Tagore, l'”ultimo raccolto” del poeta pittore, alla Gnam

di Romano Maria Levante

“The Last Harvest”, la mostra di pittura di Tagore, tenuta a Roma,  alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 29 marzo al 27 maggio 2012, curata da R. Siva Kumar della Visva Bharati University, ha presentato per la prima volta in Italia 100 dipinti provenienti dall’archivio Rabindra Bhavana e dal Kala Bhavan Museum. E’ l'”ultimo raccolto” artistico del grande poeta e scrittore indiano, uomo di teatro e musicista, divenuto pittore dopo i 60 anni con straordinaria creatività. La mostra era  in 4 sezioni con immagini suggestive di animali e paesaggi, personaggi e ritratti.

Parlare subito delle opere come si fa per i pittori senza soffermarsi sulla loro vita sarebbe lacunoso perché Rabindranath Tagore cominciò ad esprimersi in forma pittorica solo nel 1924, a 64 anni, mentre nell’arte letteraria era stato precoce, le prime poesie uscirono a soli 14 anni, mezzo secolo  prima, a 20 anni la raccolta “Canti del mattino” seguita da un’altra “Canti della sera”. Nel 1913 il Premio Nobel per la letteratura grazie ai suoi poemi religiosi “Gitanjali” che lo resero famoso in Usa e in Europa. Fondò la scuola di “Santiniketan”, trasformandola nel 1921 nell'”Università internazionale Visna Barati”, fu presidente del Congresso filosofico delle Indie e con i suoi scritti  anticonvenzionali incise sulla letteratura e la lingua della sua terra, il Bengala, e dell’India. Nato in una famiglia di antica nobiltà, i fratelli scrittori e musicisti, la sorella autrice di romanzi e racconti; lui poeta  e romanziere, scrittore di racconti e opere teatrali, saggista e compositore  e infine pittore.

Alla presentazione della mostra, nel quadro delle celebrazioni per il 150° anno dalla sua nascita nel 1861 che ha coinciso con il 150° dell’Unità d’Italia, ha fatto gli onori di casa la soprintendente della Galleria Maria Vittoria Marini Clarelli ed è intervenuto, oltre al curatore Siva Kumar in abito tradizionale indiano, l’ambasciatore dell’India in Italia, Shri Debabrata Saha. Ci siamo sentiti di  collegare il riconoscimento a Tagore al momento particolare dei rapporti tra i nostri paesi per la vicenda dei marò arrestati, apprezzando la presenza dell’ambasciatore con l’auspicio di una pronta riconciliazione: ha risposto che questo era nello spirito del grande Tagore, del resto sappiamo che ha ricercato sempre la sintesi, anche tra Oriente e d Occidente, per raggiungere verità universali.

Ci limitiamo a questi pochi tratti, il solo accennare ai suoi temi filosofici e alle sue opere di poeta, scrittore e autore di teatro porterebbe molto lontano, ne parla diffusamente il numero speciale del 2010 della rivista “India – Perspectives” a lui dedicato con  24 articoli sui singoli temi illustrati da fotografie e riproduzioni dei suoi dipinti, sintesi efficace di un autore dalla bibliografia sconfinata.

Alcuni tratti sull’opera pittorica

Sulla sua pittura va premesso che, oltre ad iniziare in tarda età, si pose al di fuori degli schemi della produzione artistica indiana per cui non fu apprezzato subito nel suo paese, tutt’altro. Ma nel 1930  ci fu la prima mostra a Parigi, poi itinerante tra l’Europa e l’America, e i suoi dipinti furono esposti a Londra e Berlino, Monaco e New York, nel 1931 a Philadelphia. Una lunga serie di viaggi in questi paesi lo mette a contatto in modo sempre più stretto con l’arte occidentale, l’espressionismo e il fauvismo erano le correnti più avanzate, se ne sentono gli influssi nelle sue composizioni.

Era molto legato alla sua terra da cui traeva l’ispirazione, e lo dichiarava; tuttavia il suo pensiero ha avuto diffusione in tutto il mondo forse per la continua ricerca di un tema unificante, una verità universale attraverso le varie forme d’arte letteraria e musicale, infine visiva da lui praticate.

Un’impostazione la sua che va molto oltre la scelta stilistica e di contenuto nell’opera pittorica, a stare a quanto scriveva nel 1917 in “My Reminiscenses”, sette anni prima delle sue iniziali opere grafiche. C’è la compresenza e insieme il contrasto tra la parte esteriore e quella interiore, anche la Chiesa parla di “foro esterno” e “foro interno”. All’esterno gli eventi, all’interno le immagini che vi si riflettono: “I due aspetti corrispondono ma non sono la stessa cosa. Non abbiamo la possibilità di vedere con chiarezza questo mondo di immagini all’interno di noi. Una piccola porzione, di quando in quando, attrae la nostra attenzione, ma la maggior parte rimane in ombra, fuori dalla nostra vita”. E a proposito di chi dipinge  “le immagini sulle tele della memoria” scrive:  “Non sta lì con il suo pennello semplicemente  a replicare ciò che accade. Prende e toglie a seconda del suo gusto e, ingigantendo e rimpicciolendo a suo piacimento, non ha imbarazzi a mettere nello sfondo ciò che  era in primo piano. In altre parole, dipinge immagini, non scrive la storia”.

Due anni dopo, per il “Centre of Indian Culture”, scriveva: “E’ bene ricordare che le grandi epoche della rinascita nella storia furono quelle in cui l’uomo scoprì all’improvviso i semi del pensiero nel granaio del passato. Coloro che, sfortunati, hanno perduto il raccolto del passato, hanno perso il loro presente”. Crediamo che sia nata da queste sue parole  l’intitolazione  della mostra “The Last Harvest”, cioè  l’ultimo raccolto: la sua espressione pittorica ha coperto i 17 anni conclusivi di vita, il periodo appunto del raccolto finale del suo passato come dei precursori nel granaio della storia. Per questo la visita alle opere, guidata dal curatore R. Siva Kumar della “Visva Barati University” creata da Tagore, è stata una retrospettiva della sua ispirazione e un vero compendio spirituale.

Le 4 sezioni: animali  e paesaggi, figure e volti

Per chi, come noi, si poneva il problema del rapporto tra scrittura letteraria e rappresentazione pittorica, il curatore ha rivelato che i suoi primi dipinti derivano dagli scarabocchi sui manoscritti per dare un senso estetico alle cancellature in un a sorta di “giocosa inventiva”.  Comincia con gli animali, veri o immaginari,  poi il paesaggio con la solitudine e quindi, in progressione, l’essere umano come corpo e gestualità, fino a concentrarsi sui visi  alternando le maschere ai ritratti.

I suoi dipinti, per lo più a inchiostro colorato e acquarello di piccolo-medio formato, sono senza riferimenti espliciti, né date né titoli: è un narrazione che lascia libero l’interprete, cosa che ne accresce il valore universale, sganciato dalle contingenze locali e temporali. La selezione presentata, del tutto inedita nel nostro paese, è una piccola parte del vasto “corpus” pittorico di 1600 opere nel Rabindra Bhavana e di un centinaio al Kala Bhavan Museum, entrambi prestatori della mostra. I fondi sono per lo più scuri, i colori densi e pastosi, le immagini dai contorni netti e precisi.

Ecco la prima sezione, con 20 pitture ispirate ad animali rappresentati in forme primitive quasi  totemiche, alcune richiamano figure reali, altre esseri fantastici. Linee continue e curve o spezzate bruscamente, posizioni erette o forme stilizzate; espressioni  fiere o meste, gioiose o imploranti. Colpiscono gli occhi spalancati del pappagallo e l’atteggiamento tenero del piccolo rispetto alla madre accigliata. Un bestiario particolare, dunque, con dei sentimenti che avvicinano il mondo animale all’umanità, nel sincretismo universale di Tagore, uomo di pensiero..

Dagli animali ai paesaggi nella seconda sezione, con 13 dipinti accomunati dalla severità dell’ambiente, non riconoscibile sebbene nel giallo del cielo dietro gli alberi di alcuni quadri siano stati visti fenomeni naturali a Santiniketan. Gli alberi dalla chioma folta hanno un colore molto scuro che ispira protezione mista ad oppressione. In alcuni dipinti alla staticità subentrano altri motivi: il senso del ritmo, come nei due alberi, questa volta dal fogliame rado,  piegati dal vento; il senso dell’equilibrio che manca nel tempietto con colonne e scalinata visibilmente sbilanciato.

La terza sezione, dedicata alle figure umane, ha occupato un corridoio con 15 dipinti e la sala successiva con altri 16 dipinti.  Anche qui, come negli animali, qualcosa di totemico, di grande fascino nelle tinte scure e intense anche con rossi e blu molto carichi, e nelle forme arcaiche nette e decise. C’è molta attenzione alla gestualità, di tipo quasi teatrale. Le figuresi stagliano per i contrasti coloristici, non si intravedono riferimenti ad opere letterarie  e neppure ad eventi riconoscibili; assumono un valore simbolico di ricerca spirituale, dalla riflessione interiore alla meditazione. Si vedono divinità, figure singole e gruppi  che sembrano immersi in preghiera.

Nella quarta sezione, come in un “blow up” cinematografico, dopo gli animali, l’ambiente e le figure, l’obiettivo dell’artista si posa sui volti, ne vediamo ben 30, i chiaroscuri e i contrasti cromatici sono ancora più intensi;  ritratti molto particolari che diventano in alcuni casi maschere quasi teatrali. Anche qui, tuttavia,  nessun riferimento esplicito, come per le figure della sezione precedente: sono studi di personaggi piuttosto che tratti colti sul momento. Le espressioni sempre intense, siano cupe e aggrottate oppure calme e distese,  rimandano alla personalità del soggetto ma lasciano un senso di mistero come se la personalità più profonda non fosse raggiungibile.

In fondo, il sentimento che resta dopo l’immersione nel mondo pittorico di Tagore è il senso del mistero; a ciò concorre una certa cupezza espressiva e l’aspetto  primitivo e totemico che dà a tante immagini l’aspetto di vere e proprie icone. Ma questa non è l’espressione di una mentalità contemplativa, Tagore aeva un atteggiamento orientato all’azione alimentata dalla sua fede nell’umanesimo universale; e neppure di una visione pessimistica, diceva “ho sviluppato una mia idea personale dell’ottimismo”, nel senso di non accanirsi ma cercare la “porta” giusta o costruirla.

E allora qual è la logica complessiva? Forse la si trova nel suo concetto di “raccolto”, nell’esigenza di  attingere sempre al “granaio del passato”, al quale ci riportano le sue forme arcaiche e totemiche:  “Qualcosa di straordinario avverrà, indipendentemente da quanto sia oscuro il presente”, ha detto una volta con l’ottimismo della volontà che deve prevalere sul pessimismo della ragione. Riferendo le sue immagini dal cromatismo scuro e dalle espressioni  tese e nervose  al “granaio del passato” si può conciliare l’espressione pittorica all’ottimismo di base.  Che lo ha portato a dire: “Ho dormito e sognato che la vita è gioia. Mi sono risvegliato ed ho visto che la vita è servizio. Ho servito ed ecco, il servizio è gioia”. Una grande insegnamento per tutti, una vera lezione del professor Tagore.

Info

Visite alle mostre permanenti e temporanee della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Viale delle Belle Arti 131: da martedì a domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, biglietteria aperta fino alle ore 18,45. Ingresso: intero euro 10,00, ridotto 8,00. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Gnam alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria e l’organizzazione, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.

di Romano Maria Levante

“The Last Harvest”, la mostra di pittura di Tagore, tenuta a Roma,  alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 29 marzo al 27 maggio 2012, curata da R. Siva Kumar della Visva Bharati University, ha presentato per la prima volta in Italia 100 dipinti provenienti dall’archivio Rabindra Bhavana e dal Kala Bhavan Museum. E’ l'”ultimo raccolto” artistico del grande poeta e scrittore indiano, uomo di teatro e musicista, divenuto pittore dopo i 60 anni con straordinaria creatività. La mostra era  in 4 sezioni con immagini suggestive di animali e paesaggi, personaggi e ritratti.

Parlare subito delle opere come si fa per i pittori senza soffermarsi sulla loro vita sarebbe lacunoso perché Rabindranath Tagore cominciò ad esprimersi in forma pittorica solo nel 1924, a 64 anni, mentre nell’arte letteraria era stato precoce, le prime poesie uscirono a soli 14 anni, mezzo secolo  prima, a 20 anni la raccolta “Canti del mattino” seguita da un’altra “Canti della sera”. Nel 1913 il Premio Nobel per la letteratura grazie ai suoi poemi religiosi “Gitanjali” che lo resero famoso in Usa e in Europa. Fondò la scuola di “Santiniketan”, trasformandola nel 1921 nell'”Università internazionale Visna Barati”, fu presidente del Congresso filosofico delle Indie e con i suoi scritti  anticonvenzionali incise sulla letteratura e la lingua della sua terra, il Bengala, e dell’India. Nato in una famiglia di antica nobiltà, i fratelli scrittori e musicisti, la sorella autrice di romanzi e racconti; lui poeta  e romanziere, scrittore di racconti e opere teatrali, saggista e compositore  e infine pittore.

Alla presentazione della mostra, nel quadro delle celebrazioni per il 150° anno dalla sua nascita nel 1861 che ha coinciso con il 150° dell’Unità d’Italia, ha fatto gli onori di casa la soprintendente della Galleria Maria Vittoria Marini Clarelli ed è intervenuto, oltre al curatore Siva Kumar in abito tradizionale indiano, l’ambasciatore dell’India in Italia, Shri Debabrata Saha. Ci siamo sentiti di  collegare il riconoscimento a Tagore al momento particolare dei rapporti tra i nostri paesi per la vicenda dei marò arrestati, apprezzando la presenza dell’ambasciatore con l’auspicio di una pronta riconciliazione: ha risposto che questo era nello spirito del grande Tagore, del resto sappiamo che ha ricercato sempre la sintesi, anche tra Oriente e d Occidente, per raggiungere verità universali.

Ci limitiamo a questi pochi tratti, il solo accennare ai suoi temi filosofici e alle sue opere di poeta, scrittore e autore di teatro porterebbe molto lontano, ne parla diffusamente il numero speciale del 2010 della rivista “India – Perspectives” a lui dedicato con  24 articoli sui singoli temi illustrati da fotografie e riproduzioni dei suoi dipinti, sintesi efficace di un autore dalla bibliografia sconfinata.

Alcuni tratti sull’opera pittorica

Sulla sua pittura va premesso che, oltre ad iniziare in tarda età, si pose al di fuori degli schemi della produzione artistica indiana per cui non fu apprezzato subito nel suo paese, tutt’altro. Ma nel 1930  ci fu la prima mostra a Parigi, poi itinerante tra l’Europa e l’America, e i suoi dipinti furono esposti a Londra e Berlino, Monaco e New York, nel 1931 a Philadelphia. Una lunga serie di viaggi in questi paesi lo mette a contatto in modo sempre più stretto con l’arte occidentale, l’espressionismo e il fauvismo erano le correnti più avanzate, se ne sentono gli influssi nelle sue composizioni.

Era molto legato alla sua terra da cui traeva l’ispirazione, e lo dichiarava; tuttavia il suo pensiero ha avuto diffusione in tutto il mondo forse per la continua ricerca di un tema unificante, una verità universale attraverso le varie forme d’arte letteraria e musicale, infine visiva da lui praticate.

Un’impostazione la sua che va molto oltre la scelta stilistica e di contenuto nell’opera pittorica, a stare a quanto scriveva nel 1917 in “My Reminiscenses”, sette anni prima delle sue iniziali opere grafiche. C’è la compresenza e insieme il contrasto tra la parte esteriore e quella interiore, anche la Chiesa parla di “foro esterno” e “foro interno”. All’esterno gli eventi, all’interno le immagini che vi si riflettono: “I due aspetti corrispondono ma non sono la stessa cosa. Non abbiamo la possibilità di vedere con chiarezza questo mondo di immagini all’interno di noi. Una piccola porzione, di quando in quando, attrae la nostra attenzione, ma la maggior parte rimane in ombra, fuori dalla nostra vita”. E a proposito di chi dipinge  “le immagini sulle tele della memoria” scrive:  “Non sta lì con il suo pennello semplicemente  a replicare ciò che accade. Prende e toglie a seconda del suo gusto e, ingigantendo e rimpicciolendo a suo piacimento, non ha imbarazzi a mettere nello sfondo ciò che  era in primo piano. In altre parole, dipinge immagini, non scrive la storia”.

Due anni dopo, per il “Centre of Indian Culture”, scriveva: “E’ bene ricordare che le grandi epoche della rinascita nella storia furono quelle in cui l’uomo scoprì all’improvviso i semi del pensiero nel granaio del passato. Coloro che, sfortunati, hanno perduto il raccolto del passato, hanno perso il loro presente”. Crediamo che sia nata da queste sue parole  l’intitolazione  della mostra “The Last Harvest”, cioè  l’ultimo raccolto: la sua espressione pittorica ha coperto i 17 anni conclusivi di vita, il periodo appunto del raccolto finale del suo passato come dei precursori nel granaio della storia. Per questo la visita alle opere, guidata dal curatore R. Siva Kumar della “Visva Barati University” creata da Tagore, è stata una retrospettiva della sua ispirazione e un vero compendio spirituale.

Le 4 sezioni: animali  e paesaggi, figure e volti

Per chi, come noi, si poneva il problema del rapporto tra scrittura letteraria e rappresentazione pittorica, il curatore ha rivelato che i suoi primi dipinti derivano dagli scarabocchi sui manoscritti per dare un senso estetico alle cancellature in un a sorta di “giocosa inventiva”.  Comincia con gli animali, veri o immaginari,  poi il paesaggio con la solitudine e quindi, in progressione, l’essere umano come corpo e gestualità, fino a concentrarsi sui visi  alternando le maschere ai ritratti.

I suoi dipinti, per lo più a inchiostro colorato e acquarello di piccolo-medio formato, sono senza riferimenti espliciti, né date né titoli: è un narrazione che lascia libero l’interprete, cosa che ne accresce il valore universale, sganciato dalle contingenze locali e temporali. La selezione presentata, del tutto inedita nel nostro paese, è una piccola parte del vasto “corpus” pittorico di 1600 opere nel Rabindra Bhavana e di un centinaio al Kala Bhavan Museum, entrambi prestatori della mostra. I fondi sono per lo più scuri, i colori densi e pastosi, le immagini dai contorni netti e precisi.

Ecco la prima sezione, con 20 pitture ispirate ad animali rappresentati in forme primitive quasi  totemiche, alcune richiamano figure reali, altre esseri fantastici. Linee continue e curve o spezzate bruscamente, posizioni erette o forme stilizzate; espressioni  fiere o meste, gioiose o imploranti. Colpiscono gli occhi spalancati del pappagallo e l’atteggiamento tenero del piccolo rispetto alla madre accigliata. Un bestiario particolare, dunque, con dei sentimenti che avvicinano il mondo animale all’umanità, nel sincretismo universale di Tagore, uomo di pensiero..

Dagli animali ai paesaggi nella seconda sezione, con 13 dipinti accomunati dalla severità dell’ambiente, non riconoscibile sebbene nel giallo del cielo dietro gli alberi di alcuni quadri siano stati visti fenomeni naturali a Santiniketan. Gli alberi dalla chioma folta hanno un colore molto scuro che ispira protezione mista ad oppressione. In alcuni dipinti alla staticità subentrano altri motivi: il senso del ritmo, come nei due alberi, questa volta dal fogliame rado,  piegati dal vento; il senso dell’equilibrio che manca nel tempietto con colonne e scalinata visibilmente sbilanciato.

