novarum” che rappresenterà una pietra miliare in materia; la dottrina sociale della Chiesa si consolida con l’azione di Giuseppe Toniolo, da poco beatificato, che animò l’Opera dei Congressi,le Settimane sociali e apposite fondazioni e istituti per il sociale.

“Verso il Giubileo del 2000. All’approssimarsi del Terzo Millennio” è il titolo dell’8^ ed ultima sezione della mostra. Si comincia da Pio XI, cui si devono  i Patti lateranensi  e il Concordato con cui si chiuse la “questione romana” e la Chiesa poté  dedicarsi interamente alla sua missione religiosa. In campo culturale fu fondato il Museo Etnografico Missionario, successivamente Pio XII promosse gli scavi archeologici sotto la basilica di San Pietro. Con Giovanni XXIII, che ne fu l’ispirato promotore  e  Paolo VI  che lo portò a conclusione, Roma è protagonista del Concilio Vaticano II, la “rivoluzione copernicana”  che segna “la fine del Medioevo nella liturgia” e non solo,  rendendo la Chiesa più aderente alla sua vocazione missionaria. Sarà Giovanni Paolo II, dopo la fugace parentesi di papa Giovanni Paolo I, a portare la chiesa nel “novo millennio ineunte” – così il relativo documento programmatico – con il Giubileo del 2000  aperto al mondo dei giovani. Gli ultimi papi sono stati vicini agli artisti in modo diverso dal mecenatismo rinascimentale ma con efficacia e convinzione. Paolo VI, oltre a promuovere opere come l’Aula delle udienze, che ha il suo nome, dove spicca la “Resurrezione” di Fazzini, e il Museo d’arte Moderna ai Musei Vaticani, rivolse agli artisti in Cappella Sistina il 7 maggio 1964 una memorabile allocuzione; altrettanto hanno fatto Giovanni Paolo II  nel 1999 con la “Lettera agli artisti” e Benedetto XVI nel decennale della lettera il 21 novembre 2009 nella Cappella Sistina che ha ricollegato a Paolo VI.

Tutto questo è evocato dalla mostra in un percorso non didascalico ma artistico e storico, con un impegno  considerevole di presentare la storia e la fede attraverso l’arte e la memoria. Il visitatore nel passare da una sala all’altra è come se viaggiasse nella macchina del tempo, fino a ritrovarsi nella nostra epoca con i grandi papi divenuti familiari nella vita di tutti anche se il loro carisma li pone in un’altra dimensione. Il titolo della mostra “I papi della memoria” esprime questa  vicinanza che per gli ultimi papi è tangibile, per i più antichi viene dai ricordi di scuola e, comunque, agisce sul tasto della cultura;  per i credenti che sono la grande maggioranza, anche su quello della fede.

Info

Castel Sant’Angelo, Lungotevere Castello, 50. Da  martedì a domenica ore 9,00-19,30,  lunedì chiuso;  la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 8,50 intero; euro 6,00 ridotto (cittadini europei 18-25 anni; insegnanti di ruolo scuole statali); gratuito per età e categorie (minori 18 anni e maggiori 65 anni, studenti e docenti facoltà letterarie-artistiche, beni culturali, guide e giornalisti, ecc.), . Tel. 06.6896003 (prevendita); 06,6819111 (informazioni).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Castel Sant’Angelo all’inaugurazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare il Centro Europeo del Turismo e la soprintendenza museale di Roma con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.