“Realismi socialisti” al Palazzo Esposizioni,3. 1945-70

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 31 dicembre 2011, postato in mostre

Si conclude la visita alla mostra sui “Realismi socialisti” con le ultime 3 delle 7 gallerie dove sono esposti i monumentali dipinti della “grande pittura sovietica 1920-1970”, al Palazzo Esposizioni dall’11 ottobre 2011 all’8 gennaio 2012.Dopo la fase iniziale degli anni ’20 di condizionamento dell’arte per la propaganda di regime, si afferma il “Realismo socialista” che sebbene limiti gravemente la libertà di espressione mantiene alcuni requisiti per la creazione artistica, primo tra essi una condivisione dell’immagine positiva dell’uomo data dal “radioso avvenire” socialista. Descritto il periodo 1920-45 con la guerra, passiamo al venticinquennio seguente fino al 1970.

“L’intento è di sottrarre le opere del Realismo socialista alle interpretazioni svolte in chiave propagandistico-politica – ha detto nel presentare la mostra il presidente dell’Azienda speciale Expo Emmanuele F. M. Emanuele– e restituire questo peculiare, e tuttavia imponente movimento artistico del XX secolo al giudizio del pubblico nella sua dimensione propriamente storico-artistica”. In questa prospettiva che vede abbinate le due dimensioni, la storia e l’arte, abbiamo visto scorrere la tormentata vicenda artistica, e insieme anche politica, attraverso dipinti quanto mai espressivi accompagnati da una ricostruzione storica molto accurata. Una sorta di storia illustrata, dove le illustrazioni sono i dipinti di diversi metri di lunghezza e di altezza: vere pale d’altare – ci sentiamo di chiamarli – della fede comunista che restano impresse per la loro forza evocativa.

1945-54, il dopoguerra fino all’avvento di Kruscev

La storia va avanti, superato il terribile trauma della guerra torna l’oppressione del regime e con essa si stringono di nuovo i vincoli sugli artisti. Addirittura l’intero sistema artistico è posto sotto il controllo del Consiglio dei ministri al servizio del partito e nell’estate del 1946 tre decreti di Zdanov, capo del Dipartimento arti visive, indicarono gli errori da condannare: pessimismo e decadenza, corruzione nel gusto e nella morale, carenza di ideologia e influssi occidentali, fino all’unico elemento propriamente artistico come la mancanza di originalità.

Ma non finisce qui, la normalizzazione riguarda un aspetto interno alla mistica di regime: la “teoria del riflesso” doveva applicarsi a una realtà dove non c’era la lotta di classe, quindi veniva integrata con la “teoria della non conflittualità”; la realtà veniva così ad essere edulcorata in modo da rappresentare la società sovietica senza conflitti, quindi come il migliore dei mondi possibili.

Torna imperiosa la fede nel “radioso avvenire” che si esprime attraverso immagini del lavoro intrise di una gioia di vivere contagiosa; in tal modo si mettono in pratica i precetti sul “coinvolgimento emotivo diretto” ai quali si erano informate le prime direttive del regime. Ma l’arte resiste, vi sono immagini in controtendenza, il lavoro visto senza retorica e scene di misera vita quotidiana.

Un nuovo tema si sviluppa, collegato al culto della personalità, l’esaltazione del leader assoluto da parte di masse estasiate fuori da ogni conflitto sociale; mentre sul piano stilistico l’ideale pittorico diventa l’accuratezza della finitura di tipo neoaccademico.

Come riflesso dei problemi insorti nella salute di Stalin si attenuano già dal 1950 i controlli sull’espressione artistica; dopo la sua morte nel marzo 1953, con la presa del potere di Kruscev a metà del 1954 cessa la violenza politica e gli artisti sentono allentarsi i vincoli, se ne vedono i segni in dipinti nei quali i problemi personali della gente cominciano ad emergere oltre la retorica.

Riprendiamo la visione del vero e proprio film che scorre attraverso i dipinti, dalla guerra passiamo alla pace. Torna il lavoro nei campi, lo vediamo in “Mietitura”, di Plastov, il primo dipinto della quinta sezione, è il 1945: non c’è però enfasi, le figure che si riposano a lato dei covoni sono affaticate. Ma “Vanno a votare”, dello stesso autore, siamo nel 1947, mostra un’entusiastica partecipazione, il gruppo si affolla sulla slitta con la bandiera rossa, però con una sorpresa, le figure e soprattutto i visi sono solo abbozzati, ci si prende qualche libertà stilistica. Con “Pane”, di Jablonskaja, del 1949, il seguito virtuale di “Mietitura”, si raccoglie il grano dal terreno nei sacchi, l’operosità in un clima di partecipazione corale senza troppa enfasi.

Mentre l’autocelebrazione è evidente in “Una figlia della Kirgizia sovietica”, diCuikov, del 1948, una sorta di icona della ragazza russa che incede nella campagna con il libro nella sinistra. Molta enfasi anche nel successivo “Sui campi di pace”, di Myl’nikov, le figure di contadine si stagliano riprese dal basso sulla campagna fiorita, attrezzi in spalla, sotto un cielo nel quale le nubi si diradano: è il 1950, l’ideologia del “radioso avvenire” torna ad imporre le sue regole.

L’arte la ritroviamo al centro dell’attenzione, lo vediamo in “Disputa sull’arte”, di Jakovlev, del 1946, un nudo bianco di luce spicca in una sorta di atelier scuro e affastellato; del resto l’arte era stata oggetto di precisi interventi subito dopo la rivoluzione d’ottobre, non c’è da stupirsi. Torna la pittura celebrativa del partito, dopo quella della guerra, con “Notabili moscoviti al Cremlino”,diEfanov, un vasto salone con imponenti lampadari affollato di dignitari espressione del potere.

Abbiamo detto che riemergono anche i problemi personali, lo vediamo in “Ancora un brutto voto”, diResetnikov, immagine patetica del bimbo festeggiato dal cane che non capisce il piccolo dramma evidente nei volti delle donne e del bambino; e in “E’ tornato”, diGrigor’ev, un’immagine molto scura che esprime l’ombra cupa sulla famiglia del padre alcolizzato. Impensabili in passato, sono del 1952 e 1954, l’anno prima della morte di Stalin si erano già allentati i vincoli, come abbiamo detto, poi cesseranno in larga misura soprattutto con Kruscev.

1954-64, la destalinizzazione e il disgelo di Kruscev

La destalinizzazione con la denuncia dei crimini di Stalin al XX Congresso del partito comportò la fine del culto della personalità e delle repressioni con una maggiore libertà di espressione; per gli artisti ciò consentì di abbandonare il realismo edulcorato e non conflittuale per riprendere la vita nella sua realtà effettiva, con i valori semplici dell’esistenza, senza gli imperativi ideologici conseguenti la collettivizzazione; ciò si traduceva anche in una certa libertà sul piano stilistico.

Anche la rappresentazione della persona cambia: dall’eroe o anche dall’operaio, visto come archetipo dei destini della nazione, e quindi irraggiungibile, a una figura cordiale e accessibile, che rivela interessi semplici e molto umani come il godimento della natura e del tempo libero.

Nasce lo “Stile severo”, imperniato sulla sintesi che non era possibile con lo stile figurativo del più rigoroso “Realismo socialista”, giunto agli estremi del “precisionismo neoaccademico”. Esso si esprime dando rilievo a contorni e sagome e semplificando forme e sfondi fino a farli sfumare, secondo influssi dall’estero, viene citato anche Guttuso; lo adotta lo stesso Deineka. La svolta non è solo nella forma quanto nei contenuti: si può esprimere la sofferenza anche se velata, la serietà si sostituisce alla gioia ostentata nel lavoro collettivo, emergono i sentimenti interiori.

Le forze della conservazione cercarono di contrastare queste innovazioni, e riuscirono a introdurre misure di contrasto allo “Stile severo” dopo l’incidente alla mostra di Mosca del 1962, in cui furono riabilitati artisti “deviazionisti” del 1940. Era stata dedicata una sala al nuovo stile. ma dinanzi ai dipinti che vi erano esposti Kruscev in visita manifestò evidente insofferenza e sdegno, soprattutto per un quadro nel quale i tratti erano ben lontani dal figurativo incarnando la riconquistata libertà stilistica. Reazione subito cavalcata dalle misure restrittive di cui si è detto.

Ecco in questa sesta sezione il quadro “incriminato”, è l’ultimo nella parete a destra, “Geologi”, diNikonov, siamo al 1962, sembra una composizione religiosa, quasi giottesca, nella quale vediamo un esemplare molto significativo dello “Stile severo” che marca i contorni, con figure stilizzate su un terreno di colore neutro uniforme, senza vegetazione. Si stenta a credere che abbia prodotto una simile reazione, però la carica innovativa rispetto al “Realismo socialista” appare notevole.

Soddisfatta subito questa curiosità, torniamo alla seconda metà degli anni ’50, cui appartengono intanto immagini rasserenanti ma non enfatiche, anzi di una profonda intimità. Sono “Una giornata calda”, diLevitin, e “Una giornata fresca”, diGavrilov:la prima in un interno mostra l’immagine disinvolta della ragazza seduta sopra il davanzale della finestra aperta sull’abitato; la seconda “en plein air” con la giovane in costume popolare dinanzi al grande specchio d’acqua. Stessa atmosfera in “Dopo il turno di lavoro”, diSalachov, i lavoratori in una fila confusa si affrettano, dai volti si vede che pensano ai loro problemi personali, l’acqua è di sfondo anche qui.

Entriamo negli anni ’60, “Famiglia”, di Ivanov, è quasi una icona dei temi personali, che traspaiono nelle figure riunite pensierose intorno al desco in un interno domestico intimo e raccolto. Temi evidenti anche in “I Costruttori di Bratsk, diPopkov, nulla di celebrativo, le cinque figure su più piani sono assorte nei propri pensieri. Lo vediamo perfino nel trittico “Comunisti”, di Korzev, dove il “privato” riemerge sia in “Atelier operaio” con la statua di Marx a lato dell’uomo seduto pensieroso, sia in “Rialzando la bandiera” e “Internazionale”, nelle fatiche e sforzi individuali.

