Pietracamela. Parte la messa in sicurezza del “Grottone”

di Romano Maria Levante

Pietracamela

Quando la cronaca diventa favola. E’ avvenuto a Pietracamela, il borgo alle falde del Gran Sasso ferito prima dal terremoto dell’aprile 2009 che ha reso inagibili tante abitazioni, poi dalla caduta massi culminata nel crollo di una parete rocciosa del ”Grottone” del marzo 2011 sulla vallata con le preziose “pitture rupestri” del pittore Guido Montauti travolte dall’evento franoso che ha sconvolto l’assetto ambientale bloccando i collegamenti nella parte estrema e del paese e quelli verso la montagna, dal Piano delle mandorle a Campo Pericoli, fino a Campo Imperatore.

La cronaca che diventa favola

Ne abbiamo ricordato di recente la cronaca richiamata dalle fotografie al pittore sul “Grottone” scattate nel lontano passato da Aligi Bonaducee rinvenute dal figlio Flavio, entrambi ideatori e curatori della mostra in cui sono esposte, visitabile presso il “Museo delle genti e degli antichi mestieri” nel Municipio del paese. Una cronaca che, lo ripetiamo, ci ha lasciati attoniti per la circostanza, apparsa straordinaria, che le immagini inedite ritrovate casualmente solo di recente mostrano il pittore nella parte del “Grottone”, dove chiese ad Aligi di essere fotografato, che molto tempo dopo gli scatti, nel 2011, è crollata travolgendo a valle le pitture da lui dipinte con il gruppo del Pastore Bianco” sulle rocce della “Grotta dei Segaturi”. Come ci lascia attoniti e felici la notizia giunta adesso, secondo cui i primi finanziamenti per la messa in sicurezza, che sembravano essersi allontanati dopo i primi impegni rimasti disattesi, sono stati assicurati con un decreto comunicato al Comune l’11 settembre 2012, una settimana dopo la pubblicazione del nostro servizio.

Ci guardiamo bene dallo scambiare il “post hoc” con il “propter hoc”, si tratta di un provvedimento dall’iter complesso firmato un mese prima, precisamente il 13 agosto 2012: lo stesso giorno dell’apertura della mostra incentrata sull’immagine del pittore in anni lontani alla sommità della vallata sconvolta dal crollo verificatosi proprio nella grotta in cui veniva ritratto. Ebbene, nel commentare le immagini avevamo sottolineato questa presenza ammonitrice che poneva dinanzi alla responsabilità di tutti l’esigenza di un intervento per la messa in sicurezza e il ripristino dell’arte e dell’ambiente sfregiati; diamo atto che il senso di responsabilità alfine ha prevalso.

La risposta positiva nella sua coincidenza temporale dopo il protrarsi dell’attesa ha fatto sentire il sapore della favola al di sopra della cronaca, dinanzi a una sequenza che ci ha stupito per i suoi “segni” così significativi per chi non rifugge dal dare speciali significati a misteriosi collegamenti.

 La frana

Torniamo alla cronaca per render conto del provvedimento e del seguito che gli sarà dato, non prima di concludere il richiamo alla “puntata precedente” della nostra storia estendendo a un raggio più vasto l’appello che avevamo rivolto a un solo artista. Nel momento in cui ci si prepara ai primi interventi operativi crediamo utile ogni contributo di idee che possa venire da varie parti per il recupero ambientale e per il nuovo assetto delle “pitture rupestri” quando sarà possibile realizzarlo. Sarà un modo di mostrare in concreto amore per quei luoghi e per il grande artista Guido Montauti che vi si è ispirato e vi ha lasciato i segni della sua arte: e questo fornendo spunti e suggerimenti rivolti a chi avrà la responsabilità e la regia degli interventi.

La presenza ammonitrice del pittore, che sembra essere tornato sui luoghi da lui tanto amati nelle immagini scattate a suo tempo da Aligi, con il contestuale sbocco positivo della questione vitale dei finanziamenti, fa sì che oltre al “percorso”, cui pensa il sindaco per il nuovo assetto delle “pitture rupestri”, il nome di Montauti possa essere dato anche alla vallata sotto il ”Grottone”: nella zona che termina con la “Grotta dei Segaturi” ora scomparsa, distrutta dalla frana che ha travolto i suoi dipinti. Più che una proposta è un moto spontaneo dell’animo, spinti come siamo dalla consuetudine che avevamo con il pittore scomparso e sensibili ai “segni” misteriosi di questa favola vera.

I primi finanziamenti per la messa in sicurezza

Tornare dalla favola alla cronaca è come passare dalla poesia alla prosa, cosa tanto più difficile se è quella burocratica dei decreti della pubblica amministrazione, ma è una prosa così attesa da apparire poetica. La premessa, fatta di un lungo elenco di riferimenti a norme e adempimenti, ben 23, evidenzia l’intero percorso di un iter complesso che inizia dal sopralluogo del 17 giugno 2009, poco più di due mesi dopo il sisma, per la “caduta massi in località Capo le Vene”, appunto il nostro “Grottone”; i rilievi compiuti accertarono “il nesso di causalità con l’evento sismico del 6 aprile” e lo certificarono.

Lo spigolo incombente

Seguono ulteriori passaggi: il 23 novembre 2010 il Comune trasmette lo “Studio geologico-tecnico per la valutazione e mitigazione del rischio frane da crollo coinvolgenti l’abitato di Pietracamela e dintorni”, il 28 dicembre viene richiesta la quantificazione dell’onere relativo. Finché i crolli del 18 marzo 2011 con la loro violenza dirompente hanno richiamato all’urgenza della messa in sicurezza in una situazione gravemente compromessa dall’evento franoso ben più rovinoso del precedente, anch’esso riconosciuto dal sopralluogo del successivo 13 aprile come “predisposto dall’evento sismico”.

 Il 12 aprile 2011 il Comune trasmette agli organismi competenti lo “Studio di fattibilità per gli interventi di messa in sicurezza a seguito dei crolli di massi rocciosi del 18.3. 2011”, fino al progetto preliminare per gli “Interventi di urgenza per la messa in sicurezza del promontorio Capo Le Vene, lotto I” trasmesso sempre dal Comune il 31 ottobre 2011.

Il Comune di Pietracamela si è dunque attivato con il sindaco Antonio Di Giustino in prima fila per quanto di sua competenza, presentando sin dal novembre 2010 lo studio geologico con gli interventi necessari per 4,8 milioni di euro; le verifiche e i passaggi autorizzativi hanno portato a questo primo lotto di interventi più urgenti per 510 mila euro, si confida che il resto segua in tempi ragionevoli.

Tali interventi riguardano espressamente la sicurezza della parete rocciosa, quindi a prima vista sembrerebbero per ora esclusi quelli di ripristino ambientale con il recupero delle “pitture rupestri”. La conformazione della zona, però, impone di non trascurare neppure nell’attuale prima fase questi aspetti, perché si tratta comunque di ripristinare i collegamenti per accedere alla zona; quindi la riapertura dei sentieri sul Canale e a Sopratore verso il Piano della mandorle, Campo Pericoli e quindi Campo Imperatore dovrebbe essere assicurata; così come una parte del “percorso Montauti” che incrocia lo stesso itinerario e potrà consentire intanto l’accesso alla parte pittorica superstite.

La parola al sindaco Antonio Di Giustino

A questo punto, avuta la notizia del decreto appena pervenuto dal consigliere comunale Aligi Bonaduce, il 12 settembre abbiamo sentito il sindaco per avere indicazioni su come intende procedere, all’interno delle procedure realizzative e di controllo previste, richiamate espressamente nei 5 articoli del decreto che lo nomina “soggetto attuatore per la realizzazione dell’intervento”.

La reazione a caldo di Antonio Di Giustino rivela un entusiasmo contagioso dopo la sfiducia seguita alla lunga e finora vana attesa: “Temevo che per quest’inverno non si sarebbe neppure cominciato ad affrontare il problema, ora quelli che sembravano solo miei sogni possono diventare realtà, compreso il recupero dell’itinerario turistico e il percorso per le ‘pitture rupestri’ sopravvissute”.

Non è un momento di esaltazione, il sindaco è molto preciso: “Sono in contatto con gli ingegneri dell’Enel che attendono solo un segnale del Comune per creare un percorso nuovo sul Canale nella sua continuità; ora posso dare questo segnale, già domani sarò sul posto con dei tecnici per partire nell’immediato”. Il generale inverno si avvicina, siamo in alta montagna, perciò occorre bruciare le tappe per fare quanto possibile prima delle nevicate che fermeranno i lavori: “In questo periodo mi dedicherò totalmente a tale impegno, le procedure di emergenza mi consentono di essere operativo in 10-20 giorni e utilizzerò tutto il tempo a mia disposizione senza indugi né rallentamenti”.

Gli chiediamo come vede la coincidenza temporale con la mostra fotografica sul pittore Montauti ritratto in tempi lontani nella grotta crollata di recente. “Sono coincidenze che mi danno forza nel portare avanti i miei progetti, le vedo come un messaggio a procedere con rinnovata energia nelle iniziative per il recupero artistico delle pitture rupestri e dell’ambiente devastato, e non solo”.

Quel “non solo” viene subito esplicitato: “Con il figlio dell’artista, Pierluigi Montauti, abbiamo in programma per il periodo di ferragosto del prossimo anno una esposizione delle opere su tela di Guido Montauti, che lui stesso metterà a disposizione, nelle piazzette del borgo con incontri, musiche, prodotti locali, in una prospettiva di rilancio del paese dopo le ferite del terremoto”.

Un rilancio che va oltre l’interesse locale: “Siamo sul ‘Sentiero Italia’ e dobbiamo mantenerci all’altezza, anche il recupero delle ‘pitture rupestri’ di Montauti fa parte di tale valorizzazione”.

Sull’onda di questa visione più generale ci rivela che il recupero dell’abitato dai danni arrecati dal terremoto avrà un’accelerazione, molto sarà fatto prima dell’inverno per la parte pubblica, poi in primavera partirà il resto, espletate le procedure previste per la ricostruzione. Sarà colta quest’occasione anche per realizzare quello che viene chiamato “percorso di fuga”, un nuovo collegamento delle parti del paese tracciato in basso, dal Rio della Porta a Porta Fontana. In alto, a Sopratore, dove c’è Vena Grande, nella parte panoramica sarà allestita una zona di ritrovo intitolata a Ernesto Sivitilli, altra personalità storica del paese oltre a Guido Montauti. “Penserò quest’inverno ad organizzare tali iniziative, ora il mio impegno va tutto all’emergenza della “messa in sicurezza”.

Sul nostro invito a tener conto delle idee sul riassetto ambientale e sul “percorso Montauti” che pervenissero da varie parti a seguito dell’appello a fornire suggerimenti, non solo manifesta la massima apertura e disponibilità, ma ha in mente un’iniziativa concreta: “Sto pensando a un bando per stimolare questo afflusso di idee, e conosco degli artisti abruzzesi, pittori e scultori, legati a Montauti i quali di certo vorranno fornire il loro contributo di idee che considero prezioso”.

Non sono voli pindarici, il sindaco è pragmatico e precisa: “Il progetto di recupero e la sua realizzazione potranno trovare espressione in un cronoprogramma con rendicontazione da aggiornare costantemente nel sito del Comune, quindi trasparente e accessibile a tutti”.

Un’ultima notazione: “Utilizzeremo i piani di ricostruzione per iniziative innovative, così avremo un paese più bello di prima”. Non lo dice ma lo ricordiamo noi: Pietracamela è dal 2005 nel Club dell’Anci “i Borghi più belli d’Italia”, proclamato “Borgo dell’Anno 2007”; è un paese al quale Gabriele d’Annunzio dedicò un suo racconto del 27ottobre 1887 dal titolo suggestivo: “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scùrcula”. Il che è tutto dire.

Pietracamela

Foto

Le fotografie di una parte del “Grottone” interessata dal crollo sono di Romano Maria Levante, dell’agosto 2012; le fotografie delle “pitture rupestri” del “Pastore Bianco” di Guido Montauti sono di Aligi Bonaduce che ringraziamo per avercele fornite cortesemente, la pittura con il cavallo, che copre interamente la roccia, è sopravvissuta alla frana, la fotografia è stata scattata da Aligi il 23 marzo 2011, cinque giorni dopo il crollo che ha travolto le altre pitture il 18 marzo.

3 Comments

  1. Antonio Di Giustino

Postato settembre 20, 2012 alle 8:43 PM

Lodevole il contributo proposto da Giorgio Montauti che ci ha regalato immagini di valore storico altissimo. Il recupero delle “Pitture rupestri” che la mia amministrazione considera prioritaria si ergerà a simbolo di un paese devastato dal terremoto che rinascerà per tornare al suo splendore di “Borgo montano”e tale recupero precederà la vera ricostruzione di Pietracamela ! Ringrazio Giorgio Montauti e tutti i paesani gli sono grati per il suo intervento. Il Sindaco Antonio Di Giustino

  • Giorgio Montauti

Postato settembre 19, 2012 alle 6:19 PM

Gli articoli che Romano Maria Levante ha pubblicato ripetutamente in questa rivista sul “Crollo del Grottone”, che oltre ad aver ostruito sentieri ha duramente colpito le Pitture Rupestri sfigurando il sito in cui le stesse erano armoniosamente inserite, denotano una grande sensibilità, oltre che un grande “amore” per la sua terra ed un’attenzione non comune alle cose dell’Arte. Per tutto questo mi sento di dovergli rendere merito, anche in funzione della grande stima che ha sempre manifestato nei confronti dell’amico Artista. Il fatto che attraverso questa rivista sia divenuto il paladino del riassetto ambientale del sito e nel contempo del recupero delle pitture gli fa un grande onore. Lodevole anche l’entusiasmo con cui il Sindaco Di Giustino annuncia iniziative atte ad ottenere un contributo di idee da parte degli artisti abruzzesi, che certamente non mancheranno come non mancherà il contributo di noi, figli dell’Artista, sia in termini di idee che di operosità, per il rilancio di un paese così duramente colpito.
Nel frattempo ho ritenuto di dare il mio contributo mettendo insieme in un filmato, linkato qui di seguito, le foto delle pitture nello stato in cui erano alcuni anni fa, e questo sia per documentare ciò che esisteva prima del crollo, ma anche per stimolare le autorità competenti al recupero di tali opere, a salvaguardia di un patrimonio artistico unico nel suo genere.

http://youtu.be/RrLuR1kLUCI

  • Francesco Ascani

Postato settembre 17, 2012 alle 6:41 PM

Per chi ha letto come me i precedenti servizi del Levante “Pietracamela. Mostra fotografica sul pittore Guido Montauti”, pubblicato il 29.08.2012 su “guidaconsumatore – guida alla fotografia” e “Pietracamela. Fotografie e pitture rupestri nel crollo del Grottone” pubblicato il 3.09.2012 su questa rivista, questo suo terzo intervento ha un valore aggiunto, proprio quello che lo contraddistingue.
Lo dico perché questo autore inimitabile nel modo in cui offre cultura sia nel trattare argomenti importanti con completezza tale da sfiorare la pignoleria, tant’è l’impegno profuso, e sia nella forma che manifesta.
Romano Maria Levante non è nuovo a trattare argomenti in più approfondimenti, appunto perché vuole e riesce ad essere attento nella ricerca delle notizie e di tutto quanto ad esse collegato, nell’esaminarle anche da diversi punti di vista e nel commentarle, forte anche delle sue capacità e dell’impegno che mette in tutta la sua attività.
Quello che ho cercato di dire è il mio pensiero maturato dopo la lettura di tanti suoi servizi, saggi e studi su argomenti diversi, svolti sempre facendo proprio l’argomento per poi, senza alcun problema, renderlo al lettore.
Queste mie considerazioni le ritengo tutte mostrate in questo suo nuovo impegno: quello di chiarire, come lui dice “Quando la cronaca diventa favola”.
Partendo dal terremoto dell’aprile 2009, fino al crollo di una parete rocciosa del marzo 2011, trae lo sconvolgimento dell’assetto ambientale, documentato da foto di particolare efficacia, scattate da Aligi Bonaduce: immagini inedite.
Riferisce, poi, sul provvedimento emesso “per la messa in sicurezza e il ripristino dell’arte e dell’ambiente sfregiato” con l’assegnazione dei primi finanziamenti.

Tornando alla cronaca e con riferimento al seguito che il provvedimento avrà, nel momento dei primi interventi operativi, ritiene utile ogni contributo di idee che possa venire da varie parti, estendendo l’appello in precedenza rivolto ad un solo artista.
Bello il riferimento alla presenza ammonitrice del pittore che oltre al “percorso” pensato dal Sindaco Di Giustino per il nuovo assetto delle “pitture rupestri”, suggerisce il nome Montauti anche per la vallata sotto “Il Grottone”, come “segni” di questa favola vera.
Segue, con la precisione del Levante, una serie di riferimenti a norme e adempimenti sui primi finanziamenti e sugli interventi, sull’entusiasmo del Sindaco Antonio Di Giustino, sui suoi intendimenti e sui programmi per il futuro, in una prospettiva di rilancio di Pietracamela dopo le ferite del terremoto e della frana, attraverso il prezioso contributo di idee che gli artisti abruzzesi, certamente, vorranno fornire.

Pietracamela. Mostra fotografica sul pittore Guido Montauti

di Romano Maria Levante

Home > Mostre > Pietracamela. Mostra fotografica sul pittore Guido Montauti

Una mostra fotografica del tutto speciale in un ambiente speciale, dal 13 agosto al 30 settembre 2012 e oltre. L’ambiente è la bella sala del Municipio di Pietracamela, il paese alle falde del Gran Sasso sul versante teramano entrato nel 2005 nel Club dell’Anci ”I Borghi più belli d’Italia” e dopo soli due anni proclamato “Il Borgo dell’Anno 2007”. Protagonista è il pittore Guido Montauti, scomparso nel 1979 a 61 anni, in una ventina di fotografie scattate da Aligi Bonaduce nel paese natio, nei luoghi cui si è ispirato per le plastiche composizioni con le sagome umane tra le rocce. La mostra è nell’ambito del Museo delle genti e degli antichi mestieri, che ha sede stabile nel vecchio Municipio, ed è associata a un’esposizione di Strumenti di civiltà contadina e montanara.

Nell’atrio si è accolti da una serie di belle fotografie degli archi che costellano i vicoli del centro storico del paese, poi si entra nella sala della mostra con la scrivania del sindaco, traslocato per il terremoto nella vecchia sede municipale data l’inagibilità della parte dell’edificio con gli uffici. Il suo studio di rappresentanza, agibile, è divenuto “sala multimediale” e “Internet point” con vari terminali a disposizione di paesani e turisti, iniziativa molto utile apprezzata soprattutto dai giovani.

L’introduzione: l’esposizione di strumenti della civiltà contadina e montanara

Prima di parlare delle fotografie in mostra sulle pareti e di ciò che evocano, uno sguardo alla vicina saletta con esposti oggetti di impiego quotidiano e strumenti di lavoro che nei tempi passati erano usati a Pietracamela, non genericamente nella montagna e campagna abruzzese, ma proprio nel piccolo borgo con oltre 1500 abitanti rispetto al numero molto ridotto di presenze stabili attuali: nell’etichetta oltre al nome italiano è indicato anche quello nel dialetto locale, il “pretarolo”, molto diverso dai dialetti abruzzesi, anche da quello della vicina frazione di Intermesoli.

Ecco la lanterna a petrolio dei carbonari “la jhuntorna”, e quella ad olio “lant’rnalla”; la roncola per la legna “ou rene” e la pietra per affilare la falce “la cauta”, la roncola per tagliare cose piccole “r’ngatta” e i morsetti per incollare le finestre “i’m’rsatt”, l’oliera “ulieur’”e la scatola per tagliare le cornici “45 gruod”. Poi una serie di treppiedi e coltelli rudimentalii, il necessario per la grande caldaia, dagli scolapasta ai forchettoni, nella cucina della famiglia patriarcale molto numerosa prima che l’emigrazione nelle Americhe la decimasse. Non mancano documenti dell’epoca nella scrittura a inchiostro corposa e con svolazzi; un fucile e una pistola con i contenitori della polvere.

La memoria fotografica: Guido Montauti pittore tra le sue rocce

La visione degli oggetti nella piccola mostra che ci riportano alla vita del paese arroccato tra le rocce prepara alla mostra fotografica dedicata al suo celebre figlio il quale ne ha tratto l’ispirazione per un’arte pittorica che ha avuto riconoscimenti prestigiosi: nel 1938 a 20 anni la prima personale, terminato il dopoguerra espose a Milano e a Venezia alla Biennale nel 1950, scrisse di lui Virgilio Guidi. La consacrazione venne da Parigi, allora capitale dell’arte pittorica, dove si trasferì nel 1952, con il pieno apprezzamento del critico d’arte Pierre Descargues seguito nel tempo da critici italiani.

Su una forte base culturale – che lo portò nell’età matura all’insegnamento di “disegno della figura” nel Liceo artistico di Teramo, al quale nel 2010 è stato dato il suo nome – cominciò a dipingere con immagini forti ispirate a Rouault; poi la forza la trasse dalle rocce della sua terra con le figure umane tradotte in sagome assorte e possenti. Nella seconda fase della sua vita artistica alle rocce aggiunge i profili stilizzati della campagna abruzzese, allontanandosi dal figurativo fino al “periodo bianco” nel quale approda a una sorta di sublimazione vicina all’astrazione, lontana dalla realtà però con la presenza immancabile della roccia, divenuta un piccolo, ma significativo sigillo.

Non si è limitato a tradurre nei dipinti la sua ispirazione, ha propugnato il ritorno all’arte vera dinanzi alle esasperazioni ultramoderniste, riportando la figura umana al centro dell’opera pittorica.

Una figura umana ricondotta all’essenziale la sua, la sagoma radicata nella sua terra con le rocce a fare da protagoniste anch’esse, più di rado animali come le mucche e qualche volta il cavallo. La sua polemica con la Biennale di Venezia fu coraggiosa e immaginifica quando nel 1963, tredici anni dopo avervi partecipato, costituì il gruppo del Pastore Bianco come “Avanguardia della Rinascenza”: tre giovanissimi pittori e un paesano simbolo dei pastori che indossava il pittoresco “guardiamacchie” nella grande mostra al Palazzo Esposizioni di Roma nel 1964.