La terza sezione, dedicata alle figure umane, ha occupato un corridoio con 15 dipinti e la sala successiva con altri 16 dipinti.  Anche qui, come negli animali, qualcosa di totemico, di grande fascino nelle tinte scure e intense anche con rossi e blu molto carichi, e nelle forme arcaiche nette e decise. C’è molta attenzione alla gestualità, di tipo quasi teatrale. Le figuresi stagliano per i contrasti coloristici, non si intravedono riferimenti ad opere letterarie  e neppure ad eventi riconoscibili; assumono un valore simbolico di ricerca spirituale, dalla riflessione interiore alla meditazione. Si vedono divinità, figure singole e gruppi  che sembrano immersi in preghiera.

Nella quarta sezione, come in un “blow up” cinematografico, dopo gli animali, l’ambiente e le figure, l’obiettivo dell’artista si posa sui volti, ne vediamo ben 30, i chiaroscuri e i contrasti cromatici sono ancora più intensi;  ritratti molto particolari che diventano in alcuni casi maschere quasi teatrali. Anche qui, tuttavia,  nessun riferimento esplicito, come per le figure della sezione precedente: sono studi di personaggi piuttosto che tratti colti sul momento. Le espressioni sempre intense, siano cupe e aggrottate oppure calme e distese,  rimandano alla personalità del soggetto ma lasciano un senso di mistero come se la personalità più profonda non fosse raggiungibile.

In fondo, il sentimento che resta dopo l’immersione nel mondo pittorico di Tagore è il senso del mistero; a ciò concorre una certa cupezza espressiva e l’aspetto  primitivo e totemico che dà a tante immagini l’aspetto di vere e proprie icone. Ma questa non è l’espressione di una mentalità contemplativa, Tagore aeva un atteggiamento orientato all’azione alimentata dalla sua fede nell’umanesimo universale; e neppure di una visione pessimistica, diceva “ho sviluppato una mia idea personale dell’ottimismo”, nel senso di non accanirsi ma cercare la “porta” giusta o costruirla.

E allora qual è la logica complessiva? Forse la si trova nel suo concetto di “raccolto”, nell’esigenza di  attingere sempre al “granaio del passato”, al quale ci riportano le sue forme arcaiche e totemiche:  “Qualcosa di straordinario avverrà, indipendentemente da quanto sia oscuro il presente”, ha detto una volta con l’ottimismo della volontà che deve prevalere sul pessimismo della ragione. Riferendo le sue immagini dal cromatismo scuro e dalle espressioni  tese e nervose  al “granaio del passato” si può conciliare l’espressione pittorica all’ottimismo di base.  Che lo ha portato a dire: “Ho dormito e sognato che la vita è gioia. Mi sono risvegliato ed ho visto che la vita è servizio. Ho servito ed ecco, il servizio è gioia”. Una grande insegnamento per tutti, una vera lezione del professor Tagore.

Info

Visite alle mostre permanenti e temporanee della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Viale delle Belle Arti 131: da martedì a domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, biglietteria aperta fino alle ore 18,45. Ingresso: intero euro 10,00, ridotto 8,00. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Gnam alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria e l’organizzazione, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.

Papi della memoria, arte e papato, a Castel Sant’Angelo

di Romano Maria Levante

A Roma, Castel Sant’Angelo,  dal 28 giugno all’8 dicembre 2012 la mostra “I Papi della memoria” illustra la storia di alcuni grandi Pontefici della Chiesa come guide spirituali della Cristianità e promotori culturali attraverso un centinaio di documenti storici e opere d’arte provenienti dalle raccolte vaticane e da principali musei italiani. La mostra, organizzata dal Centro europeo per il Turismo di Giuseppe Lepore e dalla Soprintendenza museale di Roma di Rossella Vodret,  si avvale di un Comitato scientifico presieduto da Antonio Paolucci ed è curata da Mario Lolli Ghetti. E’ articolata in 8 sezioni in senso diacronico, dal 1° Anno santo del 1300 all’ultimo del 2000. Sono esposte, come avviene ogni anno, anche opere recuperate dalle forze dell’Ordine.

La carrellata artistico-culturale sui grandi Pontefici ha qualcosa di più del respiro storico, entra nel campo spirituale evocando il messaggio universale della chiesa “urbi et orbi”  che  investe la fede e l’arte, la cultura e la politica. Dalla sede romana il messaggio si è irradiato nello spazio e nel tempo con alcuni momenti fondamentali costituiti dai Giubilei e dai Concili, testimoniati dai documenti esibiti e dalle opere d’arte esposte,  nel segno di un mecenatismo raffinato e lungimirante.

Due elementi emergono in tutta evidenza: il ruolo centrale di Roma come centro di dottrina e fonte dell’arte; la forza della cultura come linguaggio utilizzato nella  missione universale della Chiesa e nel suo progetto politico: di qui gli interventi nell’urbanistica e la passione per l’antico, il collezionismo e la committenza di eccelse opere d’arte ai più grandi artisti succedutisi nel tempo.

Il ruolo dominante di Roma, iniziato con l’impero romano, assume una diversa fisionomia con la Roma cristiana  da Costantino ai giorni nostri. Questo è avvenuto  nel corso dei secoli – come ha detto  mons. Lorenzo Baldisseri, segretario della Congregazione dei Vescovi del Collegio cardinalizio e del Conclave  – “attraverso un’istituzione imponente, quella del Papato, che è divenuto l’asse portante della fede cristiana, della cultura, della politica e dell’arte, caratterizzante la civilizzazione occidentale”.

Per rendere questo cammino di 700 anni riproponendo il linguaggio dell’arte e il respiro della storia nei limiti di una mostra, pur vasta e rappresentativa, si è dovuto procedere alla drastica selezione dell’immenso materiale disponibile nel campo dell’arte e della letteratura, dell’architettura e dell’urbanistica, della religione e della politica. Il risultato è accompagnare il visitatore nel viaggio di fede e di vita, d’arte e di cultura nell’itinerario segnato dai grandi Pontefici. Le tappe di questo viaggio corrispondono alle 8 sezioni della mostra. L’esposizione è nell’incomparabile cornice di Castel Sant’Angelo, il museo è  nei locali che confinano con la terrazza superiore dalla vista mozzafiato, la collocazione aggiunge un fascino incomparabile alla suggestione di arte e storia.

700 anni di papato nelle 8 sezioni della mostra

Le 8 sezioni sono ricche di opere d’arte e di documenti e reperti preziosi, ma invece di inoltrarci in una velleitaria descrizione di un materiale tanto vasto, preferiamo dare un quadro sia pur sommario delle fasi che evocano, tutte percorse da eventi storici o artistici che lasciano il segno.

Un inizio di grande effetto, “Il primo Giubileo del 1300”, del quale mons. Baldisseri dice allusivamente “indetto proprio da lui, Papa Caetani, ben noto tra l’altro e in altro senso, sin dai nostri studi liceali della Divina Commedia”; nella quale, aggiungiamo, il sommo poeta, oltre a mettere all’inferno Bonifacio VIII ancora in vita, dà un marchio infamante a a papa  Celestino V,  l’eremita Pietro da Morrone strappato dal suo eremo tra i monti d’Abruzzo per le mene ecclesiastiche,  il cui “gran rifiuto” non fu “per viltade” ma per coerenza, e ciononostante lasciò il segno, tra l’altro ideando lui il Giubileo. Il grande afflusso di pellegrini per l’Anno Santo mise Roma al centro della cristianità e pose le basi per riaffermare il primato assoluto del papa.

Nella 2^ sezione, dedicata alla “Roma rinascimentale e umanista”,  questo primato si riflette nelle opere esposte, con Martino V dei Colonna, Paolo II Barbo e Sisto V della Rovere  che donò alla cittadinanza romana i bronzi della Lupa, dello Spinario  e del Camillo. Dopo la fine dell’esilio avignonese e dello scisma di Occidente la forza del papato si manifestò anche in campo artistico e culturale, papa Niccolò V fondò la Biblioteca Apostolica Vaticana e promosse il collezionismo e l’arte giubilare, siamo al 1450, Paolo II promosse il collezionismo antiquario, e sul nucleo della donazione di Sisto V nacquero i Musei Capitolini. 

La Roma rinascimentale è celebrata nella 3^ sezione, che pone l’accento sulla “Roma universale. Restauratio Urbis”: vi sono impegnati i più grandi artisti del Rinascimento, da Michelangelo a Raffaello, nelle  grandi iniziative  attivate dal mecenatismo dei papi Giulio II e Leone X Medici. E’ una Roma definita “fastosa e pagana”, che cerca collegamenti sempre più stretti con la Roma antica; finché il sacco del 1527  segna una drammatica cesura nella vita civile e artistica della città, diventata un deserto per l’abbandono della popolazione e degli artisti. Ma fu una parentesi, con Clemente VII Medici  che soffrì direttamente l’oltraggio dei Lanzichenecchi alla città eterna, ci fu anche la rinascita,  la città si ripopola, tornano gli artisti.

Alla crisi politica si aggiunge quella religiosa, con Lutero e la Riforma, cui il papato reagisce. Ne dà conto la 4^ sezione su “Roma della Controriforma”, con il Concilio di Trento indetto da Paolo III Farnese, grande collezionista. Le iniziative vanno dalla sistemazione urbanistica  alla riforma del calendario giuliano, e soprattutto ai grandi cicli decorativi. Basta per tutti il Giudizio Universale di Michelangelo.  L’esposizione presenta una carrellata evocativa di grande fascino e interesse.

“Roma triunphans. Il trionfo del barocco”  si intitola la 5^ sezione. Spicca l’opera di grandi architetti come Bernini e Borromini nella trasformazione urbanistica e monumentale mirata a renderla sempre più attraente e accogliente per i pellegrini e sempre più degna del suo ruolo universale di centro della cristianità, rispondente alla definizione di Giovanni Paolo II “Roma ospitale, madre e compagna di viaggio”.  L’arte e la fede appaiono in simbiosi sempre più stretta, mentre i problemi nascono nel progresso della scienza, dalla difficile convivenza tra fede e ragione.

Con la valorizzazione dell’antico si sviluppano le Accademie e con esse il “Classicismo arcadico” al quale è dedicata le 6^ sezione. Roma attrae i visitatori colti, non più solo i pellegrini, si diffonde lo studio della classicità in quel grande museo all’aperto che è la città eterna, Cristina di Svezia si segnala come animatrice dei circoli culturali e promotrice dello sviluppo dell’arte in contatto con i più grandi talenti. Viene illustrata anche l’opera dei papi nella tutela del patrimonio archeologico messo in luce dagli scavi, che con le donazioni viene fatto affluire ai Musei Capitolini.

Il tempo scorre, siamo nell”800, la 7^ sezione, intitolata “La Restaurazion e pontificia” dà l’illustrazione di come i papi hanno affrontato i complessi problemi dell’epoca in campo politico-sociale oltre che religioso. Dopo la Rivoluzione francese, Napoleone e la pace di Vienna, Pio IX  è alle prese con la fine del potere temporale segnata dalla breccia di Porta Pia; viene proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione, ma anche i temi sociali sono in primo  piano, Leone XIII dedicherà loro l’enciclica “Rerum novarum” che rappresenterà una pietra miliare in materia; la dottrina sociale della Chiesa si consolida con l’azione di Giuseppe Toniolo, da poco beatificato, che animò l’Opera dei Congressi,le Settimane sociali e apposite fondazioni e istituti per il sociale.

“Verso il Giubileo del 2000. All’approssimarsi del Terzo Millennio” è il titolo dell’8^ ed ultima sezione della mostra. Si comincia da Pio XI, cui si devono  i Patti lateranensi  e il Concordato con cui si chiuse la “questione romana” e la Chiesa poté  dedicarsi interamente alla sua missione religiosa. In campo culturale fu fondato il Museo Etnografico Missionario, successivamente Pio XII promosse gli scavi archeologici sotto la basilica di San Pietro. Con Giovanni XXIII, che ne fu l’ispirato promotore  e  Paolo VI  che lo portò a conclusione, Roma è protagonista del Concilio Vaticano II, la “rivoluzione copernicana”  che segna “la fine del Medioevo nella liturgia” e non solo,  rendendo la Chiesa più aderente alla sua vocazione missionaria. Sarà Giovanni Paolo II, dopo la fugace parentesi di papa Giovanni Paolo I, a portare la chiesa nel “novo millennio ineunte” – così il relativo documento programmatico – con il Giubileo del 2000  aperto al mondo dei giovani. Gli ultimi papi sono stati vicini agli artisti in modo diverso dal mecenatismo rinascimentale ma con efficacia e convinzione. Paolo VI, oltre a promuovere opere come l’Aula delle udienze, che ha il suo nome, dove spicca la “Resurrezione” di Fazzini, e il Museo d’arte Moderna ai Musei Vaticani, rivolse agli artisti in Cappella Sistina il 7 maggio 1964 una memorabile allocuzione; altrettanto hanno fatto Giovanni Paolo II  nel 1999 con la “Lettera agli artisti” e Benedetto XVI nel decennale della lettera il 21 novembre 2009 nella Cappella Sistina che ha ricollegato a Paolo VI.

Tutto questo è evocato dalla mostra in un percorso non didascalico ma artistico e storico, con un impegno  considerevole di presentare la storia e la fede attraverso l’arte e la memoria. Il visitatore nel passare da una sala all’altra è come se viaggiasse nella macchina del tempo, fino a ritrovarsi nella nostra epoca con i grandi papi divenuti familiari nella vita di tutti anche se il loro carisma li pone in un’altra dimensione. Il titolo della mostra “I papi della memoria” esprime questa  vicinanza che per gli ultimi papi è tangibile, per i più antichi viene dai ricordi di scuola e, comunque, agisce sul tasto della cultura;  per i credenti che sono la grande maggioranza, anche su quello della fede.

Info

Castel Sant’Angelo, Lungotevere Castello, 50. Da  martedì a domenica ore 9,00-19,30,  lunedì chiuso;  la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 8,50 intero; euro 6,00 ridotto (cittadini europei 18-25 anni; insegnanti di ruolo scuole statali); gratuito per età e categorie (minori 18 anni e maggiori 65 anni, studenti e docenti facoltà letterarie-artistiche, beni culturali, guide e giornalisti, ecc.), . Tel. 06.6896003 (prevendita); 06,6819111 (informazioni).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Castel Sant’Angelo all’inaugurazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare il Centro Europeo del Turismo e la soprintendenza museale di Roma con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.

Larraz, la pittura della libertà, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

A Roma, al Vittoriano, dal 12 luglio al 30 settembre 2012,  sono esposte 100 opere di Julio Larraz, quadri pittorici a olio o acquerello, disegni e alcune sculture,  in una mostra curata, con il Catalogo Skirà, da Luca Beatrice,  e realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia: responsabile della mostra Maria Cristina Bettini in collaborazione con la Galleria d’Arte Contini, Cortina-Venezia. E’ la più completa mostra antologica realizzata in Italia,dalle iniziali opere caricaturali per i grandi giornali americani – aggiunte all’esposizione in una seconda fase – alle pitture grottesche,  parodistiche e allegoriche, fino alle più varie espressioni di una artista libero, solare.

“Prime Minister”, 2010

Tra le 21 voci dell‘”alfabeto di Larraz”, nelle quali il curatore Luca Beatrice  articola il proprio giudizio critico, ci sembra che “L come libertà”  rappresenti oltre a una sintesi colta, l’impressione che il visitatore ricava dalla mostra, almeno quella avuta da noi. Libertà nella forma espressiva che ricorre alle figurazioni più varie, come sottolinea Beatrice; ma soprattutto nell’emozione  trasmessa: la cui origine e natura si trova nel contagioso senso di liberazione che pervade i quadri esposti.

Il respiro della libertà si sente nelle diverse sezioni della mostra, che corrispondono ad altrettanti temi cari al pittore. Prima tra tutti i ritratti, la libertà di scandagliarne le parti più misteriose, andare dietro quelle lenti di occhiali neri di cui sentiamo non avere bisogno non avendo nulla da nascondere a differenza dei soggetti rappresentati, e questo ci fa sentire liberi, o almeno più liberi di loro. Sensazione che si rafforza dinanzi alla raffigurazione della politica, nella sua grottesca manifestazione quasi in caricatura: sono figure di generali e dittatori – che pur nell’ottusa rigidità  ricordano le deformazioni caricaturali di Baj – intorno ai quali c’è il nudo femminile, come vero “dominus”  rispetto a un potere tanto brutale quanto imbelle. La donna non è vista solo come “domina”  o complemento decadente del potere, ma anche come tentatrice e oggetto di desiderio nella sua intimità. Mentre l’isola ci dà la libertà esteriore, la voglia di mare e di azzurro, accentuata dal bianco delle grandi barche e delle ali degli aeroplani; un bianco da isole greche e, qui, da nostalgie cubane. Quanto mai libero il mondo del circo, con le sue metafore e allegorie oniriche.

Le sezioni della mostra all’insegna della libertà

Nei due piani dell’Ala Brasini dov’è ospitata la mostra, la narrazione del pittore si dipana  con una forza scenografica non comune in una sostanziale unitarietà di stile figurativo che supera la realtà per portarsi nell’irrealtà. Secondo Luca Beatrice  “nonostante il suo tratto e il suo stile siano immediatamente riconoscibili, Larraz non è tra quegli artisti seriali che impongono un marchio di fabbrica, anzi nella sua pittura rincorre la varietà di soggetti, situazioni e storie, intendendola come una palestra di sperimentazioni e soluzioni formali sorprendenti”. Per Alessandro Nicosia  è  “un linguaggio singolare, visionario e fantastico  che prende ispirazione dal surrealismo e dalla metafisica, dal muralismo messicano e dal Quattrocento italiano. Larraz traspone nelle sue opere i suoi ampi riferimenti culturali, sociali e politici ricorrendo ai miti greci e alla storia contemporanea dell’America Latina”. Infatti la sua  biografia ci porta a Cuba, poi in Florida a Miami, con lunghe presenze a New York, nel Nuovo Messico e in Europa, due anni vissuti a Parigi e tre anni a Firenze prima del definitivo ritorno a Miami dove vive tuttora  insieme alla famiglia.

La visita comincia con i “ritratti” non solo in pittura ma anche in scultura. Non indulge alla psicologia essendo un artista di atmosfera, ma quando si sofferma sui volti vi scava dentro, inoltre sottolinea i contrasti tra personaggi diversi che vengono accostati. I busti in bronzo degli “Imperatori” sono fortemente colorati in verde o  rosso, viola o giallo, appartengono alla serie “SPQR”, 2007,ispirata alla romanità con il piglio del potere assoluto, che trova un precedente pittorico nella serie “Peana”,  2000, busti dipinti con i volti appena abbozzati e resi deformi.  

I dipinti spesso sono accompagnati da titoli molto espressivi, caratteristica positiva che consente di conoscere l’interpretazione data dall’autore. Così “The North Wind”, 1994, un dittatore dell’est in un controluce blu reso grottesco dall’uccello sulla spalla, e “Life, Liberty and the Pursuit of Happiness”, 2002, paradossale  titolo alla matrona ingioiellata dentro l’automobile nera; mentre in “Farewell” 2005, in un’auto simile una figura diversa, una donna impellicciata con occhiali neri .