Restano due dipinti molto diversi, “Sul Caspio”, di Salachov, un paesaggio nel quale si ammira la forza dell’arte ormai del tutto libera da vincoli; è il 1966, siamo nella fase del disgelo. Mentre, con un passo indietro, del 1959 è “Minatore”, diTrufanov, che segna la fine di ogni rappresentazione edulcorata, il lavoratore accasciato nero di carbone mostra tutta la sua fatica. Lo abbiamo lasciato per ultimo perché ci introduce alla sezione successiva, dove queste immagini si moltiplicheranno.

1964-70, l’era di Breznev, la fine del Realismo socialista

Non fu un incidente di percorso, ma un trauma politico quello dell’ottobre 1964 con l’improvvisa deposizione di Kruscev e l’avvento di Breznev che pose fine alla destalinizzazione e tornò ad accarezzare l’utopia comunista del “radioso avvenire”, però rimandandone la realizzazione a un futuro quanto mai lontano e indefinito. Fu un periodo di stagnazione, secondo la definizione di Gorbaciov, e l’arte entrò in una crisi profonda.

Vi furono artisti che si diedero in privato a forme d’arte clandestina lasciando quella ortodossa ufficiale, altri coltivarono l’una e l’altra, altri ancora nell’ufficialità cercarono di allargare i confini del “Realismo socialista”. Dopo l’incidente alla mostra di Mosca i conservatori ne approfittarono per una nuova stretta, ma non riuscirono a imporre di nuovo i vincoli oppressivi del passato.

In questo smarrimento c’è la sorpresa del ritorno negli anni ’60 del tema della guerra patriottica, declinato però non più in termini eroici, ma in quelli radicati nella coscienza popolare e negli artisti: come tragedia personale e di popolo, consumata nel dolore e nelle privazioni, e nella sopportazione dinanzi a tutto questo, non espressa fino ad allora per la retorica della resistenza e della vittoria.

Nella settima sezione lo vediamo in “Madri, sorelle”, di Moissenko, dove c’è la sofferenza di chi è rimasto a casa ma vive l’angoscia delle persone care al fronte, anche qui ricordiamo le immagini dipinte dai “Pittori del Risorgimento” della mostra tenuta alle “Scuderie del Quirinale” per celebrare il 150° dell’Unità d’Italia. Questo dipinto non è un tardivo ricordo isolato di situazioni dimenticate, di Korzev è esposta la serie dal titolo “Bruciati dal fuoco della guerra”, sarebbe un trittico se non fossero dipinti giganti. Ecco dei titoli espressivi come le scene dolenti raffigurate: “Madre” e “Addio”, “Segni di guerra” e “Vecchie ferite”, evidentemente non ancora rimarginate nonostante siano trascorsi venti anni dalla fine del conflitto. Ma soltanto adesso si possono esprimere sentimenti repressi per non fare ombra alla retorica trionfalista che fu l’imperativo di molti anni. E Korzev lo fa con primi piani di visi fortemente segnati dalla sofferenza.

Non c’è soltanto la sofferenza per il ricordo della tragedia che sovrasta la grande vittoria. Abbiamo anche lo sconcerto dinanzi ai mutamenti nella società e nella vita dei russi: il velo di malinconia dei ragazzi che si voltano indietro mentre lasciano le campagne per la città in “I treni portano via i ragazzi”, diKabacek; l’immagine spettrale e desolata in “Il lavoro è finito” di Popkov, del quale è esposto anche il pittoresco e altrettanto allucinato “Canzone del Nord”. Spicca per il cromatismo luminoso e la pulizia delle immagini “Ginnasti dell’Urss”, di Zilinskij, un sereno e fermo “mens sana in corpore sano” che a differenza del passato appare privo di ostentazioni propagandistiche.

Protagonista è l’umanità del grande popolo russo, al di là di ogni esaltazione, che faceva parte dell’arte prima della rivoluzione; e diventano centrali i motivi anch’essi pre-rivoluzionari della vita quotidiana nonché quelli connessi all’inarrestabile esodo di popolazione dalle campagne. Il tutto espresso in immagini statiche e individuali rispetto a quelle dinamiche e collettive; invece della ripresa dal vero la composizione in studio, invece dei volti espressivi maschere stereotipate.

Finché negli anni ’70 “la pittura non è più riflesso del mondo esterno, ma un sogno ad occhi aperti, l’immagine misteriosa della propria interiorità”. Il “Realismo socialista” è proprio finito.

Una riflessione finale

Con queste immagini termina la nostra visita, e da cronisti registriamo una forte impressione, non solo visiva. Abbiamo ripercorso cinquant’anni di una storia politica e sociale che ha inciso sulla nostra storia: il dramma della guerra e le ansie e i timori nel dopoguerra quando calò la “cortina di ferro”, la guerra fredda e il mito di Stalin, Kruscev e la destalinizzazione, poi Breznev fino al disgelo e l’approdo a Gorbaciov; vicende riflesse nei grandi dipinti del “Realismo socialista”, specchio di un costume e di una società, di un’epoca e di una politica. Ne abbiamo rivissuto le fasi e scoperto sfaccettature e crepe nella struttura monolitica, attraverso l’evoluzione nelle forme e nei contenuti espressi con potenza e vigore, comunque il critico ne voglia giudicare la qualità artistica.

Le sezioni cronologiche delle 7 gallerie del Palazzo Esposizioni sono altrettante ribalte di una vera e propria rappresentazione teatrale: in scena è la storia di un intero popolo, la vita della nazione nella “grande pittura sovietica 1920-1970”. Gli autori di questa storia spiccano anch’essi, anche se le vicende storiche hanno il sopravvento: oltre a Deineka ci sono nomi che meritano di essere ricordati, per tutti Brodskij e Rublev, Jacovlev e Plastov, Popkov ed Efanov, fino al sofferto Korzev. Esprimono un estro creativo e una qualità compositiva che sono segni inconfondibili dei veri artisti.

L’immagine che rimane impressa è di forza, di una straordinaria forza popolare. E’ questo il potere che emerge, piuttosto che quello politico; come nella mostra “Il Potere e la Grazia”, vista nell’ottobre 2009 a Palazzo Venezia, era quello religioso. Anche in quella mostra le sezioni scandivano i momenti cruciali nella storia della Chiesa attraverso i protagonisti: predicatori e martiri, eremiti e vescovi, cavalieri e regnanti, fino ai santi protettori d’Europa.

Se è apparso trasgressivo il parallelo fatto all’inizio tra le grandi committenze dei mecenati dell’arte rinascimentale, come la nobiltà e soprattutto la Chiesa, e quelle dello Stato sovietico per le grandi “pale d’altare” del regime sembrerà tale anche il parallelo tra le due mostre: “Il Potere e il Popolo” si potrebbe intitolare quella odierna, per analogia con il titolo appena citato “Il Potere e la Grazia”.

Nell’uno e nell’altro caso il vero potere non è quello enunciato in forma esplicita, ma quello che emerge alla fine vittorioso: del resto ce lo ha insegnato la storia antica,“Graecia capta ferum victorem cepit!”, e la forza vincente è alla fine quella disarmata espressa dalla cultura e dall’arte.

Ph: le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa del Palazzo Esposizioni, che si ringrazia, con l’organizzazione della mostra e i titolari dei diritti, in particolare i musei di Mosca e San Pietroburgo prestatori delle opere riprodotte.

“Realismi socialisti” al Palazzo Esposizioni, 2. 1928-45

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 28 dicembre 2011, postato in mostre

Continua la visita alla mostra “Realismi socialisti”, aperta dall’11 ottobre 2011 all’8 gennaio 2012 al Palazzo delle Esposizioni, che ripercorre la “grande pittura sovietica 1920-1970” attraverso 7 gallerie di quadri di dimensioni giganti in cui si esprime un realismo dalla notevole forza evocativa che si opponeva al modernismo, al servizio di un regime che attribuiva all’arte un valore sociale per la diffusione dell’ideologia. Nel proclamare la superiorità del contenuto sulla forma venivano imposti i temi propagandistici della mistica di regime sul “radioso avvenire” del popolo, espressi in figure statuarie e nei giovani, nella tecnica e nel progresso, nel sole luminoso e nel volo.

Volendo riassumere in poche parole la “puntata” precedente, possiamo dire che nel primo periodo vi fu tolleranza, gli artisti godevano ancora di una relativa libertà, e cercavano di portare i nuovi contenuti ideologici nella forma d’arte prediletta, anche d’avanguardia, senza abbandonarla, fino a manifestazioni di astrattismo; poi il regime restrinse gli spazi del pluralismo e dell’individualismo nel nome di un’arte “proletaria” di massa che nel 1930 si tradusse nel “Realismo socialista”.

La nostra visita prosegue nelle altre gallerie del Palazzo delle Esposizioni – che fanno corona alla rotonda centrale – dove si trovano gli eccezionali dipinti, mai esposti prima per difficoltà logistiche e insufficienza di spazi espositivi di dimensioni adeguate: ricordiamo, per dare una visione dell’insieme, che ve ne sono per lo più 9 in ogni galleria – ciascuna è una sezione della mostra dedicata a un periodo storico – il più grande posto frontalmente e 8 collocati nelle pareti laterali.

1928-36, Stalin e l’avvento del “Realismo socialista”

 La tolleranza degli anni ’20 termina nel 1928-29 con l’avvento di Stalin che costringe all’esilio Trotskij e sconfigge Bucharin; il “Primo piano Quinquennale” con il suo carattere imperativo sostituisce la più aperta “Nuova Politica Economica”. Si procede alla collettivizzazione forzata nelle campagne portata avanti con violente repressioni. Il clima ideologico si inasprisce, e alla mobilitazione del regime non potevano sottrarsi gli artisti che erano impegnati in opere collettive e pitture murali e venivano spinti verso un’arte proletaria di massa contro ogni visione individualista.

Nel 1932, il pluralismo nell’arte si restringe e nascono associazioni di artisti “proletari”, come “Oktiabr”, che si oppone alla “pittura del cavalletto” di cui faceva parte Deineka che nonostante questo vi aderì. La mistica del proletariato fa esaltare artisti dilettanti, come Rublev, e il loro stile primitivo. Si pone fine alle tante associazioni per un unico sindacato collettivo degli artisti.

Verso la fine dell’anno, viene reso ufficiale il nuovo verbo del “Realismo socialista” basato su “fedeltà al partito” e “contenuto ideologico”, nel senso dell’“identità popolare”: concetto che supera i canoni marxisti e va al di là della stessa definizione di arte proletaria consentendo agli artisti il recupero della tradizione e quindi dell’arte che l’aveva espressa, contro il modernismo.