Della mostra che visitammo, dopo quasi cinquant’anni ricordiamo le sagome e le rocce della sua pittura che nella maggiore dimensione acquistavano ancora più forza; fino al monumentale “Giudizio Universale”, nel quale applicò il suo stile inconfondibile a un soggetto così impegnativo e diverso. Si può ammirare sulla sommità dello scalone che porta all’ultimo piano del Comune di Teramo al quale è stato donato, e ogni volta che lo si vede si fanno scoperte sorprendenti dinanzi a un capolavoro.

Dei giovani componenti del gruppo, Alberto Chiarini, Pietro Marcattili e Diego Esposito, ci piace sottolineare la prestigiosa escalation di quest’ultimo, divenuto artista internazionale tra Occidente e Oriente, docente a Brera; lo stesso “pastore” iniziò a dipingere in un naif semplice e genuino, fino a esporre da solo a Montorio al Vomano. A lui, Bruno Bartolomei, anch’egli scomparso, è dedicato un largo nel paese; a Guido Montauti è intitolato il Belvedere panoramico con una fontana che ricorda le sue forme predilette, sulla tomba nel Cimitero di Pietracamela ci sono in rilievo le sue sagome davanti a una roccia. Nella sala consiliare del Municipio del paese un suo grande dipinto copre un’intera parete, un altro è nella sala da pranzo dell’albergo “Gran Sasso 3” ai Prati di Tivo.

E’ lui il protagonista della mostra fotografica: le immagini lo ritraggono pensoso tra le rocce nel contrafforte roccioso che domina Pietracamela con i pilastri e i massi, le grandi caverne e la successione di grotte di varie dimensioni che lo hanno fatto definire “il Grottone”. Sembra a suo agio, compiaciuto di venire immortalato nel suo mondo, di “scendere in campo”, per così dire. L’autore degli scatti divenuti preziosi, Aligi Bonaduce, ci dice che fu lo stesso artista a suggerire il Grottone come sfondo delle foto; si erano incontrati a Sopratore, nella parte alta del paese, e lì Aligi lo ha fotografato vicino a Vena Grande, dovettero salire molto più su, oltre il canale, per trovare le caverne che Montauti sentiva come sue.

Sembra interpretare i suoi dipinti, “testimonial” di se stesso, così le fotografie diventano dei quadri. E’ come se nel contatto con la fonte dell’ispirazione si materializzasse l’artista in carne e ossa, entrasse nel proprio dipinto. .Sono immagini dalla potente forza espressiva, l’artista è ripreso in diversi atteggiamenti, chino a meditare o proteso a guardare lontano. Le rocce mutano, dalla grotta in lontananza al pilastro in primo piano, dall’oscurità della caverna alla luce che batte sulla pietra chiara, dalla rugosità alla levigatezza delle superfici; in lui fotografato sembra di rivedere le sagome che amava dipingere tra i massi.

“Mi invitò in dialetto pretarolo a fotografarlo bene”, ricorda Aligi, e lui gli fece fotografie in sequenza, quasi un “reportage”: dall’arrivo sul luogo, all’ingresso nella caverna, prima inquadrato da molto lontano, poi da vicino, fino al primo piano, quindi nell’ultima immagine scattata quel giorno che lo riprende mentre si allontana. La fotografia, un commiato e un addio, non è esposta, Aligi ci regala il prezioso inedito con altri, nel segno di comuni radici paesane e familiari e nel commosso ricordo condiviso dell’artista amico che ci ha lasciati da trentatre anni.

E ci rivela un particolare altrettanto significativo: dell’intera sequenza fotografica all’epoca, oltre quarant’anni fa, stampò una sola immagine, quella con il brecciaio della grotta in primo piano, ma conservò i negativi; li ha ritrovati, con l’etichetta “Guido Montauti”, il figlio Flavio nel mettere ordine alla montagna di scatti di una vita. Circostanza già insolita, che diventa straordinaria alla luce di un evento naturale che ha stravolto proprio quei luoghi, al punto che l’immagine con il pilastro è stata proiettata dal Sindaco nell’ultima assemblea cittadina, indicando che nel suo crollo si può trovare l’origine della frana. Ma su questo avvenimento che proietta la mostra fotografica nell’attualità più viva e bruciante facendone qualcosa di unico e irripetibile torneremo presto.

Info

Municipio di Pietracamela all’ingresso in paese, nell’ambito del “Museo delle genti e degli antichi mestieri”, dal 13 al 31 agosto tutti i giorni, ore 10,00-12,00 e 17,00-19,00; dal 1° al 30 settembre nei soli giorni di sabato e domenica, stesso orario di agosto; in seguito speciali aperture su richiesta. Ingresso gratuito. Per l’estate prossima il Sindaco ha annunciato una manifestazione celebrativa dell’artista. Una vasta galleria di immagini del paese è nel sito web di Aligi e Flavio Bonaduce.

Foto

La galleria di immagini ci è stata fornita cortesemente e personalmente dall’autore e titolare dei diritti Aligi Bonaduce, che ringraziamo con particolare calore per averci dato anche la fotografia dell’artista che si allontana, quasi un commiato, inedita e non esposta, che pubblichiamo. Il nostro ringraziamento anche all’altro curatore della mostra Flavio Bonaduce, cui va il merito del ritrovamento dei negativi che appare portentoso per le straordinarie circostanze cui è associato.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 29 agosto 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

Questo articolo ha un commento

  • Francesco Ascani scrive:

10 settembre 2012 alle 15:12

Dopo aver rintracciato questo servizio, segnalato dallo stesso Levante sulla Rivista “Cultura inAbruzzo” (Fotografie e pitture rupestri nel crollo del “Grottone”), ovvia la lettura ed ovvie alcune considerazioni, dettate più dal piacere di esternare emozioni suscitate da un autore che non può commentarsi se non con elogi e riconoscimenti del suo impegno nel rendere conoscenza letteraria, storica e artistica con originalità e vivacità. Anche questa sua testimonianza inizia con notizie sulla sede della mostra fotografica di Guido Montauti associata a un’esposizione di Strumenti di civiltà contadina e montanara, minutamente e sapientemente descritta, come introduzione a quella della fotografia. Quindi memoria fotografica di Guido Montauti “Pittore tra le sue rocce” con la foto in bianco e nero che lo ritrae in atteggiamento di ritorno a casa, appunto tra le rocce.
Bella, completa ed elegante ricostruzione del percorso artistico, ad iniziare dalla giovane età, con tante informazioni e riferimenti anche sulla pittura del Montauti e gli immancabili “approfondimenti e commenti” frutto di un’attività instancabile e di grande esperienza.
Altrettanto bella questa sua affermazione “Non si è limitato a tradurre nei dipinti la sua ispirazione, ha propugnato il ritorno all’arte vera dinanzi alle esasperazioni ultramoderniste, riportando la figura umana al centro dell’opera pittorica” che mi ha attratto pienamente.
Poi la descrizione delle opere con proprietà di linguaggio tale da far vedere ciò che scrive, immagini che ritraggono il Montauti “tra le sue rocce” e citazioni di altri artisti Alberto Chiarini (mio amico di gioventù prematuramente scomparso vittima di un incidente stradale con il suo motorino), Pietro Marcattili e Diego Esposito, seguite da ricordi personali e argomentazioni varie. In chiusura altra foto in bianco e nero del Montauti su sfondo roccioso e una segnalazione di altri articoli sulla fotografia, sicuramente interessanti.
Concludendo mi piace citare quanto scrissi a commento di un altro articolo del Levante sulla “Campagna romana in mostra a Roma” dell’ 11 febbraio 2010, perché sembra attinente: «Bello e sentimentale, l’accostamento dell’arte di diffondere le bellezze del territorio romano, alle ispirazioni artistiche di valorizzazione dei pregi ambientali d’Abruzzo ed in particolare di “Montauti”, nell’illustrare la “regione verde d’Europa”».

Piero Angela a Palazzo Valentini, tra i ruderi la luce

di Romano Maria Levante

– 3 dicembre 2009, cultura.inabruzzo.it, postato in: Culturalia

Nel 2009 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano visitò a Roma, nei sotterranei della sede della Provincia, a Palazzo Valentini, gli importanti ritrovamenti archeologici collegati con l’adiacente zona traianea: due Domus romane e le Piccole terme di Traiano, riportate all’originario splendore da una spettacolare tecnologia multimediale che fa rivivere i reperti. Ricordiamo oggi quell’evento, ripubblicando l’articolo che uscì nella circostanza, nel sito cultura.inabruzzo.it, in omaggio a Piero Angela, ldeatore e realizzatore – con Paco Lanciano per la parte più strettamente tecnica – del suggestivo “restauro” virtuale delle Domus romane con la sua voce narrante all’insegna del rigore storico e scientifico unito all’esemplare chiarezza espositiva alla portata di tutti. Alle Domus romane di Palazzo Valentini seguì il Foro romano, ed ecco come la Soprintendenza capitolina ai beni culturali presenta il Foro di Augusto e il Foro di Cesare: “1° giugno- 22 ottobre 2022. Viaggio nell’antica Roma. Foro di Augusto e Foro di Cesare, a cura di Piero Angela e Paco Lanciano”. Questa presenza immanente – che continuerà a farlo sentire vivo e partecipe – si aggiunge alla memoria della inesausta missione culturale della sua vita – diecine di trasmissioni televisive di scienza e cultura, 11 lauree honoris causa, una quarantina di libri – facendolo entrare di dieitto nel Pantheon degli italiani illustri cui tutti siamo debitori e riconoscenti..

“Tra le sbarre la luce” era lo spettacolo del “Festival della spiritualità” organizzato dall’Eti prima della scorsa festività pasquale; questa volta prima delle festività natalizie, nella bella mattinata del 3 dicembre 2009, abbiamo avuto “tra i ruderi la luce”, organizzato dalla Provincia di Roma, con uno spettatore d’eccezione, il capo dello Stato Giorgio Napolitano, accompagnato dal presidente Nicola Zingaretti e dal sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro. Perché di questo si è trattato: la luce che a Pasqua filtrava nell’ex riformatorio oggi entrava nei sotterranei di Palazzo Valentini, senza rompere la penombra che li avvolge, creando immagini non con la fantasia ma con la cultura e la tecnologia, un binomio mai così appropriato. E il merito è soprattutto di Piero Angela.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è artmagazine.it_-3.jpg

I ruderi riprendono vita

Sono stati ricostruiti ambienti e strutture, in una realtà virtuale che si è sovrapporta alla realtà fattuale senza sovrastarla né profanarla ma completandola per farle recuperare la forma originaria. E’ come se a un mutilato fossero tornati gli arti mancanti o, se si preferisce, come se la macchina del tempo avesse riportato ai fasti originari.

Non è sembrata eccessiva, in questo contesto, la definizione del presidente Zingaretti di “giornata storica”, che ha riferito soprattutto alla prima visita di Napolitano alla sede provinciale; storica anche perché, ha detto, vissuta “all’insegna della cultura in un luogo unico al mondo per l’incontro tra l’archeologia e la modernità, tra i reperti di una storia antica e la tecnologia”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è capware.it_-3.jpg

E’ un incontro che avviene all’insegna della luce in un sistema multimediale ideato e realizzato – con il fondamentale ausilio di Paco Lanciano – da Piero Angela, che ha così spiegato la sua idea: “Mi sono messo dalla parte del pubblico, cioè di me stesso, per capire quello che si vorrebbe vedere in uno scavo: si desidera entrarci dentro, rivivere l’atmosfera, lo spirito di allora; così ho cercato di ridargli vita”.

Non serve fornire particolari tecnici, i diciotto computer con un calcolatore centrale danno un’idea della complessità dell’operazione, alla base della quale c’è un livello culturale particolarmente elevato, per ricostruire virtualmente strutture di cui poco è rimasto, ma quanto basta per consentire il trapianto di immaginazione e di vita che si è riusciti a compiere. Il “computer graphic” ha fatto il miracolo, ma in quanto alimentato da una ricerca approfondita su tutto quanto la cultura può “raccontare” di un periodo così lontano ma altrettanto vicino per lo studioso.

Rigore storico e vicinanza alla gente, secondo lo stile di Angela: lo ha riassunto dicendo che si pone “nel rigore dei contenuti dalla parte degli esperti, nel linguaggio semplice e accessibile dalla parte del pubblico”. E’ una lezione che dovrebbe essere fatta propria dal giornalismo culturale, noi ci crediamo da sempre.

L’altro ingrediente è stata la passione che da Piero Angela a Paco Lanciano ha contagiato le maestranze; lavorare due piani sottoterra rispettando le preesistenze nel difficile compito di trapiantarvi la tecnologia senza lasciarne traccia non è stato semplice. Un lavoro concluso alle due della scorsa notte con la revisione finale di Piero Angela che ha dato il suo “nulla osta” ed è andato a casa; non prima di aver detto, lo ha rivelato simpaticamente Paco Luciani, “avrei un’ultima idea…”. Stamane la sorpresa per lo stesso Angela, nella notte anche l’”ultima idea” realizzata, per Paco Luciani e i suoi tecnici notte bianca “underground”.

Questo tocco di umanità rende appieno lo spirito della realizzazione, lo sforzo appassionato di ridare vita alle “anime morte” – vogliamo ricordare il grande innamorato di Roma e delle sue antichità, il Gogol del bicentenario – ricreando colonne e pavimenti, ambulacri e cortili, arredamenti e suppellettili. Il rosso pompeiano e il blu intenso danno alle abitazioni il calore e l’eleganza di uno spazio vissuto.

Aiutano le musiche sullo sfondo e i suoni evocativi da altoparlanti “a pioggia”, tali da diffondere il suono in modo omogeneo e suggestivo; e non si è trattato certo dei “suoni e luci” del consumismo turistico, ma un qualcosa di molto discreto, rispettoso dei reperti muti ai quali doveva dare voce, missione compiuta.

La visita ai sotterranei di Palazzo Valentini

Abbiamo finora parlato in termini piuttosto generali della ricostruzione virtuale di ambienti e strutture abitative e urbanistiche. Il tutto realizzato senza interferire minimamente sulle preesistenze archeologiche, nulla appare alla vista delle apparecchiature e nulla è stato manomesso per collocarle. Non serviva neppure fare questa precisazione, tale è stato l’amore e la passione per l’antichità che si è sentita vibrare; come nella parole di Angela è apparsa la fiducia nella tecnologia, ma anche l’ansia del tutto umana per l’affidabilità delle “macchine”, quasi si trattasse dei primi voli spaziali che lui stesso ebbe a descrivere.

Ma cosa si vede, dunque, nei sotterranei di Palazzo Valentini? Ruderi in diverso stadio di conservazione, muri e arcate, mozziconi di colonne e pavimenti, vasche e suppellettili . Si passa sopra a grandi lastre di vetro di grande spessore che consentono la vista completa dei ritrovamenti, in altri casi si può vedere l’ambiente ricavato nelle tipiche murature romane da dietro una sottile ringhiera.

I pavimenti rinvenuti sono di fattura elegante, con materiali pregiati dal porfido al giallo antico, dal serpentino all’africano; due i tipi principali: uno del tutto inconsueto, rispetto alla note pavimentazioni in piccole tessere quadrate, con dei cerchi e losanghe verde-azzurro, larghe porzioni che è stato semplice completare virtualmente; l’altro più familiare, con tessere geometriche di triangoli e quadrati. E’ il reperto che ha colpito di più, insieme alle due arcate e alla balaustra, alle grandi vasche e agli ambulacri, ai due livelli uniti da un’ampia scalinata.

Un insieme di ingredienti di base che dagli esperti cuochi tecnologici vengono trasformati in cibi sopraffini dalle ricette luminose e sonore. Si materializza, è il caso di dire bisticciando con il prodotto virtuale, l’abitazione e l’ambiente urbano, torna la vita, si vede anche passare una tunica granata, sembra che stia rincasando ed è stata sorpresa dagli inattesi visitatori. Prodigio della tecnica e anche miracolo della cultura. Il formarsi virtuale degli ambienti con le linee luminose tracciate dinanzi al visitatore fa pensare a un architetto che disegna i progetti, per forza di cose romano, chissà quale divinità gli ha dato questo potere!

Il valore storico e archeologico

Siamo giunti così a quello che in genere precede, le spiegazioni colte fornite come premessa, noi abbiamo voluto posporle alle emozioni provare per uno spettacolo intriso di cultura ma offerto con semplicità. Identifichiamo meglio l’ubicazione degli scavi archeologici “underground” che abbiamo visitato. Sono venuti alla ribalta in una Roma e in una zona ricca di antichità, ma non può non fare notizia un’area di 1.800 metri quadrati, dove le tessere policrome dei pavimenti sono almeno 500.000; il tutto collocabile tra il secondo e il quarto secolo dopo Cristo.

E se non basta a marcarne il valore, aggiungiamo che può essere meglio percepito considerando che fa parte di una zona esclusiva adiacente al foro di Traiano al quale si accede direttamente per un percorso ancora da decifrare; zona definita “City senatoria” dalle abitazioni di senatori e dignitari, il cui ceto qualifica l’eleganza della ricostruzione virtuale alla quale abbiamo assistito.

L’area traianea che oltre al foro comprende la Colonna Traiana, si arricchisce delle due Domus romane di cui abbiamo parlato e delle Piccole Terme di Traiano, area di terme con vasche per l’acqua calda, sistemi di tubazioni per convogliarla e collegamenti tra la zona riscaldata e quella fredda.

Nella visita odierna si sono visti i due successivi ritrovamenti, mettendo in primo piano quelli più recenti scaturiti dalla seconda fase di indagini archeologiche iniziate nel vicinissimo marzo 2009, che hanno dato gli importanti risultati evidenti, lo citiamo tra tutti, nel grande “frigidarium” che doveva avere una volta a botte. Appartiene alle ultime scoperte anche il pavimento più pregiato, con un piano superiore dove si trova l’altro pavimento in “opus sectile” di 40 metri quadrati, con decorazioni floreali e geometriche.

La prima fase, svolta tra il 2005 e il 2007 aveva fatto venire alla luce, per così dire, diversi locali fatti di terme e porticati, in una teoria di ambienti dove molti interventi sono stati operati nelle diverse epoche storiche, per cui rappresentano un testimonianza della variabilità degli stili e delle destinazioni.

C’è stata, anzi, una scoperta nella scoperta: proprio questi rifacimenti hanno prodotto una grande quantità di materiale scartato e lasciato tra i detriti forse per recuperarlo in un secondo tempo; che finalmente è venuto anche se dopo molti secoli rispetto alle intenzioni di coloro che vi avevano lavorato. “Quasi due millenni di interventi – è stato detto nell’illustrare le scoperte – e una miniera di tesori che vanno componendo il profilo di un quartiere residenziale, con ville, piscine, terme, palazzi pubblici, abitato ininterrottamente dall’antichità ai giorni nostri, con un’unica importante cesura, in età tardo romana, per uno spaventoso incendio”.

La ricostruzione virtuale non ha mancato di rappresentarlo, lingue di luce si sono levate nel sotterraneo, ci hanno ricordato i rossi bagliori dell’incendio anch’esso virtuale del castello Aragonese di Ponza nella festa di sant’Anna del 26 luglio; sotterraneo o aereo l’incendio virtuale fa spettacolo.

L’occasione di conoscere Palazzo Valentini

Questo è quanto si può vedere nel visitare un sito archeologico che è anche laboratorio di modernità dal 4 dicembre 2009 al 6 gennaio 2010; occorre prenotarsi (telefonando al +39 06.32810), vi si accede dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18, il sabato e le vigilie delle festività fino alle 13, domenica e giorni festivi chiuso. Soltanto in questo periodo c’è l’apertura completa degli scavi, dopo il successo avuto nell’apertura dei precedenti ritrovamenti, che hanno attirato moltissimi visitatori stranieri previa diligente prenotazione.

Si ha anche l’occasione di conoscere Palazzo Valentini, accolti dalle due grandi statue moderne di Ghia, Enea e di Europa nel largo antistante e da busti romani nel cortile, da Afrodite a Caracalla, un antipasto succulento. E’ un edificio cinquecentesco, sede della Provincia dal 1873, ha preso il nome dall’ultimo proprietario, un banchiere prussiano che lo acquistò nel 1827 e ci mise la sua collezione di quadri.

Potrebbe anche chiamarsi con il nome dei diversi cardinali che ne sono stati proprietari a loro volta, a cominciare dal cardinale Michele Bonelli il committente la costruzione nel 1585, o del successivo proprietario, il cardinale Renato Imperiali, che ne fece demolire e ricostruire una parte e vi portò la biblioteca di famiglia di 24.000 volumi; o infine del cardinale Giuseppe Spinelli che lo acquistò nel 1752. Lo hanno frequentato illustri musicisti del calibro di Friedrich Handel, Alessandro Scarlatti e Arcangelo Corelli, ospitati dal marchese Francesco Maria Ruspoli che ne era affittuario e vi aveva allestito un teatro privato.

Grandi nomi, un percorso di cultura e di vicende importanti. Come si vede la storia del palazzo non si ferma all’antichità che ha scoperto di avere nelle viscere del sottosuolo. Ma è proseguita nel tempo, cosa che ne accresce il fascino oltre che l’importanza culturale. E poi nelle adiacenze vi sono i Fori, anzi sono comunicanti attraverso un tunnel scavato in epoca moderna per sicurezza, che ha ripercorso un itinerario antico, e vicinissimi Vittoriano e Colosseo, il cuore di Roma, vale a dire il massimo. Vale la pena conoscerlo.