Ma andiamo alla sezione sulla “politica”, vista nelle sue degenerazioni, con una forza espressiva cui Luca Beatrice attribuisce una capacità di narrazione cinematografica richiamando “L’orgia del potere ” di Costa Gravas:”Parla di potere, corruzione, finanza, militarismo, ricchezza, povertà, multinazionali e di tanto altro ancora scegliendo immagini che non lasciano molto all’immaginazione eppure non scivolano nella didascalia dell’enunciato teorico. Ciò che lo rafforza è l’utilizzo sapiente della metafora”. In senso allegorico più che simbolico “perchè affida l’espressione di un concetto alle immagini non sempre attraverso la consequenzialità diretta e immediata”. Immagini grottesche di generali carichi di medaglie, raffigurati immobili con intorno la donna spesso nuda in pose seducenti che in definitiva  è la vera detentrice di un potere posticcio.

Vediamo figure grevi che rendono direttamente l’ottusità del potere – come “Study for ‘President a vie’” 1985, e “Study for ‘Cunctatum’ for You Anaxagoras”,  2008; e anche figure dignitose come “The Heir”, 2011,  con la geografia del mondo sullo sfondo. Il “Prime Minster”, 2010,  lo rappresenta in smoking bianco sotto l’ombrello, davanti a lui i microfoni  che in “De facto”, 1988,    facevano tutt’uno con la figura di spalle del generale circondato dai berretti dei propri militari.  Altre immagini, questa volta enigmatiche, nelle figure erette di “The Oracle”, 2005, e  “The Chairman and His Advisors”, 2009, nonché nell’uomo in poltrona immerso nel bianco di “The Memory of Ithaca”, 2009: esplicite nella limousine nera del recentissimo “”Et tu Brute?”, .2012.

La metafora del potere più cara all’artista la troviamo nelle immagini in cui, come si è detto, all’uomo potente si affianca in senso allegorico un nudo femminile.. Molto espressivi i due quadri su “El Supremo en casa de Julia, Campamento”, del 2001 e 2004; e, con personaggi diversi, “Senator for Life”, 2001  e  “A video show in the War Room”, 2009, “Bourbon and Branch Water”  e “Critical Mass at the War Room”, 2010. Il nudo femminile affianca una donna anziana con stivali  nel recentissimo “Ice and Fire. Portrait of Juana Campamento y Madrigales”, 2012.

Night Watch”, 2011

Non è soltanto questa la presenza femminile, alla “donna”è dedicata una sezione intimistica, con immagini  languide percorse da un dolce erotismo: tra le altre il nudo disteso di schiena di “Meeting in Alexandria”, 2009, e “Them Legs”, 2010, tra i veli del letto due gambe e un corpo invitante; in “Socialista”, 2012, è la schiena nuda della donna elegantemente vestita a ispirare l’artista;  a dispetto del titolo di impronta politica è il gioco della seduzione a coinvolgere il visitatore. La donna è vista ora nella sua intimità con occhi maschili presi del desiderio, simbolo di bellezza e musa ispiratrice; mentre come cortigiana del potere era l’anima nera fonte di tante degenerazioni.

Dall’universo femminile  alla terra natia, nella sezione“l’isola”, dove l’artista manifesta  sentimenti radicati nelle proprie radici – è stato a Cuba dal 1944 al 1961 – con una solarità che si esprime nei colori azzurro e bianco, in una trasparenza che rende l’atmosfera luminosa di ambienti toccati dalla magia della natura; l’acqua è l’elemento nel quale gli piace immergere le sue figure. Anche per un cittadino del mondo come lui il fascino dell’isola è inestinguibile, torna con forza nelle immagini di libertà. Citiamo  “The Big Fish”, 2000, con la barchetta nell’acqua blu e “Medea Sing a Sing for Me”, 2012,  ambiente analogo ma la barchetta è diventata un grande yacht, l’atmosfera non cambia, domina la natura. Mentre “Paiano”, 1994, e “Icarus”, ,2006,  sono visioni acrobatiche e vertiginose di promontori nel fondale blu intenso, fanno pensare a “come profondo è il mar!”.

L’azzurro  irrompe anche in altre immagini, come  “Sea of Storms”, 1978 e “A Visit to Villa Anatolia”, 2010, “One Day in the Life of Monsieur Vincent”, 2009 e “La escolta de un poeta”, 2010,  “The Last Dream , 29 July”, 2010,  e “The Artist and His Model”, 2011. E non manca nelle immagini dominate dal bianco delle ali d’aeroplano, “Ala”, 1995,  e “The Left Wing”.

Ci sono anche tinte diverse, chiare o pastello, come nell’immagine di un interno con una scimmia sul trampolo “The Governor’s House”, 1981, e “Encuentro es Serto des Antunes”, 2002 ,una sorta di pascià sotto un baldacchino con fiere in primo piano; e poche tinte forti  sul rosso violento in“Romanesca“, 2008, a dispetto del titolo sembra uno scorcio di Plaza de Toros con l’ombra minacciosa del toro in primo piano,  e una figura di damerino sovrastata da un gigantesco polipo rosso dal grande occhio,  “Confesiones del Marques de Sade”, 2112, che rievoca nel diverso cromatismo lo squalo di “His Last Dream,  29 July”, 2010; l’azzurro domina nell’altra immagine che sembra di grande pesce sullo sfondo di “One Day in the Life of Monsieur Vincent”, 2009, sovrasta la figura umana in vestito bianco e occhiali neri.

Altre immagini pienamente figurative sono in “Finsterre”, 1976, un canestro quasi caravaggesco e “Space Station”, 1995, un’acrobatica  colonna di tazzine con sopra la caffettiera, che sconfina nel surrealismo; una caffettiera bianca, insieme ad altri oggetti su un piatto volante la troviamo nel recentissimo  “Concepto espacial”, 2012; ricorda il volo del veliero e altri elementi anche mitologici del remoto  “Lost at Sea“, 1986, e del recente “Twenty Minutes  in Sunset”, 2011,  due grandi labbra rosse alla Man Ray che stringono una barchetta, surrealismo puro; la barchetta è in volo su un cielo nero stellato in “Night Journey, Study for ‘Nimrod. La Fuga”, 2011.

Il volo è anche in un’immagine più consueta per l’artista, la donna in primo piano su un letto con occhiali neri e il cocchio di Fetonte nel cielo, è “La Gracielona in the Venetian Room”, 2009; la stessa protagonista in un quadro molto diverso di tre anni dopo, la testa immersa tra i petali , “La Gracielona Swimming in the Sea of Flowers”, 2012.

Le immagini surreali le colleghiamo a quel mondo, di per sé surreale per molti versi, che è “il circo”, cui è dedicata la sezione finale della mostra. Con i clown e gli equilibristi, le fiere e i domatori, i giocolieri e gli uomini volanti che si lanciano dal trapezio, il riso e il pianto, è una metafora della vita fuori dalla realtà che deforma in una sorta di fantasia onirica. Ricordiamo 4 dipinti: il cannone che lancia l’acrobata  di “Circo Miguelito”  e “Carnival”, 1997; il domatore di elefanti di “Bonsoir Monsieur & Dames”, 2000, e il mangiatore di fuoco di “Tragalbadas”, 2006.

C’è tanto, e forse tutto, nelle tematiche dell’artista. Ma soprattutto il suo stile inconfondibile  trasparente e luminoso che ha un effetto liberatorio per il visitatore. Un sentimento contagioso e indefinibile che si può riassumere, lo ripetiamo, nell’idea di libertà.  Lo spirito isolano, con l’isolamento e il ripiegamento interiore, tanto più in realtà politicamente tormentate e oppresse, può portare a questo; lode a Julio Larraz per averlo tradotto in immagini che non si dimenticano.

Info

Vittoriano, Ala Brasini, via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, Tutti i giorni ore 9,30-19,30, accesso consentito fino a 60 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664  e 041.5230357; galleria venezia2@continiarte.com e http://www.continiarte.com/. “Julio Larraz”, catalogo a cura di Luca Beatrice, Ed. Skirà, Milano 2012, pp. 120, formato 24 x 27.

Foto

Le immagini sono state riprese al Vittoriano all’inaugurazione della mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con la Galleria d’arte Contini, l’artista  e i titolari dei diritti per l’opportunità concessa.In apertura, “Prime Minister”, 2010; segue, “Night Watch”, 2011; in chiusura, “Circo  Miguelito”, 1988.

 “Circo  Miguelito”, 1988
 

Mirò, Poesia e Luce, da Roma a Genova

di Romano Maria Levante

A Genova, nel Palazzo Ducale, Appartamento del Doge, la mostra “Mirò! Poesia e Luce”, dal5 ottobre 2012 al 7 aprile 2013 con 80 opere:50 oli, molti di grandi dimensioni, disegni e acquerelli, bronzi e  terracotte,  provenienti dalla Fundaciò Pilar i Joan Mirò, che ha collaborato attivamente all’organizzazione con Arthemisia, Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, 24 OreCultura.

La mostra è la prosecuzione ideale di quella svolta a Roma, dal 16 marzo al 10 giugno 2012 al Chiostro del Bramante, per il quale il Dart partecipò all’organizzazione come ora Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura. Curatrice sempre la grande esperta di Mirò Maria Luisa Lax Cacho. Il bel Catalogo rilegato, edito da “24 OreCultura” riporta, oltre alla splendida galleria delle opere, saggi della direttrice della Fondazione Mirò, Elvira Càmara Lòpez  e della curatrice Maria Luisa Lax, uno scritto dell’artista e tre interviste nelle quali rivela i segreti della sua arte.

Due “location” prestigiose quanto diverse quelle prescelte per lo sbarco di Mirò in Italia: dopo il Chiostro del Bramante a Roma nella prima metà del 2012, il Palazzo Ducale a Genova nell’ultimo trimestre dell’anno fino al primo del 2013. Mirò, che cercava poesia e luce al sole abbagliante di Palma di Maiorca, ritrova la luce nell’Appartamento del Doge; come aveva ritrovato la poesia nelle nove salette del Chiostro del Bramante dove erano esposte le sue opere piuttosto in penombra. Ma la luceera riflessa nell’atelier ricostruito al secondo piano con gli oggetti e le suppellettili che usava, e alcune tele sul cavalletto in una composizione essa stessa opera d’arte; e c’era poesia nella cornice rinascimentale del Chiostro nella quale veniva incorporato il suo linguaggio multiforme nei materiali e nelle espressioni con la costante di un sicuro equilibrio compositivo.

L’atelier era il culmine della mostra, seguito dalla vasta sala finale: ci ha ricordato lo studio di Georgia O’ Keeffe  in un ambiente luminoso come era quello nel New Mexico, ricostruito nella mostra della Fondazione Roma insieme ad alcuni luoghi della vita della pittrice. Per Mirò l’ambiente era reso anche da un filmato nell’apposita saletta all’ingresso, che lo faceva vedere intervistato tra i suoi dipinti, prodigo di spiegazioni sulla propria arte: non solo offriva una chiave di lettura preziosa per capire le sue opere, ma faceva entrare il visitatore nel clima e nello spirito in cui erano state create, e accostava alla sua disarmante semplicità nell’ispirazione e nella realizzazione.

Anche nella mostra di Genova ci sarà questa “total immersion” nell’arte di Mirò. La prepariamo parlando dell’artista e raccontando la nostra visita all’esposizione romana che di emozioni ne ha date tante dinanzi alle opere collocate in un ambiente particolare. Si ripetono di certo a Palazzo Ducale in un altro scenario, anch’esso incomparabile, che non cancella la memoria dell’evento apripista di Mirò in Italia, anzi ne valorizza il significato come guida e premessa a quello genovese.

L’arte di Mirò

La ricerca dell’essenziale si nota sin dall’intitolazione, la maggior parte delle opere sono “Senza titolo”, parecchie anche senza data. Pura espressione visiva, dunque, “poesia e luce” sono i soggetti; la forma e il colore vengono creati quando l’artista ha “tra le mani i pennelli e la pasta”, e se non ne dispone, “penso a nuove forme, le immagino, le creo e le ‘ricreo'”. Inizia con il nero e mette mano anche a più opere contemporaneamente, però in numero dispari, “il pari mi mette tristezza”; lascia asciugare e il giorno dopo aggiunge al nero alcuni segni, anche incisi, possono diventare un tridente o altro, poi ricorre ai colori per bilanciare  la composizione. Dice di muoversi “come un pianista”.

Niente di cerebrale, tutto all’insegna della semplicità, le sue fonti di ispirazione sono nella natura, “nulla è banale, tutto si può trasformare”, afferma; combina le forme naturali quasi da alchimista e le trasforma, una conchiglia la vede come un’architettura di Gaudi, “sarebbe bello vivere in forme simili, altro che le scatole dei grattacieli!” Anche per questo lo affascinano i graffiti, mette sul dipinto anche le impronte delle mani, nate per caso ma lasciate impresse perché ricordano pitture preistoriche,  da lui apprezzate come vere opere d’arte.  Come quella trovata in una grotta dagli speleologi, vista di recente nella mostra “I colori del buio” al Vittoriano: impronte rosse di mani.

Il suo atelier è come un giardino, lui si definisce il giardiniere che cura la crescita di  fiori, erbe e arbusti, con le potature e sradicando le erbacce. Un giardino aperto al sole e alla luce, pervaso di poesia. “Lo spettacolo del cielo mi sconvolge – esclama – Mi impressiono quando vedo la luna crescente e il sole in un cielo immenso”, come un bambino, del resto si ispira alla semplicità infantile. Ma dice anche: “Il quadro deve essere fecondo. Deve far nascere un mondo”.

Perché questo avvenga non basta essere infantili e neppure estemporanei o trasgressivi: “L’incontro di fantasia e controllo, di oculatezza e di generosità, che forse si può considerare una caratteristica della mentalità catalana – ha scritto Gillo Dorfles –  può spiegare, in parte almeno, la base fondamentale dell’arte e della personalità di Joan Mirò”: questi ossimori ne sono il sigillo.

Le sue radici le sente a Maiorca, terra della madre e della moglie, vi si trasferisce nel 1956 nell’atelier disegnato dall’amico architetto Josep Lluìs Sert, una costruzione su due livelli per meglio inserirsi nella conformazione del terreno con tetti arcuati che gli davano una forma sinuosa, colore bianco e argilla con serramenti gialli e rossi, una cromia a lui consueta; l’architettura diventa scultura, ma Mirò non lo concepì come un Museo, bensì un laboratorio creativo, per questo lo riempì di una grande quantità di oggetti, i più svariati, animali e piante, cartoline e ritagli di giornali, conchiglie e giocattoli.

Poi verranno altri due studi nello stesso luogo, ne donerà una parte alla cittadinanza e nel 1981 sarà creata la Fondazione a lui dedicata.  “Mi sento come una pianta”, dice del suo radicamento in quella terra.  A Maiorca si allontana dallo stile figurativo, al culmine di un percorso che lo ha visto nella fase iniziale –  la prima opera esposta in mostra risale al 1908 – avvicinarsi all’impressionismo e al fauvismo, al futurismo e al cubismo e dopo il viaggio a Parigi del 1920 al dadaismo e successivamente al surrealismo. Un “en plein”!

Arriva la folgorazione dagli espressionisti astratti americani, cui si aggiunge l’attrazione per il senso calligrafico dell’arte orientale, da loro prende “il vuoto e il nero”, l’essenzialità nel modellato, nel colore e nel soggetto: lascia il cavalletto e dipinge sul pavimento, cammina sui dipinti, vi spruzza il nero e poi il colore, negli ultimi anni lo stende con la pasta nelle dita e nelle mani in una “pittura materica” anche su compensato e cartone, materiali da riciclo che nobilita con il suo tocco. Non ci sono “cose morte, da museo”, vengono trasformate dall’arte: di qui  collage e “dipinti-oggetto”; e anche bronzi e terracotte: sono  sparsi nelle salette, il “clou” nell’ultima sala dove sono allineati.

Poesia e luce tra il nero, il vuoto e i forti colori

La  mostra consente di approfondire la sua forma di espressione artistica soprattutto nel periodo di Maiorca, dopo il 1956, ma non mancano opere precedenti. C’è anche il paesaggio originale del 1908 sul quale incollò ritagli di giornale dipingendovi nel retro, scoperto per caso durante un restauro: siamo nel 1960, allorché dopo il trasferimento a Maiorca distrusse molte tele e disegni precedenti, folgorato dalla nuova temperie artistica che lo aveva preso in quella luminosità.

Si inizia con gli schizzi per le pitture murali, 1946-50, da quello per il Gourmey Restaurant del Terrace Palace Hotel di Cincinnati, la prima commissione pubblica, a quello per l’Università di Harward, nonché l’ultimo per il progetto non realizzato destinato all’Aula dei delegati all’Onu, . Seguirono altrecommesse che eseguì  con schizzi preliminari a inchiostro nero o dipinti a guazzo. Di una sua “Pittura murale” era così orgoglioso da temerne il deterioramento fino  a proporne la sostituzione con una in ceramica.

Siamo ancora ai preliminari, per così dire, entriamo presto in un mondo luminoso con 4 grandi tele dove spiccano il rosso e il blu e 4 più piccole. E’ l’antipasto del primo piatto, la sala sui  maestosi “Monocromi”, 7 opere di grandi misure dove c’è solo il segno nero con tanto vuoto, in forme e composizioni di grande fascino che la maestria espositiva valorizza al massimo.  

Dirà “tre forme sono diventate un’ossessione per me: un cerchio rosso, la luna e una stella”,  aggiungendo che dai suoi mezzi espressivi si sforza di ottenere “il massimo della chiarezza, della forza e dell’aggressività plastica”: ed è questo aspetto che è stato sottolineato dalla curatrice Maria Luisa Max Cacho nella presentazione in cui sono intervenuti Iole Siena presidente di Arthemisia Antonio Scuderi, Amministratore delegato di 24 Ore Alinari, il quale ci ha tenuto a ricordare che “mentre si sollecita tanto la collaborazione tra pubblico e privato, questa mostra nasce  dall’accordo di tre strutture private”; può essere una strada nuova per fronteggiare i tagli ai fondi per la cultura.

Tornando all’artista, suo intento dichiarato è “provocare innanzitutto una sensazione fisica per poi arrivare all’anima”, lo diceva già nel 1933. Lo proviamo personalmente nel passare da una all’altra delle nove salette, siano attirati in un labirinto che si apre alla visione di opere di cui si avverte la grandezza: le dimensioni sono le più diverse, c’è anche un dipinto  molto lungo e stretto con un’immagine filiforme, per lo più segni marcati in nero e forti colori rosso e giallo, verde e blu.

Saliamo al secondo piano del Chiostro, 37 bassi scalini in pietra conducono alla ricostruzione dell’atelier di Maiorca con le suppellettili, gli strumenti di lavoro, i dipinti sui cavalletti: si sente la luminosità che doveva esserci, con i colori che l’artista maneggiava. Colori che vediamo nei 6 grandi dipinti della saletta seguente: “Adesso dipingo bagnando le dita nel colore”, diceva nel 1974.

Non ci si è ancora ripresi dall’uno-due dell’atelier e dei dipinti a forti colori successivi, che c’è il botto finale dello spettacolo pirotecnico delle opere di Mirò: la galleria si apre in una grande sala, spettacolare negli 8 dipinti grandissimi, in 4 sculture di tipo arcaico e 2 visibilmente totemiche.

E’ un approdo magistrale sul piano artistico che l’allestimento ha saputo valorizzare creando una sorta di crescendo sotto il profilo coloristico, con i due poli costituiti dalla sala delle grandi monocromie poco dopo l’ingresso e dal salone finale delle grandi policromie sempre con il nero e il vuoto che ne sono le costanti dalle quali è fortemente segnato il suo stile.