Non si tratta, però, di un ritorno al passato, anzi l’ideologia cui dovevano ispirarsi era legata al “radioso avvenire” espresso in forma realistica attraverso il corpo prestante e la gioventù, la tecnologia e il progresso, il sole splendente e il volo. Intanto Stalin si consolidava, non era ancora diventato il despota irraggiungibile, il “piccolo padre” elevato quasi a divinità.

Lo si vede nel quadro esposto in questa seconda sezione, “Ritratto di Stalin”, di Rublev, che lo raffiguramentre legge il giornale seduto su una grande poltrona dall’alto schienale, nulla di marziale, sembra di vimini e la posa è assolutamente casalinga e confidenziale: la figura bianca è reclinata all’indietro, tutto intorno il rosso, l’unico elemento evocativo del suo “status”; un’immagine così domestica e accattivante sarà inconcepibile in seguito. Di questo autore altri due dipinti particolari: “Dimostrazione”, un campo lungo diviso in più livelli, la folla scura con due striscioni rossi, sopra la cintura di edifici che sfuma nel rosso, più in alto il cielo; e “Lettera da Kiev”: un tondo da natura morta, lettera, forbici e altro nel vassoio.

Nette e precise le figure, scuri i colori nei due quadri contrapposti di Adlivankin:”Uno dei nostri eroi (lavoratore d’assalto)”, la figura centrale fiera e possente, circondata da gente del popolo altrettanto dignitosa, gli viene annodato il fazzoletto rosso al collo come una decorazione, tra visi sorridenti e ammirati; vicino c’è “Uno dei loro eroi”, la decorazione è la medaglia appuntata al petto di un soldato irrigidito nella divisa davanti al plotone sull’attenti, alcuni civili in tuba e una donna in pelliccia, l’opposto della gente del popolo, atmosfera glaciale da cerimonia burocratica.

Nulla di marziale né realismo in un quadro da sperimentazione: “Komsomol militarizzati” di Samochvalov, che sfuma sul verde chiaro ed è fatto soprattutto di figure quasi evanescenti, erette o a terra, che danno più l’immagine della sorpresa che della militarizzazione marziale.

Resistono ancora le rappresentazioni moderniste, come “Dirigibile e orfanotrofio” diLabas, un’immagine sfumata dell’aeronave in alto e figure indistinguibili in basso, poco più che macchie di colore; e “Uomo e nuvola”, di Nikritin, altre macchie indefinibili di colore mescolate al bianco della nuvola su sfondo scuro.

In “Sportivi”, di Malevic, vediamo quattro figure quasi metafisiche dalle teste ad uovo con abiti dai forti colori divise per metà che segnano il tentativo di conciliare l’astrazione con il realismo; mentre è un approdo al realismo “Costruzione di una fabbrica”, di Vil’jams;che unisce al figurativo degli operai in primo piano la sintesi simbolica della costruzione in secondo piano.

Ed ecco Deineka presente nella sezione con tre dipinti, il primo è “Paracadutista sul mare”, un’immagine da aerofuturismo in cui l’impianto figurativo è collocato in un’atmosfera aerea rarefatta dal bianco e celeste tenue, un’immagine sfumata e quasi impalpabile. Gli altri due dipinti mostrano invece scene di vita dinamica: in “Corsa”, i corpi degli atleti appaiono quasi sospesi sullo sfondo scuro, sono figurativi in una composizione su più livelli non del tutto realista; in “Pausa pranzo nel Donbass” il realismo è compiutamente realizzato, escono dall’acqua corpi nudi in una corsa gioiosa, c’è anche un pallone, è la mistica del vigore fisico, il “mens sana in corpore sano”.

Un grande pallone come fosse una piccola mongolfiera è l’elemento centrale di “Pushball”, di Kuznetsov, lo spingono in alto una diecina di giovani ragazzi ben definiti nelle figure, ma dai volti solo abbozzati, pantaloncini bianchi, camicie rosse e nere, un’immagine festosa dai colori accesi.

E così abbiamo percorso la prima parte del lungo itinerariodi mezzo secolo che la mostra ha il merito di evidenziare nei suoi aspetti artistici e storici, ideologici e umani. Proseguiamo entrando in un periodo cruciale, dal 1936 al 1945, nel quale irrompe la tragedia della 2^ guerra mondiale.

1936-41, dal potere staliniano alla vigilia della guerra

 Con la terza sezione della mostra continua la storia della società sovietica nell’arte e prima nella politica che la influenza profondamente. Nel 1936 viene dato un colpo decisivo al residuo pluralismo artistico e al modernismo con la campagna contro il “formalismo” che costrinse molti a lasciare addirittura la pittura e colpì anche il grande Deineka. Il potere di Stalin non ha limiti.

Si scatena il terrore con la caccia ai “nemici del popolo”, la mistica del proletariato lascia il posto alla ricerca dell’ “identità popolare” anche in senso tradizionale; ne deriva la completa rivalutazione dell’arte del passato come specchio di questa identità e come “utile al popolo”. Il “Realismo socialista” viene collegato addirittura a un movimento pittorico dell’ ‘800, quello degli Ambulanti; ma lo si incardina sulla “teoria del riflesso” secondo cui “doveva sì rappresentare un’immagine speculare della realtà, ma integrandola di una componente idealistica in grado di trasformarla”.

Il legame tra esercito e popolo diventa un motivo centrale, ma non si esprime solo in dipinti celebrativi bensì anche in opere che nella vita militare esaltano il rapporto con la natura, come nella mostra del 1938 per il ventennale dell’Armata Rossa.

Nella rassegna dell’anno successivo sull’“Industria del socialismo” si afferma definitivamente l’espressione pittorica definita “kartina”, cioè il quadro tematico di grande formato – come quelli in mostra – e i contenuti sempre più rivolti ad esaltare l’uomo nuovo, prestante e proiettato nel futuro, le immagini del lavoro per il progresso e anche il nuovo tema dell’omaggio al leader.

Con l’avvicinarsi della fine del decennio cresce l’ostilità per le tendenze impressionistiche, perché minavano il criterio inderogabile della chiarezza del soggetto in pittura; lo stesso Stalin favorì lo stile opposto, il “precisionismo” neoaccademico. Ma dal 1939, con la guerra in Europa il tema dominante diviene la difesa della patria, che nel giugno ‘41 subì la devastante invasione nazista.

I dipinti esposti rendono il clima inasprito, sebbene non manchino all’arte gli anticorpi. Nella mostra celebrativa dei 20 anni dell’Armata rossa nel 1938, furono presentate tre opere in cui l’aspetto celebrativo era contemperato da quello popolare, peraltro fondamentale per l’ideologia. Appare evidente in “Il Commissario del popolo per la Difesa, maresciallo K. E. Voroshilov, sugli sci”, di Brodskij, raffigurato mentre scia da solo in un ambiente spoglio, nulla di marziale, richiama l’immagine “casalinga” di Stalin di Rublev. Nella stessa direzione va “Incontro degli artisti del teatro Stanislavskj con gli allievi dell’Accademia aeronautica ‘Zukov’”, di Efanov, c’è solennità celebrativa, ma applicata a giovani artisti riuniti nella grande sala con colonne insieme agli allievi militari. Addirittura “Il bagno dei cavalli”, di Plastov, pur riferendosi ad una sosta militare, è sul rapporto con la natura; sui cavalli si vedono giovani soldati nelle più diverse posizioni che si sono liberati delle divise e hanno i corpi nudi, l’autore era un giovane di una zona sperduta dell’impero.

Dopo un anno, nel 1938, la mostra “L’industria del socialismo” diffonde l’uomo sovietico impegnato nella costruzione del nuovo mondo: “In una vecchia fabbrica degli Urali”, di Ioganson, presenta due operai in primo piano, uno seduto e l’altro in piedi, prestanti e determinati, ma l’atmosfera oscura rivela le difficoltà; altro clima in “I cercatori d’oro scrivono al padre della Grande Costituzione”, di Jacoviev, c’è luce e i lavoratori si affollano intorno al tavolo di fortuna con la lettera in preparazione. Il padre della Grande Costituzione diviene protagonista nel dipinto esposto nella stessa mostra del 1938, “Guida, maestro e amico (Stalin presiede il II Congresso dei Contadini nel febbraio 1935”, di Segal: è eloquente che Stalin discuta con evidente disponibilità al tavolo della presidenza sotto la statua gigantesca di un Lenin corrucciato, forse per rimarcare il diverso atteggiamento; l’opera è del 1936-37, il “Ritratto di Stalin” di Rublev in versione casalinga era del 1935, il “culto della personalità”, qui evidente, diventerà il nuovo verbo imposto dal regime.

Vi concorrono le opere genericamente celebrative, come “Il capitano Judin, eroe dell’Unione Sovietica, in visita ai cantieri del Komsomol”, di Laktionov, allievo di Brodskij, nello stile del “precisionismo” che, con l’appoggio di Stalin, veniva contrapposto alle tendenze impressioniste.

1941-45, la guerra in difesa della patria

Dinanzi all’invasione tedesca della Russia scatenata dal nazismo, gli artisti e gli studenti delle scuole d’arte furono trasferiti nelle zone orientali, a Samarcanda nell’Asia centrale e a Taskent in Uzbekistan: molti furono mobilitati, anche in unità apposite, per preparare materiali di propaganda in modo suggestivo; ma tanti furono inviati al fronte, per lo più i meno famosi o i sospetti.

Per favorire la mobilitazione popolare si allentarono i vincoli e la repressione; si consentì la ripresa della vita religiosa e si alimentò il patriottismo nazionale. Tutto ciò portò in pittura al prevalere di questi motivi tradizionali rispetto a quelli legati all’ideologia che ne furono oscurati.

Un’idea di come gli artisti vissero quei terribili anni di guerra si ha pensando a quelli di loro che condivisero i 900 giorni dell’assedio di Leningrado, con i tremendi sacrifici per la fame e il freddo, e le incalcolabili perdite umane fino al successo dell’eroica resistenza. Da lì inizia la riscossa, il contrattacco incontenibile che nel maggio 1945 porta alla conquista di Berlino.