6 Comments

  1. Roberto Iodice

Postato gennaio 22, 2010 alle 10:17 AM

Ho avuto la fortuna di visitare i sotterranei di Palazzo Valentini e ammetto che non sarei mai riuscito a descrivere quest’esperienza unica, con le parole lette in questo articolo. Tuttavia l’emozione e la sorpesa che si prova scendendo nella “Storia” in modo così partecipe e non distaccato come avviene di frequente, è difficile da spiegare. La luce completa forme e ambienti rendendoli comprensibili, si riesce a vedere la piscina (con l’acqua) i mosaici si rigenerano lentamente nelle loro parti mancanti e tutto diventa “reale”. Chi ancora guarda con sospetto la tecnologia dovrebbe vedere questo nuovo modo di utilizzarla, perché aggiunge al piacere della scoperta di un’opera del passato la suggestione della “macchina del tempo” descritta nell’articolo. E’ vero non è gratis, costa 6 euro per un’ora abbondante di visita, meno della metà di 20 minuti sulla torre di Pisa e di tanti altri musei dove è difficile orientarsi senza una guida e dove si è obbligati a lunghe file d’attesa.

  • Marco

Postato dicembre 17, 2009 alle 3:26 PM

Critica inutile e non costruttiva…
pagare equivale a sicurezza di essere presenti e quindi non lasciare posti vuoti a discapito di chi in realtà voleva essere presente veramente.
Non succede in nessun museo al mondo??!?!?!?!?!……
qui non siamo nel mondo, qui siamo a Roma che nella sua unicità deve essere valorizzata e pubblicizzata nella giusta maniera, quello che il visitare osserva passeggiando per la città eterna o indagando il sottosuolo non può farlo da nessuna altra parte.

  • Nicola Maddalena

Postato dicembre 9, 2009 alle 8:16 PM

posso alzare una voce critica in questo coro di lodi che ha accolto la vs iniziativa ?
Se volevate scoraggiare tanta gente dall’andare a visitare il sito delle nuove scoperte archeologiche a palazzo Valentini, ci siete riusciti perfettamente.
Capisco l’esigenza di organizzare le visite e fissare le prenotazioni, ma che addirittura si debba pagare – condizione sine qua non- in anticipo e con carta di credito al momento della prenotazione telefonica non accade in nessuna museo al mondo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è turismoiroma.it_.jpg
  • Romano Maria Levante

Postato dicembre 5, 2009 alle 7:34 PM

Caro Sig. Sandro,
sento di rivolgermi confidenzialmente a lei, pur non conoscendola, trovando nelle sue parole la passione unita alla competenza di cui hanno parlato Piero Angela e Paco Luciani; qualità che fanno provare verso chi le esprime familiarità e simpatia, perché ci fa il regalo di presentarci valori antichi sempre più rari.
Le sono grato dell’apprezzamento e soprattutto della disponibilità a raccontarmi la storia della realizzazione negli aspetti tecnici, di cui ha anticipato qualche elemento, e nella sostanza umana di cui ho ricordato l’episodio finale: l’“ultima idea…” alle due dopo la mezzanotte di Piero Angela, puntualmente realizzata al mattino con l’intera notte in bianco. Chissà quanti altri episodi, come chissà quali particolari tecnici!
Saranno ritenuti molto interessanti non solo dagli appassionati ma anche dagli operatori del settore – espositivo, museale e oltre – che potranno trovarvi idee e ispirazioni per l’opera di rivitalizzazione di esposizioni e mostre di cui si avverte la necessità al fine di ridare vita a reperti altrimenti freddi e distanti dalla gente.
E’ un vero servizio pubblico quello che potremo rendere nel raccontare fatti così significativi ai nostri lettori, i quali sanno come ci battiamo per questo rinnovamento avendolo richiesto più volte apertamente.
Spero, quindi, di incontrarla quando vorrà, magari in una nuova visita da fare insieme alle Domus romanae nei sotterranei di Palazzo Valentini, dove potrà raccontare come si crea e si sviluppa la magia della ricostruzione virtuale.
Una favola moderna, dove la tecnica diventa poesia.
Cordiali saluti e a presto.
Romano Maria Levante

  • Sandro Casponi

Postato dicembre 4, 2009 alle 11:22 PM

Egr. Sig. Levante,
ho letto il suo articolo su “Abruzzo Cultura” e mi è molto piaciuto.
Sono il tecnico informatico che ha realizzato il sistema di automazione, hardware e software, i diciotto computer ed il calcolatore centrale di cui lei parla, che gestisce l’automazione del museo.
Se le interessa, potrei fornirle dettagli tecnici per scrivere un articolo per gli appassionati del settore.
In anteprima le dico che il tutto si basa su software cosiddetto “open source”, Linux in particolare, come tra l’altro indicato nella direttiva del Ministro Stanca per le pubbliche amministrazioni.
Cordiali saluti

  • Lino Bordin

Postato dicembre 4, 2009 alle 7:56 PM

Estremamente interessante. Sono curioso di vederlo al più presto!

Foto

Nell’articolo pubblicato il 3 dicembre 2009 vi erano alcune immagini riprese in loco dall’autore, andate perse nel trasferimento dell’articolo da un sito a un altro. In questa ripubblicazione abbiamo inserito nuove immagini tratte da siti di dominio pubblico, si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, precisando che l’inserimento non ha alcuna finalità di natura commerciale, economica o pubblicitaria ma solo illustrativa, e qualora non sia gradita la pubblicazione di qualcuna delle immagini inserite si provvederà a rimuoverla su semplice richiesta. I siti sono i seguenti, in ordine di inserimento delle immagini: solonotizie24.it, artmagazine.it, capware,it, itineroma.it, palazzovalentini.it dalla 5^ all’11^, passaggilenti.it, romacorriere.it, roma.impero.com la 14^ e la 15^, sorienogastronomiche.it, turismoroma.it, passaggilenti,it Grazie ancora ai titolari dei siti sopra citati..

Marina Miraglia, 7 grandi fotografi tra l’800 e i primi del ‘900)

 

Home > Mostre > Roma. 7 grandi fotografi (’800 – primi ‘900) nel libro di Marina Miraglia

Il libro “Fotografi e pittori alla prova della modernità”, di Marina Miraglia inquadra l’evoluzione della fotografia dall’800 al ‘900 nel rapporto tra regola e creatività su cui si basava la distinzione dei generi tra “alti” e “bassi” cancellata anche per l’opera dei grandi fotografi dell’800-primi ‘900, cui sono dedicati 7 saggi del libro, come declinazione pratica del quadro teorico iniziale e dell’approfondimento su paesaggio e impressionismo, temi già da noi trattati. Ora per ciascuno dei 7 fotografi considerati isoleremo un fotogramma dell’ampio lungometraggio presentato nel libro.

In pieno ‘800: Faruffini e Julia Cameron

Si inizia con Federico Faruffni (1833-69), pittore che si dedicò poco all’attività fotografica ma lasciò il segno. Rimangono poche foto di vita familiare tra il 1868 e il 1869, l’anno della sua tragica fine, tuttavia la sua visione fotografica la vediamo nella pittura dove la trasferiva con l’uso del controluce; anzi forzava molto il luminismo come avveniva per l’effetto chimico della fotografia di allora, tanto da essere messo in guardia da questi eccessi per non cadere nel manierismo.

Era l’epoca in cui la fotografia costituiva mero supporto della pittura fornendo la base oggettiva su cui si sarebbe esercitato l’estro soggettivo del pittore. Però l’attrazione che aveva Faruffini per il contrasto di chiaro e scuro portava a un risultato così descritto dalla Miraglia: “La risposta alla richiesta di mimesi che era alla base della fortuna della fotografia, veniva infatti negata dalla forte interpretazione chiaroscurale che Faruffini imprimeva alle proprie fotografie, limitandone l’utilizzo da parte dei pittori contemporanei cui, nelle intenzioni dell’autore erano destinate”.

Su questo paradosso scrisse a Pio Joris: “Purtroppo anche la fotografia non va, caro amico. L’altro giorno al Caffè Greco , Simonetti diceva a qualcuno che tu consoci bene ch’io taglio le fotografie troppo da pittore e all’artista non rimane da fare che molto poco, questo vuol dire che fo il fotografo molto bene”. Parole eloquenti, aveva capito le potenzialità della fotografia nel superare l’effetto solo mimetico per entrare nella sfera estetica, quindi artistica; e questo con l’uso accorto della luce e la scelta compositiva che per lui era di una semplificazione estrema, senza il superfluo.

E’ con Julia Margaret Cameron (1815-79), comunque, che si compie un progresso decisivo con anticipazioni del Postmoderno, nell’abbinare al realismo rappresentativo e per se stesso oggettivo, nuove sollecitazioni di segno molto diverso che portano ad una spiccata soggettività. Lo strumento di questo balzo in avanti fu il “soft focus”, immagine soffusa e sfumata molto meno aderente alle cose osservate dell’allora imperante “scharf focus”, “nitido e tagliente nella resa referenziale”. Quest’ultimo si avvaleva di una “scrupolosa messa a fuoco, sostenuta dall’uso di obiettivi ‘normali’ più di altri in grado di sottolineare la stretta parentela rappresentativa tra meccanismi ottici della fotografia e selezione dello spazio, tipico della tradizione rinascimentale italiana”.

Il suo “soft focus” la Cameron lo spiegò così nel 1927: “Quando, durante il procedimento di messa a fuoco, io giungo a un qualcosa che agli occhi miei era bello, lì mi fermavo, invece di insistere con l’obbiettivo per una messa a fuoco più precisa, come fanno gli altri fotografi”. In questo modo si allontana dalla visione tradizionale di tipo mimetico e rappresentativo “come specchio del reale” data dallo“scharf focus” e si ispira a un principio proprio dell’arte fino ad allora non adottato nella fotografia: “Che sia l’idea, tipica di tutte le esperienze estetiche, a svolgere la funzione fondamentale di inglobare e rendere visibile, nel referente preso a modello, le verità iconiche e simboliche che l’autore vuole significare”. Icona e simbolo prima riservati solo alla pittura si aggiungono ai “valori indexicali”, gli unici riconosciuto alla fotografia, coniugando l’“invenzione”, intesa come osservazione diretta di ciò che si trova nella realtà con l’“immaginazione” che può “manipolare a suo piacimento i dati dell’esperienza sensoriale”. Di qui chiaroscuri intensi con luminescenze sfumate alla Rembrandt, inquadrature strette, volti più che figure intere per concentrarsi sugli occhi e lo sguardo espressione dei sentimenti interni e non dell’esteriorità.

Ai confini del ‘900: Morelli e Pellizza da Volpedo

Con Domenico Morelli (1826-1901) la fotografia viene utilizzata come modello e strumento della propria attività di pittore e anche come veicolo di diffusione delle proprie opere sviluppando la funzione documentativa della fotografia manifestatasi fin dai primi dagherrotipi. Sotto il primo aspetto va oltre l’esperienza di Faruffini, costruendo composizioni fotografiche preparatorie del dipinto pittorico che aggiungono due funzioni a quella di consentire di mantenersi aderenti al vero: “la possibilità di previsualizzare il quadro, contemporaneamente ponendo a fuoco i punti di massima incidenza della luce e gli effetti che ne derivano nello spazio e sulla resa volumetrica delle singole figure che su di esso si dislocano”.

Non operava isolato, c’era uno scambio di fotografie e incisioni, la conoscenza delle più importanti produzioni fotografiche anche attraverso la partecipazione alle mostre; considerava la fotografia come possibile spunto, insieme ad elementi di tipo letterario o storico, per far scattare l’idea pittorica. Il rapporto con la realtà è mediato dalla fotografia con i contrasti chiaroscurali e le masse cromatiche contrapposte nonché con “la cattura dell’istante”. Fu promotore della “revisione del dipinto di storia” che investì, “con l’aiuto della fotografia, l’intero campo dell’arte, sconvolgendo la piramide gerarchica dei generi e ponendoli tutti su un medesimo piano di giudizio”.

Del tutto particolare il rapporto con la fotografia di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907), perché “nega la mimesi”e , sebbene attirato dal mezzo non gli interessa dal punto di vista tecnico né lo padroneggia; tuttavia nel suo archivio fotografico sono stati trovati persino negativi da lui stampati e montati su cartoncini, che con quelli stampati da altri mostrano “straordinarie capacità di memorizzazione e di messa a punto di un’emozione, di previsualizzazione dell’immagine e della sua composizione”, e nello specifico fotografico “un’eccezionale capacità di cogliere la qualità della luce e delle sue sfumature”. In questo rapporto, più spesso mediato e non diretto con il mezzo meccanico, si possono istituire “continui e determinati parallelismi, referenziali e di dialettica linguistica, tra la fotografia e alcuni suoi dipinti”. In particolare. come ha sottolineato Aurora Scotti nel 1981, la fotografia lo ha aiutato a superare nei suoi principali dipinti – tra i quali il celeberrimo e altamente simbolico “Quarto Stato” – la tradizione rappresentativa convenzionale, in un “progressivo ribaltamento della rappresentazione dal piano della oggettività alla sfera della soggettività, o, meglio, dell’idealità soggettiva, con effetti particolari e voluti di luce o di colore”.

Viene citato l’iter creativo di “Il ponte” preparato da molte fotografie non sue ma di Fausto Bellagamba che tra le figure umane riprende la famiglia del pittore, cui seguono bozzetti e schizzi sul “dato naturale, già ricondotto nelle dimensioni bidimensionali della ripresa fotografica”; in questo modo l’artista dalla visione realistica e oggettiva di un momento di vita passa “alla proiezione sulla tela di concetti e sentimenti, ottenendo una realtà ideale”. Nella recente mostra alla Gnam “L’arte dopo la fotografia, 1850-2000” abbiamo visto la serie dei grandi bozzetti preparatori del “Quarto Stato” comprese delle fotografie di assembramenti popolari presi a modello.

A cavallo tra il Realismo e il Simbolismo, Pellizza quando legge il reale con l’aiuto della fotografia “crea poi, come i fotografi a lui contemporanei, realtà diverse e ideali, che vanno, implicitamente e apoditticamente, molto al di là della realtà oggettuale”. In questo li aiuta l’uso dello “sfocato” del “soft focus”, in grado di dare, con la visione realistica dell’oggetto, “i sentimenti e le emozioni che esso può suscitare e che il fotografo vuole esprimere”; processo naturale, del resto, dato che lo stesso occhio mette a fuoco solo ciò che si osserva direttamente lasciando il resto “sfuocato e indefinito, sia nella profondità dello spazio, sia nella visione laterale”, come osservava Emerson già dal 1889. Per Marina Miraglia, “la fotografia si inserisce nell’iter creativo di polizza come elemento imprescindibile di una precisa metodologia di indagine e di lavoro, insieme legata all’istanza realistica e al suo superamento” al fine di “creare, o contribuire a creare, nuovi linguaggi pittorici”; in definitiva, “la tecnologia del mezzo meccanico, ma soprattutto la sua capacità di porsi fra verità ed emozione, sono individuate come punto nevralgico su cui poggiare la tensione simbolista, senza per questo rinunziare al realismo e all’imitazione”. Non pedissequa, considerando le differenze anche profonde nei lineamenti dei ritratti pittorici rispetto agli omologhi fotografici perchè i soggetti “studiati nella fotografia, sono poi profondamente modificati e idealizzati sulla tela”.

Si entra nel ‘900: Michetti, Sartorio, Gloeden 

Si entra nel ‘900 con Francesco Paolo Michetti (1851-1929), che iniziò a dedicarsi anche alla fotografia, oltre che alla pittura sin dal 1871, colpito dalla sua capacità di cogliere “aspetti del reale non percepibili dall’occhio umano e, soprattutto, di prescindere dalla linea di contorno “, considerando che “il mondo, lo spettacolo della natura, delle cose, degli animali, e degli uomini, appaiono infatti ai nostri occhi come un insieme di macchie cromatiche più o meno luminose che sembrano sfuggire all’ordine razionale e prospettico dello spazio quattrocentesco”.

Infatti la sua pittura era bidimensionale, e le sue figure, scriveva Francesco netti, “tutte pare che stiano sullo stesso piano, qualmente chiare e dipinte a fior di tela. Manca l’avanti indietro, come dicono i pittori”. Ed esprimevano il realismo nel suo mondo di soggetti naturalistici e popolari, presi dalla realtà della sua terra, l’Abruzzo del mondo agricolo pastorale e delle tradizioni e miti arcaici immortalato anche nelle sue fotografie, spesso in sequenza per cogliere il movimento. Rifuggiva dalla figura “stante” perché “la fotografia e soprattutto il suo istantaneismo, lungi dal costituire per Michetti un ripiego di comodo, rispondono a una profonda ‘esigenza del modo di intuire la figura e, in essa, di esprimersi’”, secondo la definizione di Delogu del 1966. Di qui i suoi “tagli” per cogliere l’azione nel suo svolgersi temporale, le immagini seriali, l’uso del primo piano e del campo lungo; inoltre i soggetti perfettamente a fuoco e fermi con gli elementi di sfondo mossi per dare il senso del movimento. Un rapporto continuo tra fotografia e pittura, l’impiego della“tridimensionalità virtuale della fotografia”, tra i passaggi intermedi “per giungere alla bidimensionalità trasfiguratrice del quadro, in una perenne verifica le cui fasi venivano scruspolosamente documentate e catalogate”. realistica ed emozionale”.

Per Giulio Aristide Sartorio (1860-1932), illustratore e pittore, la fotografia assunse presto il ruolo di “primo e ideale tramite di conoscenza per accedere al vero, al di là di ogni mediazione della ragione o della cultura, spontaneamente e naturalmente, inserendola nell’iter della creazione artistica come elemento imprescindibile di lavoro”. Ciò si riscontra nei suoi dipinti paesaggistici, sui quali scriveva nel 1922: “L’arte del paesaggio non è una pedestre copia del vero, ma un’intelligente ricerca del vero, di quanto ha commosso l’autore in un determinato momento”; e nella “pittura guerresca” nella quale esprime ugualmente i sentimenti provati, questa volta nella vicenda bellica alla quale aveva partecipato da soldato dove emergeva nella sua tragicità il dramma umano, come si vede nei 61 quadri con questi soggetti.

Alla base c’è la fotografia, prima immagini di altri, tra cui Michetti e Primoli, in particolare nei “tableaux vivant”, iconografie costruite nella realtà e fissate con la fotocamera; poi fotografie riprese da lui stesso, come gli scatti di guerra quelle sui campi di battaglia. Quando la fotografia di base sarà sua, apporterà poche modifiche nella pittura, in quanto ha già composto l’immagine riprendendola secondo la propria visione; infatti non utilizza solo la resa naturalistica ma tutte le possibilità che offre, l’ingrandimento del soggetto, l’intervento sulle tonalità di chiaro e scuro, la proiezione secondo angoli inconsueti, come dall’alto che toglie l’identificazione personale ai soggetti per dare loro il valore di metafora, come per le scene di guerra rese nei particolari realistici che per la loro drammaticità “costituiscono infatti un’innegabile e forte simbologia dell’orrore”.

Lo stretto rapporto tra fotografia e pittura porta “il movimento come motore e protagonista dell’opera sartoriana” con un salto di qualità rispetto alla precedente tendenza classica verso forme espressioniste, sulle quali Bruno Mantura nel 1989 ha scritto che sono state “recepite tramite il fedele, l’iperfedele sguardo della macchina fotografica sulla natura del movimento”.

Ma il passaggio decisivo, tra l’800 e il ‘900, dalla “riproduzione” della realtà alla “produzione” creativa lo compie Wilhelm von Gloeden, il “barone di Taormina”, con i suoi nudi fotografici non realizzati in studio, bensì nel paesaggio siciliano “quali puntelli simbolici in grado di esprimere visivamente i contenuti del proprio mondo interiore”. La fotografia, come ha scritto Mollino nel 1949, mira “a far vedere come realtà dei nostri occhi, il frammento di un mondo quale l’abbiano sognato” e offre “il doppio registro dell’oggettività e, insieme, della più assoluta soggettività”; Gloeden diceva “di far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che egli aveva provato davanti alla natura”. Nel suo caso si tratta di un “difficile quanto instabile equilibrio fra una sorta di arcadia classicheggiante, rivisitata però in chiave simbolista, e un compiacimento carico di desiderio e di piacere nel guardare, nell’essere guardato e nell’esplorare se stesso e la propria diversità nel corpo fisico dei giovani efebi che mette in immagine”.

In tal modo, togliendo temporalità all’immagine, riesce a dare ad essa un sapore che evoca l’antichità greca e romana, “un paradiso perduto di sessualità, di bellezza e di libertà”, senza pregiudizi sull’amore nelle sue diverse espressioni. La luce “bianca, diafana e trasparente”, crea un’atmosfera metafisica, un clima magico in cui il soggetto è inserito perfettamente nel paesaggio. Barthes ha scritto nel 1978 che Gloeden, anticipando i postmoderni, ha unito “vero e verosimile, realismo e falso, un onirismo al contrario, più folle del più folle sogno”; e Lemagny nel 1988 . lo ha ritenuto “il precursore di alcuni dei fotografi contemporanei più impegnati nella ricerca e nell’avanguardia”, in quanto per lui “la macchina fotografica e il suo obiettivo diventano uno strumento che recupera, per l’immaginario, tutta l’esattezza del reale”; e la fotografia “tutta intera fuori del sogno essa può ben essere considerata anche tutt’intera nel sogno se ci ricordiamo che per il nostro occhio interiore il tessuto della nostra realtà è il medesimo di quello dei nostri sogni”.

Si concludono così i nostri fotogrammi staccati dal lungometraggio del libro sui “magnifici 7” di Marina Miraglia, flash indicativi di contenuti ben più profondi e articolati; e termina il nostro resoconto di un libro istruttivo, denso di analisi, notizie e citazioni, che offre tessere fondamentali per la costruzione del mosaico della fotografia nella sua evoluzione storica verso forme di vera arte.