Ci vengono in mente come mera associazione di idee gli stessi colori inseriti nelle composizioni geometriche di Mondrian, viste nel gennaio 2012 al Vittoriano, dove la grafica con il segno nero aveva pari rilevanza, pur nella totale diversità: in Mondrian  era solo rettilineo, in Mirò curvilineo, i colori lì in precisi riquadri, qui  a macchie o segni senza alcuna regola, l’opposto della simmetria.

E’ l’arte allo stato puro che punta all’essenziale e lo trova in una ricerca – positiva nei due artisti- in cui gli opposti finiscono per incontrarsi nel tanto che lasciano nell’immaginario del visitatore.

Info

Genova, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge. Tutti i giorni, martedì-domenica ore 9,00-19,00; lunedì 14,00-19,00; la biglietteria chiude un’ora prima. Biglietto con audioguida euro 13,00 intero, euro 12,00 ridotto, euro 5,00 scuole. Tel. 010.5574004; biglietteria@palazzoducale.genova.it

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Chiostro del Bramante alla presentazione della mostra romana, si ringrazia l’organizzazione, in particolare il Dart, Arthemisia e 24 Ore Cultura, la Fundaciò Pilar i Joan Mirò, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.

Giorlandino, il percorso dell’anima, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Un’esposizione di 40 quadri,  tra acquerelli ed oli, a Roma, al Vittoriano nella Sala Giubileo, dal 2 al 14 ottobre 2012: “Il percorso dell’anima” di Mariastella Giorlandino, pittrice romana, studi al liceo artistico, laurea in architettura. L’itinerario evocato dal titolo si esprime attraverso ambienti neoclassici, segnati da architetture leggere ed evanescenti come i sottili alberi ed arbusti protesi verso l’alto in un clima fiabesco di arcadia nel quale la figura femminile è la protagonista assoluta con la sua fisicità prorompente che esprime in modo plastico ansie e turbamenti, sogni e speranze.

Il passato e il presente”, 2007 

E’ una galleria visiva che nella prima parte, gli acquerelli, sorprende per la leggerezza e l’armonia con cui i delicati profili femminili si accordano alle architetture ariose e agli arbusti sottili; nella seconda parte, gli oli, colpisce per la forza della figura femminile dominante non attraverso espressioni dell’anima, come il titolo farebbe pensare, ma mediante una presenza corporea quasi aggressiva, tali sono i nudi dai contorni netti e dai colori intensi, addolciti solo da pose languide.

Allora quel percorso all’insegna della leggerezza e della trasfigurazione di immagini arcadiche si tramuta in un itinerario dove prende il sopravvento la femminilità integrale, fatta di corpo oltre che di anima. Di un corpo che diventa lo specchio dell’anima nella quale si riflettono tutti i motivi di ansia e incertezza, attesa e insicurezza, come la consapevolezza di sé della condizione femminile.

Percorso e itinerario da decifrare, dunque, con una costante che ne è il filo conduttore nelle due espressioni di cui abbiamo sottolineato la diversità di forma e contenuto; la presenza costante dei motivi della classicità e della natura che accompagnano la figura femminile, appena delineata negli acquerelli, marcata con evidenza plastica negli oli. Le architetture sono più che un richiamo classico, danno rigore alla composizione, gli alberi filiformi ne allargano i confini anche sotto il profilo psicologico: non si dà all’albero  una precisa chiave interpretativa dei sogni femminili?

C’è un clima di sospensione nelle scene raffigurate, la figura umana è inserita in un ambiente spesso surreale anche se la solidità della composizione le dà una stabilità lontana dalle suggestioni  dell’effimero. C’è forse un senso di incompiuto, di non risolto pur in questa stabilità. Claudio Strinati  –  che nell’affollatissima inaugurazione ha presentato la mostra con Federica Galloni, direttore regionale per il Lazio del  MiBAC  e Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando” – ha detto al riguardo: “Le donne  della Giorlandino sono simboli di un sentimento quasi impercettibile dove l’angoscia  e i turbamenti del vivere sfumano  nella quiete e nel sogno rasserenante. C’è, infatti, in lei l’esigenza di staccarsi dalla quotidianità e librarsi verso misteriose trascendenze cui le sue immagini sembrano costantemente rivolgersi, come nell’attesa di un qualcosa che resta inattingibile e lontano”.  

E’ un processo che si può analizzare collegando i dipinti alle intitolazioni, esplicite quanto evocative, e soprattutto alle riflessioni che la stessa pittrice vi collega. Il filo continuo che unisce le sue opere pur nelle peculiarità che abbiamo sottolineato attraversa uno spartito quasi musicale dove le modulazioni  e i cambi di ritmo e di tonalità sono all’interno di una composizione armoniosa.

Proviamo a individuare le note salienti di questo spartito, che è il “percorso dell’anima” della pittrice guardando i suoi dipinti e leggendo le sue riflessioni come un’interpretazione autentica.

Il percorso dell’anima nei titoli dei quadri

Si inizia con gli acquerelli, i nudi femminili sono appena delineati,  più marcati i segni delle architetture e soprattutto di alberi ed arbusti, pur se leggeri e stilizzati. I titoli vanno dai riferimenti classici, come “Una finestra su Michelangelo” e“Omaggio surreale a Michelangelo”,  a evocazioni come “Equilibri e trasparenze” e “Negli equilibri”, “Staticità” e “Tra il cielo e il mare”; poi diventano più penetranti, la staticità diventa “Staticità interiore”, agli equilibri segue “Tutto è divenire”, il colore celeste  e marino si traduce “Nell’azzurro dell’anima”.

“La strada senza spazio” sembrerebbe suggerire un’oppressione, peraltro la figura femminile è armoniosamente collocata tra l’albero e le arcate, mentre “Serenità”  è uno dei pochi acquerelli senza la donna, c’è l’arcata in primo piano con dei ruderi, gli alberi si moltiplicano, classicità e natura sono la medicina dell’anima, dunque. E la si trova anche “Nell’oblio del sonno”.

Ma non si cerca di sfuggire la realtà, “Guidare se stessi” è l’imperativo, c’è “Il cammino delle donne” in un percorso che va “Al di fuori della mente”, perché “Il sogno in noi stessi”, quindi non c’è solo ragione, c’è sentimento; di qui  “Uno sguardo alle emozioni” e “Il volo delle emozioni”.

Negli acquerelli tutto questo è collocato in uno spazio rarefatto con i due sigilli costanti di cui si è detto, l’architettura classica e l’albero stilizzato; la figura femminile, rappresentata con i contorni delle forme di nudi delicati, assume diverse posizioni e atteggiamenti, assorti o volitivi.

Il tempo è un altro elemento essenziale di questo percorso, siamo come “Testimoni e statue del tempo”; la “Testimone del tempo” è un’immagine forte in uno degli acquerelli più colorati. Qual è il tempo dell’artista? Comincia con “Omaggio al passato” e “Dentro il nostro passato” per poi fissarsi su “Il passato e il presente” fino ad andare oltre “Tra passato e futuro”: il percorso dell’anima deve interpretare un’esistenza difficile, stretta com’è “Tra il bene e il male”.

Negli oli e nei quadri con tecnica mista i titoli sono coerenti con la maggiore forza data dai segni marcati e dai  colori violenti, rispetto alle linee delicate e le tinte pastello, giallino e celeste con bianco prevalente degli acquerelli. Il percorso dell’anima si fa inquieto e appassionato, dei temi precedenti c’è solo un “Omaggio al passato”, scena arcadica che si ripete “Nel sogno mitologico”, dominato da un nudo femminile disteso davanti a un elmo e uno scudo che ne sono accessori secondari, come i rami che spuntano dietro la figura immersa nel sonno.

Incalza l’angoscia esistenziale, i nudi femminili ne scandiscono i momenti assumendo pose diverse: le mani sono sulla testa della figura eretta in “La nostra vita”, mentre prendono l’erba dal terreno in “La ricerca della felicità; l’oppressione di “La prigione dello spazio” e “Nel vuoto dell’oblio” è resa con il corpo nudo femminile sdraiato nella spossatezza, mentre è di nuovo eretto ma con gli occhi sbarrati in “I mostri della mente”, dove una scalinata sale verso una maschera da incubo;  “Nel buio della solitudine” gli occhi volitivi e il linguaggio del corpo sono in  segno di sfida.

Le mani nei capelli su un orizzonte rosso cupo che fa da sfondo alla “Disperazione” segnano il punto estremo cui può giungere l’angoscia, poi ci si apre alla riflessione, “Nella cornice di noi stessi”, come in “Lasciare alle spalle”, reso visivamente dalla figura ripresa mentre cammina in avanti, la donna è incastonata in una solida forma architettonica, quasi vi trovasse un sicuro rifugio.

Per questo non deve spaventare la “Difformità”, si chiede “Se tutto divenisse” la figura distesa in un ambiente arcadico con ruderi antichi. Seduta con la testa pensosa appoggiata alla mano sinistra, sempre sotto arcate protettive, cerca di andare “Al di là del sentire”, e finalmente trova l’approdo tanto cercato. “Nell’amore delle emozioni”, seduta ‘en plein air’ con atteggiamento volitivo tra l’albero e la colonna, fino al “Desiderio d’amore” che si vede appagato in grembo alla natura dove fioriscono per la prima volta i rami sempre spogli dell’albero, nell’abbraccio con la sola figura di uomo dei suoi dipinti, a parte quella di genere in “Difformità”, in una scena da paradiso terrestre.e

E’ una sorta di “happy end” del percorso dell’anima come lo abbiamo ricostruito in una personale interpretazione delle sequenza in cui leggere i titoli, e quindi le immagini, tale da dare alla galleria di acquerelli e soprattutto di oli il senso compiuto di una narrazione.  L’artista,  oltre che nei titoli, ha dato la propria interpretazione del suo itinerario interiore con delle riflessioni proposte in riferimento ai singoli dipinti nel Catalogo, una vera e propria confessione.

Ne riportiamo i momenti salienti rispettando, per quanto possibile, la sequenza che abbiamo dato ai titoli, cogliendo ovviamente fior da fiore, senza evidenziare le parole dell’autrice, salvo alcuni passaggi; ma teniamo  precisare che tutte le tessere del mosaico di sentimenti sono sue.

“Dfformità”, 1994

Il percorso dell’anima nelle riflessioni della pittrice

Anche nei commenti agli acquerelli irrompe la crisi esistenziale. Persino i due quadri dedicati  a Michelangelo sono commentati con parole inquiete: sente un’incertezza pavida contro il tempo che passa, sperando di averne ancora a sufficienza per dare un senso alla vita; cerca di smorzare gli affanni mai sopiti, intreccia fra le dita un pensiero e un filo d’amore. E’ consapevole che il suo stato d’animo è turbato: “Il mio cuore funziona, ma devo aver perso le istruzioni. La mia mente funziona, ma devo aver allentato gli indotti delle vibrazioni”.

Cerca nuovi stimoli, e si accorge che non mancano, la mente va alla ricerca di leggerezza e amore, c’è l’intrepida certezza che il domani sia migliore, ma tutto sfugge nei pensieri. La nostalgia e la solitudine riportano a casa, un ritorno a dove ci si trova è però un viaggio senza sentimenti. I ricordi e i sogni nel cassetto si dileguano, non sa più dove trovarli, e la giornata serve solo a nutrire l’incertezza, c’è il sollievo della sera quando il tempo grigio è passato e possono soccorrere i sogni.

La solitudine porta al vuoto nella mente, manca sempre un attimo, lo spazio che qualcuno ha sottratto, anche se non sa cosa avrebbe fatto, l’assenza rende tutto precario. Neppure i sogni bastano, “siamo come pupazzi nelle mani della notte, nella triste commedia di una dura vita che passa veloce”. Non si distinguono più le stagioni, hanno solo il colore del tempo, è l’angoscia dei giorni aridi che viviamo a renderci insensibili. Il tempo porta via volti, parole, rimpianti ed entusiasmi, le emozioni sono spente, soffocate dal grigio di un tempo ingrato che si perde nei vuoti lasciati dalla vita.

Vorrebbe riscoprire un sentimento a lungo non pensato, un’emozione da cavalcare, perché si insegue sempre il futuro, invece dobbiamo imparare a vivere nel presente. Nessuno ci ripagherà mai dell’amore che non abbiamo dato, la vita dovrebbe essere più semplice, bisognerebbe mostrare la capacità di amare. Domina l’infelicità e l’angoscia, ci chiude il cuore e la mente; dovremmo vivere di più l’amore, nutrimento dell’anima, o svaniranno anche le emozioni.

I mostri della mente sono occhi che scrutano senza vedere, ingannati da una mente prevenuta, il sentimento o si esprime o si avvizzisce se resta chiuso nella mente. Diventano occhi chiusi senza riposo quando irrompe la disperazione, il tempo non passa, il  pensiero stanco annebbia la vista, impedisce di trovare la via della felicità.

Ma nella cornice di noi stessi si trova un  po’ di conforto, un sole di ricambio per i giorni di solitudine e d’immobilità, un sole che non sorge né tramonta ma sorride nei sogni. D’altra parte la saggezza non è per tutti, non basta cercarla, è solo per chi sappia riconoscerla quando la si incontra. Anche l’emozione si può smarrire portata via dall’infinito silenzio dell’assenza, e quando si perde il treno del tempo va ritrovata. Se gli occhi sono stanchi e non si vuol vedere né sentire, solo l’immagine di ciò che si sogna e ci dà la vita  riesce a scuotere il cuore e la mente, “senza di essa neppure io sarei”, esclama l’autrice. Al di là del sentire, luci nella notte come pensieri nel vuoto della mente che parlano di noi, di quando la felicità era un gioco, di quando ripagare l’amore con l’amore, l’amicizia con l’amicizia, la sincerità con la sincerità era una cosa normale.

Dopo la ragione torna il sentimento: nell’amore delle emozioni “oggi ho contato le parole dette e ascoltate, misera la somma”; ma riesce a dire ancora “facile al mio cuore è il sentire”.

E qui esplode il desiderio d’amore: “L’emozione di tanti baci anche se ne sono stati dati pochi, quelli rubati alla timidezza, quelli dati di slancio fingendo distrazione, quelli concessi senza pensare uno prima o uno dopo. Solo per sentire il sapore delle emozioni che ci spinge all’arte e ci fa vivere”.

Queste sue parole sono la nostra conclusione, nella sequenza che abbiamo ricostruito che pone l’amore al culmine. Del resto non è un continuo atto d’amore quel corpo femminile che sotto ogni titolo e dietro ogni riflessione si mostra nudo in una profferta nella quale ci sono di volta in volta inquietudine e angoscia, attesa e speranza, un fiume di  emozioni alimentate dal sentimento?

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori imperiali, Sala Giubileo, tutti i giorni ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito . Tel. 06.6780664; http://www.mariastellagiolardino.it/. Catalogo: “Il percorso dell’anima di Mariastella Giolardino”, Gangemi Editore, ottobre 2012, pp. 112, formato 22,5 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare Mariastella Giorlandino, per l’opportunità offerta. In apertura, “Il passato e il presente”, 2007; segue, “Dfformità”, 1994; in chiusura, “Desiderio d’amore”, 2012. 

“Desiderio d’amore”, 2012

Marotta, metacrilati e arte moderna, alla Gnam

di Romano Maria Levante

La Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma ospita dal6 ottobre 2012 al 27 gennaio 2013 la mostra molto particolare di Gino Marotta, “Relazioni pericolose”: in otto vaste sale della galleria le sue caratteristiche sculture in metacrilato, oltre ad alcune installazioni luminose, coesistono con i quadri alle pareti di grandi maestri che hanno accompagnato la vita non solo artistica dell’autore. E  come se le porte dello zoo si fossero aperte e gli animali sciamassero nel museo, insieme con alberi stilizzati; passando di sala in sala alla loro ricerca si scoprono capolavori ben noti che emozionano.

Gino Marotta, “Fenicotteri”

Una mostra innovativa 

Le “Relazioni pericolose” sono proprio queste, ma il pericolo non viene dal loro inserimento in coabitazione con le opere di tanti artisti così diversi e insieme pari tra loro nella grandezza. Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Galleria, dice espressamente che “altererebbero completamente la percezione delle sale se non fossero così riconoscibili e trasparenti, immediatamente isolabili dal contesto e non occlusive delle opere permanentemente esposte”. Invece ne stimolano la fruizione perché sono discrete e invitanti, segnano un percorso che viene attivato andando alla loro ricerca, aiutati da una piantina che ne localizza le posizioni nel labirinto della Galleria, ma non evita deviazioni casuali verso altre sale foriere di ulteriori esaltanti scoperte.

La fauna variopinta di Marotta, accompagnata da forme arboree, costituisce una sorta di carovana sulle cui orme ci si orienta nella molteplicità di spazi espositivi, l’artista è il pifferaio che traccia il cammino da seguire attirando con la magia delle sue composizioni e la maestria della loro collocazione. Un cammino pericoloso, quello segnato dalle relazioni tra le opere di Marotta e dei tanti maestri: il pericolo è nella “sindrome di Stendhal” cui si è esposti quando si è intenti a seguire le piste del bestiario multicolore e ci si trova all’improvviso al cospetto di capolavori inattesi.

Anche perché l'”agnitio” di queste opere irrompe mentre si è presi dalle forme zoomorfe e fitomorfe con trasparenze e colori fluorescenti, bidimensionali e tridimensionali insieme,  da sagome la cui percezione muta con l’angolo di visuale, fino a perdere i contorni. “L’arte della silhouette – sono sempre parole della Clarelli – ottiene l’effetto opposto a quello delle ombre cinesi: il contorno non definisce, sfuma. Sono opere apparentemente facili, dietro le quali s’intravede l’utopia ludica della ricostruzione futurista dell’universo ma anche lo spaesamento metafisico”.

Dà conto di questa insolita collocazione il Catalogo di Maretti Editore, a cura di Laura Cherubini e Angelandreina Rorro che hanno curato la mostra: non riproduce le opere di Marotta a sé stanti, come avviene di consueto, ma riporta campi lunghi delle sale, con i metacrilati colorati che introducono alle raccolte di opere nelle pareti, in modo da renderne l’ambientazione con grande efficacia. Si è dovuto anticipare l’allestimento per riprodurlo nel Catalogo, in una sorta di prolungato anteprima della mostra che ha consentito di cogliere le reazioni  dei visitatori delle sale convinti di trovarsi di fronte a un giovane artista, mentre Marotta ha superato i 70 anni: è questo “l’anacronismo più raro – ha commentato la Clarelli – quello che scambia il passato con il presente; un  anacronismo che si può anche definire il più felice, perché è quello che tocca ai classici”.

Il percorso artistico di Gino Marotta

Marotta è un precursore di forme e materiali oggi molto diffusi, per questo appare contemporaneo ma nello stesso tempo è coevo a maestri entrati nella storia, con cui ha diviso la temperie artistica della seconda metà del 900.  Va a Roma ancora ragazzo dalla sua Campobasso per incontrare de Chirico, gli porta i suoi “quadretti”, conosce Turcato che lo ospita, entra nel giro degli artisti.

Sono gli anni ’50, si esprime già attraverso opere polimateriche come arazzi ed encausti, velatini e amalgame di sabbia; poi i “Piombi”, quadri di piombo e stagno saldati, esposti già nel 1957, a 22 anni: con lui espongono Burri e Fontana, Licini e Léger, Balthus e Capogrossi.  E’ la fine degli anni ’50, si susseguono le mostre, realizza gli “Allumini”, sottili lamine saldate del metallo, e i “Bandoni”, presi dalle baracche con le scritte e figure che vi sono state impresse dall’uso popolare.