La tragica ed esaltante esperienza bellica diventa il nuovo tema del “Realismo socialista”, sul quale raccogliere l’unanime favore del popolo, al posto dei valori proletari e dell’identità popolare.

Si tratta di un tema sviluppato con immagini trionfali, dove si vedono i segni stilistici del barocco e del romanticismo; il linguaggio pittorico è enfatico come lo sono i toni celebrativi di una strenua resistenza seguita da una vittoria epocale dopo inenarrabili lutti.

Ma il riferimento all’identità non scompare, lo troviamo in opere che riflettono piuttosto la quotidianità nella vita sconvolta dalla tempesta della guerra; motivi che erano stati esclusi dall’impostazione ideologica tornano sullo sfondo della “grande guerra patriottica”.

I dipinti esposti nella quarta sezione si succedono come in un film epico a lieto fine dove non mancano momenti patetici. Si inizia con “I tedeschi stanno arrivando (Girasoli)”, di Plastov, la terribile notizia coglie i contadini nei campi in una bellissima immagine in cui girasoli e persone fanno un tutt’uno in una natura lussureggiante che viene sconvolta dalla tragedia incombente. “Stalingrado”, di Efanov, mostra gli effetti devastanti sulla popolazione, che si assiepa sulla neve dinanzi alle rovine del quartiere distrutto nella città martire.

La guerra è un dramma collettivo, ma anche individuale: viene rappresentato in “La madre del partigiano”, di Gerasimov, una energica figura di donna dietro la quale c’è la popolazione inerme, simbolo della dignità e dell’orgoglio con cui ci si oppone al nemico, un rude militare tedesco in divisa che gesticola minaccioso con la spada nella sinistra; e in “Lettera dal fronte”, di Laktionov – che ricorda dipinti della nostra storia patria visti nella mostra celebrativa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia “I pittori del Risorgimento” alle Scuderie del Quirinale – un altro modo di rappresentare la dignità delle donne, la leggono in una giornata serena che riflette tanta sofferenza.

La guerra è tutto questo ed è combattimento, ne rende l’asprezza “L’asso abbattuto”, di Deineka, è l’aviatore nemico rappresentato un momento prima di schiacciarsi al suolo sui cavalli di frisia d’acciaio mentre si protegge la testa in una posa quasi infantile vista con pietà e rispetto dall’artista. Un’altra immagine del nemico, di cui si sottolinea la solitudine senza infierire, è addirittura quella di Hitler, raffigurato in un interno oscuro da incubo in “La fine”, di Kupr’janov-Krylov-Sokolov.

E’ invece luminosae coralela rappresentazione della fine dell’incubo con “Il trionfo del popolo vittorioso”, di Chmel’ko: nella Piazza Rossa, sullo sfondo le cupole del Cremino, a sinistra il Mausoleo di Lenin con i gerarchi schierati, dinanzi a loro la resa nazista con le bandiere e le insegne degli sconfitti ai piedi dei generali vittoriosi. Si inneggia ai protagonisti della vittoria in “Ritratto del maresciallo Georgij Zukov”, di Jakovlev, sublimato su un cavallo bianco rampante che calpesta insegne naziste, un’allegoria contraria alle regole del “Realismo socialista”; rimanda a una figura mitica l’“Aleksandr Newsky”, di Korin, imponente nella corazza, lo sguardo fiero del combattente.

Siamo nel 1945, cessato il tremendo conflitto la vita artistica torna a rivivere. ma abbiamo due sorprese: le speranze di apertura nell’arte sono subito deluse, continua il “Realismo socialista”; inoltre la guerra non é certo dimenticata, i ricordi riemergono prepotenti come incubi. Ne parleremo presto nella visita alle ultime tre sezioni di una mostra così istruttiva ed esaltante.

Ph: le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa del Palazzo Esposizioni, che si ringrazia, con l’organizzazione della mostra e i titolari dei diritti, in particolare i musei di Mosca e San Pietroburgo prestatori delle opere riprodotte.

“Realismi socialisti” al Palazzo Esposizioni, 1. 1920-28

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 25 dicembre 2011, postato in mostre

La mostra “Realismi socialisti”, aperta dall’11 ottobre 2011 all8 gennaio 2012 al Palazzo delle Esposizioni, è la più grande rassegna fuori della Russia di un movimento artistico da non rinchiudere nella gabbia dell’ideologia, anche se ne è stato alimentato. Il sottotitolo “Grande pittura sovietica 1920-1970” esprime la mobilitazione per mezzo secolo dei talenti di migliaia di artisti, operata dallo Stato sul vasto territorio dell’impero sovietico esteso dall’Europa all’Asia.

Pur nell’imposizione del valore sociale dell’arte e della superiorità del contenuto sulla forma, il “Realismo socialista” è stata comunque la più grande espressione del realismo e l’unica vera alternativa al modernismo che faceva “tabula rasa” delle forme tradizionali dell’arte. Un movimento di assoluta novità che, sebbene fosse legato all’ideologia totalitaria, si è rivelato ben più complesso e articolato di quanto si possa pensare: di qui il plurale utilizzato nel titolo della mostra.

E’ il trionfo del realismo nella più vasta dimensione spaziale avutasi storicamente. La mostra ne rappresenta la più spettacolare celebrazione, il bel Catalogo Skirà a cura di Bown e Lafranconi ne rende il valore artistico anche se ben diversa è la visione dal vivo dei dipinti di enormi dimensioni.

L’interpretazione autentica dei curatori russi

Ne parlano alla presentazione i curatori, esponenti dei grandi musei russi che ne sono prestatori, dal museo statale di San Pietroburgo alla Galleria statale Tret’jakov che detiene il maggior numero di opere: Evgenija Petrova, Zelfira Tregulova e Matthew Bown, anche l’ideatore, e il quadro d’insieme che ne deriva è istruttivo su un movimento artistico inquieto e complesso. Viene innanzitutto sottolineata la diversità dalle altre mostre limitate agli anni ‘50, quindi fino a Stalin, e di solito organizzate in forma tematica; questa mostra arriva al 1970, quindi alla stagione di Breznev, allorché è venuto meno l’indirizzo forzoso e l’arte si è dispersa nelle più varie direzioni .

L’approccio è cronologico per esprimere lo sviluppo nelle diverse fasi del cinquantennio, attraverso dipinti di grandissime dimensioni, mai comparsi nelle mostre precedenti per i problemi logistici e la ristrettezza degli spazi disponibili, mentre il Palazzo Esposizioni ha offerto le sue ampie sale. E’ un aspetto importante non solo per il contenuto, ma per la qualità dell’arte dato che, anche a prescindere dai soggetti, è stato sottolineato come “non si può dipingere un quadro gigantesco senza essere maestri nel disegno, nell’uso del colore e nella composizione”. L’atmosfera che creano è indescrivibile, in ogni sala si è “avvolti” dalle immagini che fanno entrare nella storia..

Sono “grandi opere di grandi pittori”, e consentono di rivedere il giudizio negativo sul “Realismo socialista”, liquidato fino ai tempi recenti come frutto di imposizione e censura che mortifica ed esclude l’arte rendendola insincera in quanto oppressa dal potere. Il problema c’è ma è molto più complesso, e l’arte dell’epoca del socialismo reale oltre a farci considerare in modo nuovo quel periodo, pone molti interrogativi, anche se dalle risposte difficili, agli storici e ai critici.

Una delle domande verte sulla vita di un artista in quelle condizioni, con l’imposizione e la riduzione in miseria se non aderiva alla mistica di regime. La risposta viene dal constatare che la lunga coabitazione arte-regime rivela forti differenze nel tempo: all’inizio, negli anni ’20, ci sono stati i tentativi dei pittori di mantenere l’individualità cercando di portare avanti, pur nel nuovo corso, le idee dell’Avanguardia e tentando di mantenere all’arte l’autonomia e la soggettività; alla fine del decennio la svolta negativa dopo l’ultima mostra del 1927 sui 10 anni del potere sovietico, con le Avanguardie e i primi realisti socialisti, le cui opere venivano acquistate dal Ministero della cultura e distribuite nei musei russi, tendenza ripresa anche negli anni ‘50-‘80 con l’acquisto di opere nelle principali esposizioni. Questa mostra si poteva creare anche con la raccolta della Galleria Tret’jacov, ma si sono aggiunte opere di più musei per avere maggiore rappresentatività.

Tornando alla fine degli anni ‘20, si sentiva che l’Avanguardia era giunta al capolinea perché il regime ben consolidato intendeva porvi fine. Nel 1929 fallì il tentativo di una nuova mostra, e nel 1930 ci fu la misteriosa morte del poeta Majakoskij che aveva appoggiato l’Avanguardia; il grande pittore Malevic diceva che “seguire Majakoskij è scomodo ma come si fa a vivere altrimenti?” Lui stesso fu bloccato in patria e costretto a lasciare le opere in Germania; cambiano le sue premesse stilistiche, è costretto ad abbandonare l’astrattismo; torna all’arte figurativa, ma le nuove composizioni sono ben diverse dal figurativo assoluto di altri pittori del realismo, in quanto cerca di conciliare il quadro tematico con il suo stile caratteristico. Così crea opere non inferiori a quelle precedenti come qualità, forza e innovazione. Viene evocato anche Tatlin e la sua famosa “Torre della Terza Internazionale” ispirata al “Realismo socialista”, che è andata perduta come altre sue creazioni non conservate o distrutte, ma è considerata un archetipo.

I grandi quadri possono essere visti come un’eredità delle imponenti tele del Rinascimento, Barocco e Neo classicismo, ma la mostra ha un’importanza che supera il pur rilevante evento espositivo: fa parlare di artisti dimenticati anche in patria, fa aprire gli occhi su un’arte che cominciamo a vedere in modo diverso.

Ci si può immedesimare nei percorsi per sopravvivere artisticamente rinnegando l’Avanguardia non con un mimetismo deteriore ma come un abbandono cosciente, nel tentativo di dare vita a una nuova arte. All’inizio degli anni ’30 si può dire che l’arte tentò un compromesso con il potere, tanto che alcune opere già traducono il “Realismo socialista” pur se con una sofferta rinuncia degli artisti. E’ una problematica complessa in un momento storicamente difficile, che richiede un’analisi oggettiva non estrapolando casi particolari per dimostrare un’idea o il suo opposto.