Info

Marina Miraglia, Fotografi e pittori alla prova della modernità, Editore Bruno Mondadori, Milano-Torino, gennaio 2012, ristampa, pp. 214, euro 22. L’immagine di apertura, riprodotta dal libro, è di Julia Margaret Cameron, The Parting of Sir Lancelot and Queen Guinevere, 1874. Dal libro sono tratte tutte le citazioni riportate nel testo; l’inquadramento teorico generale e l’approfondimento su paesaggio e impressionismo nelle ricerche convergenti di fotografia e pittura sono stati oggetto di due nostri precedenti articoli su questa rivista “on line”.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 7 maggio 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

“Realismi socialisti” al Palazzo Esposizioni,3. 1945-70

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 31 dicembre 2011, postato in mostre

Si conclude la visita alla mostra sui “Realismi socialisti” con le ultime 3 delle 7 gallerie dove sono esposti i monumentali dipinti della “grande pittura sovietica 1920-1970”, al Palazzo Esposizioni dall’11 ottobre 2011 all’8 gennaio 2012.Dopo la fase iniziale degli anni ’20 di condizionamento dell’arte per la propaganda di regime, si afferma il “Realismo socialista” che sebbene limiti gravemente la libertà di espressione mantiene alcuni requisiti per la creazione artistica, primo tra essi una condivisione dell’immagine positiva dell’uomo data dal “radioso avvenire” socialista. Descritto il periodo 1920-45 con la guerra, passiamo al venticinquennio seguente fino al 1970.

“L’intento è di sottrarre le opere del Realismo socialista alle interpretazioni svolte in chiave propagandistico-politica – ha detto nel presentare la mostra il presidente dell’Azienda speciale Expo Emmanuele F. M. Emanuele– e restituire questo peculiare, e tuttavia imponente movimento artistico del XX secolo al giudizio del pubblico nella sua dimensione propriamente storico-artistica”. In questa prospettiva che vede abbinate le due dimensioni, la storia e l’arte, abbiamo visto scorrere la tormentata vicenda artistica, e insieme anche politica, attraverso dipinti quanto mai espressivi accompagnati da una ricostruzione storica molto accurata. Una sorta di storia illustrata, dove le illustrazioni sono i dipinti di diversi metri di lunghezza e di altezza: vere pale d’altare – ci sentiamo di chiamarli – della fede comunista che restano impresse per la loro forza evocativa.

1945-54, il dopoguerra fino all’avvento di Kruscev

La storia va avanti, superato il terribile trauma della guerra torna l’oppressione del regime e con essa si stringono di nuovo i vincoli sugli artisti. Addirittura l’intero sistema artistico è posto sotto il controllo del Consiglio dei ministri al servizio del partito e nell’estate del 1946 tre decreti di Zdanov, capo del Dipartimento arti visive, indicarono gli errori da condannare: pessimismo e decadenza, corruzione nel gusto e nella morale, carenza di ideologia e influssi occidentali, fino all’unico elemento propriamente artistico come la mancanza di originalità.

Ma non finisce qui, la normalizzazione riguarda un aspetto interno alla mistica di regime: la “teoria del riflesso” doveva applicarsi a una realtà dove non c’era la lotta di classe, quindi veniva integrata con la “teoria della non conflittualità”; la realtà veniva così ad essere edulcorata in modo da rappresentare la società sovietica senza conflitti, quindi come il migliore dei mondi possibili.

Torna imperiosa la fede nel “radioso avvenire” che si esprime attraverso immagini del lavoro intrise di una gioia di vivere contagiosa; in tal modo si mettono in pratica i precetti sul “coinvolgimento emotivo diretto” ai quali si erano informate le prime direttive del regime. Ma l’arte resiste, vi sono immagini in controtendenza, il lavoro visto senza retorica e scene di misera vita quotidiana.

Un nuovo tema si sviluppa, collegato al culto della personalità, l’esaltazione del leader assoluto da parte di masse estasiate fuori da ogni conflitto sociale; mentre sul piano stilistico l’ideale pittorico diventa l’accuratezza della finitura di tipo neoaccademico.

Come riflesso dei problemi insorti nella salute di Stalin si attenuano già dal 1950 i controlli sull’espressione artistica; dopo la sua morte nel marzo 1953, con la presa del potere di Kruscev a metà del 1954 cessa la violenza politica e gli artisti sentono allentarsi i vincoli, se ne vedono i segni in dipinti nei quali i problemi personali della gente cominciano ad emergere oltre la retorica.

Riprendiamo la visione del vero e proprio film che scorre attraverso i dipinti, dalla guerra passiamo alla pace. Torna il lavoro nei campi, lo vediamo in “Mietitura”, di Plastov, il primo dipinto della quinta sezione, è il 1945: non c’è però enfasi, le figure che si riposano a lato dei covoni sono affaticate. Ma “Vanno a votare”, dello stesso autore, siamo nel 1947, mostra un’entusiastica partecipazione, il gruppo si affolla sulla slitta con la bandiera rossa, però con una sorpresa, le figure e soprattutto i visi sono solo abbozzati, ci si prende qualche libertà stilistica. Con “Pane”, di Jablonskaja, del 1949, il seguito virtuale di “Mietitura”, si raccoglie il grano dal terreno nei sacchi, l’operosità in un clima di partecipazione corale senza troppa enfasi.

Mentre l’autocelebrazione è evidente in “Una figlia della Kirgizia sovietica”, diCuikov, del 1948, una sorta di icona della ragazza russa che incede nella campagna con il libro nella sinistra. Molta enfasi anche nel successivo “Sui campi di pace”, di Myl’nikov, le figure di contadine si stagliano riprese dal basso sulla campagna fiorita, attrezzi in spalla, sotto un cielo nel quale le nubi si diradano: è il 1950, l’ideologia del “radioso avvenire” torna ad imporre le sue regole.

L’arte la ritroviamo al centro dell’attenzione, lo vediamo in “Disputa sull’arte”, di Jakovlev, del 1946, un nudo bianco di luce spicca in una sorta di atelier scuro e affastellato; del resto l’arte era stata oggetto di precisi interventi subito dopo la rivoluzione d’ottobre, non c’è da stupirsi. Torna la pittura celebrativa del partito, dopo quella della guerra, con “Notabili moscoviti al Cremlino”,diEfanov, un vasto salone con imponenti lampadari affollato di dignitari espressione del potere.

Abbiamo detto che riemergono anche i problemi personali, lo vediamo in “Ancora un brutto voto”, diResetnikov, immagine patetica del bimbo festeggiato dal cane che non capisce il piccolo dramma evidente nei volti delle donne e del bambino; e in “E’ tornato”, diGrigor’ev, un’immagine molto scura che esprime l’ombra cupa sulla famiglia del padre alcolizzato. Impensabili in passato, sono del 1952 e 1954, l’anno prima della morte di Stalin si erano già allentati i vincoli, come abbiamo detto, poi cesseranno in larga misura soprattutto con Kruscev.

1954-64, la destalinizzazione e il disgelo di Kruscev

La destalinizzazione con la denuncia dei crimini di Stalin al XX Congresso del partito comportò la fine del culto della personalità e delle repressioni con una maggiore libertà di espressione; per gli artisti ciò consentì di abbandonare il realismo edulcorato e non conflittuale per riprendere la vita nella sua realtà effettiva, con i valori semplici dell’esistenza, senza gli imperativi ideologici conseguenti la collettivizzazione; ciò si traduceva anche in una certa libertà sul piano stilistico.

Anche la rappresentazione della persona cambia: dall’eroe o anche dall’operaio, visto come archetipo dei destini della nazione, e quindi irraggiungibile, a una figura cordiale e accessibile, che rivela interessi semplici e molto umani come il godimento della natura e del tempo libero.

Nasce lo “Stile severo”, imperniato sulla sintesi che non era possibile con lo stile figurativo del più rigoroso “Realismo socialista”, giunto agli estremi del “precisionismo neoaccademico”. Esso si esprime dando rilievo a contorni e sagome e semplificando forme e sfondi fino a farli sfumare, secondo influssi dall’estero, viene citato anche Guttuso; lo adotta lo stesso Deineka. La svolta non è solo nella forma quanto nei contenuti: si può esprimere la sofferenza anche se velata, la serietà si sostituisce alla gioia ostentata nel lavoro collettivo, emergono i sentimenti interiori.

Le forze della conservazione cercarono di contrastare queste innovazioni, e riuscirono a introdurre misure di contrasto allo “Stile severo” dopo l’incidente alla mostra di Mosca del 1962, in cui furono riabilitati artisti “deviazionisti” del 1940. Era stata dedicata una sala al nuovo stile. ma dinanzi ai dipinti che vi erano esposti Kruscev in visita manifestò evidente insofferenza e sdegno, soprattutto per un quadro nel quale i tratti erano ben lontani dal figurativo incarnando la riconquistata libertà stilistica. Reazione subito cavalcata dalle misure restrittive di cui si è detto.

Ecco in questa sesta sezione il quadro “incriminato”, è l’ultimo nella parete a destra, “Geologi”, diNikonov, siamo al 1962, sembra una composizione religiosa, quasi giottesca, nella quale vediamo un esemplare molto significativo dello “Stile severo” che marca i contorni, con figure stilizzate su un terreno di colore neutro uniforme, senza vegetazione. Si stenta a credere che abbia prodotto una simile reazione, però la carica innovativa rispetto al “Realismo socialista” appare notevole.

Soddisfatta subito questa curiosità, torniamo alla seconda metà degli anni ’50, cui appartengono intanto immagini rasserenanti ma non enfatiche, anzi di una profonda intimità. Sono “Una giornata calda”, diLevitin, e “Una giornata fresca”, diGavrilov:la prima in un interno mostra l’immagine disinvolta della ragazza seduta sopra il davanzale della finestra aperta sull’abitato; la seconda “en plein air” con la giovane in costume popolare dinanzi al grande specchio d’acqua. Stessa atmosfera in “Dopo il turno di lavoro”, diSalachov, i lavoratori in una fila confusa si affrettano, dai volti si vede che pensano ai loro problemi personali, l’acqua è di sfondo anche qui.

Entriamo negli anni ’60, “Famiglia”, di Ivanov, è quasi una icona dei temi personali, che traspaiono nelle figure riunite pensierose intorno al desco in un interno domestico intimo e raccolto. Temi evidenti anche in “I Costruttori di Bratsk, diPopkov, nulla di celebrativo, le cinque figure su più piani sono assorte nei propri pensieri. Lo vediamo perfino nel trittico “Comunisti”, di Korzev, dove il “privato” riemerge sia in “Atelier operaio” con la statua di Marx a lato dell’uomo seduto pensieroso, sia in “Rialzando la bandiera” e “Internazionale”, nelle fatiche e sforzi individuali.

Restano due dipinti molto diversi, “Sul Caspio”, di Salachov, un paesaggio nel quale si ammira la forza dell’arte ormai del tutto libera da vincoli; è il 1966, siamo nella fase del disgelo. Mentre, con un passo indietro, del 1959 è “Minatore”, diTrufanov, che segna la fine di ogni rappresentazione edulcorata, il lavoratore accasciato nero di carbone mostra tutta la sua fatica. Lo abbiamo lasciato per ultimo perché ci introduce alla sezione successiva, dove queste immagini si moltiplicheranno.

1964-70, l’era di Breznev, la fine del Realismo socialista

Non fu un incidente di percorso, ma un trauma politico quello dell’ottobre 1964 con l’improvvisa deposizione di Kruscev e l’avvento di Breznev che pose fine alla destalinizzazione e tornò ad accarezzare l’utopia comunista del “radioso avvenire”, però rimandandone la realizzazione a un futuro quanto mai lontano e indefinito. Fu un periodo di stagnazione, secondo la definizione di Gorbaciov, e l’arte entrò in una crisi profonda.

Vi furono artisti che si diedero in privato a forme d’arte clandestina lasciando quella ortodossa ufficiale, altri coltivarono l’una e l’altra, altri ancora nell’ufficialità cercarono di allargare i confini del “Realismo socialista”. Dopo l’incidente alla mostra di Mosca i conservatori ne approfittarono per una nuova stretta, ma non riuscirono a imporre di nuovo i vincoli oppressivi del passato.

In questo smarrimento c’è la sorpresa del ritorno negli anni ’60 del tema della guerra patriottica, declinato però non più in termini eroici, ma in quelli radicati nella coscienza popolare e negli artisti: come tragedia personale e di popolo, consumata nel dolore e nelle privazioni, e nella sopportazione dinanzi a tutto questo, non espressa fino ad allora per la retorica della resistenza e della vittoria.

Nella settima sezione lo vediamo in “Madri, sorelle”, di Moissenko, dove c’è la sofferenza di chi è rimasto a casa ma vive l’angoscia delle persone care al fronte, anche qui ricordiamo le immagini dipinte dai “Pittori del Risorgimento” della mostra tenuta alle “Scuderie del Quirinale” per celebrare il 150° dell’Unità d’Italia. Questo dipinto non è un tardivo ricordo isolato di situazioni dimenticate, di Korzev è esposta la serie dal titolo “Bruciati dal fuoco della guerra”, sarebbe un trittico se non fossero dipinti giganti. Ecco dei titoli espressivi come le scene dolenti raffigurate: “Madre” e “Addio”, “Segni di guerra” e “Vecchie ferite”, evidentemente non ancora rimarginate nonostante siano trascorsi venti anni dalla fine del conflitto. Ma soltanto adesso si possono esprimere sentimenti repressi per non fare ombra alla retorica trionfalista che fu l’imperativo di molti anni. E Korzev lo fa con primi piani di visi fortemente segnati dalla sofferenza.

Non c’è soltanto la sofferenza per il ricordo della tragedia che sovrasta la grande vittoria. Abbiamo anche lo sconcerto dinanzi ai mutamenti nella società e nella vita dei russi: il velo di malinconia dei ragazzi che si voltano indietro mentre lasciano le campagne per la città in “I treni portano via i ragazzi”, diKabacek; l’immagine spettrale e desolata in “Il lavoro è finito” di Popkov, del quale è esposto anche il pittoresco e altrettanto allucinato “Canzone del Nord”. Spicca per il cromatismo luminoso e la pulizia delle immagini “Ginnasti dell’Urss”, di Zilinskij, un sereno e fermo “mens sana in corpore sano” che a differenza del passato appare privo di ostentazioni propagandistiche.

Protagonista è l’umanità del grande popolo russo, al di là di ogni esaltazione, che faceva parte dell’arte prima della rivoluzione; e diventano centrali i motivi anch’essi pre-rivoluzionari della vita quotidiana nonché quelli connessi all’inarrestabile esodo di popolazione dalle campagne. Il tutto espresso in immagini statiche e individuali rispetto a quelle dinamiche e collettive; invece della ripresa dal vero la composizione in studio, invece dei volti espressivi maschere stereotipate.

Finché negli anni ’70 “la pittura non è più riflesso del mondo esterno, ma un sogno ad occhi aperti, l’immagine misteriosa della propria interiorità”. Il “Realismo socialista” è proprio finito.

Una riflessione finale

Con queste immagini termina la nostra visita, e da cronisti registriamo una forte impressione, non solo visiva. Abbiamo ripercorso cinquant’anni di una storia politica e sociale che ha inciso sulla nostra storia: il dramma della guerra e le ansie e i timori nel dopoguerra quando calò la “cortina di ferro”, la guerra fredda e il mito di Stalin, Kruscev e la destalinizzazione, poi Breznev fino al disgelo e l’approdo a Gorbaciov; vicende riflesse nei grandi dipinti del “Realismo socialista”, specchio di un costume e di una società, di un’epoca e di una politica. Ne abbiamo rivissuto le fasi e scoperto sfaccettature e crepe nella struttura monolitica, attraverso l’evoluzione nelle forme e nei contenuti espressi con potenza e vigore, comunque il critico ne voglia giudicare la qualità artistica.

Le sezioni cronologiche delle 7 gallerie del Palazzo Esposizioni sono altrettante ribalte di una vera e propria rappresentazione teatrale: in scena è la storia di un intero popolo, la vita della nazione nella “grande pittura sovietica 1920-1970”. Gli autori di questa storia spiccano anch’essi, anche se le vicende storiche hanno il sopravvento: oltre a Deineka ci sono nomi che meritano di essere ricordati, per tutti Brodskij e Rublev, Jacovlev e Plastov, Popkov ed Efanov, fino al sofferto Korzev. Esprimono un estro creativo e una qualità compositiva che sono segni inconfondibili dei veri artisti.

L’immagine che rimane impressa è di forza, di una straordinaria forza popolare. E’ questo il potere che emerge, piuttosto che quello politico; come nella mostra “Il Potere e la Grazia”, vista nell’ottobre 2009 a Palazzo Venezia, era quello religioso. Anche in quella mostra le sezioni scandivano i momenti cruciali nella storia della Chiesa attraverso i protagonisti: predicatori e martiri, eremiti e vescovi, cavalieri e regnanti, fino ai santi protettori d’Europa.

Se è apparso trasgressivo il parallelo fatto all’inizio tra le grandi committenze dei mecenati dell’arte rinascimentale, come la nobiltà e soprattutto la Chiesa, e quelle dello Stato sovietico per le grandi “pale d’altare” del regime sembrerà tale anche il parallelo tra le due mostre: “Il Potere e il Popolo” si potrebbe intitolare quella odierna, per analogia con il titolo appena citato “Il Potere e la Grazia”.

Nell’uno e nell’altro caso il vero potere non è quello enunciato in forma esplicita, ma quello che emerge alla fine vittorioso: del resto ce lo ha insegnato la storia antica,“Graecia capta ferum victorem cepit!”, e la forza vincente è alla fine quella disarmata espressa dalla cultura e dall’arte.

Ph: le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa del Palazzo Esposizioni, che si ringrazia, con l’organizzazione della mostra e i titolari dei diritti, in particolare i musei di Mosca e San Pietroburgo prestatori delle opere riprodotte.

“Realismi socialisti” al Palazzo Esposizioni, 2. 1928-45

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 28 dicembre 2011, postato in mostre

Continua la visita alla mostra “Realismi socialisti”, aperta dall’11 ottobre 2011 all’8 gennaio 2012 al Palazzo delle Esposizioni, che ripercorre la “grande pittura sovietica 1920-1970” attraverso 7 gallerie di quadri di dimensioni giganti in cui si esprime un realismo dalla notevole forza evocativa che si opponeva al modernismo, al servizio di un regime che attribuiva all’arte un valore sociale per la diffusione dell’ideologia. Nel proclamare la superiorità del contenuto sulla forma venivano imposti i temi propagandistici della mistica di regime sul “radioso avvenire” del popolo, espressi in figure statuarie e nei giovani, nella tecnica e nel progresso, nel sole luminoso e nel volo.

Volendo riassumere in poche parole la “puntata” precedente, possiamo dire che nel primo periodo vi fu tolleranza, gli artisti godevano ancora di una relativa libertà, e cercavano di portare i nuovi contenuti ideologici nella forma d’arte prediletta, anche d’avanguardia, senza abbandonarla, fino a manifestazioni di astrattismo; poi il regime restrinse gli spazi del pluralismo e dell’individualismo nel nome di un’arte “proletaria” di massa che nel 1930 si tradusse nel “Realismo socialista”.

La nostra visita prosegue nelle altre gallerie del Palazzo delle Esposizioni – che fanno corona alla rotonda centrale – dove si trovano gli eccezionali dipinti, mai esposti prima per difficoltà logistiche e insufficienza di spazi espositivi di dimensioni adeguate: ricordiamo, per dare una visione dell’insieme, che ve ne sono per lo più 9 in ogni galleria – ciascuna è una sezione della mostra dedicata a un periodo storico – il più grande posto frontalmente e 8 collocati nelle pareti laterali.

1928-36, Stalin e l’avvento del “Realismo socialista”

 La tolleranza degli anni ’20 termina nel 1928-29 con l’avvento di Stalin che costringe all’esilio Trotskij e sconfigge Bucharin; il “Primo piano Quinquennale” con il suo carattere imperativo sostituisce la più aperta “Nuova Politica Economica”. Si procede alla collettivizzazione forzata nelle campagne portata avanti con violente repressioni. Il clima ideologico si inasprisce, e alla mobilitazione del regime non potevano sottrarsi gli artisti che erano impegnati in opere collettive e pitture murali e venivano spinti verso un’arte proletaria di massa contro ogni visione individualista.

Nel 1932, il pluralismo nell’arte si restringe e nascono associazioni di artisti “proletari”, come “Oktiabr”, che si oppone alla “pittura del cavalletto” di cui faceva parte Deineka che nonostante questo vi aderì. La mistica del proletariato fa esaltare artisti dilettanti, come Rublev, e il loro stile primitivo. Si pone fine alle tante associazioni per un unico sindacato collettivo degli artisti.

Verso la fine dell’anno, viene reso ufficiale il nuovo verbo del “Realismo socialista” basato su “fedeltà al partito” e “contenuto ideologico”, nel senso dell’“identità popolare”: concetto che supera i canoni marxisti e va al di là della stessa definizione di arte proletaria consentendo agli artisti il recupero della tradizione e quindi dell’arte che l’aveva espressa, contro il modernismo.

Non si tratta, però, di un ritorno al passato, anzi l’ideologia cui dovevano ispirarsi era legata al “radioso avvenire” espresso in forma realistica attraverso il corpo prestante e la gioventù, la tecnologia e il progresso, il sole splendente e il volo. Intanto Stalin si consolidava, non era ancora diventato il despota irraggiungibile, il “piccolo padre” elevato quasi a divinità.

Lo si vede nel quadro esposto in questa seconda sezione, “Ritratto di Stalin”, di Rublev, che lo raffiguramentre legge il giornale seduto su una grande poltrona dall’alto schienale, nulla di marziale, sembra di vimini e la posa è assolutamente casalinga e confidenziale: la figura bianca è reclinata all’indietro, tutto intorno il rosso, l’unico elemento evocativo del suo “status”; un’immagine così domestica e accattivante sarà inconcepibile in seguito. Di questo autore altri due dipinti particolari: “Dimostrazione”, un campo lungo diviso in più livelli, la folla scura con due striscioni rossi, sopra la cintura di edifici che sfuma nel rosso, più in alto il cielo; e “Lettera da Kiev”: un tondo da natura morta, lettera, forbici e altro nel vassoio.