Negli anni ’60 utilizza nuovi materiali, poliuretani e poliesteri, con i procedimenti industriali delle produzioni di serie, e fonda il gruppo “Crack” di ispirazione dadaista e futurista con Rotella e Turcato, Cascella e Dorazio, Novelli e Perilli. Nel 1966 irrompe il metacrilato in opere quali il “Bosco naturale-artificiale”,  il “Nuovo Paradiso”, l'”Eden artificiale”, esposte al Louvre e in questa mostra che presenta in gran parte lavori di questo periodo, le restanti arrivano fino al 1973, a parte due installazioni del 2010-11. Si tratta del “perspex”, da lui definito “l’unico materiale resistente che non degenera, perché è un materiale altamente tecnologico” ed ha il pregio della trasparenza, ideale per creare sagome senza fisicità nelle quali si inserisce la luce, in una sorta di “spazio fluido”.

Continua con il metacrilato nei primi anni ’70, si ricorda la partecipazione a mostre come “Amore mio” in cui su lastre di “perspex” traduce le impressioni suscitategli da artisti come Ingres e Tiziano, Cranach e Hayez. Lascia tale materiale e gli altri di tipo plastico e industriale negli anni ’80 per quelli tradizionali come marmo, bronzo e pittura ad olio; realizza una scultura di travertino alta più di tre metri, “L’Albero della vita”, metafora e “simbolo della vita nel suo differenziarsi rispetto al tempo e allo spazio – disse Paolo Portoghesi nella presentazione – simbolo della vita come differenziazione della terra, ‘asse verticale’ che si oppone alla orizzontalità dell’orizzonte”. Si dedica anche ai disegni, come quelli dedicati a Borges, definiti nel Catalogo “un inventario di simboli, spazi mentali e della memoria che ogni uomo può vedere in se stesso chiudendo gli occhi”.

Gli anni ’90 segnano il ritorno di fiamma per il metacrilato non solo con l’esposizione delle opere di vent’anni prima, ma con la presentazione di nuove opere create in quel materiale restaurando pezzi danneggiati da esporre, preso – come dice lui stesso – dal “contagioso piacere a giocare ancora una volta con quelle materie e quei mezzi”, così da “riannodare le fila di un discorso ormai lontano”.

Con gli anni 2000 il metacrilato appare sempre più in linea con l’epoca della virtualità e della comunicazione, le mostre si moltiplicano. Tra le più recenti, nel 2011 espone il “Cronotipo virtuale” al Padiglione Italia della Biennale di Venezia, tiene anche una mostra personale nella città lagunare; nel 2012 oltre alle mostre in Italia, è invitato alla 11^ Bienal de la Habama. All’inizio del decennio, nel 2001, aveva esposto al Vittoriano  nella mostra antologica “Metacrilati”, e nell’occasione aveva spiegato che tale materiale, come nelle fibre ottiche, “consente il fulmineo scorrimento della luce nello spessore dei solchi incisi nelle varie superfici, facendo apparire le immagini luminose di cui si animano queste moderne ‘icone’  che mi piace immaginare laiche e prive di retorica”.

Nelle opere più recenti in cui è protagonista la luce, che si aggiungono a quelle in metacrilato, “la luce colorata, il colore ottico, in luogo del colore materico, assume un a dimensione fisica”, afferma lui stesso. E ci sembra con queste citazioni di aver dato l’interpretazione autentica della sua arte.

Gino Marotta, “Rinoceronte”, alla parete opere di Vedova e Capogrossi

Il percorso della mostra tra i metacrilati e tanti capolavori

L’allestimento non è stato occasionale, si è svolto in un anno di incontri tra le curatrici Cherubini e Rorro, la soprintendente Clarelli e Gino Marotta con la moglie Isa Francavilla, ne danno conto gli “stralci di conversazione” riportati nel Catalogo che sono il miglior commento alla mostra in quanto ne esprimono il dinamismo e l’impostazione assolutamente originale. Non è un’antologica, che avrebbe espresso la ricchezza e varietà della produzione nel tempo dell’artista, ma dà la possibilità, come dice Marotta, “di mettere in relazione il mio lavoro con quello che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma  ha conservato nella memoria storica della nostra cultura figurativa”; in una mostra, ha aggiunto Isa, “dove si stabiliscono dei vitalissimi corto-circuiti fra le installazioni di Gino e le opere della collezione”. Vere scosse di emozioni che scuotono positivamente il visitatore.

Il rapporto con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna inizia da ragazzo, quando comincia a frequentarla, e trova un momento magico nel 1956 allorché la storica soprintendente Palma Bucarelli acquista un suo “piombo”; poi vi espone, lui giovanissimo, tra opere degli affermati Corpora e Afro, Ceroli e Kounellis, Santomaso e Pascali.  Non è normalità, è coraggio, tanto che  quando Palma Bucarelli espose le opere polimateriche sue e di Burri ne fu chiesto il licenziamento in un’interpellanza parlamentare. E con questo ci sembra aver reso un po’ di quell’atmosfera.

All’ingresso della Galleria segna i “passi ”  il pavimento a specchi spezzati di Pirri, si entra nelle sale come passando su lastre di ghiaccio che sembrano rompersi dando la sensazione del mutamento continuo e imprevedibile, alcune statue senza basamento vi sono poggiate come testimoni muti.

La prima è l’“Area della visitazione”, c’è “il corteo dei Dromedari che vuole spiazzare più che orientare lo spettatore”, sono 8 sagome colorate di grandi dimensioni, la vastissima sala è uno spettacolo con 10 Fontana, nella sua visione dello spazio tra buchi e tagli della tela, 5 Burri in varie espressioni coloristiche oltre ai celebri sacchi, 4 Manzoni nei suoi “achrome”, e ben 10 Duchamp nei celebri “ready made”. “Fontana è stato per me un punto fermo, un padre in tutti i sensi: lui andava a vendere a Borsani i suoi piatti di ceramica per comprare i miei quadri – dice Marotta nell'”amarcord” – Lucio Fontana è stato un personaggio al di sopra di tutti gli altri, di straordinaria importanza. E’ stata una bella storia, un signore, un uomo come non se ne trovano altri”.

Proseguendo, si attraversa una sala senza i metacrilati di Marotta, ma si viene presi dalle opere alle pareti, di Campigli e Sironi, Casorati e Carrà. Dopo questo intermezzo particolarmente suggestivo ecco l’“Area dei Fenicotteri ostaggi”, si stagliano con le loro forme aggraziate e i loro colori dinanzi al pannello che copre l’intera parete con una miriade di spini infitti lungo tutta la superficie.

Siamo vicini all’“Area dell’ombra”, i metacrilati non sono più fortemente colorati ma scuri, c’è un grande Rinoceronte, con un Albero e una piccola Giraffa, alle pareti Turcato e 4 Capogrossi. Poi si prosegue con il Giaguaro e il Fenicottero scuri nella sala con Pollock ed Ernst, Moore e Giacometti del quale Marotta dice: “Giacometti è stato un maestro di vita che mi ha insegnato quanto sia importante la pazienza in questo lavoro, ha svolto un ruolo che aveva più attinenza con l’etica che con l’estetica”. Riguardo alla collocazione nella mostra aggiunge: “Giacometti spegne la luce ed è lì che si genera la zona d’ombra”. E precisamente: “Man mano che mi avvicino alla zona dove sono i miei contemporanei, i miei amici, Cy Twombly, Turcato, le mie opere perdono colore, si fanno ombra. L’idea è quella di animare la zona d’ombra, che è la zona più fredda”. Troviamo nella sala successiva il grande Fenicottero, sempre scuro, con opere di Ghia e di Mimmo Paladino.

Il “Cronotopo virtuale” si trova nella sala con Franco Angeli e Tano Festa, la “falce e martello” di Warhol e Schifano, il manifesto strappato di Rotella e “l’ultima cena” di Ceroli. Marotta ricorda la mostra “La coda della cometa” dicendo che “l’astro era De Chirico e i suoi figli io, Schifano, Tano Festa, Del Pezzo”. Il “Cronotopo” è un’installazione luminosa incorporea e solida come il tempo.

C’è anche l’“Area della lussuria”, con tre piccoli pannelli di tipo pittorico raffiguranti delle Veneri in materiale translucido diverso da quello della pittura, tra busti e teste di personaggi.

Il percorso si fa incalzante, Siamo attirati  dal “Cubo animale” al centro della sala dal titolo “Area Euclidea”, è in metacrilato arancio con figure impresse, nelle pareti c’è quanto basta per la “sindrome di Stendhal”:  2 Savinio e4 Boccioni, 3 Morandi e 2 Modigliani, Balla e Severini, Magritte e Braque. Marotta ha detto: “De Chirico e Giacometti sono due amici fondamentali per lo sviluppo della mia personalità, sono due punti fermi nella mia agiografia, ma anche affettivi.  Credo che de Chirico sia non solo importante per il mio lavoro, ma una matrice del pensiero moderno”.

L'”Area Euclidea” riserva nuove sorprese di livello analogo, prosegue in un’altra grande sala con un vero giardino botanico in metacrilato di vari colori, alberi e siepi artificiali con qualche Fenicottero e Giraffa: uno spettacolo nel pavimento dove poggiano le sagome vivacemente colorate e un altro nelle pareti con Balla e Sassu, Prampolini e Depero, Dottori e Guttuso. Di quest’ultimo c’è  “La battaglia di Ponte Ammiraglio”, che Marotta dice di aver visto dipingere dall’artista il quale cantava intanto canzoni dei carrettieri siciliani; la curatrice Cherubini osserva che il giardino botanico in metacrilato risponde all’evocazione della guerra “con l’aspetto ludico e ironico”.

Si passa all’“Area delle Ninfee” con il suo “Ninfea blu”, un metacrilato luminoso accanto a uno dei celebri Monet su questo soggetto. Ma ci sono anche Degas, pittura e scultura, e Courbet in una sala con tante teste scultoree, molte di Medardo Rosso.

Oltre a 2 Boccioni e 3 Balla, nelle pareti della sala dov’è l’“Area della luce” con il “Twister”, metacrilato a luce artificiale colorata, vediamo al centro due preziosi Van Gogh. Siamo sempre più presi da una “ronde” di immagini che si affollano con i capolavori materializzati come per incanto.

La visita è terminata, percorriamo un corridoio senza alcuna opera di Marotta cercando l’uscita, ci assalgono le immagini risorgimentali di 4 Palizzi e 2 Fattori, poi il futurismo di Dottori e Prampolini con Benedetta Marinetti. Tutt’intorno tante altre sale con il resto della storia dell’arte moderna di cui abbiamo ammirato indimenticabili capolavori, ne temiamo veramente la sindrome.

Abbiamo visto nel “Cortile Aldrovandi” anche il “Giardino all’italiana” fatto di balle di paglia, e abbiamo lasciato per ultima l’evocazione di un momento veramente magico, forse unico: quello in cui il visitatore attraversa un’installazione, la “Foresta di menta”, opera-ambiente plurisensoriale in cui, come ha detto la Clarelli, “occorre farsi largo con le mani  fra le liane di plastica profumate”; ricordiamo che oltre alla vista e al tatto vengono coinvolti altri sensi, come l’olfatto  e il gusto.

Si attraversa la “foresta” nel passare da un settore all’altro, è un’emozione in più data da una mostra inusitata colma di sorprese, che valorizza lo straordinario giacimento culturale della Galleria.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma, da martedì a domenica ore  9,30-19,00, lunedì chiuso; la biglietteria chiude alle 18,45. Biglietteria tel. 06.32298221, http://www.gnam.beniculturali.it/. Catalogo: “Gino Marotta – Relazioni pericolose”, a cura di Laura Cherubini  e Angelandreina Rorro, Maretti editore, pp. 198, euro 40,00.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna che si ringrazia, con l’organizzazione della mostra e i titolari dei diritti, in particolare la soprintendente Clarelli e il maestro Marotta. In apertuyr, “Fenicotteri”; segue, “Rinoceronte”,alle pareti opere di Vedova e Capogrossi; in chiusra, “Albero”,  alla parete l’opera di Renato Guttuso, “La battaglia del Ponte dell’Ammiraglio”. 

Gino Marotta, “Albero”, alla parete l’opera di Renato Guttuso, “La battaglia del Ponte dell’Ammiraglio”  

Pietracamela. Parte la messa in sicurezza del “Grottone”

di Romano Maria Levante

Pietracamela

Quando la cronaca diventa favola. E’ avvenuto a Pietracamela, il borgo alle falde del Gran Sasso ferito prima dal terremoto dell’aprile 2009 che ha reso inagibili tante abitazioni, poi dalla caduta massi culminata nel crollo di una parete rocciosa del ”Grottone” del marzo 2011 sulla vallata con le preziose “pitture rupestri” del pittore Guido Montauti travolte dall’evento franoso che ha sconvolto l’assetto ambientale bloccando i collegamenti nella parte estrema e del paese e quelli verso la montagna, dal Piano delle mandorle a Campo Pericoli, fino a Campo Imperatore.

La cronaca che diventa favola

Ne abbiamo ricordato di recente la cronaca richiamata dalle fotografie al pittore sul “Grottone” scattate nel lontano passato da Aligi Bonaducee rinvenute dal figlio Flavio, entrambi ideatori e curatori della mostra in cui sono esposte, visitabile presso il “Museo delle genti e degli antichi mestieri” nel Municipio del paese. Una cronaca che, lo ripetiamo, ci ha lasciati attoniti per la circostanza, apparsa straordinaria, che le immagini inedite ritrovate casualmente solo di recente mostrano il pittore nella parte del “Grottone”, dove chiese ad Aligi di essere fotografato, che molto tempo dopo gli scatti, nel 2011, è crollata travolgendo a valle le pitture da lui dipinte con il gruppo del Pastore Bianco” sulle rocce della “Grotta dei Segaturi”. Come ci lascia attoniti e felici la notizia giunta adesso, secondo cui i primi finanziamenti per la messa in sicurezza, che sembravano essersi allontanati dopo i primi impegni rimasti disattesi, sono stati assicurati con un decreto comunicato al Comune l’11 settembre 2012, una settimana dopo la pubblicazione del nostro servizio.

Ci guardiamo bene dallo scambiare il “post hoc” con il “propter hoc”, si tratta di un provvedimento dall’iter complesso firmato un mese prima, precisamente il 13 agosto 2012: lo stesso giorno dell’apertura della mostra incentrata sull’immagine del pittore in anni lontani alla sommità della vallata sconvolta dal crollo verificatosi proprio nella grotta in cui veniva ritratto. Ebbene, nel commentare le immagini avevamo sottolineato questa presenza ammonitrice che poneva dinanzi alla responsabilità di tutti l’esigenza di un intervento per la messa in sicurezza e il ripristino dell’arte e dell’ambiente sfregiati; diamo atto che il senso di responsabilità alfine ha prevalso.

La risposta positiva nella sua coincidenza temporale dopo il protrarsi dell’attesa ha fatto sentire il sapore della favola al di sopra della cronaca, dinanzi a una sequenza che ci ha stupito per i suoi “segni” così significativi per chi non rifugge dal dare speciali significati a misteriosi collegamenti.

 La frana

Torniamo alla cronaca per render conto del provvedimento e del seguito che gli sarà dato, non prima di concludere il richiamo alla “puntata precedente” della nostra storia estendendo a un raggio più vasto l’appello che avevamo rivolto a un solo artista. Nel momento in cui ci si prepara ai primi interventi operativi crediamo utile ogni contributo di idee che possa venire da varie parti per il recupero ambientale e per il nuovo assetto delle “pitture rupestri” quando sarà possibile realizzarlo. Sarà un modo di mostrare in concreto amore per quei luoghi e per il grande artista Guido Montauti che vi si è ispirato e vi ha lasciato i segni della sua arte: e questo fornendo spunti e suggerimenti rivolti a chi avrà la responsabilità e la regia degli interventi.

La presenza ammonitrice del pittore, che sembra essere tornato sui luoghi da lui tanto amati nelle immagini scattate a suo tempo da Aligi, con il contestuale sbocco positivo della questione vitale dei finanziamenti, fa sì che oltre al “percorso”, cui pensa il sindaco per il nuovo assetto delle “pitture rupestri”, il nome di Montauti possa essere dato anche alla vallata sotto il ”Grottone”: nella zona che termina con la “Grotta dei Segaturi” ora scomparsa, distrutta dalla frana che ha travolto i suoi dipinti. Più che una proposta è un moto spontaneo dell’animo, spinti come siamo dalla consuetudine che avevamo con il pittore scomparso e sensibili ai “segni” misteriosi di questa favola vera.

I primi finanziamenti per la messa in sicurezza

Tornare dalla favola alla cronaca è come passare dalla poesia alla prosa, cosa tanto più difficile se è quella burocratica dei decreti della pubblica amministrazione, ma è una prosa così attesa da apparire poetica. La premessa, fatta di un lungo elenco di riferimenti a norme e adempimenti, ben 23, evidenzia l’intero percorso di un iter complesso che inizia dal sopralluogo del 17 giugno 2009, poco più di due mesi dopo il sisma, per la “caduta massi in località Capo le Vene”, appunto il nostro “Grottone”; i rilievi compiuti accertarono “il nesso di causalità con l’evento sismico del 6 aprile” e lo certificarono.

Lo spigolo incombente

Seguono ulteriori passaggi: il 23 novembre 2010 il Comune trasmette lo “Studio geologico-tecnico per la valutazione e mitigazione del rischio frane da crollo coinvolgenti l’abitato di Pietracamela e dintorni”, il 28 dicembre viene richiesta la quantificazione dell’onere relativo. Finché i crolli del 18 marzo 2011 con la loro violenza dirompente hanno richiamato all’urgenza della messa in sicurezza in una situazione gravemente compromessa dall’evento franoso ben più rovinoso del precedente, anch’esso riconosciuto dal sopralluogo del successivo 13 aprile come “predisposto dall’evento sismico”.

 Il 12 aprile 2011 il Comune trasmette agli organismi competenti lo “Studio di fattibilità per gli interventi di messa in sicurezza a seguito dei crolli di massi rocciosi del 18.3. 2011”, fino al progetto preliminare per gli “Interventi di urgenza per la messa in sicurezza del promontorio Capo Le Vene, lotto I” trasmesso sempre dal Comune il 31 ottobre 2011.

Il Comune di Pietracamela si è dunque attivato con il sindaco Antonio Di Giustino in prima fila per quanto di sua competenza, presentando sin dal novembre 2010 lo studio geologico con gli interventi necessari per 4,8 milioni di euro; le verifiche e i passaggi autorizzativi hanno portato a questo primo lotto di interventi più urgenti per 510 mila euro, si confida che il resto segua in tempi ragionevoli.

Tali interventi riguardano espressamente la sicurezza della parete rocciosa, quindi a prima vista sembrerebbero per ora esclusi quelli di ripristino ambientale con il recupero delle “pitture rupestri”. La conformazione della zona, però, impone di non trascurare neppure nell’attuale prima fase questi aspetti, perché si tratta comunque di ripristinare i collegamenti per accedere alla zona; quindi la riapertura dei sentieri sul Canale e a Sopratore verso il Piano della mandorle, Campo Pericoli e quindi Campo Imperatore dovrebbe essere assicurata; così come una parte del “percorso Montauti” che incrocia lo stesso itinerario e potrà consentire intanto l’accesso alla parte pittorica superstite.

La parola al sindaco Antonio Di Giustino

A questo punto, avuta la notizia del decreto appena pervenuto dal consigliere comunale Aligi Bonaduce, il 12 settembre abbiamo sentito il sindaco per avere indicazioni su come intende procedere, all’interno delle procedure realizzative e di controllo previste, richiamate espressamente nei 5 articoli del decreto che lo nomina “soggetto attuatore per la realizzazione dell’intervento”.