La mostra fa vedere con più oggettività del passato e con occhi nuovi come l’arte si confrontasse con l’ideologia di regime restando autentica, e quale fosse il senso dell’arte legata alla vita reale. E’ un tentativo di analizzare in modo indipendente un’espressione artistica, che riflette cinque decenni fondamentali per l’Unione sovietica e per il mondo, finora considerata un caso anomalo al di fuori dell’arte e della cultura.

Ma l’arte ha mostrato di saper resistere persino nella fase ideologica più dura e pesante, e ha raggiunto elevati livelli anche cantando gli ideali del socialismo, con interpreti quali Deineka che ne ha condiviso i valori, e altri il cui approccio artistico è stato genuino, peraltro restando all’interno degli obiettivi del regime. Va analizzato un percorso tormentato che porta alla creazione di grandi opere propagandistiche da cui, comunque, traspaiono forti contenuti umani.

Nel rapporto tra “Avanguardia” e “Realismo socialista”, ha concluso Bown, c’è molto da scoprire: “Quella voleva distruggere la vecchia arte, questo invece conservava le forme precedenti legate alla rappresentazione della realtà. E’ stato un passaggio da una corrente all’altra, fenomeno ultramoderno come il postmodernismo che ha sostituito il modernismo: l’’Avanguardia’ russa va vista come prototipo del modernismo, il ‘Realismo socialista’ del post modernismo”.

Il suo oscuramento nel dopoguerra è dipeso dal fatto che con la guerra fredda era diventata “l’arte del nemico”, anzi la propaganda del nemico; mentre negli anni ’30 era apprezzato anche negli Stati Uniti; il “Realismo socialista” fu respinto nel momento in cui l’astrattismo diveniva simbolo di libertà. “Lo stesso Deineka lo si è trasformato in vittima del regime mentre è stato sempre nell’establishment, pur attraversando momenti difficili quando fu accusato di formalismo e accantonato; ma se si vuole includere tra i grandi pittori del secolo, e non ci sono dubbi, occorre ammettere che i suoi quadri sono portatori dell’ideologia ‘nemica’ ma si esprimono nell’arte”.

Il plurale del titolo, nell’evocarne il carattere non monolitico ma articolato, ne ricorda anche l’evoluzione nei cinquant’anni: da un’arte specchio dell’ideologia comunista, a un’arte riflesso di sentimenti nazionali come l’amore per la patria e i valori legati alla figura umana, soprattutto con l’emergere di forti personalità artistiche, tra cui spicca Deineka che credeva nei valori esaltati dalle sue opere. Il tutto fino al 1970 che segnò il disgelo, dalla politica alla vita, quindi all’arte.

La visione d’insieme delle 7 gallerie

Abbiamo voluto far precedere quanto sottolineato dalle parole dei curatori russi per non banalizzare una mostra di grande portata, e mettere in guardia dal rischio, prospettato da alcuni critici, di considerare “esagerate” e solo propagandistiche le opere. La presentazione dei curatori indica come siano profondi i contenuti della mostra, anche nel rapporto tra l’artista e la propria opera nel tempo in cui vive dominato dai condizionamenti di un potere che faceva dell’arte uno strumento politico.

Qui i condizionamenti sono stati assoluti, ma non va dimenticato che la grande arte dell’Occidente si è basata sulle committenze, in primis della Chiesa. E non si può dire che non vi fossero pressioni sull’artista, se abbiamo a mente come venissero rifiutate opere che uscivano dagli schemi proposti – non diciamo imposti – lo abbiamo visto in Caravaggio magari dopo la trasgressiva scelta come modella per la figura della Vergine di una donna a lui vicina nota per i facili costumi, se si vuole usare un eufemismo. Anche allora tele di grande dimensione, espressione del potere delle committenze che però non riusciva a spegnere la luce dell’arte, di qui i capolavori. Poi verranno i grandi artisti senza committenze, come Van Gogh, gli impressionisti e altri, ma è un’altra storia.

E’ una riflessione del tutto personale e forse di per sé trasgressiva, ispirata dalla visione d’insieme delle 7 gallerie poste in circolo intorno alla grande rotonda centrale del Palazzo Esposizioni. L’immensità dei quadri esposti, che è il colpo d’occhio immediato, ci ricorda le grandi pale d’altare: sono due religioni diverse, totalmente opposte, ma che si esprimono nell’arte, e come è avvenuto per le opere di ispirazione religiosa, anche quelle ispirate alle utopie del “radioso avvenire” nutrite dal mito socialista devono essere considerate opere d’arte il cui valore non può essere sottovalutato.

Va considerato che la mobilitazione dell’arte nella mistica di regime fu immediata, Commissario del popolo per l’istruzione fu un rivoluzionario, Lunacarskij, che lanciò un appello agli artisti, raccolto dagli esponenti dell’Avanguardia; poi tradusse nel verbo del “Realismo socialista” le sue idee sul coinvolgimento popolare con immagini figurative dai colori vivaci di corpi prestanti e visi sorridenti, impegnati nella vita e nel lavoro alla costruzione di un mondo migliore; a realizzare questo sogno utopico avrebbe contribuito l’arte così improntata, realista e insieme idealista. Lenin aveva una visione pragmatica di “arte comprensibile dalle masse”, e non riuscì a porla sotto il controllo del partito, mentre Lunacarskijscelse il pluralismo culturale. Ma questo fu solo l’inizio.

1920-28, la tolleranza della “Nuova Politica Economica”

Dopo questa introduzione, quanto mai necessaria data la rilevanza e la novità della materia, entriamo nella prima galleria dedicata agli anni ’20: ci sono 9 grandi dipinti, uno frontale, gli altri nelle due pareti laterali, è il “format” dell’esposizione, salvo rare aggiunte di opere più piccole.

Nel quadro frontale, “Il Bolscevico”, di Kustodiev, una grande figura fiabesca domina la città con le strade colme di folla e i tetti innevati, non è mera celebrazione ma mitizzazione quasi infantile, da befana politica con l’infinito bandierone rosso a marcarne l’identità; un’immagine simbolica e non didascalica. E’ invece palesemente celebrativo “La cerimonia di apertura del II congresso della Terza Internazionale”, di Brodskij, con la vasta platea stracolma, i bianchi colonnati che reggono la galleria, qualche bandiera rossa: spicca la folla di delegati, è un genere che avrà molti seguaci.

Poi le due grandi tele di Petrov-Vodkin, i primi piani di volti severi e dignitosi in “Operai”, le braccia conserte della figura a sinistra sono un simbolo di vigore nel lavoro; e il dramma di“Morte del Commissario”, una composizioneessenziale, due figure in primo piano in una posa quasi religiosa da “Pietà”, sullo sfondo figure ammassate dietro le quali si aprono ampi spazi.

La guerra è presente nell’austero “L’ordine di attacco”, di Suchmin: nulla di epico, figure scure in piedi sul bianco della neve che spicca in primo piano, c’è un’atmosfera di sospensione e forse di meditazione; e nel rigoroso “La difesa di Pietrogrado”, di Deineka, con le linee metalliche a segnare nella parte inferiore la marcia verso il fronte dei soldati con i fucili in spalla e in quella superiore il ritorno di figure stanche e ferite, in una visione quasi cinematografica su due piani sovrapposti. Gli strascichi del conflitto in “Invalidi di guerra”, di Pimenov,due sagome scure di soldati in primo piano con immagini di case distrutte a sinistra, dove più che dall’abbagliante fasciatura bianca la sofferenza è data dai volti allucinati.

Dal realismo figurativo di queste opere si distaccano due dipinti dove c’è ancora l’impronta molto diversa delle Avanguardie: sono “Formula del proletariato di Pietrogrado” di Filonov,una composizione quasi astratta dalle tinte tenui, si stenta a decifrarne il significato a meno che il suo aspetto nebuloso non si riferisca al tema cui si intitola; e “Donna- controllore” di Samochvalov, una figura imponente dal cromatismo tenue di cui è evidente la fermezza, con elementi simbolici che danno alla composizione un’atmosfera quasi onirica o spiritica, l’opposto del realismo.

Come si spiegano queste “eccezioni” nell’orientamento generale che abbiamo visto improntato al realismo figurativo? Inquadriamo le opere esposte nel loro contesto storico che segna l’inizio del cinquantennio ripercorso dalla mostra. Dopo la rivoluzione dell’ottobre 1917 e la guerra civile tra i rossi bolscevichi vincitori e le guardie bianche che resistevano, vi fu una guida collettiva con l’iniziale tolleranza della NEP, la“Nuova Politica Economica” che si estese anche all’arte nella quale, tuttavia, fu visto subito uno strumento del regime.

Il nuovo corso lasciava una certa libertà agli artisti, per cui coesistevano diverse forme espressive, ma il figurativo cominciò a imporsi in forma di realismo dieci anni prima del “Realismo socialista”. Gli “antifuturisti affidabili” furono sostenuti da Lenin, uno dei primi fu Brodskij che dal 1922 al 1924 lavorò sul quadro prima citato che diede l’avvio ad un vero e proprio genere celebrativo.

Nel 1922 gli artisti di scuola accademica costituirono l’“Associazione degli artisti rivoluzionari”, il cui manifesto, che esaltava il “realismo eroico”, promosse la rappresentazione della realtà come verità documentaria; fu il fulcro di un sistema di committenze sostenuto anche dall’Armata rossa dal quale il “Realismo socialista” riceverà l’impulso decisivo. Mentre gli artisti provenienti dalle scuole d’arte post-rivoluzionarie insistevano nell’esprimere la verità documentaria in forme moderne; fu costituita l’“Associazione dei pittori del cavalletto”, con Deineka e Pimenov, di cui abbiamo appena visto le opere, con l’intento di unire “contemporaneità rivoluzionaria e chiarezza di soggetto”, inteso come industria e lavoro, sport e vita collettiva.

Quindi pluralismo di stili nella forma; polarizzazione nei contenuti sui temi del progresso nelle varie forme e dell’uomo nuovo creato dalla rivoluzione, che divennero sempre più ineludibili. E’ un processo che seguiremo nelle fasi successive, finora del mezzo secolo abbiamo ripercorso attraverso i dipinti soltanto i primi otto anni dopo aver inquadrato il tutto. Completeremo presto il lungo itinerario nella visita alle altre 6 gallerie con quadri di dimensioni giganti che rendono in modo plastico documentandola e facendola rivivere, una fase storica per tanti versi sconvolgente.