Nette e precise le figure, scuri i colori nei due quadri contrapposti di Adlivankin:”Uno dei nostri eroi (lavoratore d’assalto)”, la figura centrale fiera e possente, circondata da gente del popolo altrettanto dignitosa, gli viene annodato il fazzoletto rosso al collo come una decorazione, tra visi sorridenti e ammirati; vicino c’è “Uno dei loro eroi”, la decorazione è la medaglia appuntata al petto di un soldato irrigidito nella divisa davanti al plotone sull’attenti, alcuni civili in tuba e una donna in pelliccia, l’opposto della gente del popolo, atmosfera glaciale da cerimonia burocratica.

Nulla di marziale né realismo in un quadro da sperimentazione: “Komsomol militarizzati” di Samochvalov, che sfuma sul verde chiaro ed è fatto soprattutto di figure quasi evanescenti, erette o a terra, che danno più l’immagine della sorpresa che della militarizzazione marziale.

Resistono ancora le rappresentazioni moderniste, come “Dirigibile e orfanotrofio” diLabas, un’immagine sfumata dell’aeronave in alto e figure indistinguibili in basso, poco più che macchie di colore; e “Uomo e nuvola”, di Nikritin, altre macchie indefinibili di colore mescolate al bianco della nuvola su sfondo scuro.

In “Sportivi”, di Malevic, vediamo quattro figure quasi metafisiche dalle teste ad uovo con abiti dai forti colori divise per metà che segnano il tentativo di conciliare l’astrazione con il realismo; mentre è un approdo al realismo “Costruzione di una fabbrica”, di Vil’jams;che unisce al figurativo degli operai in primo piano la sintesi simbolica della costruzione in secondo piano.

Ed ecco Deineka presente nella sezione con tre dipinti, il primo è “Paracadutista sul mare”, un’immagine da aerofuturismo in cui l’impianto figurativo è collocato in un’atmosfera aerea rarefatta dal bianco e celeste tenue, un’immagine sfumata e quasi impalpabile. Gli altri due dipinti mostrano invece scene di vita dinamica: in “Corsa”, i corpi degli atleti appaiono quasi sospesi sullo sfondo scuro, sono figurativi in una composizione su più livelli non del tutto realista; in “Pausa pranzo nel Donbass” il realismo è compiutamente realizzato, escono dall’acqua corpi nudi in una corsa gioiosa, c’è anche un pallone, è la mistica del vigore fisico, il “mens sana in corpore sano”.

Un grande pallone come fosse una piccola mongolfiera è l’elemento centrale di “Pushball”, di Kuznetsov, lo spingono in alto una diecina di giovani ragazzi ben definiti nelle figure, ma dai volti solo abbozzati, pantaloncini bianchi, camicie rosse e nere, un’immagine festosa dai colori accesi.

E così abbiamo percorso la prima parte del lungo itinerariodi mezzo secolo che la mostra ha il merito di evidenziare nei suoi aspetti artistici e storici, ideologici e umani. Proseguiamo entrando in un periodo cruciale, dal 1936 al 1945, nel quale irrompe la tragedia della 2^ guerra mondiale.

1936-41, dal potere staliniano alla vigilia della guerra

 Con la terza sezione della mostra continua la storia della società sovietica nell’arte e prima nella politica che la influenza profondamente. Nel 1936 viene dato un colpo decisivo al residuo pluralismo artistico e al modernismo con la campagna contro il “formalismo” che costrinse molti a lasciare addirittura la pittura e colpì anche il grande Deineka. Il potere di Stalin non ha limiti.

Si scatena il terrore con la caccia ai “nemici del popolo”, la mistica del proletariato lascia il posto alla ricerca dell’ “identità popolare” anche in senso tradizionale; ne deriva la completa rivalutazione dell’arte del passato come specchio di questa identità e come “utile al popolo”. Il “Realismo socialista” viene collegato addirittura a un movimento pittorico dell’ ‘800, quello degli Ambulanti; ma lo si incardina sulla “teoria del riflesso” secondo cui “doveva sì rappresentare un’immagine speculare della realtà, ma integrandola di una componente idealistica in grado di trasformarla”.

Il legame tra esercito e popolo diventa un motivo centrale, ma non si esprime solo in dipinti celebrativi bensì anche in opere che nella vita militare esaltano il rapporto con la natura, come nella mostra del 1938 per il ventennale dell’Armata Rossa.

Nella rassegna dell’anno successivo sull’“Industria del socialismo” si afferma definitivamente l’espressione pittorica definita “kartina”, cioè il quadro tematico di grande formato – come quelli in mostra – e i contenuti sempre più rivolti ad esaltare l’uomo nuovo, prestante e proiettato nel futuro, le immagini del lavoro per il progresso e anche il nuovo tema dell’omaggio al leader.

Con l’avvicinarsi della fine del decennio cresce l’ostilità per le tendenze impressionistiche, perché minavano il criterio inderogabile della chiarezza del soggetto in pittura; lo stesso Stalin favorì lo stile opposto, il “precisionismo” neoaccademico. Ma dal 1939, con la guerra in Europa il tema dominante diviene la difesa della patria, che nel giugno ‘41 subì la devastante invasione nazista.

I dipinti esposti rendono il clima inasprito, sebbene non manchino all’arte gli anticorpi. Nella mostra celebrativa dei 20 anni dell’Armata rossa nel 1938, furono presentate tre opere in cui l’aspetto celebrativo era contemperato da quello popolare, peraltro fondamentale per l’ideologia. Appare evidente in “Il Commissario del popolo per la Difesa, maresciallo K. E. Voroshilov, sugli sci”, di Brodskij, raffigurato mentre scia da solo in un ambiente spoglio, nulla di marziale, richiama l’immagine “casalinga” di Stalin di Rublev. Nella stessa direzione va “Incontro degli artisti del teatro Stanislavskj con gli allievi dell’Accademia aeronautica ‘Zukov’”, di Efanov, c’è solennità celebrativa, ma applicata a giovani artisti riuniti nella grande sala con colonne insieme agli allievi militari. Addirittura “Il bagno dei cavalli”, di Plastov, pur riferendosi ad una sosta militare, è sul rapporto con la natura; sui cavalli si vedono giovani soldati nelle più diverse posizioni che si sono liberati delle divise e hanno i corpi nudi, l’autore era un giovane di una zona sperduta dell’impero.

Dopo un anno, nel 1938, la mostra “L’industria del socialismo” diffonde l’uomo sovietico impegnato nella costruzione del nuovo mondo: “In una vecchia fabbrica degli Urali”, di Ioganson, presenta due operai in primo piano, uno seduto e l’altro in piedi, prestanti e determinati, ma l’atmosfera oscura rivela le difficoltà; altro clima in “I cercatori d’oro scrivono al padre della Grande Costituzione”, di Jacoviev, c’è luce e i lavoratori si affollano intorno al tavolo di fortuna con la lettera in preparazione. Il padre della Grande Costituzione diviene protagonista nel dipinto esposto nella stessa mostra del 1938, “Guida, maestro e amico (Stalin presiede il II Congresso dei Contadini nel febbraio 1935”, di Segal: è eloquente che Stalin discuta con evidente disponibilità al tavolo della presidenza sotto la statua gigantesca di un Lenin corrucciato, forse per rimarcare il diverso atteggiamento; l’opera è del 1936-37, il “Ritratto di Stalin” di Rublev in versione casalinga era del 1935, il “culto della personalità”, qui evidente, diventerà il nuovo verbo imposto dal regime.

Vi concorrono le opere genericamente celebrative, come “Il capitano Judin, eroe dell’Unione Sovietica, in visita ai cantieri del Komsomol”, di Laktionov, allievo di Brodskij, nello stile del “precisionismo” che, con l’appoggio di Stalin, veniva contrapposto alle tendenze impressioniste.

1941-45, la guerra in difesa della patria

Dinanzi all’invasione tedesca della Russia scatenata dal nazismo, gli artisti e gli studenti delle scuole d’arte furono trasferiti nelle zone orientali, a Samarcanda nell’Asia centrale e a Taskent in Uzbekistan: molti furono mobilitati, anche in unità apposite, per preparare materiali di propaganda in modo suggestivo; ma tanti furono inviati al fronte, per lo più i meno famosi o i sospetti.

Per favorire la mobilitazione popolare si allentarono i vincoli e la repressione; si consentì la ripresa della vita religiosa e si alimentò il patriottismo nazionale. Tutto ciò portò in pittura al prevalere di questi motivi tradizionali rispetto a quelli legati all’ideologia che ne furono oscurati.

Un’idea di come gli artisti vissero quei terribili anni di guerra si ha pensando a quelli di loro che condivisero i 900 giorni dell’assedio di Leningrado, con i tremendi sacrifici per la fame e il freddo, e le incalcolabili perdite umane fino al successo dell’eroica resistenza. Da lì inizia la riscossa, il contrattacco incontenibile che nel maggio 1945 porta alla conquista di Berlino.

La tragica ed esaltante esperienza bellica diventa il nuovo tema del “Realismo socialista”, sul quale raccogliere l’unanime favore del popolo, al posto dei valori proletari e dell’identità popolare.

Si tratta di un tema sviluppato con immagini trionfali, dove si vedono i segni stilistici del barocco e del romanticismo; il linguaggio pittorico è enfatico come lo sono i toni celebrativi di una strenua resistenza seguita da una vittoria epocale dopo inenarrabili lutti.

Ma il riferimento all’identità non scompare, lo troviamo in opere che riflettono piuttosto la quotidianità nella vita sconvolta dalla tempesta della guerra; motivi che erano stati esclusi dall’impostazione ideologica tornano sullo sfondo della “grande guerra patriottica”.

I dipinti esposti nella quarta sezione si succedono come in un film epico a lieto fine dove non mancano momenti patetici. Si inizia con “I tedeschi stanno arrivando (Girasoli)”, di Plastov, la terribile notizia coglie i contadini nei campi in una bellissima immagine in cui girasoli e persone fanno un tutt’uno in una natura lussureggiante che viene sconvolta dalla tragedia incombente. “Stalingrado”, di Efanov, mostra gli effetti devastanti sulla popolazione, che si assiepa sulla neve dinanzi alle rovine del quartiere distrutto nella città martire.

La guerra è un dramma collettivo, ma anche individuale: viene rappresentato in “La madre del partigiano”, di Gerasimov, una energica figura di donna dietro la quale c’è la popolazione inerme, simbolo della dignità e dell’orgoglio con cui ci si oppone al nemico, un rude militare tedesco in divisa che gesticola minaccioso con la spada nella sinistra; e in “Lettera dal fronte”, di Laktionov – che ricorda dipinti della nostra storia patria visti nella mostra celebrativa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia “I pittori del Risorgimento” alle Scuderie del Quirinale – un altro modo di rappresentare la dignità delle donne, la leggono in una giornata serena che riflette tanta sofferenza.

La guerra è tutto questo ed è combattimento, ne rende l’asprezza “L’asso abbattuto”, di Deineka, è l’aviatore nemico rappresentato un momento prima di schiacciarsi al suolo sui cavalli di frisia d’acciaio mentre si protegge la testa in una posa quasi infantile vista con pietà e rispetto dall’artista. Un’altra immagine del nemico, di cui si sottolinea la solitudine senza infierire, è addirittura quella di Hitler, raffigurato in un interno oscuro da incubo in “La fine”, di Kupr’janov-Krylov-Sokolov.

E’ invece luminosae coralela rappresentazione della fine dell’incubo con “Il trionfo del popolo vittorioso”, di Chmel’ko: nella Piazza Rossa, sullo sfondo le cupole del Cremino, a sinistra il Mausoleo di Lenin con i gerarchi schierati, dinanzi a loro la resa nazista con le bandiere e le insegne degli sconfitti ai piedi dei generali vittoriosi. Si inneggia ai protagonisti della vittoria in “Ritratto del maresciallo Georgij Zukov”, di Jakovlev, sublimato su un cavallo bianco rampante che calpesta insegne naziste, un’allegoria contraria alle regole del “Realismo socialista”; rimanda a una figura mitica l’“Aleksandr Newsky”, di Korin, imponente nella corazza, lo sguardo fiero del combattente.

Siamo nel 1945, cessato il tremendo conflitto la vita artistica torna a rivivere. ma abbiamo due sorprese: le speranze di apertura nell’arte sono subito deluse, continua il “Realismo socialista”; inoltre la guerra non é certo dimenticata, i ricordi riemergono prepotenti come incubi. Ne parleremo presto nella visita alle ultime tre sezioni di una mostra così istruttiva ed esaltante.

Ph: le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa del Palazzo Esposizioni, che si ringrazia, con l’organizzazione della mostra e i titolari dei diritti, in particolare i musei di Mosca e San Pietroburgo prestatori delle opere riprodotte.

“Realismi socialisti” al Palazzo Esposizioni, 1. 1920-28

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 25 dicembre 2011, postato in mostre

La mostra “Realismi socialisti”, aperta dall’11 ottobre 2011 all8 gennaio 2012 al Palazzo delle Esposizioni, è la più grande rassegna fuori della Russia di un movimento artistico da non rinchiudere nella gabbia dell’ideologia, anche se ne è stato alimentato. Il sottotitolo “Grande pittura sovietica 1920-1970” esprime la mobilitazione per mezzo secolo dei talenti di migliaia di artisti, operata dallo Stato sul vasto territorio dell’impero sovietico esteso dall’Europa all’Asia.

Pur nell’imposizione del valore sociale dell’arte e della superiorità del contenuto sulla forma, il “Realismo socialista” è stata comunque la più grande espressione del realismo e l’unica vera alternativa al modernismo che faceva “tabula rasa” delle forme tradizionali dell’arte. Un movimento di assoluta novità che, sebbene fosse legato all’ideologia totalitaria, si è rivelato ben più complesso e articolato di quanto si possa pensare: di qui il plurale utilizzato nel titolo della mostra.

E’ il trionfo del realismo nella più vasta dimensione spaziale avutasi storicamente. La mostra ne rappresenta la più spettacolare celebrazione, il bel Catalogo Skirà a cura di Bown e Lafranconi ne rende il valore artistico anche se ben diversa è la visione dal vivo dei dipinti di enormi dimensioni.

L’interpretazione autentica dei curatori russi

Ne parlano alla presentazione i curatori, esponenti dei grandi musei russi che ne sono prestatori, dal museo statale di San Pietroburgo alla Galleria statale Tret’jakov che detiene il maggior numero di opere: Evgenija Petrova, Zelfira Tregulova e Matthew Bown, anche l’ideatore, e il quadro d’insieme che ne deriva è istruttivo su un movimento artistico inquieto e complesso. Viene innanzitutto sottolineata la diversità dalle altre mostre limitate agli anni ‘50, quindi fino a Stalin, e di solito organizzate in forma tematica; questa mostra arriva al 1970, quindi alla stagione di Breznev, allorché è venuto meno l’indirizzo forzoso e l’arte si è dispersa nelle più varie direzioni .

L’approccio è cronologico per esprimere lo sviluppo nelle diverse fasi del cinquantennio, attraverso dipinti di grandissime dimensioni, mai comparsi nelle mostre precedenti per i problemi logistici e la ristrettezza degli spazi disponibili, mentre il Palazzo Esposizioni ha offerto le sue ampie sale. E’ un aspetto importante non solo per il contenuto, ma per la qualità dell’arte dato che, anche a prescindere dai soggetti, è stato sottolineato come “non si può dipingere un quadro gigantesco senza essere maestri nel disegno, nell’uso del colore e nella composizione”. L’atmosfera che creano è indescrivibile, in ogni sala si è “avvolti” dalle immagini che fanno entrare nella storia..

Sono “grandi opere di grandi pittori”, e consentono di rivedere il giudizio negativo sul “Realismo socialista”, liquidato fino ai tempi recenti come frutto di imposizione e censura che mortifica ed esclude l’arte rendendola insincera in quanto oppressa dal potere. Il problema c’è ma è molto più complesso, e l’arte dell’epoca del socialismo reale oltre a farci considerare in modo nuovo quel periodo, pone molti interrogativi, anche se dalle risposte difficili, agli storici e ai critici.

Una delle domande verte sulla vita di un artista in quelle condizioni, con l’imposizione e la riduzione in miseria se non aderiva alla mistica di regime. La risposta viene dal constatare che la lunga coabitazione arte-regime rivela forti differenze nel tempo: all’inizio, negli anni ’20, ci sono stati i tentativi dei pittori di mantenere l’individualità cercando di portare avanti, pur nel nuovo corso, le idee dell’Avanguardia e tentando di mantenere all’arte l’autonomia e la soggettività; alla fine del decennio la svolta negativa dopo l’ultima mostra del 1927 sui 10 anni del potere sovietico, con le Avanguardie e i primi realisti socialisti, le cui opere venivano acquistate dal Ministero della cultura e distribuite nei musei russi, tendenza ripresa anche negli anni ‘50-‘80 con l’acquisto di opere nelle principali esposizioni. Questa mostra si poteva creare anche con la raccolta della Galleria Tret’jacov, ma si sono aggiunte opere di più musei per avere maggiore rappresentatività.

Tornando alla fine degli anni ‘20, si sentiva che l’Avanguardia era giunta al capolinea perché il regime ben consolidato intendeva porvi fine. Nel 1929 fallì il tentativo di una nuova mostra, e nel 1930 ci fu la misteriosa morte del poeta Majakoskij che aveva appoggiato l’Avanguardia; il grande pittore Malevic diceva che “seguire Majakoskij è scomodo ma come si fa a vivere altrimenti?” Lui stesso fu bloccato in patria e costretto a lasciare le opere in Germania; cambiano le sue premesse stilistiche, è costretto ad abbandonare l’astrattismo; torna all’arte figurativa, ma le nuove composizioni sono ben diverse dal figurativo assoluto di altri pittori del realismo, in quanto cerca di conciliare il quadro tematico con il suo stile caratteristico. Così crea opere non inferiori a quelle precedenti come qualità, forza e innovazione. Viene evocato anche Tatlin e la sua famosa “Torre della Terza Internazionale” ispirata al “Realismo socialista”, che è andata perduta come altre sue creazioni non conservate o distrutte, ma è considerata un archetipo.

I grandi quadri possono essere visti come un’eredità delle imponenti tele del Rinascimento, Barocco e Neo classicismo, ma la mostra ha un’importanza che supera il pur rilevante evento espositivo: fa parlare di artisti dimenticati anche in patria, fa aprire gli occhi su un’arte che cominciamo a vedere in modo diverso.

Ci si può immedesimare nei percorsi per sopravvivere artisticamente rinnegando l’Avanguardia non con un mimetismo deteriore ma come un abbandono cosciente, nel tentativo di dare vita a una nuova arte. All’inizio degli anni ’30 si può dire che l’arte tentò un compromesso con il potere, tanto che alcune opere già traducono il “Realismo socialista” pur se con una sofferta rinuncia degli artisti. E’ una problematica complessa in un momento storicamente difficile, che richiede un’analisi oggettiva non estrapolando casi particolari per dimostrare un’idea o il suo opposto.

La mostra fa vedere con più oggettività del passato e con occhi nuovi come l’arte si confrontasse con l’ideologia di regime restando autentica, e quale fosse il senso dell’arte legata alla vita reale. E’ un tentativo di analizzare in modo indipendente un’espressione artistica, che riflette cinque decenni fondamentali per l’Unione sovietica e per il mondo, finora considerata un caso anomalo al di fuori dell’arte e della cultura.

Ma l’arte ha mostrato di saper resistere persino nella fase ideologica più dura e pesante, e ha raggiunto elevati livelli anche cantando gli ideali del socialismo, con interpreti quali Deineka che ne ha condiviso i valori, e altri il cui approccio artistico è stato genuino, peraltro restando all’interno degli obiettivi del regime. Va analizzato un percorso tormentato che porta alla creazione di grandi opere propagandistiche da cui, comunque, traspaiono forti contenuti umani.

Nel rapporto tra “Avanguardia” e “Realismo socialista”, ha concluso Bown, c’è molto da scoprire: “Quella voleva distruggere la vecchia arte, questo invece conservava le forme precedenti legate alla rappresentazione della realtà. E’ stato un passaggio da una corrente all’altra, fenomeno ultramoderno come il postmodernismo che ha sostituito il modernismo: l’’Avanguardia’ russa va vista come prototipo del modernismo, il ‘Realismo socialista’ del post modernismo”.

Il suo oscuramento nel dopoguerra è dipeso dal fatto che con la guerra fredda era diventata “l’arte del nemico”, anzi la propaganda del nemico; mentre negli anni ’30 era apprezzato anche negli Stati Uniti; il “Realismo socialista” fu respinto nel momento in cui l’astrattismo diveniva simbolo di libertà. “Lo stesso Deineka lo si è trasformato in vittima del regime mentre è stato sempre nell’establishment, pur attraversando momenti difficili quando fu accusato di formalismo e accantonato; ma se si vuole includere tra i grandi pittori del secolo, e non ci sono dubbi, occorre ammettere che i suoi quadri sono portatori dell’ideologia ‘nemica’ ma si esprimono nell’arte”.

Il plurale del titolo, nell’evocarne il carattere non monolitico ma articolato, ne ricorda anche l’evoluzione nei cinquant’anni: da un’arte specchio dell’ideologia comunista, a un’arte riflesso di sentimenti nazionali come l’amore per la patria e i valori legati alla figura umana, soprattutto con l’emergere di forti personalità artistiche, tra cui spicca Deineka che credeva nei valori esaltati dalle sue opere. Il tutto fino al 1970 che segnò il disgelo, dalla politica alla vita, quindi all’arte.

La visione d’insieme delle 7 gallerie

Abbiamo voluto far precedere quanto sottolineato dalle parole dei curatori russi per non banalizzare una mostra di grande portata, e mettere in guardia dal rischio, prospettato da alcuni critici, di considerare “esagerate” e solo propagandistiche le opere. La presentazione dei curatori indica come siano profondi i contenuti della mostra, anche nel rapporto tra l’artista e la propria opera nel tempo in cui vive dominato dai condizionamenti di un potere che faceva dell’arte uno strumento politico.