La reazione a caldo di Antonio Di Giustino rivela un entusiasmo contagioso dopo la sfiducia seguita alla lunga e finora vana attesa: “Temevo che per quest’inverno non si sarebbe neppure cominciato ad affrontare il problema, ora quelli che sembravano solo miei sogni possono diventare realtà, compreso il recupero dell’itinerario turistico e il percorso per le ‘pitture rupestri’ sopravvissute”.

Non è un momento di esaltazione, il sindaco è molto preciso: “Sono in contatto con gli ingegneri dell’Enel che attendono solo un segnale del Comune per creare un percorso nuovo sul Canale nella sua continuità; ora posso dare questo segnale, già domani sarò sul posto con dei tecnici per partire nell’immediato”. Il generale inverno si avvicina, siamo in alta montagna, perciò occorre bruciare le tappe per fare quanto possibile prima delle nevicate che fermeranno i lavori: “In questo periodo mi dedicherò totalmente a tale impegno, le procedure di emergenza mi consentono di essere operativo in 10-20 giorni e utilizzerò tutto il tempo a mia disposizione senza indugi né rallentamenti”.

Gli chiediamo come vede la coincidenza temporale con la mostra fotografica sul pittore Montauti ritratto in tempi lontani nella grotta crollata di recente. “Sono coincidenze che mi danno forza nel portare avanti i miei progetti, le vedo come un messaggio a procedere con rinnovata energia nelle iniziative per il recupero artistico delle pitture rupestri e dell’ambiente devastato, e non solo”.

Quel “non solo” viene subito esplicitato: “Con il figlio dell’artista, Pierluigi Montauti, abbiamo in programma per il periodo di ferragosto del prossimo anno una esposizione delle opere su tela di Guido Montauti, che lui stesso metterà a disposizione, nelle piazzette del borgo con incontri, musiche, prodotti locali, in una prospettiva di rilancio del paese dopo le ferite del terremoto”.

Un rilancio che va oltre l’interesse locale: “Siamo sul ‘Sentiero Italia’ e dobbiamo mantenerci all’altezza, anche il recupero delle ‘pitture rupestri’ di Montauti fa parte di tale valorizzazione”.

Sull’onda di questa visione più generale ci rivela che il recupero dell’abitato dai danni arrecati dal terremoto avrà un’accelerazione, molto sarà fatto prima dell’inverno per la parte pubblica, poi in primavera partirà il resto, espletate le procedure previste per la ricostruzione. Sarà colta quest’occasione anche per realizzare quello che viene chiamato “percorso di fuga”, un nuovo collegamento delle parti del paese tracciato in basso, dal Rio della Porta a Porta Fontana. In alto, a Sopratore, dove c’è Vena Grande, nella parte panoramica sarà allestita una zona di ritrovo intitolata a Ernesto Sivitilli, altra personalità storica del paese oltre a Guido Montauti. “Penserò quest’inverno ad organizzare tali iniziative, ora il mio impegno va tutto all’emergenza della “messa in sicurezza”.

Sul nostro invito a tener conto delle idee sul riassetto ambientale e sul “percorso Montauti” che pervenissero da varie parti a seguito dell’appello a fornire suggerimenti, non solo manifesta la massima apertura e disponibilità, ma ha in mente un’iniziativa concreta: “Sto pensando a un bando per stimolare questo afflusso di idee, e conosco degli artisti abruzzesi, pittori e scultori, legati a Montauti i quali di certo vorranno fornire il loro contributo di idee che considero prezioso”.

Non sono voli pindarici, il sindaco è pragmatico e precisa: “Il progetto di recupero e la sua realizzazione potranno trovare espressione in un cronoprogramma con rendicontazione da aggiornare costantemente nel sito del Comune, quindi trasparente e accessibile a tutti”.

Un’ultima notazione: “Utilizzeremo i piani di ricostruzione per iniziative innovative, così avremo un paese più bello di prima”. Non lo dice ma lo ricordiamo noi: Pietracamela è dal 2005 nel Club dell’Anci “i Borghi più belli d’Italia”, proclamato “Borgo dell’Anno 2007”; è un paese al quale Gabriele d’Annunzio dedicò un suo racconto del 27ottobre 1887 dal titolo suggestivo: “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scùrcula”. Il che è tutto dire.

Pietracamela

Foto

Le fotografie di una parte del “Grottone” interessata dal crollo sono di Romano Maria Levante, dell’agosto 2012; le fotografie delle “pitture rupestri” del “Pastore Bianco” di Guido Montauti sono di Aligi Bonaduce che ringraziamo per avercele fornite cortesemente, la pittura con il cavallo, che copre interamente la roccia, è sopravvissuta alla frana, la fotografia è stata scattata da Aligi il 23 marzo 2011, cinque giorni dopo il crollo che ha travolto le altre pitture il 18 marzo.

3 Comments

  1. Antonio Di Giustino

Postato settembre 20, 2012 alle 8:43 PM

Lodevole il contributo proposto da Giorgio Montauti che ci ha regalato immagini di valore storico altissimo. Il recupero delle “Pitture rupestri” che la mia amministrazione considera prioritaria si ergerà a simbolo di un paese devastato dal terremoto che rinascerà per tornare al suo splendore di “Borgo montano”e tale recupero precederà la vera ricostruzione di Pietracamela ! Ringrazio Giorgio Montauti e tutti i paesani gli sono grati per il suo intervento. Il Sindaco Antonio Di Giustino

  • Giorgio Montauti

Postato settembre 19, 2012 alle 6:19 PM

Gli articoli che Romano Maria Levante ha pubblicato ripetutamente in questa rivista sul “Crollo del Grottone”, che oltre ad aver ostruito sentieri ha duramente colpito le Pitture Rupestri sfigurando il sito in cui le stesse erano armoniosamente inserite, denotano una grande sensibilità, oltre che un grande “amore” per la sua terra ed un’attenzione non comune alle cose dell’Arte. Per tutto questo mi sento di dovergli rendere merito, anche in funzione della grande stima che ha sempre manifestato nei confronti dell’amico Artista. Il fatto che attraverso questa rivista sia divenuto il paladino del riassetto ambientale del sito e nel contempo del recupero delle pitture gli fa un grande onore. Lodevole anche l’entusiasmo con cui il Sindaco Di Giustino annuncia iniziative atte ad ottenere un contributo di idee da parte degli artisti abruzzesi, che certamente non mancheranno come non mancherà il contributo di noi, figli dell’Artista, sia in termini di idee che di operosità, per il rilancio di un paese così duramente colpito.
Nel frattempo ho ritenuto di dare il mio contributo mettendo insieme in un filmato, linkato qui di seguito, le foto delle pitture nello stato in cui erano alcuni anni fa, e questo sia per documentare ciò che esisteva prima del crollo, ma anche per stimolare le autorità competenti al recupero di tali opere, a salvaguardia di un patrimonio artistico unico nel suo genere.

http://youtu.be/RrLuR1kLUCI

  • Francesco Ascani

Postato settembre 17, 2012 alle 6:41 PM

Per chi ha letto come me i precedenti servizi del Levante “Pietracamela. Mostra fotografica sul pittore Guido Montauti”, pubblicato il 29.08.2012 su “guidaconsumatore – guida alla fotografia” e “Pietracamela. Fotografie e pitture rupestri nel crollo del Grottone” pubblicato il 3.09.2012 su questa rivista, questo suo terzo intervento ha un valore aggiunto, proprio quello che lo contraddistingue.
Lo dico perché questo autore inimitabile nel modo in cui offre cultura sia nel trattare argomenti importanti con completezza tale da sfiorare la pignoleria, tant’è l’impegno profuso, e sia nella forma che manifesta.
Romano Maria Levante non è nuovo a trattare argomenti in più approfondimenti, appunto perché vuole e riesce ad essere attento nella ricerca delle notizie e di tutto quanto ad esse collegato, nell’esaminarle anche da diversi punti di vista e nel commentarle, forte anche delle sue capacità e dell’impegno che mette in tutta la sua attività.
Quello che ho cercato di dire è il mio pensiero maturato dopo la lettura di tanti suoi servizi, saggi e studi su argomenti diversi, svolti sempre facendo proprio l’argomento per poi, senza alcun problema, renderlo al lettore.
Queste mie considerazioni le ritengo tutte mostrate in questo suo nuovo impegno: quello di chiarire, come lui dice “Quando la cronaca diventa favola”.
Partendo dal terremoto dell’aprile 2009, fino al crollo di una parete rocciosa del marzo 2011, trae lo sconvolgimento dell’assetto ambientale, documentato da foto di particolare efficacia, scattate da Aligi Bonaduce: immagini inedite.
Riferisce, poi, sul provvedimento emesso “per la messa in sicurezza e il ripristino dell’arte e dell’ambiente sfregiato” con l’assegnazione dei primi finanziamenti.

Tornando alla cronaca e con riferimento al seguito che il provvedimento avrà, nel momento dei primi interventi operativi, ritiene utile ogni contributo di idee che possa venire da varie parti, estendendo l’appello in precedenza rivolto ad un solo artista.
Bello il riferimento alla presenza ammonitrice del pittore che oltre al “percorso” pensato dal Sindaco Di Giustino per il nuovo assetto delle “pitture rupestri”, suggerisce il nome Montauti anche per la vallata sotto “Il Grottone”, come “segni” di questa favola vera.
Segue, con la precisione del Levante, una serie di riferimenti a norme e adempimenti sui primi finanziamenti e sugli interventi, sull’entusiasmo del Sindaco Antonio Di Giustino, sui suoi intendimenti e sui programmi per il futuro, in una prospettiva di rilancio di Pietracamela dopo le ferite del terremoto e della frana, attraverso il prezioso contributo di idee che gli artisti abruzzesi, certamente, vorranno fornire.

Pietracamela. Mostra fotografica sul pittore Guido Montauti

di Romano Maria Levante

Home > Mostre > Pietracamela. Mostra fotografica sul pittore Guido Montauti

Una mostra fotografica del tutto speciale in un ambiente speciale, dal 13 agosto al 30 settembre 2012 e oltre. L’ambiente è la bella sala del Municipio di Pietracamela, il paese alle falde del Gran Sasso sul versante teramano entrato nel 2005 nel Club dell’Anci ”I Borghi più belli d’Italia” e dopo soli due anni proclamato “Il Borgo dell’Anno 2007”. Protagonista è il pittore Guido Montauti, scomparso nel 1979 a 61 anni, in una ventina di fotografie scattate da Aligi Bonaduce nel paese natio, nei luoghi cui si è ispirato per le plastiche composizioni con le sagome umane tra le rocce. La mostra è nell’ambito del Museo delle genti e degli antichi mestieri, che ha sede stabile nel vecchio Municipio, ed è associata a un’esposizione di Strumenti di civiltà contadina e montanara.

Nell’atrio si è accolti da una serie di belle fotografie degli archi che costellano i vicoli del centro storico del paese, poi si entra nella sala della mostra con la scrivania del sindaco, traslocato per il terremoto nella vecchia sede municipale data l’inagibilità della parte dell’edificio con gli uffici. Il suo studio di rappresentanza, agibile, è divenuto “sala multimediale” e “Internet point” con vari terminali a disposizione di paesani e turisti, iniziativa molto utile apprezzata soprattutto dai giovani.

L’introduzione: l’esposizione di strumenti della civiltà contadina e montanara

Prima di parlare delle fotografie in mostra sulle pareti e di ciò che evocano, uno sguardo alla vicina saletta con esposti oggetti di impiego quotidiano e strumenti di lavoro che nei tempi passati erano usati a Pietracamela, non genericamente nella montagna e campagna abruzzese, ma proprio nel piccolo borgo con oltre 1500 abitanti rispetto al numero molto ridotto di presenze stabili attuali: nell’etichetta oltre al nome italiano è indicato anche quello nel dialetto locale, il “pretarolo”, molto diverso dai dialetti abruzzesi, anche da quello della vicina frazione di Intermesoli.

Ecco la lanterna a petrolio dei carbonari “la jhuntorna”, e quella ad olio “lant’rnalla”; la roncola per la legna “ou rene” e la pietra per affilare la falce “la cauta”, la roncola per tagliare cose piccole “r’ngatta” e i morsetti per incollare le finestre “i’m’rsatt”, l’oliera “ulieur’”e la scatola per tagliare le cornici “45 gruod”. Poi una serie di treppiedi e coltelli rudimentalii, il necessario per la grande caldaia, dagli scolapasta ai forchettoni, nella cucina della famiglia patriarcale molto numerosa prima che l’emigrazione nelle Americhe la decimasse. Non mancano documenti dell’epoca nella scrittura a inchiostro corposa e con svolazzi; un fucile e una pistola con i contenitori della polvere.

La memoria fotografica: Guido Montauti pittore tra le sue rocce

La visione degli oggetti nella piccola mostra che ci riportano alla vita del paese arroccato tra le rocce prepara alla mostra fotografica dedicata al suo celebre figlio il quale ne ha tratto l’ispirazione per un’arte pittorica che ha avuto riconoscimenti prestigiosi: nel 1938 a 20 anni la prima personale, terminato il dopoguerra espose a Milano e a Venezia alla Biennale nel 1950, scrisse di lui Virgilio Guidi. La consacrazione venne da Parigi, allora capitale dell’arte pittorica, dove si trasferì nel 1952, con il pieno apprezzamento del critico d’arte Pierre Descargues seguito nel tempo da critici italiani.

Su una forte base culturale – che lo portò nell’età matura all’insegnamento di “disegno della figura” nel Liceo artistico di Teramo, al quale nel 2010 è stato dato il suo nome – cominciò a dipingere con immagini forti ispirate a Rouault; poi la forza la trasse dalle rocce della sua terra con le figure umane tradotte in sagome assorte e possenti. Nella seconda fase della sua vita artistica alle rocce aggiunge i profili stilizzati della campagna abruzzese, allontanandosi dal figurativo fino al “periodo bianco” nel quale approda a una sorta di sublimazione vicina all’astrazione, lontana dalla realtà però con la presenza immancabile della roccia, divenuta un piccolo, ma significativo sigillo.

Non si è limitato a tradurre nei dipinti la sua ispirazione, ha propugnato il ritorno all’arte vera dinanzi alle esasperazioni ultramoderniste, riportando la figura umana al centro dell’opera pittorica.

Una figura umana ricondotta all’essenziale la sua, la sagoma radicata nella sua terra con le rocce a fare da protagoniste anch’esse, più di rado animali come le mucche e qualche volta il cavallo. La sua polemica con la Biennale di Venezia fu coraggiosa e immaginifica quando nel 1963, tredici anni dopo avervi partecipato, costituì il gruppo del Pastore Bianco come “Avanguardia della Rinascenza”: tre giovanissimi pittori e un paesano simbolo dei pastori che indossava il pittoresco “guardiamacchie” nella grande mostra al Palazzo Esposizioni di Roma nel 1964.

Della mostra che visitammo, dopo quasi cinquant’anni ricordiamo le sagome e le rocce della sua pittura che nella maggiore dimensione acquistavano ancora più forza; fino al monumentale “Giudizio Universale”, nel quale applicò il suo stile inconfondibile a un soggetto così impegnativo e diverso. Si può ammirare sulla sommità dello scalone che porta all’ultimo piano del Comune di Teramo al quale è stato donato, e ogni volta che lo si vede si fanno scoperte sorprendenti dinanzi a un capolavoro.

Dei giovani componenti del gruppo, Alberto Chiarini, Pietro Marcattili e Diego Esposito, ci piace sottolineare la prestigiosa escalation di quest’ultimo, divenuto artista internazionale tra Occidente e Oriente, docente a Brera; lo stesso “pastore” iniziò a dipingere in un naif semplice e genuino, fino a esporre da solo a Montorio al Vomano. A lui, Bruno Bartolomei, anch’egli scomparso, è dedicato un largo nel paese; a Guido Montauti è intitolato il Belvedere panoramico con una fontana che ricorda le sue forme predilette, sulla tomba nel Cimitero di Pietracamela ci sono in rilievo le sue sagome davanti a una roccia. Nella sala consiliare del Municipio del paese un suo grande dipinto copre un’intera parete, un altro è nella sala da pranzo dell’albergo “Gran Sasso 3” ai Prati di Tivo.

E’ lui il protagonista della mostra fotografica: le immagini lo ritraggono pensoso tra le rocce nel contrafforte roccioso che domina Pietracamela con i pilastri e i massi, le grandi caverne e la successione di grotte di varie dimensioni che lo hanno fatto definire “il Grottone”. Sembra a suo agio, compiaciuto di venire immortalato nel suo mondo, di “scendere in campo”, per così dire. L’autore degli scatti divenuti preziosi, Aligi Bonaduce, ci dice che fu lo stesso artista a suggerire il Grottone come sfondo delle foto; si erano incontrati a Sopratore, nella parte alta del paese, e lì Aligi lo ha fotografato vicino a Vena Grande, dovettero salire molto più su, oltre il canale, per trovare le caverne che Montauti sentiva come sue.

Sembra interpretare i suoi dipinti, “testimonial” di se stesso, così le fotografie diventano dei quadri. E’ come se nel contatto con la fonte dell’ispirazione si materializzasse l’artista in carne e ossa, entrasse nel proprio dipinto. .Sono immagini dalla potente forza espressiva, l’artista è ripreso in diversi atteggiamenti, chino a meditare o proteso a guardare lontano. Le rocce mutano, dalla grotta in lontananza al pilastro in primo piano, dall’oscurità della caverna alla luce che batte sulla pietra chiara, dalla rugosità alla levigatezza delle superfici; in lui fotografato sembra di rivedere le sagome che amava dipingere tra i massi.

“Mi invitò in dialetto pretarolo a fotografarlo bene”, ricorda Aligi, e lui gli fece fotografie in sequenza, quasi un “reportage”: dall’arrivo sul luogo, all’ingresso nella caverna, prima inquadrato da molto lontano, poi da vicino, fino al primo piano, quindi nell’ultima immagine scattata quel giorno che lo riprende mentre si allontana. La fotografia, un commiato e un addio, non è esposta, Aligi ci regala il prezioso inedito con altri, nel segno di comuni radici paesane e familiari e nel commosso ricordo condiviso dell’artista amico che ci ha lasciati da trentatre anni.

E ci rivela un particolare altrettanto significativo: dell’intera sequenza fotografica all’epoca, oltre quarant’anni fa, stampò una sola immagine, quella con il brecciaio della grotta in primo piano, ma conservò i negativi; li ha ritrovati, con l’etichetta “Guido Montauti”, il figlio Flavio nel mettere ordine alla montagna di scatti di una vita. Circostanza già insolita, che diventa straordinaria alla luce di un evento naturale che ha stravolto proprio quei luoghi, al punto che l’immagine con il pilastro è stata proiettata dal Sindaco nell’ultima assemblea cittadina, indicando che nel suo crollo si può trovare l’origine della frana. Ma su questo avvenimento che proietta la mostra fotografica nell’attualità più viva e bruciante facendone qualcosa di unico e irripetibile torneremo presto.

Info

Municipio di Pietracamela all’ingresso in paese, nell’ambito del “Museo delle genti e degli antichi mestieri”, dal 13 al 31 agosto tutti i giorni, ore 10,00-12,00 e 17,00-19,00; dal 1° al 30 settembre nei soli giorni di sabato e domenica, stesso orario di agosto; in seguito speciali aperture su richiesta. Ingresso gratuito. Per l’estate prossima il Sindaco ha annunciato una manifestazione celebrativa dell’artista. Una vasta galleria di immagini del paese è nel sito web di Aligi e Flavio Bonaduce.