Ph, Ph: le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa del Palazzo Esposizioni, che si ringrazia, con l’organizzazione della mostra e i titolari dei diritti, in particolare i musei di Mosca e San Pietroburgo prestatori delle opere riprodotte.

Pasolini, commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario

di Romano Maria Levante

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Valeva la pena di attendere un’ora e mezza davanti alla galleria “Monserrato Arte 900” al numero 14 di via Monserrato a Roma per visitare la mostra fotografica su Pier Paolo Pasolini di Monica Cillario, torinese che vive tra la capitale e Montecarlo, aperta dal 3 maggio 2011. Nell’attesa, stando a sedere sui gradini del laboratorio artigiano-artistico che si trova di fronte, abbiamo scritto sul “notebook” il resoconto della presentazione avvenuta nella mattina dei “Tesori” della provincia di Roma al Tempio di Adriano. Poi abbiamo lasciato i tesori artistici e ambientali dell’hinterland romano per passare a un altro tesoro, un altro ambiente: il tesoro è Pier Paolo Pasolini, l’ambiente la sua prima residenza romana nel quartiere di Monteverde Vecchio dove visse dal 1955 al 1959.

L’ambiente evoca una persona, un’intelligenza, un’arte che si è espressa non solo nella scrittura, in prosa e in poesia, ma anche nel cinema. Proprio per questo è stato appropriato ricordarlo con immagini di per sé espressive nelle quali si sente l’amore della fotografa che le ha riprese con delicatezza e semplicità, senza strafare in scorci arditi e magari forzati, ma riproducendo una normalità piccolo-borghese dove sono nate “Le ceneri di Gramsci”, la sua raccolta di poemetti.

Per uno come lui non si potevano non accompagnare le immagini con le parole, sobrie anch’esse. La mostra lo fa con uno scrittore, Fulvio Abbate, nato a Palermo, nel 2005 autore, tra molti scritti, del libro “C’era una volta Pier Palo Pasolini”. Ha il tocco lieve, senza enfasi, le didascalie sono essenziali, la forza delle immagini è nel loro icastico bianco e nero che scolpisce una normalità dietro cui c’è l’inquietudine di una personalità incompresa e controversa, spesso anche contestata.

Le immagini della normalità quotidiana

Una normalità che inizia al numero 86 di Via Fonteiana, una “strada per ceti medi”, poco prima della borgata di Donna Olimpia, dove ambientò il romanzo “Ragazzi di vita”. L’edificio – scrive Abbate – è “un parallelepipedo intonacato d’ocra, senza particolari segni di estro architettonico, eppure dall’ingresso spazioso, luminoso”. In un quaderno delle elementari i cognomi dei coinquilini, al quarto piano, “accanto al numero dell’interno 26, appaiono le generalità di ‘Pasolini Carlo Alberto’, il padre dello scrittore, ufficiale di fanteria a riposo, ‘il Colonnello Attaccabottoni’ lo chiamava lo scrittore Carlo Emilio Gadda, vicino di caseggiato”. L’abitazione: “Appena due stanze, cucina, bagno e un balcone stretto che s’affaccia su via Innocenzo X, le mattonelle celesti adorate dai piastrellisti degli anni Cinquanta, gli infissi degli stessi tempi, un’aria immanente di ‘smorzo’”, così a Roma chiamano il deposito di materiali edili. Abbate ha scovato proprio nelle “Ceneri di Gramsci” questa descrizione dell’abitazione dove il libro fu scritto: “Ed ecco la mia casa, nella luce marina/ di via Fonteiana in cuore alla mattina”.  

Nel 2005, nel trentesimo anniversario della morte – anno in cui Abbate ha pubblicato il libro su di lui – i proprietari posero una targa di marmo a ricordo degli anni 1955-59 in cui vi abitò Pasolini, con i suoi versi “Com’era nuovo nel sole/ Monteverde Vecchio!”, gli stessi della targa posta dal Comune di Roma in via Giacinto Carini, sempre a Monteverde, dove si trasferì successivamente.

Monica Cillario ha fotografato i dettagli, ciò che resta di un ambiente semplice ma poetico per ciò che evoca, ha cercato di restituire un “cosmo condominiale” che ancora adesso suggerisce l’emozione dell’infanzia di un grande testimone del nostro paese, dalla vita inquieta e febbrile.

Da via Fonteiana si sposta al Cimitero degli inglesi, c’è la fotografia della tomba dove trasse l’ispirazione per “Le ceneri di Gramsci”, il libro è ripreso sul marmo, ed è edificante vedere la simbiosi con il grande intellettuale imprigionato per le sue idee che con le “Lettere dal carcere” ha lasciato un monumento di umanità e insieme di fede negli ideali. Gli undici poemetti raccolti nel libro ispirato a Gramsci hanno titoli intriganti, da “Appennino” del 1951 all’ultimo “La terra di lavoro” del 1956; in mezzo troviamo, tra gli altri, “Comizio” e “L’umile Italia”, “Picasso” e “Shelley”. E anche il poemetto del 1954 che ha dato il titolo alla raccolta.

Di Gramsci apprezzava, oltre all’ideologia, l’acutezza del pensiero e la forza morale che gli fece affrontare con coraggio la lunga prigionia senza il minimo cedimento. E forse lo aveva colpito in modo particolare l’espressione “Odio gli indifferenti”, dell’11 febbraio 1917 (è tornata di attualità rievocata nella manifestazione del 31 maggio 2010 al romano Teatro Quirino), così congeniale alle corde di Pasolini, combattente di tante battaglie: “Chi vive veramente, non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. Gramsci conclude: “Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. Parole che sembrano un identikit dello stesso Pasolini, e ci fa comprendere appieno l’ispirazione da lui colta sulla sua tomba; pensiamo che per il paese spaccato in due sul suo nome, tra memoria e indifferenza, avrebbe ripetuto l’anatema di Gramsci:“Odio gli indifferenti”.

E’ questa l’unica fotografia “costruita” per materializzare quanto si respira nell’atmosfera creata dalle immagini. Torna subito la quotidianità a dominare. L’androne spazioso e dignitoso, la guardiola del portiere al quale si rivolgeva con perentorie scampanellate al ritorno dalle sue ”notti brave” avendo dimenticato le chiavi a casa, finché cedette all’implorazione del malcapitato che gli chiedeva: “Signor Pasolini, la pregherei di non suonare più in piena notte, così facendo mi sveglia il bambino, grazie”. E poi le cassette delle lettere, le maniglie, anche lo zerbino, fino all’immagine che ci sembra rappresenti il culmine nello scorcio visivo e nella didascalia, evocando l’infinito: un’inquadratura da vertigini della tromba delle scale. Sembra una scena di Alfred Hitchcock sui labirinti interiori dell’inconscio, magari suggerita da Salvador Dalì come in “Io ti salverò”, il film cult con Ingrid Bergman e Gregory Peck, riferimento questo che sarebbe piaciuto a un uomo di cinema come lui. Con negli occhi e nel cuore l’“infinito” nelle scale e nel resto lasciamo la galleria.

Il nostro ricordo di Pasolini

Ci guardiamo intorno dopo la missione faticosamente compiuta; il prolungato black out elettrico che ha ritardato l’apertura si è protratto per tutta la nostra visita, creando un’atmosfera ancora più misteriosa, le fotografie nella loro livida chiarezza spiccavano  nella semi oscurità. Siamo usciti con la mente affollata dai ricordi legati a lui, ripensiamo alla sua attività intellettuale inquieta e tumultuosa, tra polemiche e attacchi di ogni tipo, anche giudiziari, per la sua “diversità” intesa in tutti i sensi, forse per la forza del suo pensiero e del suo coraggio civile.

Fu definito da Alberto Moravia “una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile”. E pensare che non si sentiva appagato, fino a scrivere: “Ebbene ti confiderò, prima di lasciarti, che io vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo…nel paesaggio più bello del mondo… con tanta innocenza di querce, colli, acque e botti, e lì comporre musica, l’unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà”. Ed è bello sapere che è stato ricordato anche con la musica da musicisti italiani,  De Andrè e De Gregori, Roberto De Simone e Renato Zero; e stranieri.

E’ impressionante come la sua produzione letteraria spazi dalla poesia all’intero scibile letterario. Oltre a “Le ceneri di Gramsci” tra le tante raccolte poetiche citiamo “Il canto popolare” e “Poesia in forma di rosa”, “Poesia dimenticata” e “La meglio gioventù”, che sarà poi il titolo del noto film-evento di Marco Tullio Giordana; per il teatro “Affabulazione”, oltre alle traduzioni da Eschilo e Plauto, da testi greci e latini, anche francesi volti perfino in friulano. I suoi saggi si muovono tra la letteratura e la cultura, la politica e la società: non soltanto testi letterari come “Antologia di liriche pascoliane”, anche “Antologia di musica popolare, il canzoniere italiano,”; e non disdegnò collaborazioni giornalistiche che diventarono subito degli eventi, come gli “Scritti corsari” del 1973-75 sul “Corriere della Sera” premonitori dell’incattivirsi di quel volto della periferia romana da lui tanto amato in un identikit che doveva rivelarsi tristemente premonitore, la sua morte violenta venne subito dopo.

Ripensiamo alla narrativa, con “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, “Il sogno di una cosa” e “Teorema”, fino al postumo “Petrolio”; e alla cinematografia, sua grande passione – aveva iniziato come comparsa a Cinecitta – con “La notte brava” e “Accattone”, “Mamma Roma” e “Il Vangelo secondo Matteo”, in cui affronta un tabù e lo supera con una struggente rivisitazione, “Uccellacci e uccellini”, lettura impietosa della crisi di un partito e di una politica anch’essa da lui amata ma che non riconosceva, ed “Edipo Re”, fino a “Porcile”. Creò un filone in costume, in mano ad altri presto scaduto in farsa erotica, con “Il Decameron” e “I racconti di Canterbury”, “Il fiore della Mille e una notet” e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Anche la sua posizione ideologica aveva radici fortemente umane: “L’altro è sempre infinitamente meno importante dell’io, ma sono gli altri che fanno la storia”, ha scritto, e anche per questo non si rinchiudeva nell’individualismo ma cercava la socialità.