Qui i condizionamenti sono stati assoluti, ma non va dimenticato che la grande arte dell’Occidente si è basata sulle committenze, in primis della Chiesa. E non si può dire che non vi fossero pressioni sull’artista, se abbiamo a mente come venissero rifiutate opere che uscivano dagli schemi proposti – non diciamo imposti – lo abbiamo visto in Caravaggio magari dopo la trasgressiva scelta come modella per la figura della Vergine di una donna a lui vicina nota per i facili costumi, se si vuole usare un eufemismo. Anche allora tele di grande dimensione, espressione del potere delle committenze che però non riusciva a spegnere la luce dell’arte, di qui i capolavori. Poi verranno i grandi artisti senza committenze, come Van Gogh, gli impressionisti e altri, ma è un’altra storia.

E’ una riflessione del tutto personale e forse di per sé trasgressiva, ispirata dalla visione d’insieme delle 7 gallerie poste in circolo intorno alla grande rotonda centrale del Palazzo Esposizioni. L’immensità dei quadri esposti, che è il colpo d’occhio immediato, ci ricorda le grandi pale d’altare: sono due religioni diverse, totalmente opposte, ma che si esprimono nell’arte, e come è avvenuto per le opere di ispirazione religiosa, anche quelle ispirate alle utopie del “radioso avvenire” nutrite dal mito socialista devono essere considerate opere d’arte il cui valore non può essere sottovalutato.

Va considerato che la mobilitazione dell’arte nella mistica di regime fu immediata, Commissario del popolo per l’istruzione fu un rivoluzionario, Lunacarskij, che lanciò un appello agli artisti, raccolto dagli esponenti dell’Avanguardia; poi tradusse nel verbo del “Realismo socialista” le sue idee sul coinvolgimento popolare con immagini figurative dai colori vivaci di corpi prestanti e visi sorridenti, impegnati nella vita e nel lavoro alla costruzione di un mondo migliore; a realizzare questo sogno utopico avrebbe contribuito l’arte così improntata, realista e insieme idealista. Lenin aveva una visione pragmatica di “arte comprensibile dalle masse”, e non riuscì a porla sotto il controllo del partito, mentre Lunacarskijscelse il pluralismo culturale. Ma questo fu solo l’inizio.

1920-28, la tolleranza della “Nuova Politica Economica”

Dopo questa introduzione, quanto mai necessaria data la rilevanza e la novità della materia, entriamo nella prima galleria dedicata agli anni ’20: ci sono 9 grandi dipinti, uno frontale, gli altri nelle due pareti laterali, è il “format” dell’esposizione, salvo rare aggiunte di opere più piccole.

Nel quadro frontale, “Il Bolscevico”, di Kustodiev, una grande figura fiabesca domina la città con le strade colme di folla e i tetti innevati, non è mera celebrazione ma mitizzazione quasi infantile, da befana politica con l’infinito bandierone rosso a marcarne l’identità; un’immagine simbolica e non didascalica. E’ invece palesemente celebrativo “La cerimonia di apertura del II congresso della Terza Internazionale”, di Brodskij, con la vasta platea stracolma, i bianchi colonnati che reggono la galleria, qualche bandiera rossa: spicca la folla di delegati, è un genere che avrà molti seguaci.

Poi le due grandi tele di Petrov-Vodkin, i primi piani di volti severi e dignitosi in “Operai”, le braccia conserte della figura a sinistra sono un simbolo di vigore nel lavoro; e il dramma di“Morte del Commissario”, una composizioneessenziale, due figure in primo piano in una posa quasi religiosa da “Pietà”, sullo sfondo figure ammassate dietro le quali si aprono ampi spazi.

La guerra è presente nell’austero “L’ordine di attacco”, di Suchmin: nulla di epico, figure scure in piedi sul bianco della neve che spicca in primo piano, c’è un’atmosfera di sospensione e forse di meditazione; e nel rigoroso “La difesa di Pietrogrado”, di Deineka, con le linee metalliche a segnare nella parte inferiore la marcia verso il fronte dei soldati con i fucili in spalla e in quella superiore il ritorno di figure stanche e ferite, in una visione quasi cinematografica su due piani sovrapposti. Gli strascichi del conflitto in “Invalidi di guerra”, di Pimenov,due sagome scure di soldati in primo piano con immagini di case distrutte a sinistra, dove più che dall’abbagliante fasciatura bianca la sofferenza è data dai volti allucinati.

Dal realismo figurativo di queste opere si distaccano due dipinti dove c’è ancora l’impronta molto diversa delle Avanguardie: sono “Formula del proletariato di Pietrogrado” di Filonov,una composizione quasi astratta dalle tinte tenui, si stenta a decifrarne il significato a meno che il suo aspetto nebuloso non si riferisca al tema cui si intitola; e “Donna- controllore” di Samochvalov, una figura imponente dal cromatismo tenue di cui è evidente la fermezza, con elementi simbolici che danno alla composizione un’atmosfera quasi onirica o spiritica, l’opposto del realismo.

Come si spiegano queste “eccezioni” nell’orientamento generale che abbiamo visto improntato al realismo figurativo? Inquadriamo le opere esposte nel loro contesto storico che segna l’inizio del cinquantennio ripercorso dalla mostra. Dopo la rivoluzione dell’ottobre 1917 e la guerra civile tra i rossi bolscevichi vincitori e le guardie bianche che resistevano, vi fu una guida collettiva con l’iniziale tolleranza della NEP, la“Nuova Politica Economica” che si estese anche all’arte nella quale, tuttavia, fu visto subito uno strumento del regime.

Il nuovo corso lasciava una certa libertà agli artisti, per cui coesistevano diverse forme espressive, ma il figurativo cominciò a imporsi in forma di realismo dieci anni prima del “Realismo socialista”. Gli “antifuturisti affidabili” furono sostenuti da Lenin, uno dei primi fu Brodskij che dal 1922 al 1924 lavorò sul quadro prima citato che diede l’avvio ad un vero e proprio genere celebrativo.

Nel 1922 gli artisti di scuola accademica costituirono l’“Associazione degli artisti rivoluzionari”, il cui manifesto, che esaltava il “realismo eroico”, promosse la rappresentazione della realtà come verità documentaria; fu il fulcro di un sistema di committenze sostenuto anche dall’Armata rossa dal quale il “Realismo socialista” riceverà l’impulso decisivo. Mentre gli artisti provenienti dalle scuole d’arte post-rivoluzionarie insistevano nell’esprimere la verità documentaria in forme moderne; fu costituita l’“Associazione dei pittori del cavalletto”, con Deineka e Pimenov, di cui abbiamo appena visto le opere, con l’intento di unire “contemporaneità rivoluzionaria e chiarezza di soggetto”, inteso come industria e lavoro, sport e vita collettiva.

Quindi pluralismo di stili nella forma; polarizzazione nei contenuti sui temi del progresso nelle varie forme e dell’uomo nuovo creato dalla rivoluzione, che divennero sempre più ineludibili. E’ un processo che seguiremo nelle fasi successive, finora del mezzo secolo abbiamo ripercorso attraverso i dipinti soltanto i primi otto anni dopo aver inquadrato il tutto. Completeremo presto il lungo itinerario nella visita alle altre 6 gallerie con quadri di dimensioni giganti che rendono in modo plastico documentandola e facendola rivivere, una fase storica per tanti versi sconvolgente.

Ph, Ph: le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa del Palazzo Esposizioni, che si ringrazia, con l’organizzazione della mostra e i titolari dei diritti, in particolare i musei di Mosca e San Pietroburgo prestatori delle opere riprodotte.

Pasolini, commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario

di Romano Maria Levante

Home > Mostre > Pasolini, commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario

Valeva la pena di attendere un’ora e mezza davanti alla galleria “Monserrato Arte 900” al numero 14 di via Monserrato a Roma per visitare la mostra fotografica su Pier Paolo Pasolini di Monica Cillario, torinese che vive tra la capitale e Montecarlo, aperta dal 3 maggio 2011. Nell’attesa, stando a sedere sui gradini del laboratorio artigiano-artistico che si trova di fronte, abbiamo scritto sul “notebook” il resoconto della presentazione avvenuta nella mattina dei “Tesori” della provincia di Roma al Tempio di Adriano. Poi abbiamo lasciato i tesori artistici e ambientali dell’hinterland romano per passare a un altro tesoro, un altro ambiente: il tesoro è Pier Paolo Pasolini, l’ambiente la sua prima residenza romana nel quartiere di Monteverde Vecchio dove visse dal 1955 al 1959.

L’ambiente evoca una persona, un’intelligenza, un’arte che si è espressa non solo nella scrittura, in prosa e in poesia, ma anche nel cinema. Proprio per questo è stato appropriato ricordarlo con immagini di per sé espressive nelle quali si sente l’amore della fotografa che le ha riprese con delicatezza e semplicità, senza strafare in scorci arditi e magari forzati, ma riproducendo una normalità piccolo-borghese dove sono nate “Le ceneri di Gramsci”, la sua raccolta di poemetti.

Per uno come lui non si potevano non accompagnare le immagini con le parole, sobrie anch’esse. La mostra lo fa con uno scrittore, Fulvio Abbate, nato a Palermo, nel 2005 autore, tra molti scritti, del libro “C’era una volta Pier Palo Pasolini”. Ha il tocco lieve, senza enfasi, le didascalie sono essenziali, la forza delle immagini è nel loro icastico bianco e nero che scolpisce una normalità dietro cui c’è l’inquietudine di una personalità incompresa e controversa, spesso anche contestata.

Le immagini della normalità quotidiana

Una normalità che inizia al numero 86 di Via Fonteiana, una “strada per ceti medi”, poco prima della borgata di Donna Olimpia, dove ambientò il romanzo “Ragazzi di vita”. L’edificio – scrive Abbate – è “un parallelepipedo intonacato d’ocra, senza particolari segni di estro architettonico, eppure dall’ingresso spazioso, luminoso”. In un quaderno delle elementari i cognomi dei coinquilini, al quarto piano, “accanto al numero dell’interno 26, appaiono le generalità di ‘Pasolini Carlo Alberto’, il padre dello scrittore, ufficiale di fanteria a riposo, ‘il Colonnello Attaccabottoni’ lo chiamava lo scrittore Carlo Emilio Gadda, vicino di caseggiato”. L’abitazione: “Appena due stanze, cucina, bagno e un balcone stretto che s’affaccia su via Innocenzo X, le mattonelle celesti adorate dai piastrellisti degli anni Cinquanta, gli infissi degli stessi tempi, un’aria immanente di ‘smorzo’”, così a Roma chiamano il deposito di materiali edili. Abbate ha scovato proprio nelle “Ceneri di Gramsci” questa descrizione dell’abitazione dove il libro fu scritto: “Ed ecco la mia casa, nella luce marina/ di via Fonteiana in cuore alla mattina”.  

Nel 2005, nel trentesimo anniversario della morte – anno in cui Abbate ha pubblicato il libro su di lui – i proprietari posero una targa di marmo a ricordo degli anni 1955-59 in cui vi abitò Pasolini, con i suoi versi “Com’era nuovo nel sole/ Monteverde Vecchio!”, gli stessi della targa posta dal Comune di Roma in via Giacinto Carini, sempre a Monteverde, dove si trasferì successivamente.

Monica Cillario ha fotografato i dettagli, ciò che resta di un ambiente semplice ma poetico per ciò che evoca, ha cercato di restituire un “cosmo condominiale” che ancora adesso suggerisce l’emozione dell’infanzia di un grande testimone del nostro paese, dalla vita inquieta e febbrile.

Da via Fonteiana si sposta al Cimitero degli inglesi, c’è la fotografia della tomba dove trasse l’ispirazione per “Le ceneri di Gramsci”, il libro è ripreso sul marmo, ed è edificante vedere la simbiosi con il grande intellettuale imprigionato per le sue idee che con le “Lettere dal carcere” ha lasciato un monumento di umanità e insieme di fede negli ideali. Gli undici poemetti raccolti nel libro ispirato a Gramsci hanno titoli intriganti, da “Appennino” del 1951 all’ultimo “La terra di lavoro” del 1956; in mezzo troviamo, tra gli altri, “Comizio” e “L’umile Italia”, “Picasso” e “Shelley”. E anche il poemetto del 1954 che ha dato il titolo alla raccolta.

Di Gramsci apprezzava, oltre all’ideologia, l’acutezza del pensiero e la forza morale che gli fece affrontare con coraggio la lunga prigionia senza il minimo cedimento. E forse lo aveva colpito in modo particolare l’espressione “Odio gli indifferenti”, dell’11 febbraio 1917 (è tornata di attualità rievocata nella manifestazione del 31 maggio 2010 al romano Teatro Quirino), così congeniale alle corde di Pasolini, combattente di tante battaglie: “Chi vive veramente, non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. Gramsci conclude: “Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. Parole che sembrano un identikit dello stesso Pasolini, e ci fa comprendere appieno l’ispirazione da lui colta sulla sua tomba; pensiamo che per il paese spaccato in due sul suo nome, tra memoria e indifferenza, avrebbe ripetuto l’anatema di Gramsci:“Odio gli indifferenti”.

E’ questa l’unica fotografia “costruita” per materializzare quanto si respira nell’atmosfera creata dalle immagini. Torna subito la quotidianità a dominare. L’androne spazioso e dignitoso, la guardiola del portiere al quale si rivolgeva con perentorie scampanellate al ritorno dalle sue ”notti brave” avendo dimenticato le chiavi a casa, finché cedette all’implorazione del malcapitato che gli chiedeva: “Signor Pasolini, la pregherei di non suonare più in piena notte, così facendo mi sveglia il bambino, grazie”. E poi le cassette delle lettere, le maniglie, anche lo zerbino, fino all’immagine che ci sembra rappresenti il culmine nello scorcio visivo e nella didascalia, evocando l’infinito: un’inquadratura da vertigini della tromba delle scale. Sembra una scena di Alfred Hitchcock sui labirinti interiori dell’inconscio, magari suggerita da Salvador Dalì come in “Io ti salverò”, il film cult con Ingrid Bergman e Gregory Peck, riferimento questo che sarebbe piaciuto a un uomo di cinema come lui. Con negli occhi e nel cuore l’“infinito” nelle scale e nel resto lasciamo la galleria.

Il nostro ricordo di Pasolini

Ci guardiamo intorno dopo la missione faticosamente compiuta; il prolungato black out elettrico che ha ritardato l’apertura si è protratto per tutta la nostra visita, creando un’atmosfera ancora più misteriosa, le fotografie nella loro livida chiarezza spiccavano  nella semi oscurità. Siamo usciti con la mente affollata dai ricordi legati a lui, ripensiamo alla sua attività intellettuale inquieta e tumultuosa, tra polemiche e attacchi di ogni tipo, anche giudiziari, per la sua “diversità” intesa in tutti i sensi, forse per la forza del suo pensiero e del suo coraggio civile.

Fu definito da Alberto Moravia “una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile”. E pensare che non si sentiva appagato, fino a scrivere: “Ebbene ti confiderò, prima di lasciarti, che io vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo…nel paesaggio più bello del mondo… con tanta innocenza di querce, colli, acque e botti, e lì comporre musica, l’unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà”. Ed è bello sapere che è stato ricordato anche con la musica da musicisti italiani,  De Andrè e De Gregori, Roberto De Simone e Renato Zero; e stranieri.

E’ impressionante come la sua produzione letteraria spazi dalla poesia all’intero scibile letterario. Oltre a “Le ceneri di Gramsci” tra le tante raccolte poetiche citiamo “Il canto popolare” e “Poesia in forma di rosa”, “Poesia dimenticata” e “La meglio gioventù”, che sarà poi il titolo del noto film-evento di Marco Tullio Giordana; per il teatro “Affabulazione”, oltre alle traduzioni da Eschilo e Plauto, da testi greci e latini, anche francesi volti perfino in friulano. I suoi saggi si muovono tra la letteratura e la cultura, la politica e la società: non soltanto testi letterari come “Antologia di liriche pascoliane”, anche “Antologia di musica popolare, il canzoniere italiano,”; e non disdegnò collaborazioni giornalistiche che diventarono subito degli eventi, come gli “Scritti corsari” del 1973-75 sul “Corriere della Sera” premonitori dell’incattivirsi di quel volto della periferia romana da lui tanto amato in un identikit che doveva rivelarsi tristemente premonitore, la sua morte violenta venne subito dopo.

Ripensiamo alla narrativa, con “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, “Il sogno di una cosa” e “Teorema”, fino al postumo “Petrolio”; e alla cinematografia, sua grande passione – aveva iniziato come comparsa a Cinecitta – con “La notte brava” e “Accattone”, “Mamma Roma” e “Il Vangelo secondo Matteo”, in cui affronta un tabù e lo supera con una struggente rivisitazione, “Uccellacci e uccellini”, lettura impietosa della crisi di un partito e di una politica anch’essa da lui amata ma che non riconosceva, ed “Edipo Re”, fino a “Porcile”. Creò un filone in costume, in mano ad altri presto scaduto in farsa erotica, con “Il Decameron” e “I racconti di Canterbury”, “Il fiore della Mille e una notet” e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Anche la sua posizione ideologica aveva radici fortemente umane: “L’altro è sempre infinitamente meno importante dell’io, ma sono gli altri che fanno la storia”, ha scritto, e anche per questo non si rinchiudeva nell’individualismo ma cercava la socialità.

Torna alla nostra mente la visita che facemmo qualche tempo fa all’Idroscalo di Ostia, dove andammo per cercare il luogo della sua morte. Avemmo la bella sorpresa di trovarvi un piccolo mausoleo di cui non conoscevamo l’esistenza: meritevole l’iniziativa, meno la scarsa diffusione della notizia, e ancora meno lo stato di totale abbandono in cui trovammo l’area pur se opportunamente attrezzata per la sosta dei visitatori, le erbacce l’avevano invasa ovunque deturpandola. Dovremo tornare all’Idroscalo dopo esser stati virtualmente in via Fonteiana portati dalle fotografie della Cillario. E speriamo ci vadano in tanti prima o dopo aver visitato la mostra.

Il percorso sacrificale di una “vittima esemplare”

Amava la vita, nelle “Ceneri di Gramsci” scrive: “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ d’abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?” Una raccolta di suoi saggi dal 1948 al 1958 si intitola “Passione e ideologia”, le coordinate cartesiane della sua stessa esistenza.

Ripensiamo alla sua fine, tra l’1 e il 2 novembre 1975, il giorno dei morti, “festa triste e dolce insieme che ricorda tante cose al cuore d’ognuno”, era il titolo del tema che ci fu dato all’esame di ammissione alla scuola media. Federico Zeri la paragonò alla misteriosa morte di Caravaggio: “In tutti e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta da loro stessi”. E Alberto Moravia: “Egli ne aveva già descritto, nelle sue opere, le modalità squallide e atroci”.

Lasciamo via Monserrato, adiacente a piazza Farnese con il grande palazzo monumentale. E’ una strada con laboratori e boutique d’arte, anche il piccolo bar ha una scultura nella vetrina. Ma non è tanto questo a rendere la sede appropriata per rendere onore a un grande come lui; ci colpisce la scritta sulla lapide posta nella facciata di un palazzo:“Carcere di Corte Savello, 11 settembre 1589: “Beatrice Cenci da qui mosse verso il patibolo/ vittima esemplare/di una giustizia ingiusta”.

Portare qui via Pompeiana con le fotografie di Monica Cillario è come aver accostato i due percorsi sacrificali, l’inizio di un itinerario che doveva concludersi altrettanto tragicamente: anche Pasolini è stata la “vittima esemplare” di un imbarbarimento tipico dei nostri tempi, ingiusto e spietato.

Ph: alcune immagini sono state riprese alla mostra da Romano Maria Levante, altre sono state fornite direttamente dall’autrice Monica Cillario che si ringrazia.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 22 maggio 2011 su fotografia.guidaconsumatore.com. – Email levante@guidaconsumatore.com

Tiziano Terzani al Palazzo Incontro: Clic! 30 anni di Asia e oltre

Home > Mostre > Roma. Tiziano Terzani in mostra: Clic! 30 anni di Asia e oltre

di  Romano Maria Levante

Al Palazzo Incontro, dopo l’omaggio a Pertini con “Paz e Pert”, l’omaggio a “Tiziano Terzani, Clic! 30 anni di Asia”, mostra aperta dal 23 marzo al 29 maggio 2011. Organizzata da Fandango, è stata curata da Folco Terzani che l’ha presentata con Nicola Zingaretti, il quale ha sottolineato il successo della sede prestigiosa e funzionale messa a disposizione dalla Provincia di Roma di cui è presidente, per intrattenimenti culturali e incontri di eccellenza: dal cinema alla musica, dalla letteratura alle arti in genere. Questa volta è una mostra fotografica che espone le immagini del celebre reporter e scrittore andando oltre l’aspetto espositivo per qualcosa di ben più intenso.

Tiziano Terzani

Cominciamo a raccontare la mostra dall’ultima sala, in una specie di cronaca alla rovescia. Perché è quella dove ci sono fotografie non sue ma scattate dalla moglie; non sono ripresi gli altri ma è ripreso proprio lui; non sono in bianco e nero come tutte le altre ma a colori intensi. E’ questo, a nostro avviso, il “clou” della mostra perché segnano il culmine della sua esistenza, quando lascia la macchina fotografica e anche il giornalismo per concludere il percorso di vita nell’Asia misteriosa avvicinandoci a qualcosa di indefinibile ma di superiore, in una sublimazione ascetica. Espressa anche nell’aspetto, una barba bianca lunga e folta da Mosè, il saio e gli atteggiamenti da santone indiano che vede lontano. Come il mago che ha incontrato e fotografato lui stesso: idealmente lo consideriamo come l’ultimo scatto, dopo sembra tramutarsi totalmente, nel corpo e nello spirito.

Parla del suo percorso spirituale Folco Terzani, il figlio curatore della mostra e soprattutto testimone di molti episodi, che ha vissuto con lui nell’Asia misteriosa dove Tiziano è stato per decenni con la famiglia, prima di rientrare in Italia, nell’isolamento di un paesino di montagna dove sembrava avere ritrovato parte dell’atmosfera e del fascino dell’ultimo eremo himalayano.