Foto

La galleria di immagini ci è stata fornita cortesemente e personalmente dall’autore e titolare dei diritti Aligi Bonaduce, che ringraziamo con particolare calore per averci dato anche la fotografia dell’artista che si allontana, quasi un commiato, inedita e non esposta, che pubblichiamo. Il nostro ringraziamento anche all’altro curatore della mostra Flavio Bonaduce, cui va il merito del ritrovamento dei negativi che appare portentoso per le straordinarie circostanze cui è associato.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 29 agosto 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

Questo articolo ha un commento

  • Francesco Ascani scrive:

10 settembre 2012 alle 15:12

Dopo aver rintracciato questo servizio, segnalato dallo stesso Levante sulla Rivista “Cultura inAbruzzo” (Fotografie e pitture rupestri nel crollo del “Grottone”), ovvia la lettura ed ovvie alcune considerazioni, dettate più dal piacere di esternare emozioni suscitate da un autore che non può commentarsi se non con elogi e riconoscimenti del suo impegno nel rendere conoscenza letteraria, storica e artistica con originalità e vivacità. Anche questa sua testimonianza inizia con notizie sulla sede della mostra fotografica di Guido Montauti associata a un’esposizione di Strumenti di civiltà contadina e montanara, minutamente e sapientemente descritta, come introduzione a quella della fotografia. Quindi memoria fotografica di Guido Montauti “Pittore tra le sue rocce” con la foto in bianco e nero che lo ritrae in atteggiamento di ritorno a casa, appunto tra le rocce.
Bella, completa ed elegante ricostruzione del percorso artistico, ad iniziare dalla giovane età, con tante informazioni e riferimenti anche sulla pittura del Montauti e gli immancabili “approfondimenti e commenti” frutto di un’attività instancabile e di grande esperienza.
Altrettanto bella questa sua affermazione “Non si è limitato a tradurre nei dipinti la sua ispirazione, ha propugnato il ritorno all’arte vera dinanzi alle esasperazioni ultramoderniste, riportando la figura umana al centro dell’opera pittorica” che mi ha attratto pienamente.
Poi la descrizione delle opere con proprietà di linguaggio tale da far vedere ciò che scrive, immagini che ritraggono il Montauti “tra le sue rocce” e citazioni di altri artisti Alberto Chiarini (mio amico di gioventù prematuramente scomparso vittima di un incidente stradale con il suo motorino), Pietro Marcattili e Diego Esposito, seguite da ricordi personali e argomentazioni varie. In chiusura altra foto in bianco e nero del Montauti su sfondo roccioso e una segnalazione di altri articoli sulla fotografia, sicuramente interessanti.
Concludendo mi piace citare quanto scrissi a commento di un altro articolo del Levante sulla “Campagna romana in mostra a Roma” dell’ 11 febbraio 2010, perché sembra attinente: «Bello e sentimentale, l’accostamento dell’arte di diffondere le bellezze del territorio romano, alle ispirazioni artistiche di valorizzazione dei pregi ambientali d’Abruzzo ed in particolare di “Montauti”, nell’illustrare la “regione verde d’Europa”».

Piero Angela a Palazzo Valentini, tra i ruderi la luce

di Romano Maria Levante

– 3 dicembre 2009, cultura.inabruzzo.it, postato in: Culturalia

Nel 2009 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano visitò a Roma, nei sotterranei della sede della Provincia, a Palazzo Valentini, gli importanti ritrovamenti archeologici collegati con l’adiacente zona traianea: due Domus romane e le Piccole terme di Traiano, riportate all’originario splendore da una spettacolare tecnologia multimediale che fa rivivere i reperti. Ricordiamo oggi quell’evento, ripubblicando l’articolo che uscì nella circostanza, nel sito cultura.inabruzzo.it, in omaggio a Piero Angela, ldeatore e realizzatore – con Paco Lanciano per la parte più strettamente tecnica – del suggestivo “restauro” virtuale delle Domus romane con la sua voce narrante all’insegna del rigore storico e scientifico unito all’esemplare chiarezza espositiva alla portata di tutti. Alle Domus romane di Palazzo Valentini seguì il Foro romano, ed ecco come la Soprintendenza capitolina ai beni culturali presenta il Foro di Augusto e il Foro di Cesare: “1° giugno- 22 ottobre 2022. Viaggio nell’antica Roma. Foro di Augusto e Foro di Cesare, a cura di Piero Angela e Paco Lanciano”. Questa presenza immanente – che continuerà a farlo sentire vivo e partecipe – si aggiunge alla memoria della inesausta missione culturale della sua vita – diecine di trasmissioni televisive di scienza e cultura, 11 lauree honoris causa, una quarantina di libri – facendolo entrare di dieitto nel Pantheon degli italiani illustri cui tutti siamo debitori e riconoscenti..

“Tra le sbarre la luce” era lo spettacolo del “Festival della spiritualità” organizzato dall’Eti prima della scorsa festività pasquale; questa volta prima delle festività natalizie, nella bella mattinata del 3 dicembre 2009, abbiamo avuto “tra i ruderi la luce”, organizzato dalla Provincia di Roma, con uno spettatore d’eccezione, il capo dello Stato Giorgio Napolitano, accompagnato dal presidente Nicola Zingaretti e dal sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro. Perché di questo si è trattato: la luce che a Pasqua filtrava nell’ex riformatorio oggi entrava nei sotterranei di Palazzo Valentini, senza rompere la penombra che li avvolge, creando immagini non con la fantasia ma con la cultura e la tecnologia, un binomio mai così appropriato. E il merito è soprattutto di Piero Angela.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è artmagazine.it_-3.jpg

I ruderi riprendono vita

Sono stati ricostruiti ambienti e strutture, in una realtà virtuale che si è sovrapporta alla realtà fattuale senza sovrastarla né profanarla ma completandola per farle recuperare la forma originaria. E’ come se a un mutilato fossero tornati gli arti mancanti o, se si preferisce, come se la macchina del tempo avesse riportato ai fasti originari.

Non è sembrata eccessiva, in questo contesto, la definizione del presidente Zingaretti di “giornata storica”, che ha riferito soprattutto alla prima visita di Napolitano alla sede provinciale; storica anche perché, ha detto, vissuta “all’insegna della cultura in un luogo unico al mondo per l’incontro tra l’archeologia e la modernità, tra i reperti di una storia antica e la tecnologia”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è capware.it_-3.jpg

E’ un incontro che avviene all’insegna della luce in un sistema multimediale ideato e realizzato – con il fondamentale ausilio di Paco Lanciano – da Piero Angela, che ha così spiegato la sua idea: “Mi sono messo dalla parte del pubblico, cioè di me stesso, per capire quello che si vorrebbe vedere in uno scavo: si desidera entrarci dentro, rivivere l’atmosfera, lo spirito di allora; così ho cercato di ridargli vita”.

Non serve fornire particolari tecnici, i diciotto computer con un calcolatore centrale danno un’idea della complessità dell’operazione, alla base della quale c’è un livello culturale particolarmente elevato, per ricostruire virtualmente strutture di cui poco è rimasto, ma quanto basta per consentire il trapianto di immaginazione e di vita che si è riusciti a compiere. Il “computer graphic” ha fatto il miracolo, ma in quanto alimentato da una ricerca approfondita su tutto quanto la cultura può “raccontare” di un periodo così lontano ma altrettanto vicino per lo studioso.

Rigore storico e vicinanza alla gente, secondo lo stile di Angela: lo ha riassunto dicendo che si pone “nel rigore dei contenuti dalla parte degli esperti, nel linguaggio semplice e accessibile dalla parte del pubblico”. E’ una lezione che dovrebbe essere fatta propria dal giornalismo culturale, noi ci crediamo da sempre.

L’altro ingrediente è stata la passione che da Piero Angela a Paco Lanciano ha contagiato le maestranze; lavorare due piani sottoterra rispettando le preesistenze nel difficile compito di trapiantarvi la tecnologia senza lasciarne traccia non è stato semplice. Un lavoro concluso alle due della scorsa notte con la revisione finale di Piero Angela che ha dato il suo “nulla osta” ed è andato a casa; non prima di aver detto, lo ha rivelato simpaticamente Paco Luciani, “avrei un’ultima idea…”. Stamane la sorpresa per lo stesso Angela, nella notte anche l’”ultima idea” realizzata, per Paco Luciani e i suoi tecnici notte bianca “underground”.

Questo tocco di umanità rende appieno lo spirito della realizzazione, lo sforzo appassionato di ridare vita alle “anime morte” – vogliamo ricordare il grande innamorato di Roma e delle sue antichità, il Gogol del bicentenario – ricreando colonne e pavimenti, ambulacri e cortili, arredamenti e suppellettili. Il rosso pompeiano e il blu intenso danno alle abitazioni il calore e l’eleganza di uno spazio vissuto.

Aiutano le musiche sullo sfondo e i suoni evocativi da altoparlanti “a pioggia”, tali da diffondere il suono in modo omogeneo e suggestivo; e non si è trattato certo dei “suoni e luci” del consumismo turistico, ma un qualcosa di molto discreto, rispettoso dei reperti muti ai quali doveva dare voce, missione compiuta.

La visita ai sotterranei di Palazzo Valentini

Abbiamo finora parlato in termini piuttosto generali della ricostruzione virtuale di ambienti e strutture abitative e urbanistiche. Il tutto realizzato senza interferire minimamente sulle preesistenze archeologiche, nulla appare alla vista delle apparecchiature e nulla è stato manomesso per collocarle. Non serviva neppure fare questa precisazione, tale è stato l’amore e la passione per l’antichità che si è sentita vibrare; come nella parole di Angela è apparsa la fiducia nella tecnologia, ma anche l’ansia del tutto umana per l’affidabilità delle “macchine”, quasi si trattasse dei primi voli spaziali che lui stesso ebbe a descrivere.

Ma cosa si vede, dunque, nei sotterranei di Palazzo Valentini? Ruderi in diverso stadio di conservazione, muri e arcate, mozziconi di colonne e pavimenti, vasche e suppellettili . Si passa sopra a grandi lastre di vetro di grande spessore che consentono la vista completa dei ritrovamenti, in altri casi si può vedere l’ambiente ricavato nelle tipiche murature romane da dietro una sottile ringhiera.

I pavimenti rinvenuti sono di fattura elegante, con materiali pregiati dal porfido al giallo antico, dal serpentino all’africano; due i tipi principali: uno del tutto inconsueto, rispetto alla note pavimentazioni in piccole tessere quadrate, con dei cerchi e losanghe verde-azzurro, larghe porzioni che è stato semplice completare virtualmente; l’altro più familiare, con tessere geometriche di triangoli e quadrati. E’ il reperto che ha colpito di più, insieme alle due arcate e alla balaustra, alle grandi vasche e agli ambulacri, ai due livelli uniti da un’ampia scalinata.

Un insieme di ingredienti di base che dagli esperti cuochi tecnologici vengono trasformati in cibi sopraffini dalle ricette luminose e sonore. Si materializza, è il caso di dire bisticciando con il prodotto virtuale, l’abitazione e l’ambiente urbano, torna la vita, si vede anche passare una tunica granata, sembra che stia rincasando ed è stata sorpresa dagli inattesi visitatori. Prodigio della tecnica e anche miracolo della cultura. Il formarsi virtuale degli ambienti con le linee luminose tracciate dinanzi al visitatore fa pensare a un architetto che disegna i progetti, per forza di cose romano, chissà quale divinità gli ha dato questo potere!

Il valore storico e archeologico

Siamo giunti così a quello che in genere precede, le spiegazioni colte fornite come premessa, noi abbiamo voluto posporle alle emozioni provare per uno spettacolo intriso di cultura ma offerto con semplicità. Identifichiamo meglio l’ubicazione degli scavi archeologici “underground” che abbiamo visitato. Sono venuti alla ribalta in una Roma e in una zona ricca di antichità, ma non può non fare notizia un’area di 1.800 metri quadrati, dove le tessere policrome dei pavimenti sono almeno 500.000; il tutto collocabile tra il secondo e il quarto secolo dopo Cristo.

E se non basta a marcarne il valore, aggiungiamo che può essere meglio percepito considerando che fa parte di una zona esclusiva adiacente al foro di Traiano al quale si accede direttamente per un percorso ancora da decifrare; zona definita “City senatoria” dalle abitazioni di senatori e dignitari, il cui ceto qualifica l’eleganza della ricostruzione virtuale alla quale abbiamo assistito.

L’area traianea che oltre al foro comprende la Colonna Traiana, si arricchisce delle due Domus romane di cui abbiamo parlato e delle Piccole Terme di Traiano, area di terme con vasche per l’acqua calda, sistemi di tubazioni per convogliarla e collegamenti tra la zona riscaldata e quella fredda.

Nella visita odierna si sono visti i due successivi ritrovamenti, mettendo in primo piano quelli più recenti scaturiti dalla seconda fase di indagini archeologiche iniziate nel vicinissimo marzo 2009, che hanno dato gli importanti risultati evidenti, lo citiamo tra tutti, nel grande “frigidarium” che doveva avere una volta a botte. Appartiene alle ultime scoperte anche il pavimento più pregiato, con un piano superiore dove si trova l’altro pavimento in “opus sectile” di 40 metri quadrati, con decorazioni floreali e geometriche.

La prima fase, svolta tra il 2005 e il 2007 aveva fatto venire alla luce, per così dire, diversi locali fatti di terme e porticati, in una teoria di ambienti dove molti interventi sono stati operati nelle diverse epoche storiche, per cui rappresentano un testimonianza della variabilità degli stili e delle destinazioni.

C’è stata, anzi, una scoperta nella scoperta: proprio questi rifacimenti hanno prodotto una grande quantità di materiale scartato e lasciato tra i detriti forse per recuperarlo in un secondo tempo; che finalmente è venuto anche se dopo molti secoli rispetto alle intenzioni di coloro che vi avevano lavorato. “Quasi due millenni di interventi – è stato detto nell’illustrare le scoperte – e una miniera di tesori che vanno componendo il profilo di un quartiere residenziale, con ville, piscine, terme, palazzi pubblici, abitato ininterrottamente dall’antichità ai giorni nostri, con un’unica importante cesura, in età tardo romana, per uno spaventoso incendio”.

La ricostruzione virtuale non ha mancato di rappresentarlo, lingue di luce si sono levate nel sotterraneo, ci hanno ricordato i rossi bagliori dell’incendio anch’esso virtuale del castello Aragonese di Ponza nella festa di sant’Anna del 26 luglio; sotterraneo o aereo l’incendio virtuale fa spettacolo.

L’occasione di conoscere Palazzo Valentini

Questo è quanto si può vedere nel visitare un sito archeologico che è anche laboratorio di modernità dal 4 dicembre 2009 al 6 gennaio 2010; occorre prenotarsi (telefonando al +39 06.32810), vi si accede dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18, il sabato e le vigilie delle festività fino alle 13, domenica e giorni festivi chiuso. Soltanto in questo periodo c’è l’apertura completa degli scavi, dopo il successo avuto nell’apertura dei precedenti ritrovamenti, che hanno attirato moltissimi visitatori stranieri previa diligente prenotazione.

Si ha anche l’occasione di conoscere Palazzo Valentini, accolti dalle due grandi statue moderne di Ghia, Enea e di Europa nel largo antistante e da busti romani nel cortile, da Afrodite a Caracalla, un antipasto succulento. E’ un edificio cinquecentesco, sede della Provincia dal 1873, ha preso il nome dall’ultimo proprietario, un banchiere prussiano che lo acquistò nel 1827 e ci mise la sua collezione di quadri.

Potrebbe anche chiamarsi con il nome dei diversi cardinali che ne sono stati proprietari a loro volta, a cominciare dal cardinale Michele Bonelli il committente la costruzione nel 1585, o del successivo proprietario, il cardinale Renato Imperiali, che ne fece demolire e ricostruire una parte e vi portò la biblioteca di famiglia di 24.000 volumi; o infine del cardinale Giuseppe Spinelli che lo acquistò nel 1752. Lo hanno frequentato illustri musicisti del calibro di Friedrich Handel, Alessandro Scarlatti e Arcangelo Corelli, ospitati dal marchese Francesco Maria Ruspoli che ne era affittuario e vi aveva allestito un teatro privato.

Grandi nomi, un percorso di cultura e di vicende importanti. Come si vede la storia del palazzo non si ferma all’antichità che ha scoperto di avere nelle viscere del sottosuolo. Ma è proseguita nel tempo, cosa che ne accresce il fascino oltre che l’importanza culturale. E poi nelle adiacenze vi sono i Fori, anzi sono comunicanti attraverso un tunnel scavato in epoca moderna per sicurezza, che ha ripercorso un itinerario antico, e vicinissimi Vittoriano e Colosseo, il cuore di Roma, vale a dire il massimo. Vale la pena conoscerlo.

6 Comments

  1. Roberto Iodice

Postato gennaio 22, 2010 alle 10:17 AM

Ho avuto la fortuna di visitare i sotterranei di Palazzo Valentini e ammetto che non sarei mai riuscito a descrivere quest’esperienza unica, con le parole lette in questo articolo. Tuttavia l’emozione e la sorpesa che si prova scendendo nella “Storia” in modo così partecipe e non distaccato come avviene di frequente, è difficile da spiegare. La luce completa forme e ambienti rendendoli comprensibili, si riesce a vedere la piscina (con l’acqua) i mosaici si rigenerano lentamente nelle loro parti mancanti e tutto diventa “reale”. Chi ancora guarda con sospetto la tecnologia dovrebbe vedere questo nuovo modo di utilizzarla, perché aggiunge al piacere della scoperta di un’opera del passato la suggestione della “macchina del tempo” descritta nell’articolo. E’ vero non è gratis, costa 6 euro per un’ora abbondante di visita, meno della metà di 20 minuti sulla torre di Pisa e di tanti altri musei dove è difficile orientarsi senza una guida e dove si è obbligati a lunghe file d’attesa.

  • Marco

Postato dicembre 17, 2009 alle 3:26 PM

Critica inutile e non costruttiva…
pagare equivale a sicurezza di essere presenti e quindi non lasciare posti vuoti a discapito di chi in realtà voleva essere presente veramente.
Non succede in nessun museo al mondo??!?!?!?!?!……
qui non siamo nel mondo, qui siamo a Roma che nella sua unicità deve essere valorizzata e pubblicizzata nella giusta maniera, quello che il visitare osserva passeggiando per la città eterna o indagando il sottosuolo non può farlo da nessuna altra parte.