Torna alla nostra mente la visita che facemmo qualche tempo fa all’Idroscalo di Ostia, dove andammo per cercare il luogo della sua morte. Avemmo la bella sorpresa di trovarvi un piccolo mausoleo di cui non conoscevamo l’esistenza: meritevole l’iniziativa, meno la scarsa diffusione della notizia, e ancora meno lo stato di totale abbandono in cui trovammo l’area pur se opportunamente attrezzata per la sosta dei visitatori, le erbacce l’avevano invasa ovunque deturpandola. Dovremo tornare all’Idroscalo dopo esser stati virtualmente in via Fonteiana portati dalle fotografie della Cillario. E speriamo ci vadano in tanti prima o dopo aver visitato la mostra.

Il percorso sacrificale di una “vittima esemplare”

Amava la vita, nelle “Ceneri di Gramsci” scrive: “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ d’abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?” Una raccolta di suoi saggi dal 1948 al 1958 si intitola “Passione e ideologia”, le coordinate cartesiane della sua stessa esistenza.

Ripensiamo alla sua fine, tra l’1 e il 2 novembre 1975, il giorno dei morti, “festa triste e dolce insieme che ricorda tante cose al cuore d’ognuno”, era il titolo del tema che ci fu dato all’esame di ammissione alla scuola media. Federico Zeri la paragonò alla misteriosa morte di Caravaggio: “In tutti e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta da loro stessi”. E Alberto Moravia: “Egli ne aveva già descritto, nelle sue opere, le modalità squallide e atroci”.

Lasciamo via Monserrato, adiacente a piazza Farnese con il grande palazzo monumentale. E’ una strada con laboratori e boutique d’arte, anche il piccolo bar ha una scultura nella vetrina. Ma non è tanto questo a rendere la sede appropriata per rendere onore a un grande come lui; ci colpisce la scritta sulla lapide posta nella facciata di un palazzo:“Carcere di Corte Savello, 11 settembre 1589: “Beatrice Cenci da qui mosse verso il patibolo/ vittima esemplare/di una giustizia ingiusta”.

Portare qui via Pompeiana con le fotografie di Monica Cillario è come aver accostato i due percorsi sacrificali, l’inizio di un itinerario che doveva concludersi altrettanto tragicamente: anche Pasolini è stata la “vittima esemplare” di un imbarbarimento tipico dei nostri tempi, ingiusto e spietato.

Ph: alcune immagini sono state riprese alla mostra da Romano Maria Levante, altre sono state fornite direttamente dall’autrice Monica Cillario che si ringrazia.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 22 maggio 2011 su fotografia.guidaconsumatore.com. – Email levante@guidaconsumatore.com

Tiziano Terzani al Palazzo Incontro: Clic! 30 anni di Asia e oltre

Home > Mostre > Roma. Tiziano Terzani in mostra: Clic! 30 anni di Asia e oltre

di  Romano Maria Levante

Al Palazzo Incontro, dopo l’omaggio a Pertini con “Paz e Pert”, l’omaggio a “Tiziano Terzani, Clic! 30 anni di Asia”, mostra aperta dal 23 marzo al 29 maggio 2011. Organizzata da Fandango, è stata curata da Folco Terzani che l’ha presentata con Nicola Zingaretti, il quale ha sottolineato il successo della sede prestigiosa e funzionale messa a disposizione dalla Provincia di Roma di cui è presidente, per intrattenimenti culturali e incontri di eccellenza: dal cinema alla musica, dalla letteratura alle arti in genere. Questa volta è una mostra fotografica che espone le immagini del celebre reporter e scrittore andando oltre l’aspetto espositivo per qualcosa di ben più intenso.

Tiziano Terzani

Cominciamo a raccontare la mostra dall’ultima sala, in una specie di cronaca alla rovescia. Perché è quella dove ci sono fotografie non sue ma scattate dalla moglie; non sono ripresi gli altri ma è ripreso proprio lui; non sono in bianco e nero come tutte le altre ma a colori intensi. E’ questo, a nostro avviso, il “clou” della mostra perché segnano il culmine della sua esistenza, quando lascia la macchina fotografica e anche il giornalismo per concludere il percorso di vita nell’Asia misteriosa avvicinandoci a qualcosa di indefinibile ma di superiore, in una sublimazione ascetica. Espressa anche nell’aspetto, una barba bianca lunga e folta da Mosè, il saio e gli atteggiamenti da santone indiano che vede lontano. Come il mago che ha incontrato e fotografato lui stesso: idealmente lo consideriamo come l’ultimo scatto, dopo sembra tramutarsi totalmente, nel corpo e nello spirito.

Parla del suo percorso spirituale Folco Terzani, il figlio curatore della mostra e soprattutto testimone di molti episodi, che ha vissuto con lui nell’Asia misteriosa dove Tiziano è stato per decenni con la famiglia, prima di rientrare in Italia, nell’isolamento di un paesino di montagna dove sembrava avere ritrovato parte dell’atmosfera e del fascino dell’ultimo eremo himalayano.

Oltre 80 ingrandimenti fotografici in un bianco e nero che ha un sapore antico prima dei 7 a colori che non li fanno dimenticare ma li “colorano” di profonda spiritualità, come tappe di un’ascesa mistica. Nei 7 scatti a colori protagonista non è la figura esteriore del fotografo che questa volta viene ritratto, ma il suo spirito e la sua anima che hanno trovato la pace dopo la ricerca, anzi la rincorsa di una intera vita. Immagini che sovrastano la pur straordinaria forza documentaria dei diversi volti dell’Oriente perché trasmettono qualcosa di indefinibile e insieme irresistibile. Ma proprio per questo ne parleremo dopo aver raccontato il percorso fotografico della mostra, che ripete passo passo il suo percorso di vita di grande inviato nelle terre lontane del continente asiatico.

La galleria di immagini di un’Asia inquieta e contraddittoria

Corrispondente di grandi giornali, in particolare Der Spiegel, ha percorso per decenni quelle terre lontane con taccuino e macchina fotografica, gli scatti parlano per lui e non necessitano di parole, tanto sono evidenti. Di parole ne ha spese tante nei numerosi libri, di reportage e di denuncia, di colore e di impegno civile che hanno punteggiato la sua intesa attività professionale. E anche a corredo delle immagini c’è qualche parola di commento, e vale la pena di riprodurla perché non illustra ciò che viene ripreso, ma ciò che avviene nell’anima dell’autore, mentre sente venir meno certezze e svanire speranze. Non tutte, però: quelle legate alla spiritualità attingono una dimensione superiore, quelle invece toccate dall’ideologia vacillano, travolte dalla realtà che vede dinanzi a sé.

Non c’è ideologia nella sua partecipazione ideale al conflitto nel Vietnam, ci va nel 1972 perché, dice, “volevo capire la guerra e la rivoluzione”. E si trova nel bel mezzo della “contraddizione tra quella società antica, semplice, e la modernità che la guerra impone. Le armi, i carri armati, le bombe, non c’entravano niente, proprio non c’entravano niente”. Tra Davide e Golia sceglie il più debole, che poi diventa più forte perché la resistenza popolare prevale sulla tecnologia bellica, è già una presa di posizione netta contro certo progresso. “Il Vietnam era loro, e ne avevano ogni diritto”. I libri “Pelle di leopardo” e “Giai Phong! La liberazione di Saigon” esprimono i suoi sentimenti.

Così per la Cina, siamo al 1980, il continente è guardato con amore e speranza attraverso scatti che riprendono la povertà dei villaggi ma anche la semplicità e l’autenticità della vita che vi si svolge tra vestigia dell’antichissima civiltà non sfregiate dal progresso. Ma poi la delusione è pari alle aspettative, “la Cina è stata la grande avventura”, scrive, “il più grande esperimento di ingegneria umana che l’umanità abbia mai tentato, la ricerca di una società più giusta e più umana”. Già la parola “ingegneria” è un ossimoro rispetto all’aggettivo “umana”, e se ne accorge ben presto: “Mi fu subito chiaro che la realtà era meno affascinante dei sogni”.

Un’uguaglianza esteriore nella mortificazione, tutti vestiti uguali, incolonnati, rispetto a una mondo tradizionale che nei suoi scatti appare serbare invece i valori e i sapori della vita.. Non segue gli itinerari obbligati e controllati per scoprire la realtà vera, in treno non viaggia negli scompartimenti “a sedili morbidi” per i visitatori, ma in quelli “a sedili duri” dei locali per unirsi a loro, condividere le loro vicende: Così esce da quello che chiama “il labirinto di proibizionismo e tabù che avrebbero dovuto tenermi lontano dalla gente”, ed ecco i risultati: “Era come aprire una tomba egizia. Sentivo che era una cosa che io avevo il grande privilegio di scoprire”. Non poteva passarla liscia, viene arrestato ed espulso, l’oppressione si è abbattuta su di lui dopo quattro anni trascorsi in Cina.

Tra le cose che colpiscono di più sono le distruzioni selvagge e spietate dei templi con la perdita incalcolabile d’arte tradizionale e di memoria in un popolo di alta spiritualità; molte successive ai suoi reportage, le sue fotografie – dice Folco – diventeranno preziose per la loro ricostruzione. Ma non tutto è da respingere dell’esperienza che lo ha scottato: “La Rivoluzione Culturale ha insegnato a un’intera generazione di giovani a ribellarsi, a non rispettare i maestri, a non ascoltare i vecchi”. E lui stesso ha potuto riscontrare sul campo e scrivere di “una Cina non addomesticata” con uno slancio d’amore: “Io amo la Cina, loro la stanno distruggendo”. Di qui il libro “La porta proibita”.

Se Atene piange, Sparta non ride, se ne accorge in Giappone, anche qui allineati ma in modo ben diverso e per motivi opposti: è la frenesia dello sviluppo a portare l’ordine perfetto, altro modo perverso di perdere l’umanità: “La vita è un’altra cosa”, commenta. E le immagini di un mondo quasi militarizzato per produrre lo evidenziano, soprattutto se raffrontate agli spicchi di umanità nella miseria delle zone più arretrate della Cina, ma rimaste vicine ai valori umani della tradizione.

Di nuovo dall’altra parte, vive da vicino la fine dell’Unione sovietica, altro sogno infranto dinanzi alla realtà: “Il solo grande segreto è la miseria e lo squallore”. E nella foto alla grande statua di Lenin abbattuta, sotto il tallone di un islamico, intravede una nuova prospettiva nell’Islam, “l’ideologia dei dannati della terra”; non a caso intitola il suo libro sulle vicende seguite al golpe anti Gorbaciov del 1991, “Buonanotte, Signor Lenin” . Un nuovo shock con gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’attacco americano all’Afghanistan: ispirano il libro “Lettere contro la guerra”.