Oltre 80 ingrandimenti fotografici in un bianco e nero che ha un sapore antico prima dei 7 a colori che non li fanno dimenticare ma li “colorano” di profonda spiritualità, come tappe di un’ascesa mistica. Nei 7 scatti a colori protagonista non è la figura esteriore del fotografo che questa volta viene ritratto, ma il suo spirito e la sua anima che hanno trovato la pace dopo la ricerca, anzi la rincorsa di una intera vita. Immagini che sovrastano la pur straordinaria forza documentaria dei diversi volti dell’Oriente perché trasmettono qualcosa di indefinibile e insieme irresistibile. Ma proprio per questo ne parleremo dopo aver raccontato il percorso fotografico della mostra, che ripete passo passo il suo percorso di vita di grande inviato nelle terre lontane del continente asiatico.

La galleria di immagini di un’Asia inquieta e contraddittoria

Corrispondente di grandi giornali, in particolare Der Spiegel, ha percorso per decenni quelle terre lontane con taccuino e macchina fotografica, gli scatti parlano per lui e non necessitano di parole, tanto sono evidenti. Di parole ne ha spese tante nei numerosi libri, di reportage e di denuncia, di colore e di impegno civile che hanno punteggiato la sua intesa attività professionale. E anche a corredo delle immagini c’è qualche parola di commento, e vale la pena di riprodurla perché non illustra ciò che viene ripreso, ma ciò che avviene nell’anima dell’autore, mentre sente venir meno certezze e svanire speranze. Non tutte, però: quelle legate alla spiritualità attingono una dimensione superiore, quelle invece toccate dall’ideologia vacillano, travolte dalla realtà che vede dinanzi a sé.

Non c’è ideologia nella sua partecipazione ideale al conflitto nel Vietnam, ci va nel 1972 perché, dice, “volevo capire la guerra e la rivoluzione”. E si trova nel bel mezzo della “contraddizione tra quella società antica, semplice, e la modernità che la guerra impone. Le armi, i carri armati, le bombe, non c’entravano niente, proprio non c’entravano niente”. Tra Davide e Golia sceglie il più debole, che poi diventa più forte perché la resistenza popolare prevale sulla tecnologia bellica, è già una presa di posizione netta contro certo progresso. “Il Vietnam era loro, e ne avevano ogni diritto”. I libri “Pelle di leopardo” e “Giai Phong! La liberazione di Saigon” esprimono i suoi sentimenti.

Così per la Cina, siamo al 1980, il continente è guardato con amore e speranza attraverso scatti che riprendono la povertà dei villaggi ma anche la semplicità e l’autenticità della vita che vi si svolge tra vestigia dell’antichissima civiltà non sfregiate dal progresso. Ma poi la delusione è pari alle aspettative, “la Cina è stata la grande avventura”, scrive, “il più grande esperimento di ingegneria umana che l’umanità abbia mai tentato, la ricerca di una società più giusta e più umana”. Già la parola “ingegneria” è un ossimoro rispetto all’aggettivo “umana”, e se ne accorge ben presto: “Mi fu subito chiaro che la realtà era meno affascinante dei sogni”.

Un’uguaglianza esteriore nella mortificazione, tutti vestiti uguali, incolonnati, rispetto a una mondo tradizionale che nei suoi scatti appare serbare invece i valori e i sapori della vita.. Non segue gli itinerari obbligati e controllati per scoprire la realtà vera, in treno non viaggia negli scompartimenti “a sedili morbidi” per i visitatori, ma in quelli “a sedili duri” dei locali per unirsi a loro, condividere le loro vicende: Così esce da quello che chiama “il labirinto di proibizionismo e tabù che avrebbero dovuto tenermi lontano dalla gente”, ed ecco i risultati: “Era come aprire una tomba egizia. Sentivo che era una cosa che io avevo il grande privilegio di scoprire”. Non poteva passarla liscia, viene arrestato ed espulso, l’oppressione si è abbattuta su di lui dopo quattro anni trascorsi in Cina.

Tra le cose che colpiscono di più sono le distruzioni selvagge e spietate dei templi con la perdita incalcolabile d’arte tradizionale e di memoria in un popolo di alta spiritualità; molte successive ai suoi reportage, le sue fotografie – dice Folco – diventeranno preziose per la loro ricostruzione. Ma non tutto è da respingere dell’esperienza che lo ha scottato: “La Rivoluzione Culturale ha insegnato a un’intera generazione di giovani a ribellarsi, a non rispettare i maestri, a non ascoltare i vecchi”. E lui stesso ha potuto riscontrare sul campo e scrivere di “una Cina non addomesticata” con uno slancio d’amore: “Io amo la Cina, loro la stanno distruggendo”. Di qui il libro “La porta proibita”.

Se Atene piange, Sparta non ride, se ne accorge in Giappone, anche qui allineati ma in modo ben diverso e per motivi opposti: è la frenesia dello sviluppo a portare l’ordine perfetto, altro modo perverso di perdere l’umanità: “La vita è un’altra cosa”, commenta. E le immagini di un mondo quasi militarizzato per produrre lo evidenziano, soprattutto se raffrontate agli spicchi di umanità nella miseria delle zone più arretrate della Cina, ma rimaste vicine ai valori umani della tradizione.

Di nuovo dall’altra parte, vive da vicino la fine dell’Unione sovietica, altro sogno infranto dinanzi alla realtà: “Il solo grande segreto è la miseria e lo squallore”. E nella foto alla grande statua di Lenin abbattuta, sotto il tallone di un islamico, intravede una nuova prospettiva nell’Islam, “l’ideologia dei dannati della terra”; non a caso intitola il suo libro sulle vicende seguite al golpe anti Gorbaciov del 1991, “Buonanotte, Signor Lenin” . Un nuovo shock con gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’attacco americano all’Afghanistan: ispirano il libro “Lettere contro la guerra”.

C’è anche l’Asia insanguinata della Cambogia, con immagini da raccapriccio, l’ha descritta nel libro “Holocaust in Kambodscha” del 1981; è bilanciata dal Laos “non un posto ma uno stato d’animo” con la foto della fanciulla che incede leggiadra nella miseria. Il suo non è mai un discorso ideologico, registra i fenomeni e quando si discostano dalle sue speranze e aspettative non esita a dichiararlo, anche riconoscendo di essersi illuso. Questo per i regimi comunisti; ma non viene trattato meglio l’Occidente: del Giappone abbiamo detto, verso gli Stati Uniti mostra un’aperta avversione per le forme smodate di un progresso vuoto di valori, quindi disumano e aggressivo.

Dal paradiso del “grandissimo niente” all’isolamento ascetico

Il mondo in bianco e nero che ci presenta con immagini sobrie dal tono elegiaco è un mondo in parte sparito, l’onda del progresso ne ha dispersi gli aspetti più suggestivi, che invece si ritrovano nelle sue fotografie, perché li ha fissati prima che fossero cancellati. Ed è questo un grande merito di un intenso giornalista scrittore che ha voluto parlare con le immagini oltre che con gli scritti.

Ma non si è accontentato di fissare gli angoli che avevano conservato il fascino delle tradizioni, è andato a scovare una località sul tetto del mondo, isolata da tutti, per ritrarne l’assetto primordiale. Si tratta di Mustang, un’enclave tra le montagne del Tibet entro i confini del Nepal, perciò la Cina ha dovuto rispettarla. Ci va nel 1995, segue il richiamo dell’“Esploratore” di Kipling: “Qualcosa è nascosto. Vai cercarlo. Cerca al di là delle vette. Qualcosa è stato perso al di là delle vette. E’ stato perso e ti aspetta. Vai!”.

Un villaggio che è un minuscolo, antichissimo regno, a cinque giorni di marcia a piedi e sui muli dopo l’ultimo approdo per aereo o auto, non ci sono strade, ma distese di ciottoli e pietraie, un posto “senza progresso, un mondo antico” dove il tempo si è fermato. Si ferma anche per lui, ritrae il vuoto che non è mancanza, è riempito dalla riflessione, non è desolato perché dove non c’è la materia c’è lo spirito. Non fotografa l’attimo ma la riflessione: attende che i raggi del sole creino un fascio di luce sul medico-mago Amchi, l’immagine è suggestiva, una vera magia.

E’ un “shangri-la”, cioè un paradiso, che si sta per perdere, il turismo pur contingentato lo assedia, già tra le immagini del “grandissimo niente” c’è quella delle bambine che giocano con la “Barbie”, e l’elicottero che atterra con i turisti. Tiziano è ben diverso, sa che solo dopo la lunga marcia “avvicinandosi l’immagine si smitizza, il viaggiatore finalmente capisce: il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta: il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare”.

A parte la ricerca del “paradiso perduto”, la sezione “Indovini” rivela come abbia viaggiato un intero anno da reporter negli spazi sconfinati dell’Asia senza prendere l’aereo, seguendo le parole di un indovino, così ha toccato con mano quanto sarebbe sfuggito a un approccio distaccato. Di qui il capolavoro “Un indovino mi disse”: siamo nel 1995, da un anno lui e la famiglia vivono in India.

Al culmine della sua ricerca è protagonista proprio l’India, dove “Dio ha ancora 1000 indirizzi”. Ne trova uno, c’è l’incontro con un santone, lo fotografa e sembra il suo autoritratto del dopo, intanto è diventato Anam, ha assunto una nuova identità senza nome intrisa della spiritualità asiatica. E’ una folgorazione, si immedesima in quella figura ascetica al punto da isolarsi in un proprio eremo sull’Himalaya, che poi diventerà il rifugio di Orsigna, nell’Appennino piemontese, dove si ritirerà per trascorrere ciò che gli resta da vivere dopo un’intera vita trascorsa nelle terre lontane dell’Asia.

Le 7 immagini con il colore dell’anima

Ed è dopo queste immagini che il bianco e nero fino ad allora protagonista assoluto, cede il posto a un inatteso colore, le 7 immagini citate all’inizio. Cede la fotocamera alla moglie – ci dice Folco – per andare di là dall’obiettivo, si immedesima nell’aspetto, nella veste e nell’atteggiamento di quelli che sono stati i suoi ultimi soggetti, diventa il santone. Il colore è un’illuminazione dopo tanto grigio – che non è grigiore ma è memoria – perché è circonfuso dallo spirito: è il colore dell’anima.

Ci suscita un ricordo e un’associazione d’idee: “Deserto rosso”, di Michelangelo Antonioni, dove anche le foglie avevano perduto il loro colore brillante per unirsi alla foschia dell’ambiente e soprattutto della mente degradati da un progresso inquinante e distruttivo, come quello che Tiziano rifiuta. Nel film, l’angoscia dell’incomunicabilità è rotta dal sogno della “spiaggia dalla sabbia rosa” con i colori brillanti ed evocativi: ecco, la sua spiaggia rosa è nel raggiungimento di un approdo per lo spirito, la conclusione della ricerca diuturna di una vita in virtuale pellegrinaggio.

Tra queste 7 immagini con i colori dell’anima il diapason lo raggiunge, ai nostri occhi, la foto che lo vede di spalle camminare lungo un sentiero innevato, in altre si vede la folta barba bianca da Mosè, indossa un lungo saio: ebbene, l’immagine di Darwin non era diversa, nell’aspetto e soprattutto nelle passeggiate lungo il “Sentiero delle meditazioni”, situato nel retro della sua abitazione lontana dalla città come la località dove Tiziano si era rifugiato per restare solo con la sua anima.

La fine che è un inizio

Così abbiamo voluto raccontare la mostra, ponendo all’inizio e alla fine quello che per noi è il suo momento culminante. Richiede una riflessione entrare nella dimensione che traspare dalle immagini, ci si sente scossi dinanzi a un approdo così apertamente superiore, dalla spiritualità profonda e toccante. Senza ostentazione né elucubrazioni, la visione è semplice e ferma: quando si approda a un punto di arrivo così elevato tutto si fa chiaro, e le immagini lo rendono perfettamente.

Se ne ha conferma dalla lunga intervista che precede di soli due mesi la scomparsa avvenuta il 28 luglio 2004 dopo la lotta con la malattia che non vede in questi termini, ma come un andare avanti insieme al male coesistendovi finché è possibile. Si assiste al filmato nella saletta, presi da una forte emozione nel vedere il santone dalla lunga barba bianca parlare con una serenità disarmante, aprire l’anima senza mostrare turbamenti, consapevole di avere raggiunto la pace dello spirito dopo tanta ricerca. “Anam, il senza nome” è il titolo della sua serena confessione, regista Mario Zanot.

Nel marzo del fatidico 2004 aveva pubblicato un libro-reportage sulla sua malattia e sul mondo circostante: “Un altro giro di giostra – Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo”. Due anni dopo, nel marzo 2006, i suoi pensieri confidati in un dialogo-diario al figlio Folco escono con il titolo “La fine è il mio inizio”; il 1° aprile 2011 esce nelle sale il film dallo stesso titolo che ne è stato tratto, distribuito da Fandango, regia di Jo Baier, con Bruno Ganz e altri interpreti.

Con tutto questo che evoca, è molto di più di una mostra fotografica quella che abbiamo visitato, emozionati per la guida di Folco Terzani: in molti momenti sembrava che ci accompagnasse Tiziano Terzani giovane, con tutto il suo entusiasmo. Folco con la grande serenità di aver compreso la quiete raggiunta dal genitore, ne illustrava il percorso fotografico e insieme il percorso di vita.

Come non essere grati a Fandango e alla Provincia di Roma che hanno organizzato l’evento, oltre a Folco Terzani che lo ha curato e ce lo ha illustrato? Un evento che è insieme culturale e umano. Sì, profondamente umano, forse non soltanto terreno. Perché la ricerca di Dio, di un Dio della natura e della vita, si sente nella pelle visitando la mostra e guardando il video. Si possono fare scelte di vita estreme come la ricerca della solitudine nell’Himalaya e guardare la morte senza temerla come ha fatto Tiziano se questa ricerca dà delle risposte: a Tiziano Terzani sono arrivate e ce le ha trasmesse con le parole e le immagini. Le riassumiamo plasticamente nella figura che cammina lentamente lungo quello che identifichiamo nel darwiniano “Sentiero delle meditazioni”.

La “Turtle House” di Tiziano Terzani a Bangkok

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 28 marzo 2011 su www.fotografia.guida consumatore.com

Van Gogh, 2. Vita e arte, la svolta e l’epilogo, al Vitttoriano

di Romano Maria Levante

– 18 febbraio 2011 – Postato in: culturainabruzzo.it, mostre, pittori, trasferito qui

Dopo aver raccontato la prima fase fino al 1886 passiamo all’ultima fase dell’“ascesa infinita” nell’arte come appare dalla mostra al Vittoriano su “Vincent Van Gogh, Campagna senza tempo – Città moderna”, aperta dall’8 ottobre 2010 al 20 febbraio 2011 dopo la proroga; e della “discesa infinita” nella vita seguendo la ricostruzione del libro “Follia? Vita di Vincent van Gogh”, di Giordano Bruno Guerri che ha curato le iniziative di approfondimento parallele, dai dibattiti ai film, alla performance teatrale; il libro è stato una guida preziosa per il nostro racconto.

La camera di Vincent ad Arles”, 1888-89

La svolta di vita e arte nel 1886 con gli impressionisti

E’ il 1886, la “discesa infinita” corre veloce, ha meno di cinque anni da vivere intensamente, va a Parigi. Compie un’altra trasgressione delle sue, anche se il suo trasferimento nella capitale francese è stato concordato con il fratello; a marzo parte senza avvertirlo, temendo che ci ripensi. E’ troppo importante per lui, Parigi è una metropoli, e qui prevale il fascino della città che incarna la novità e il movimento, l’altra faccia della natura che finora ha visto soprattutto nell’aspetto della campagna eterna e senza tempo, anche se ha rappresentato qualche opificio. Ma, quel che più conta, ora si trova nella capitale della pittura, con l’impressionismo e i suoi massimi esponenti di cui può finalmente conoscere da vicino le opere e frequentarli: Renoir e Cezanne, Pissarro e Toulouse-Lautrec, Corot e Monet, Sisley e Signac. Va anche a lezione con sessanta altri allievi, per imparare la tecnica, dal pittore Fernand Cormon, che ha insegnato a Toulouse-Lautrec e Gauguin. Gli bastano due mesi in cui si applica con più serietà degli altri, sente che il tempo gli manca, ha fretta.

L’impressionismo interpreta la realtà come la sente l’artista che la vede “en plein air” nel suo fulgore rivivendola dentro di sé. Per due anni Van Gogh sarà nella Ville Lumiére e vivrà in un ambiente per molti versi straordinario con la sua capacità di interpretare e assorbire senza subire gli influssi ma recependoli come stimolo al suo eccezionale talento. Vedremo poi che con Gauguin – l’artista che affascina e stordisce tutti con i suoi racconti delle bellezze dei paesi esotici e delle loro donne – ci sarà un rapporto più stretto e tormentato, quando la “discesa infinita” si farà rovinosa.

“Autoritratto”, 1887

In una sorta di caffè degli artisti c’è la proprietaria Agostina Segatori, posa come modella per i pittori, sta anche con loro; Vincent trova in lei qualcosa che gli è mancato, ma per poco, a lui serve per esporre quadri e le fa un ritratto, “L’Italienne”, non in mostra; si lasciano in modo turbolento. Anche con gli altri pittori i rapporti personali non sono buoni, Cezanne gli dice “la sua è una pittura da pazzo”.

E’ il tema della “follia”: la diversità di un’indole indomabile, nella frenesia di vivere a modo suo e di dipingere. Espone nel negozio di Pére Tanguy, che vende articoli per belle arti, litiga anche con lui che pure lo stima ma non riesce a vendere i suoi quadri. Come Theo, sebbene nell’ultima fase preferisca tenerli attendendo tempi migliori; anche Vincent chiede al fratello di non esporli più, sente che la stagione propizia arriverà presto e non vuole disperderli per troppa fretta..

E qui la mostra diventa didascalica, propone una serie di pitture di riferimento per creare l’ambiente nel quale si venne a trovare Vincent. Immergiamoci anche noi nel mondo degli impressionisti, c’è la campagna vista nei giardini pubblici e privati e c’è la città in movimento. Ecco l’“Orto a Auvers su l’Oise”  del 1852 e il “Chiaro di luna su l’Oise” del 1870, entrambi di Charles Francois Daubigny, dai colori ancora spenti, mentre esplodono “Nell’orto” di Pissarro del 1878 e nei due di Paul Gauguin, “Fattoria La Groue, Osny” del 1883 e “Stalla vicino a Dieppe II” del 1885. Dello stesso anno 1885, di Vincent c’è “Veduta di Amsterdam dalla Stazione Centrale”, piccolo olio su tavola nel quale le tinte cominciano a schiarirsi.

Il Seminatore”,1888

Le sollecitazioni coloristiche degli impressionisti vengono ulteriormente proposte in mostra con “Lavori al Pont National” di Armand Guillaumin del 1874 e “Sobborgo” di George Seurat del 1882-83 fino a “Scambio ferroviario a Bois-Colombes” di Paul Signac del 1886.

L’eco in Van Gogh dell’apertura alla luce e al colore è nel dipinto esposto dello stesso 1886, “Persone che passeggiano in un parco”: vediamo un numero inconsueto di figure quasi sempre accoppiate e con bambini, l’occhio di Vincent è mosso dalla sua dissimulata aspirazione alla famiglia nel continuo contrasto con la libertà anche anarchica dell’artista che da lui è sempre rivendicata.

Ancora persone, “Due signore al cancello di un parco ad Asnières”, un sobborgo parigino dove Vincent riassaporava gli umori della campagna pur nella città pulsante di vita, tanto che il motivo dominante, a parte il muro con il cancello e le due figure, è il verde con gli alberi. Lo stile è decisamente impressionista, la pennellata fluida, ancora nessun accenno puntiforme.

Così vede la città con l’occhio alla natura, mentre “Il Moulin de Blute-Fin” riporta agli impianti legati al lavoro dei campi presenti anche nella modernità cittadina. Lo stesso incrocio che si aveva nei dipinti degli impressionisti citati, dove gli orti e la fattoria, la stalla e il fiume si incrociavano con la stazione ferroviaria, paesaggistica anch’essa, e i lavori al ponte, fino al sobborgo con la ciminiera che segna il confine tra città e campagna. Temi incrociati anche nei disegni esposti dei pittori citati, dagli “Alberi con cervi” e “Il boschetto” di Daubigny al “Crepuscolo sui covoni” e “Fabbrica a Pontoise”di Pissarro. Soprattutto troviamo i disegni di Francois Millet del ciclo giornaliero del lavoro nei campi, da “La partenza per il lavoro” del 1863 al precedente  “Contadino che raccoglie il fieno”del 1855, a “Mezzogiorno/Il riposo”  e “La fine del giorno” con il contadino che si infila la giacca, entrambi del 1873; fino alle figure di “Donna che carda la lana” del 1855-56 e “La grande pastorella” del 1862.

Ritratto di Madame Roulin con la figlioletta” , 1888

Il 1887, anno cruciale per il trionfo della luce e del colore

Abbiamo anticipato nell’articolo precedente l’autoritratto del 1886 senza cappello, nel 1887 ne troviamo due molto diversi e non solo perché ha il cappello: le pose, il segno e il colore sono totalmente differenti. I circa quaranta suoi autoritratti lo vedono anche come “cavia” delle prove pittoriche, quando per farle ripiegava su se stesso rispetto ad altri modelli viventi troppo costosi.

Il primo “Autoritratto” del 1887 lo ritrae in veste cittadina, forse come esempio di ritrattistica da proporre ai professionisti parigini, in un abito dignitoso che si ritrova in altri suoi dipinti. Colpisce lo sfondo azzurro, come un cielo trionfante, e le pennellate impressioniste, con segni anche del neo impressionismo di Seurat e Signac; sia nell’abito e nel cappello che nel volto queste pennellate vistose segnano la luce e l’ombra con un effetto coloristico straordinario.

Veste da artista trasandato nell’altro “Autoritratto” dello stesso anno, un’acconciatura da contadino che aveva adottato nel periodo olandese dipingendo il lavoro nei campi, abbigliamento che tornerà in altri suoi ritratti. Il cappello di paglia è anche degli impressionisti che lavoravano “en plein air”, ma Vincent dipingeva all’aperto anche prima di frequentarli. L’arrossamento del volto fa sentire la forza del sole da cui si ripara, il dipinto è sostanzialmente di tre colori, verde l’abito, giallo il cappello e rosso-marrone la barba e la pipa, il tutto con pennellate rapide e distanziate.