  • Nicola Maddalena

Postato dicembre 9, 2009 alle 8:16 PM

posso alzare una voce critica in questo coro di lodi che ha accolto la vs iniziativa ?
Se volevate scoraggiare tanta gente dall’andare a visitare il sito delle nuove scoperte archeologiche a palazzo Valentini, ci siete riusciti perfettamente.
Capisco l’esigenza di organizzare le visite e fissare le prenotazioni, ma che addirittura si debba pagare – condizione sine qua non- in anticipo e con carta di credito al momento della prenotazione telefonica non accade in nessuna museo al mondo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è turismoiroma.it_.jpg
  • Romano Maria Levante

Postato dicembre 5, 2009 alle 7:34 PM

Caro Sig. Sandro,
sento di rivolgermi confidenzialmente a lei, pur non conoscendola, trovando nelle sue parole la passione unita alla competenza di cui hanno parlato Piero Angela e Paco Luciani; qualità che fanno provare verso chi le esprime familiarità e simpatia, perché ci fa il regalo di presentarci valori antichi sempre più rari.
Le sono grato dell’apprezzamento e soprattutto della disponibilità a raccontarmi la storia della realizzazione negli aspetti tecnici, di cui ha anticipato qualche elemento, e nella sostanza umana di cui ho ricordato l’episodio finale: l’“ultima idea…” alle due dopo la mezzanotte di Piero Angela, puntualmente realizzata al mattino con l’intera notte in bianco. Chissà quanti altri episodi, come chissà quali particolari tecnici!
Saranno ritenuti molto interessanti non solo dagli appassionati ma anche dagli operatori del settore – espositivo, museale e oltre – che potranno trovarvi idee e ispirazioni per l’opera di rivitalizzazione di esposizioni e mostre di cui si avverte la necessità al fine di ridare vita a reperti altrimenti freddi e distanti dalla gente.
E’ un vero servizio pubblico quello che potremo rendere nel raccontare fatti così significativi ai nostri lettori, i quali sanno come ci battiamo per questo rinnovamento avendolo richiesto più volte apertamente.
Spero, quindi, di incontrarla quando vorrà, magari in una nuova visita da fare insieme alle Domus romanae nei sotterranei di Palazzo Valentini, dove potrà raccontare come si crea e si sviluppa la magia della ricostruzione virtuale.
Una favola moderna, dove la tecnica diventa poesia.
Cordiali saluti e a presto.
Romano Maria Levante

  • Sandro Casponi

Postato dicembre 4, 2009 alle 11:22 PM

Egr. Sig. Levante,
ho letto il suo articolo su “Abruzzo Cultura” e mi è molto piaciuto.
Sono il tecnico informatico che ha realizzato il sistema di automazione, hardware e software, i diciotto computer ed il calcolatore centrale di cui lei parla, che gestisce l’automazione del museo.
Se le interessa, potrei fornirle dettagli tecnici per scrivere un articolo per gli appassionati del settore.
In anteprima le dico che il tutto si basa su software cosiddetto “open source”, Linux in particolare, come tra l’altro indicato nella direttiva del Ministro Stanca per le pubbliche amministrazioni.
Cordiali saluti

  • Lino Bordin

Postato dicembre 4, 2009 alle 7:56 PM

Estremamente interessante. Sono curioso di vederlo al più presto!

Foto

Nell’articolo pubblicato il 3 dicembre 2009 vi erano alcune immagini riprese in loco dall’autore, andate perse nel trasferimento dell’articolo da un sito a un altro. In questa ripubblicazione abbiamo inserito nuove immagini tratte da siti di dominio pubblico, si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, precisando che l’inserimento non ha alcuna finalità di natura commerciale, economica o pubblicitaria ma solo illustrativa, e qualora non sia gradita la pubblicazione di qualcuna delle immagini inserite si provvederà a rimuoverla su semplice richiesta. I siti sono i seguenti, in ordine di inserimento delle immagini: solonotizie24.it, artmagazine.it, capware,it, itineroma.it, palazzovalentini.it dalla 5^ all’11^, passaggilenti.it, romacorriere.it, roma.impero.com la 14^ e la 15^, sorienogastronomiche.it, turismoroma.it, passaggilenti,it Grazie ancora ai titolari dei siti sopra citati..

Marina Miraglia, 7 grandi fotografi tra l’800 e i primi del ‘900)

 

Home > Mostre > Roma. 7 grandi fotografi (’800 – primi ‘900) nel libro di Marina Miraglia

Il libro “Fotografi e pittori alla prova della modernità”, di Marina Miraglia inquadra l’evoluzione della fotografia dall’800 al ‘900 nel rapporto tra regola e creatività su cui si basava la distinzione dei generi tra “alti” e “bassi” cancellata anche per l’opera dei grandi fotografi dell’800-primi ‘900, cui sono dedicati 7 saggi del libro, come declinazione pratica del quadro teorico iniziale e dell’approfondimento su paesaggio e impressionismo, temi già da noi trattati. Ora per ciascuno dei 7 fotografi considerati isoleremo un fotogramma dell’ampio lungometraggio presentato nel libro.

In pieno ‘800: Faruffini e Julia Cameron

Si inizia con Federico Faruffni (1833-69), pittore che si dedicò poco all’attività fotografica ma lasciò il segno. Rimangono poche foto di vita familiare tra il 1868 e il 1869, l’anno della sua tragica fine, tuttavia la sua visione fotografica la vediamo nella pittura dove la trasferiva con l’uso del controluce; anzi forzava molto il luminismo come avveniva per l’effetto chimico della fotografia di allora, tanto da essere messo in guardia da questi eccessi per non cadere nel manierismo.

Era l’epoca in cui la fotografia costituiva mero supporto della pittura fornendo la base oggettiva su cui si sarebbe esercitato l’estro soggettivo del pittore. Però l’attrazione che aveva Faruffini per il contrasto di chiaro e scuro portava a un risultato così descritto dalla Miraglia: “La risposta alla richiesta di mimesi che era alla base della fortuna della fotografia, veniva infatti negata dalla forte interpretazione chiaroscurale che Faruffini imprimeva alle proprie fotografie, limitandone l’utilizzo da parte dei pittori contemporanei cui, nelle intenzioni dell’autore erano destinate”.

Su questo paradosso scrisse a Pio Joris: “Purtroppo anche la fotografia non va, caro amico. L’altro giorno al Caffè Greco , Simonetti diceva a qualcuno che tu consoci bene ch’io taglio le fotografie troppo da pittore e all’artista non rimane da fare che molto poco, questo vuol dire che fo il fotografo molto bene”. Parole eloquenti, aveva capito le potenzialità della fotografia nel superare l’effetto solo mimetico per entrare nella sfera estetica, quindi artistica; e questo con l’uso accorto della luce e la scelta compositiva che per lui era di una semplificazione estrema, senza il superfluo.

E’ con Julia Margaret Cameron (1815-79), comunque, che si compie un progresso decisivo con anticipazioni del Postmoderno, nell’abbinare al realismo rappresentativo e per se stesso oggettivo, nuove sollecitazioni di segno molto diverso che portano ad una spiccata soggettività. Lo strumento di questo balzo in avanti fu il “soft focus”, immagine soffusa e sfumata molto meno aderente alle cose osservate dell’allora imperante “scharf focus”, “nitido e tagliente nella resa referenziale”. Quest’ultimo si avvaleva di una “scrupolosa messa a fuoco, sostenuta dall’uso di obiettivi ‘normali’ più di altri in grado di sottolineare la stretta parentela rappresentativa tra meccanismi ottici della fotografia e selezione dello spazio, tipico della tradizione rinascimentale italiana”.

Il suo “soft focus” la Cameron lo spiegò così nel 1927: “Quando, durante il procedimento di messa a fuoco, io giungo a un qualcosa che agli occhi miei era bello, lì mi fermavo, invece di insistere con l’obbiettivo per una messa a fuoco più precisa, come fanno gli altri fotografi”. In questo modo si allontana dalla visione tradizionale di tipo mimetico e rappresentativo “come specchio del reale” data dallo“scharf focus” e si ispira a un principio proprio dell’arte fino ad allora non adottato nella fotografia: “Che sia l’idea, tipica di tutte le esperienze estetiche, a svolgere la funzione fondamentale di inglobare e rendere visibile, nel referente preso a modello, le verità iconiche e simboliche che l’autore vuole significare”. Icona e simbolo prima riservati solo alla pittura si aggiungono ai “valori indexicali”, gli unici riconosciuto alla fotografia, coniugando l’“invenzione”, intesa come osservazione diretta di ciò che si trova nella realtà con l’“immaginazione” che può “manipolare a suo piacimento i dati dell’esperienza sensoriale”. Di qui chiaroscuri intensi con luminescenze sfumate alla Rembrandt, inquadrature strette, volti più che figure intere per concentrarsi sugli occhi e lo sguardo espressione dei sentimenti interni e non dell’esteriorità.

Ai confini del ‘900: Morelli e Pellizza da Volpedo

Con Domenico Morelli (1826-1901) la fotografia viene utilizzata come modello e strumento della propria attività di pittore e anche come veicolo di diffusione delle proprie opere sviluppando la funzione documentativa della fotografia manifestatasi fin dai primi dagherrotipi. Sotto il primo aspetto va oltre l’esperienza di Faruffini, costruendo composizioni fotografiche preparatorie del dipinto pittorico che aggiungono due funzioni a quella di consentire di mantenersi aderenti al vero: “la possibilità di previsualizzare il quadro, contemporaneamente ponendo a fuoco i punti di massima incidenza della luce e gli effetti che ne derivano nello spazio e sulla resa volumetrica delle singole figure che su di esso si dislocano”.

Non operava isolato, c’era uno scambio di fotografie e incisioni, la conoscenza delle più importanti produzioni fotografiche anche attraverso la partecipazione alle mostre; considerava la fotografia come possibile spunto, insieme ad elementi di tipo letterario o storico, per far scattare l’idea pittorica. Il rapporto con la realtà è mediato dalla fotografia con i contrasti chiaroscurali e le masse cromatiche contrapposte nonché con “la cattura dell’istante”. Fu promotore della “revisione del dipinto di storia” che investì, “con l’aiuto della fotografia, l’intero campo dell’arte, sconvolgendo la piramide gerarchica dei generi e ponendoli tutti su un medesimo piano di giudizio”.

Del tutto particolare il rapporto con la fotografia di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907), perché “nega la mimesi”e , sebbene attirato dal mezzo non gli interessa dal punto di vista tecnico né lo padroneggia; tuttavia nel suo archivio fotografico sono stati trovati persino negativi da lui stampati e montati su cartoncini, che con quelli stampati da altri mostrano “straordinarie capacità di memorizzazione e di messa a punto di un’emozione, di previsualizzazione dell’immagine e della sua composizione”, e nello specifico fotografico “un’eccezionale capacità di cogliere la qualità della luce e delle sue sfumature”. In questo rapporto, più spesso mediato e non diretto con il mezzo meccanico, si possono istituire “continui e determinati parallelismi, referenziali e di dialettica linguistica, tra la fotografia e alcuni suoi dipinti”. In particolare. come ha sottolineato Aurora Scotti nel 1981, la fotografia lo ha aiutato a superare nei suoi principali dipinti – tra i quali il celeberrimo e altamente simbolico “Quarto Stato” – la tradizione rappresentativa convenzionale, in un “progressivo ribaltamento della rappresentazione dal piano della oggettività alla sfera della soggettività, o, meglio, dell’idealità soggettiva, con effetti particolari e voluti di luce o di colore”.

Viene citato l’iter creativo di “Il ponte” preparato da molte fotografie non sue ma di Fausto Bellagamba che tra le figure umane riprende la famiglia del pittore, cui seguono bozzetti e schizzi sul “dato naturale, già ricondotto nelle dimensioni bidimensionali della ripresa fotografica”; in questo modo l’artista dalla visione realistica e oggettiva di un momento di vita passa “alla proiezione sulla tela di concetti e sentimenti, ottenendo una realtà ideale”. Nella recente mostra alla Gnam “L’arte dopo la fotografia, 1850-2000” abbiamo visto la serie dei grandi bozzetti preparatori del “Quarto Stato” comprese delle fotografie di assembramenti popolari presi a modello.

A cavallo tra il Realismo e il Simbolismo, Pellizza quando legge il reale con l’aiuto della fotografia “crea poi, come i fotografi a lui contemporanei, realtà diverse e ideali, che vanno, implicitamente e apoditticamente, molto al di là della realtà oggettuale”. In questo li aiuta l’uso dello “sfocato” del “soft focus”, in grado di dare, con la visione realistica dell’oggetto, “i sentimenti e le emozioni che esso può suscitare e che il fotografo vuole esprimere”; processo naturale, del resto, dato che lo stesso occhio mette a fuoco solo ciò che si osserva direttamente lasciando il resto “sfuocato e indefinito, sia nella profondità dello spazio, sia nella visione laterale”, come osservava Emerson già dal 1889. Per Marina Miraglia, “la fotografia si inserisce nell’iter creativo di polizza come elemento imprescindibile di una precisa metodologia di indagine e di lavoro, insieme legata all’istanza realistica e al suo superamento” al fine di “creare, o contribuire a creare, nuovi linguaggi pittorici”; in definitiva, “la tecnologia del mezzo meccanico, ma soprattutto la sua capacità di porsi fra verità ed emozione, sono individuate come punto nevralgico su cui poggiare la tensione simbolista, senza per questo rinunziare al realismo e all’imitazione”. Non pedissequa, considerando le differenze anche profonde nei lineamenti dei ritratti pittorici rispetto agli omologhi fotografici perchè i soggetti “studiati nella fotografia, sono poi profondamente modificati e idealizzati sulla tela”.

Si entra nel ‘900: Michetti, Sartorio, Gloeden 

Si entra nel ‘900 con Francesco Paolo Michetti (1851-1929), che iniziò a dedicarsi anche alla fotografia, oltre che alla pittura sin dal 1871, colpito dalla sua capacità di cogliere “aspetti del reale non percepibili dall’occhio umano e, soprattutto, di prescindere dalla linea di contorno “, considerando che “il mondo, lo spettacolo della natura, delle cose, degli animali, e degli uomini, appaiono infatti ai nostri occhi come un insieme di macchie cromatiche più o meno luminose che sembrano sfuggire all’ordine razionale e prospettico dello spazio quattrocentesco”.

Infatti la sua pittura era bidimensionale, e le sue figure, scriveva Francesco netti, “tutte pare che stiano sullo stesso piano, qualmente chiare e dipinte a fior di tela. Manca l’avanti indietro, come dicono i pittori”. Ed esprimevano il realismo nel suo mondo di soggetti naturalistici e popolari, presi dalla realtà della sua terra, l’Abruzzo del mondo agricolo pastorale e delle tradizioni e miti arcaici immortalato anche nelle sue fotografie, spesso in sequenza per cogliere il movimento. Rifuggiva dalla figura “stante” perché “la fotografia e soprattutto il suo istantaneismo, lungi dal costituire per Michetti un ripiego di comodo, rispondono a una profonda ‘esigenza del modo di intuire la figura e, in essa, di esprimersi’”, secondo la definizione di Delogu del 1966. Di qui i suoi “tagli” per cogliere l’azione nel suo svolgersi temporale, le immagini seriali, l’uso del primo piano e del campo lungo; inoltre i soggetti perfettamente a fuoco e fermi con gli elementi di sfondo mossi per dare il senso del movimento. Un rapporto continuo tra fotografia e pittura, l’impiego della“tridimensionalità virtuale della fotografia”, tra i passaggi intermedi “per giungere alla bidimensionalità trasfiguratrice del quadro, in una perenne verifica le cui fasi venivano scruspolosamente documentate e catalogate”. realistica ed emozionale”.

Per Giulio Aristide Sartorio (1860-1932), illustratore e pittore, la fotografia assunse presto il ruolo di “primo e ideale tramite di conoscenza per accedere al vero, al di là di ogni mediazione della ragione o della cultura, spontaneamente e naturalmente, inserendola nell’iter della creazione artistica come elemento imprescindibile di lavoro”. Ciò si riscontra nei suoi dipinti paesaggistici, sui quali scriveva nel 1922: “L’arte del paesaggio non è una pedestre copia del vero, ma un’intelligente ricerca del vero, di quanto ha commosso l’autore in un determinato momento”; e nella “pittura guerresca” nella quale esprime ugualmente i sentimenti provati, questa volta nella vicenda bellica alla quale aveva partecipato da soldato dove emergeva nella sua tragicità il dramma umano, come si vede nei 61 quadri con questi soggetti.

Alla base c’è la fotografia, prima immagini di altri, tra cui Michetti e Primoli, in particolare nei “tableaux vivant”, iconografie costruite nella realtà e fissate con la fotocamera; poi fotografie riprese da lui stesso, come gli scatti di guerra quelle sui campi di battaglia. Quando la fotografia di base sarà sua, apporterà poche modifiche nella pittura, in quanto ha già composto l’immagine riprendendola secondo la propria visione; infatti non utilizza solo la resa naturalistica ma tutte le possibilità che offre, l’ingrandimento del soggetto, l’intervento sulle tonalità di chiaro e scuro, la proiezione secondo angoli inconsueti, come dall’alto che toglie l’identificazione personale ai soggetti per dare loro il valore di metafora, come per le scene di guerra rese nei particolari realistici che per la loro drammaticità “costituiscono infatti un’innegabile e forte simbologia dell’orrore”.

Lo stretto rapporto tra fotografia e pittura porta “il movimento come motore e protagonista dell’opera sartoriana” con un salto di qualità rispetto alla precedente tendenza classica verso forme espressioniste, sulle quali Bruno Mantura nel 1989 ha scritto che sono state “recepite tramite il fedele, l’iperfedele sguardo della macchina fotografica sulla natura del movimento”.

Ma il passaggio decisivo, tra l’800 e il ‘900, dalla “riproduzione” della realtà alla “produzione” creativa lo compie Wilhelm von Gloeden, il “barone di Taormina”, con i suoi nudi fotografici non realizzati in studio, bensì nel paesaggio siciliano “quali puntelli simbolici in grado di esprimere visivamente i contenuti del proprio mondo interiore”. La fotografia, come ha scritto Mollino nel 1949, mira “a far vedere come realtà dei nostri occhi, il frammento di un mondo quale l’abbiano sognato” e offre “il doppio registro dell’oggettività e, insieme, della più assoluta soggettività”; Gloeden diceva “di far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che egli aveva provato davanti alla natura”. Nel suo caso si tratta di un “difficile quanto instabile equilibrio fra una sorta di arcadia classicheggiante, rivisitata però in chiave simbolista, e un compiacimento carico di desiderio e di piacere nel guardare, nell’essere guardato e nell’esplorare se stesso e la propria diversità nel corpo fisico dei giovani efebi che mette in immagine”.

In tal modo, togliendo temporalità all’immagine, riesce a dare ad essa un sapore che evoca l’antichità greca e romana, “un paradiso perduto di sessualità, di bellezza e di libertà”, senza pregiudizi sull’amore nelle sue diverse espressioni. La luce “bianca, diafana e trasparente”, crea un’atmosfera metafisica, un clima magico in cui il soggetto è inserito perfettamente nel paesaggio. Barthes ha scritto nel 1978 che Gloeden, anticipando i postmoderni, ha unito “vero e verosimile, realismo e falso, un onirismo al contrario, più folle del più folle sogno”; e Lemagny nel 1988 . lo ha ritenuto “il precursore di alcuni dei fotografi contemporanei più impegnati nella ricerca e nell’avanguardia”, in quanto per lui “la macchina fotografica e il suo obiettivo diventano uno strumento che recupera, per l’immaginario, tutta l’esattezza del reale”; e la fotografia “tutta intera fuori del sogno essa può ben essere considerata anche tutt’intera nel sogno se ci ricordiamo che per il nostro occhio interiore il tessuto della nostra realtà è il medesimo di quello dei nostri sogni”.

Si concludono così i nostri fotogrammi staccati dal lungometraggio del libro sui “magnifici 7” di Marina Miraglia, flash indicativi di contenuti ben più profondi e articolati; e termina il nostro resoconto di un libro istruttivo, denso di analisi, notizie e citazioni, che offre tessere fondamentali per la costruzione del mosaico della fotografia nella sua evoluzione storica verso forme di vera arte.

Info

Marina Miraglia, Fotografi e pittori alla prova della modernità, Editore Bruno Mondadori, Milano-Torino, gennaio 2012, ristampa, pp. 214, euro 22. L’immagine di apertura, riprodotta dal libro, è di Julia Margaret Cameron, The Parting of Sir Lancelot and Queen Guinevere, 1874. Dal libro sono tratte tutte le citazioni riportate nel testo; l’inquadramento teorico generale e l’approfondimento su paesaggio e impressionismo nelle ricerche convergenti di fotografia e pittura sono stati oggetto di due nostri precedenti articoli su questa rivista “on line”.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 7 maggio 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com