Nel “Ritratto di Alexander Reid”, un mercante d’arte scozzese, l’influsso di Seurat e Signac è ancora più evidente, con pennellate piccole quasi puntiformi dai forti contrasti cromatici. Lo stesso appare in “Interno di ristorante”, immagine cittadina linda e pulita con la tecnica puntiforme.

“Albicocchi in fiore”, 1888

Dalla città in interno alla città in esterno. La visione ristretta di “Strada con sottopassaggio (Il viadotto)”e lo scorcio prospettico di “Ponte sulla Senna ad Asnières”, fino alla panoramica urbana di “Strada parallela ai bastioni di Parigi”, una visione straordinaria in cui le figurine umane e le costruzioni sono soprattutto in lontananza, mentre nel primo piano c’è la grande strada fatta di alcune forti pennellate bianche.

Lo sguardo si allarga nelle due visioni di Montmartre, il sobborgo parigino nel quale poteva materializzarsi l’incrocio tra l’amore per la campagna e l’attrazione della modernità cittadina. Sono in sequenza, quasi due “pendant”. “Montmartre: dietro al Moulin de la Galette” si richiama a “Parigi vista da Montmartre” dello stesso anno di Maximillien Luce, in mostra; analoga l’inquadratura con un angolo di muro in primo piano dinanzi al verde, e sullo sfondo i tetti della città in basso. In “Orti a Montmartre” trionfa la campagna, un piccolo mulino a vento sul fondo, mentre in un analogo dipinto del 1886 il mulino e le case avevano una posizione preminente che invece nel quadro del 1887 diventa secondaria rispetto allo spazio agreste. La pittura con i colori

complementari distinti per essere riuniti dall’osservatore viene riferita al neoimpressionismo per l’uso del colore e l’applicazione dei pigmenti; non c’è vero divisionismo perché più che puntiformi le pennellate sono spezzate. E preannunciano gli sviluppi successivi di un’arte tutta personale.

Giardino pubblico con prato appena falciato e salice piangente”, 1888

L’escalation del 1888

Non è di svolta come il 1886 a Parigi, ma certo il 1888 ad Arles segna l’escalation, della “discesa infinita” nella vita come dell’“ascesa infinita” nell’arte. Vincent vi arriva in treno il 20 febbraio, dopo le sollecitazioni ad andare in Provenza, al sole del Sud della Francia, dove troverà luce e calore per la sua pittura: anche Toulouse-Loutrec – che gli ha fatto un severo ritratto di profilo -lo spinge, artisti come Delacroix e Monticelli avevano cercato il sole del Sud, in Francia e nel Nord Africa, Gauguin lo trova in Martinica.

Alloggia in un albergo vicino alla stazione, poi a maggio in un’abitazione tutta sua: “Di fuori è dipinta di giallo, mentre dentro le pareti sono sbiancate a calce. E’ in pieno sole.”, scrive al fratello mandandogli dei disegni. C’è lo splendido quadro “La stanza di Vincent ad Arles”, con il letto, il tavolo e le sedie e “La Casa Gialla”, non in mostra ma nella memoria. Scrive a Theo anche sulla sua nuova vita in Provenza: “Mi sembra che, a intervalli, il sangue abbia più o meno intenzione di rimettersi a circolare, contrariamente a quanto accadeva negli ultimi tempi a Parigi” Dopo la svolta, quindi, non si era appagato, ha avuto un nuovo turbamento: non vi soggiace, cerca sempre di più.

Quel di più è intanto il sole, poco rappresentato, ma presente nel giallo accecante che illumina la sua pittura,  primo esempio “La mietitura” non in mostra come non c’è “Seminatore al tramonto” nel quale spicca un grande sole all’orizzonte.

Vialetto nel giardino pubblico”, 1888

E’diverso da “Il seminatore” che è esposto: sullo sfondo fabbriche e ciminiere in questo, il sole e il grano nell’altro, mentre è simile la figura umana e somigliante il blu del terreno in primo piano; la mostra opportunamente vi accosta il dipinto dallo stesso titolo di Jean Francois Millet, però con colori smorti rispetto a quelli rutilanti di Vincent.

La campagna trionfa in “Albicocchi in fiore”, quasi vi trovasse la rigenerazione dopo l’ultimo periodo parigino: la natura viene sempre più “sentita” imprimendovi la propria sostanza umana e non soltanto “guardata” e percepita con la sola sensibilità artistica. Per questo, secondo Guerri, non va considerato soltanto nel mondo impressionista, ma come anticipatore dell’espressionismo. E’ una campagna che vediamo da vicino in “Ulivi”, il dipinto dove il grande albero in primo piano e il sottobosco sembrano offrire un rifugio sicuro per chi si smarrisse nel sentiero appena tracciato; e nel disegno “Ulivi/pini a Montmartre”, una quinta quasi teatrale dopo la radura, sorvolati da alcuni uccelli, diventeranno corvi minacciosi nell’ultimo quadro del 1890. Una campagna, infine, che si immagina nel disegno “Capanne a Saintes-Maries-de-la-Mer”, le primordiali capanne dal tetto di paglia, ormai dimesse dai contadini, ma per Vincent ne restano un simbolo cui è affezionato; è esposto anche il quadro di Gauguinintitolato “Il campo Lollichon e la chiesa di Pont Aven”, che a forti colori riproduce uno di questi tetti con una scena campestre di buoi al pascolo; dello stesso Gauguin è esposto “L’abbeveratoio”, .quasi un primo piano del precedente.

“La casa gialla”, 1888

Dall’aperta campagna alla sua espressione all’interno dell’abitato, di cui abbiamo già parlato nell’inquadrare la sua pittura in termini generali: “Giardino pubblico con prato appena falciato e salice piangente”” e  “Vialetto nel giardino pubblico” sono due dipinti con il verde inframmezzato da tocchi di giallo che esprimono la pioggia di luce, sia nell’erba e sia nelle foglie degli alberi. In entrambi c’è il sentiero, nel primo si sente la gente anche se non c’è, nel secondo è rappresentata la società arlesiana. Ma Vincent non dimentica l’azione dell’uomo: la mostra ce lo ricorda con i due disegni: “Il ponte di Langlois” e “Strada con palo del telefono e gru”.

Non mancano i ritratti, da “La vecchia Arlesiana” a “Madame Roulin con la figlioletta”,in mostra, ne ricordiamo altri non esposti, da “Joseph Roulin” a “Eugène Boch”, da “La Mousmé seduta” a “Milliet”, persone con cui ebbe rapporti di amicizia, Boch era un pittore e scrittore belga.

Il 1888 non è solo questo, nell’arte come nella vita, tanto che abbiamo parlato di “escalation”. Ebbene, anche se la mostra non può presentarli, è l’anno dei due celebri dipinti urbani, “Terrazza del caffè la sera” e “Caffè di notte”, sempre ad Arles, immagini dalla suggestione incredibile; l’anno di “Spettatori nell’arena”, inconsueta raffigurazione di folla nella cavea romana di Arles dove vede la corrida. E, soprattutto, è l’anno del “Vaso di girasoli”, tema a lui molto caro che nel dipinto del 1888 raggiunge il diapason, in quanto, come è stato detto, trasforma la “natura morta” in “natura viva”. Un natura ravvivata dai colori del Sud della Francia: “In realtà il sole della Provenza non è così forte come lo raffigura Van Gogh, e i colori non sono vivaci come quelli dei suoi quadri. Vincent esasperò tutto perché voleva raccontare la forza e la violenza della natura”, nota Guerri. E lo si vede proprio nei girasoli che sembrano esplodere e nei rami degli alberi che sembrano contorcersi; ci fanno pensare alle temute piante carnivore, forse sono loro che hanno divorato il grande artista. Per ora premonizione nel dipinto “La sedia di Vincent”, vuota e impagliata con pipa e occhiali, come “La sedia del padre” morto; “La sedia di Gauguin” invece sembra una poltrona.

“Veduta di Arles con iris in primo piano”, 1888

L’”escalation” nella “discesa infinita” vede la sua vita presa da nuovi e più gravi tormenti. Ad Arles le sue apparenti “stranezze” turbano gli abitanti, a ottobre chiama a sé Gauguin che entra presto in contrasto con lui, nell’ordine domestico, nell’arte, in tutto. Raffigura Vincent in modo impietoso mentre dipinge dei girasoli secchi, Guerri lo definisce “il ritratto di un demente”; e lo confronta all’autoritratto” dedicatogli da Vincent che invece “si mostra come un bonzo, raffigurandosi al meglio”. Gli fa lo sgarbo di andare al bordello con la “piccola Raquelle”, la preferita di Vincent. I dissapori montano, e anche le stranezze di Vincent che una notte lo guarda torvo mentre dorme, l’altro se ne accorge e lo teme; e quando Gauguin gli annuncia che partirà a Natale, la vigilia lo segue silenzioso col rasoio in mano. Viene fermato dal suo sguardo, torna a casa e con lo stesso rasoio si taglia di netto la cartilagine dell’orecchio destro mutilandosi, e la porta a Raquelle, come fosse l’omaggio dell’orecchio del toro abbattuto: aveva assistito alla corrida nella locale arena, le tradizioni della vicina Spagna erano vive anche lì, sarebbe lui stesso il “toro” sconfitto dall’amico.

In ospedale, è nella sezione dei pericolosi, incatenato al letto. Secondo Guerri più che di follia si tratta di un effetto allucinogeno dell’assenzio, bevanda in voga tra gli artisti. Termina così il 1898, l’anno del “Vaso di girasoli” e del gesto autolesionistico. Violenza nella natura e nell’uomo.

“Notte stellata sul Rodano”, 1888

L’esplosione del 1889

Il 1899 inizia con il ritorno a casa il 7 gennaio. La vita è ancora più tormentata, la diffidenza degli abitanti di Arles diventa ostilità per il vicino pericoloso; nuovo ricovero dopo un mese per una  crisi.

Per il dottor Rey è dovuta al timore di una ricaduta, secondo Guerri teme gli attacchi e le irrisioni di “bambini e adulti”; dice al sacerdote che hanno l’ardire “di “circondare la mia casa e di scalare le inferriate come hanno fatto, come fossi un animale strano”.Al dottore confida che “per raggiungere l’alta nota gialla che ho raggiunto quest’estate ho dovuto montarmi un po’”. Ce ne saranno ancora di “alte note gialle”, fino alla fine, anzi all’ultimo quadro che vedremo al termine.

Torna di nuovo alla vita di sempre, e ai tormenti quotidiani, c’è stata una petizione dei cittadini perché fosse internato. Ma questo non avvenne in modo coattivo, fu lui a chiedere di entrare nel manicomio di Saint-Paul-de-Mausole presso Saint-Rémy a 25 chilometri da Arles. Potrà dipingere in pace, c’è anche un giardino e si vede la campagna. Ricordiamo quattro quadri che lo raffigurano: “Davanti al manicomio di Saint- Rémy” e “Il giardino di Saint-Paul”, “Il dormitorio di Saint-Paul” e “La ronda dei carcerati”, l’immersione progressiva fino al tremendo girotondo nella cella, lui però presto potrà uscire fuori dall’istituto per dipingere. Nel giardino c’erano gli “Iris” che dipinse in veri capolavori sia in fioritura nel loro squillante blu su steli verdi che nei vasi. E poteva rimirare il cielo, che gli ispirò “La notte stellata”, capolavoro accostato da Guerri a quella dipinta ad Arles: “Nella prima, le stelle palpitavano nella calma del firmamento, ma erano immobili. Nella Notte stellata di Saint-Rémy le stelle si muovono, non hanno più quell’aria viva ma tranquilla, sono parte di una corrente celeste, indecifrabile”. Sgomenta pensare che “dopo averla dipinta, Vincent tentò di ammazzarsi ed ebbe una crisi di pazzia che durò più di un mese”,  ricorda Guerri.

Notte stellata”, 1889

Ma andiamo ai dipinti esposti in mostra, anche se non potevamo omettere quelli ora citati nel nostro excursus vita-arte. C’è il disegno “Campi fuori dalla casa di cura”, con tratti e punti decisi, un’immagine di apertura. E un olio su tela invece molto tormentato, “Montagne a Saint- Rémy, lo dipinse dopo due mesi di internamento, quando poteva già uscire e anche allontanarsi dalla clinica: sembra un ammasso montuoso deserto, ma si intravede una capanna e un angolo con girasoli. Al quale si contrappone, in un certo senso, “Cipressi con due figure femminili”, per la grazia delle loro eleganti siluette contrapposta alla potenza delle grosse chiome dei cipressi: il maschile e il femminile, l’antico e il moderno, il romanticismo e il realismo, la critica qui si sbizzarrisce.

L’ultimo dipinto esposto di quest’anno è “Il ritratto di giovane contadino”, o il “Giardiniere” di Saint-Remy, com’è anche intitolato, più che il lavoratore qui interessa il gioco dei colori dell’abito dimesso come la sua espressione, e dell’erba: è considerata quasi una prova di espressionismo.

Il 1890: la discesa e l’ascesa infinita al loro epilogo

A Saint-Remy è sottoposto alle terribili cure di allora, ha delle crisi, tenta il suicidio, poi quando sente che Theo sta per avere un figlio, temendo che non lo protegga più e lo lasci per sempre in manicomio gli torna la smania per la vita normale, anche se non ci crede, e vuole uscire: Alla nascita ha una crisi più forte, poi convince il fratello a farlo tornare a Parigi: “Sì. Bisognerà farla finita, con questo posto. Non posso fare contemporaneamente le due cose: lavorare e faticare per riuscire a vivere con questi strani malati. Ne sono sfinito”. Non si considera uno di loro, non si sente malato, d’altra parte ha scelto lui di entrare in quel luogo per dipingere con tranquillità: ora basta.

“Ritratto del dottor Gauchet”, 1890

La notte del 16 maggio arriva alla stazione di Parigi, Theo lo porta a casa, c’è la moglie e il piccolo di tre mesi e mezzo, si chiama Vincent: ha cercato invano di impedirlo, aveva l’incubo del fratellino con quel nome nato e morto l’anno prima di lui. E qui immersione nei suoi dipinti, appesi alle pareti, ammucchiati sotto i letti, ovunque, in bella mostra i capolavori e gli autoritratti. Chissà se ha provato la sindrome – come di Stendhal – che Guerri così descrive: “Vedere insieme troppi quadri di Van Gogh fa male: ci si sente minacciati e in pericolo, si ha paura che tutto quel mondo catturato sulle pareti ti salti addosso e ti divori.” Aggiunge: “Ma Vincent è abituato ai suoi figli selvaggi: li tratta con la confidenza di un domatore che spazzola il suo leone”. Notiamo: non è possibile che in questi tre giorni tra le sue tele abbia maturato inconsciamente la convinzione, esposta dallo stesso Guerri, di aver dato tutto, aver raggiunto il culmine, e quindi avere esaurito il senso dell’esistenza?

Ma ancora non è finita, “l’ospite dopo tre giorni puzza” è un detto popolare, anche per questo Theo lo convince a partire dopo tre giorni per Auvers sull’Oise. E lo affida al medico Gachet, che non capirà nulla di lui né in senso clinico (“è più malato di me, a quanto mi è parso” – scriverà Vincent – o almeno altrettanto”), né artistico (snobberà il suo ritratto capolavoro, oltre a lui ritrasse la figlia Marguerite in giardino e al piano). Settanta giorni, settanta quadri: ha fretta, l’epilogo è vicino.

L’8 giugno visita ad Auvers di Theo e famiglia, il 5 luglio Vincent ricambia e va a Parigi. Il 27 luglio, domenica, esce senza cavalletto e va incontro al suo destino: entra in una buca e si spara dal basso in alto, ferita non mortale, almeno immediatamente.

Torna a casa sanguinante, non viene operato e lo curano male, mentre forse si sarebbe potuto salvare. L’indomani arriva Theo: “Non piangere. L’ho fatto per il bene di tutti”, gli dice, e alle rassicurazioni del fratello aggiunge: “E’ inutile, la tristezza durerà tutta la vita”. Non molto per Theo, morirà sei mesi dopo, sarà la moglie Johanna a valorizzare Vincent e l’enorme fortuna che ha in casa con il gran numero di suoi dipinti: dei mille forse prodotti, almeno duecento si sono salvati.

“I bevitori.- Le quattro età dell’uomo”, 1890

Nella mostra, di questi mesi finali vediamo “Donne che attraversano i campi”, predomina il giallo luminoso sul poco verde in un’immagine chiara, lineare e serena; invece il disegno “Strada chiusa con case” dà l’idea di un epilogo senza uscita. Torna il tema del duro lavoro nelle figure chine, ma le “Contadine che zappano un campo innevato” sono ormai evanescenti; erano invece violenti i colori di Gauguin in “Lavandaie al Canal Roubine du Roi” del 1888, nella stessa posa delle contadine, confronto ravvicinato reso possibile dall’esposizione..

Quasi volesse tornare agli amati tetti di paglia simbolo della campagna immutabile dipinge “Fattoria” e “Fattorie verso Auvers”, tutto è tetto, onnicomprensivo, forse anche oppressivo. Mentre non fa storia “I bevitori- Le quattro età dell’uomo”: pur nella potenza delle sue linee nervose e del colore ripete l’identico motivo dell’omonima xilografia di Honoré Daumier esposta anch’essa. Un estremo momento di svago si vede in “Sponda dell’Oise ad Auvers”, la borghesia parigina che si diverte presentata con impasti violenti di colori allineati come lo sono le barche lunghe e strette, un’oasi naturalistica. Due letteredel febbraio 1990, a Joseph Ginoux e ad Albert Aurier, questa fitta fitta e lunghissima, esposte insieme alle due ad Arnold Koenig del maggio 1888 e del gennaio 1889, indicano come fino all’ultimo amasse trasmettere i suoi pensieri.

Non sono in mostra la “Chiesa di Auvers” che precede di un mese la morte e “Campo di grano con corvi” che la precede di venti giorni ed è l’ultimo pervenuto. Il blu che spesso accoppiava al giallo per la forza vibrante del contrasto, qui sembra sopraffarlo quasi comprimendo il colore del grano anch’esso appesantito e meno brillante. C’è il largo sentiero al centro che offre una via di fuga dall’oppressione, il grano si apre come le bibliche acque del Mar Rosso; ma il volo radente dei corvi che si addensa proprio lì come per contrastare la fuga, appare il segno di un infausto presagio.

Si è compiuta la “discesa infinita” nella vita e l’“ascesa infinita” nell’arte; come la “missione impossibile” di Alessandro Nicosia nell’organizzare la mostra e quella anch’essa ardua di Giordano Bruno Guerri nel ricostruire la vita del sommo artista in modo così suggestivo.

Concludiamo anche il nostro viaggio nei gironi della mostra e non solo, con un Virgilio come Giordano Bruno Guerri, che ci ha restituito il vero Vincent mediante la parola e lo scritto, il cinema e il teatro. Riportiamo due citazioni tratte da “Follia? Vita di Vincent van Gogh”, la nostra guida.

La prima è la descrizione che l’artista dà del suo “Il falciatore”, nel quale vede “l’immagine della morte, nel senso che l’umanità sarebbe il grano che si falcia”. Quel grano dell’ultimo suo dipinto con la premonizione dei corvi. “Ma in questa morte nulla di triste, tutto succede in piena luce, con un sole che inonda tutto in una luce d’oro fino”. In un’altra riflessione sempre Vincent va ancora oltre: “Sono talmente convinto che la storia delle persone è come la storia del grano: se non ci seminiamo in terra per germinare che cosa importa? Ci macinano per diventare pane”.

Due inni alla speranza, nonostante il lugubre volo di corvi finale. “Spes contra spem”,un messaggio positivo che ci viene dal sommo artista.

E’ un ulteriore merito della mostra che – per usare le parole di Sandro Bondi – ha permesso di “vedere, come in uno specchio, la straordinaria sensibilità di Vincent Van Gogh, la dolcezza tenerissima della sua anima fragile”.

“Campo di grano con volo di corvi“, 1890.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via dei Fori Imperiali. Ingresso  lunedì-giovedì ore 9,30-19, 30, venerdì-sabato 9,30-23,30, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Interi euro 12, ridotti euro 9,50  per le categorie agevolate. Catalogo: “Vincent Van Gogh”, a cura di Cornelia Homburg, pp. 280, ottobre 2010, formato 28 x 30. Info tel. 06.6782664. Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito ieri 17 febbraio 2011.  

Photo

Le immagini, tutte di opere di Van Gogh, inserite in ordine cronologico, sono tratte dal Catalogo per quelle esposte in mostra, si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti, e “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta; sono state aggiunte altre immagini di opere non in mostra particolarmente significative commentate nel testo, dall’apertura con la “Camera di Vincent ad Arles”, alle conclusive del 1890, “Ritratto del dottor Gauchet” e la visione tragica del “Campo di grano con volo di corvi”, precedute dalle due “Notti stellate”. Nel primo articolo le ultime 7 immagini sono di opere dal 1886 al 1888 commentate in questo articolo. In apertura, “La camera di Vincent ad Arles” 1888-89; seguono, “Autoritratto” 1887, e “Il Seminatore” 1888; poi, “Ritratto di Madame Roulin con la figlioletta” 1888, e “Albicocchi in fiore” 1888; quindi, “Giardino pubblico con prato appena falciato e salice piangente” 1888, e “Vialetto nel giardino pubblico” 1888; inoltre, “La casa gialla” 1888, e “Veduta di Arles con iris in primo piano” 1888; ancora, “Notte stellata sul Rodano” 1888, e”Notte stellata” 1889; continua, “Ritratto del dottor Gauchet” 1890, e “I bevitori.- Le quattro età dell’uomo” 1890; infine, “Campo di grano con volo di corvi” 1890 e, in chiusura, “Autoritratto” 1887.

“Autoritratto”, 1887