C’è anche l’Asia insanguinata della Cambogia, con immagini da raccapriccio, l’ha descritta nel libro “Holocaust in Kambodscha” del 1981; è bilanciata dal Laos “non un posto ma uno stato d’animo” con la foto della fanciulla che incede leggiadra nella miseria. Il suo non è mai un discorso ideologico, registra i fenomeni e quando si discostano dalle sue speranze e aspettative non esita a dichiararlo, anche riconoscendo di essersi illuso. Questo per i regimi comunisti; ma non viene trattato meglio l’Occidente: del Giappone abbiamo detto, verso gli Stati Uniti mostra un’aperta avversione per le forme smodate di un progresso vuoto di valori, quindi disumano e aggressivo.

Dal paradiso del “grandissimo niente” all’isolamento ascetico

Il mondo in bianco e nero che ci presenta con immagini sobrie dal tono elegiaco è un mondo in parte sparito, l’onda del progresso ne ha dispersi gli aspetti più suggestivi, che invece si ritrovano nelle sue fotografie, perché li ha fissati prima che fossero cancellati. Ed è questo un grande merito di un intenso giornalista scrittore che ha voluto parlare con le immagini oltre che con gli scritti.

Ma non si è accontentato di fissare gli angoli che avevano conservato il fascino delle tradizioni, è andato a scovare una località sul tetto del mondo, isolata da tutti, per ritrarne l’assetto primordiale. Si tratta di Mustang, un’enclave tra le montagne del Tibet entro i confini del Nepal, perciò la Cina ha dovuto rispettarla. Ci va nel 1995, segue il richiamo dell’“Esploratore” di Kipling: “Qualcosa è nascosto. Vai cercarlo. Cerca al di là delle vette. Qualcosa è stato perso al di là delle vette. E’ stato perso e ti aspetta. Vai!”.

Un villaggio che è un minuscolo, antichissimo regno, a cinque giorni di marcia a piedi e sui muli dopo l’ultimo approdo per aereo o auto, non ci sono strade, ma distese di ciottoli e pietraie, un posto “senza progresso, un mondo antico” dove il tempo si è fermato. Si ferma anche per lui, ritrae il vuoto che non è mancanza, è riempito dalla riflessione, non è desolato perché dove non c’è la materia c’è lo spirito. Non fotografa l’attimo ma la riflessione: attende che i raggi del sole creino un fascio di luce sul medico-mago Amchi, l’immagine è suggestiva, una vera magia.

E’ un “shangri-la”, cioè un paradiso, che si sta per perdere, il turismo pur contingentato lo assedia, già tra le immagini del “grandissimo niente” c’è quella delle bambine che giocano con la “Barbie”, e l’elicottero che atterra con i turisti. Tiziano è ben diverso, sa che solo dopo la lunga marcia “avvicinandosi l’immagine si smitizza, il viaggiatore finalmente capisce: il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta: il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare”.

A parte la ricerca del “paradiso perduto”, la sezione “Indovini” rivela come abbia viaggiato un intero anno da reporter negli spazi sconfinati dell’Asia senza prendere l’aereo, seguendo le parole di un indovino, così ha toccato con mano quanto sarebbe sfuggito a un approccio distaccato. Di qui il capolavoro “Un indovino mi disse”: siamo nel 1995, da un anno lui e la famiglia vivono in India.

Al culmine della sua ricerca è protagonista proprio l’India, dove “Dio ha ancora 1000 indirizzi”. Ne trova uno, c’è l’incontro con un santone, lo fotografa e sembra il suo autoritratto del dopo, intanto è diventato Anam, ha assunto una nuova identità senza nome intrisa della spiritualità asiatica. E’ una folgorazione, si immedesima in quella figura ascetica al punto da isolarsi in un proprio eremo sull’Himalaya, che poi diventerà il rifugio di Orsigna, nell’Appennino piemontese, dove si ritirerà per trascorrere ciò che gli resta da vivere dopo un’intera vita trascorsa nelle terre lontane dell’Asia.

Le 7 immagini con il colore dell’anima

Ed è dopo queste immagini che il bianco e nero fino ad allora protagonista assoluto, cede il posto a un inatteso colore, le 7 immagini citate all’inizio. Cede la fotocamera alla moglie – ci dice Folco – per andare di là dall’obiettivo, si immedesima nell’aspetto, nella veste e nell’atteggiamento di quelli che sono stati i suoi ultimi soggetti, diventa il santone. Il colore è un’illuminazione dopo tanto grigio – che non è grigiore ma è memoria – perché è circonfuso dallo spirito: è il colore dell’anima.

Ci suscita un ricordo e un’associazione d’idee: “Deserto rosso”, di Michelangelo Antonioni, dove anche le foglie avevano perduto il loro colore brillante per unirsi alla foschia dell’ambiente e soprattutto della mente degradati da un progresso inquinante e distruttivo, come quello che Tiziano rifiuta. Nel film, l’angoscia dell’incomunicabilità è rotta dal sogno della “spiaggia dalla sabbia rosa” con i colori brillanti ed evocativi: ecco, la sua spiaggia rosa è nel raggiungimento di un approdo per lo spirito, la conclusione della ricerca diuturna di una vita in virtuale pellegrinaggio.

Tra queste 7 immagini con i colori dell’anima il diapason lo raggiunge, ai nostri occhi, la foto che lo vede di spalle camminare lungo un sentiero innevato, in altre si vede la folta barba bianca da Mosè, indossa un lungo saio: ebbene, l’immagine di Darwin non era diversa, nell’aspetto e soprattutto nelle passeggiate lungo il “Sentiero delle meditazioni”, situato nel retro della sua abitazione lontana dalla città come la località dove Tiziano si era rifugiato per restare solo con la sua anima.

La fine che è un inizio

Così abbiamo voluto raccontare la mostra, ponendo all’inizio e alla fine quello che per noi è il suo momento culminante. Richiede una riflessione entrare nella dimensione che traspare dalle immagini, ci si sente scossi dinanzi a un approdo così apertamente superiore, dalla spiritualità profonda e toccante. Senza ostentazione né elucubrazioni, la visione è semplice e ferma: quando si approda a un punto di arrivo così elevato tutto si fa chiaro, e le immagini lo rendono perfettamente.

Se ne ha conferma dalla lunga intervista che precede di soli due mesi la scomparsa avvenuta il 28 luglio 2004 dopo la lotta con la malattia che non vede in questi termini, ma come un andare avanti insieme al male coesistendovi finché è possibile. Si assiste al filmato nella saletta, presi da una forte emozione nel vedere il santone dalla lunga barba bianca parlare con una serenità disarmante, aprire l’anima senza mostrare turbamenti, consapevole di avere raggiunto la pace dello spirito dopo tanta ricerca. “Anam, il senza nome” è il titolo della sua serena confessione, regista Mario Zanot.

Nel marzo del fatidico 2004 aveva pubblicato un libro-reportage sulla sua malattia e sul mondo circostante: “Un altro giro di giostra – Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo”. Due anni dopo, nel marzo 2006, i suoi pensieri confidati in un dialogo-diario al figlio Folco escono con il titolo “La fine è il mio inizio”; il 1° aprile 2011 esce nelle sale il film dallo stesso titolo che ne è stato tratto, distribuito da Fandango, regia di Jo Baier, con Bruno Ganz e altri interpreti.

Con tutto questo che evoca, è molto di più di una mostra fotografica quella che abbiamo visitato, emozionati per la guida di Folco Terzani: in molti momenti sembrava che ci accompagnasse Tiziano Terzani giovane, con tutto il suo entusiasmo. Folco con la grande serenità di aver compreso la quiete raggiunta dal genitore, ne illustrava il percorso fotografico e insieme il percorso di vita.

Come non essere grati a Fandango e alla Provincia di Roma che hanno organizzato l’evento, oltre a Folco Terzani che lo ha curato e ce lo ha illustrato? Un evento che è insieme culturale e umano. Sì, profondamente umano, forse non soltanto terreno. Perché la ricerca di Dio, di un Dio della natura e della vita, si sente nella pelle visitando la mostra e guardando il video. Si possono fare scelte di vita estreme come la ricerca della solitudine nell’Himalaya e guardare la morte senza temerla come ha fatto Tiziano se questa ricerca dà delle risposte: a Tiziano Terzani sono arrivate e ce le ha trasmesse con le parole e le immagini. Le riassumiamo plasticamente nella figura che cammina lentamente lungo quello che identifichiamo nel darwiniano “Sentiero delle meditazioni”.

La “Turtle House” di Tiziano Terzani a Bangkok

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 28 marzo 2011 su www.fotografia.guida consumatore.com

Van Gogh, 2. Vita e arte, la svolta e l’epilogo, al Vitttoriano

di Romano Maria Levante

– 18 febbraio 2011 – Postato in: culturainabruzzo.it, mostre, pittori, trasferito qui

Dopo aver raccontato la prima fase fino al 1886 passiamo all’ultima fase dell’“ascesa infinita” nell’arte come appare dalla mostra al Vittoriano su “Vincent Van Gogh, Campagna senza tempo – Città moderna”, aperta dall’8 ottobre 2010 al 20 febbraio 2011 dopo la proroga; e della “discesa infinita” nella vita seguendo la ricostruzione del libro “Follia? Vita di Vincent van Gogh”, di Giordano Bruno Guerri che ha curato le iniziative di approfondimento parallele, dai dibattiti ai film, alla performance teatrale; il libro è stato una guida preziosa per il nostro racconto.

La camera di Vincent ad Arles”, 1888-89

La svolta di vita e arte nel 1886 con gli impressionisti

E’ il 1886, la “discesa infinita” corre veloce, ha meno di cinque anni da vivere intensamente, va a Parigi. Compie un’altra trasgressione delle sue, anche se il suo trasferimento nella capitale francese è stato concordato con il fratello; a marzo parte senza avvertirlo, temendo che ci ripensi. E’ troppo importante per lui, Parigi è una metropoli, e qui prevale il fascino della città che incarna la novità e il movimento, l’altra faccia della natura che finora ha visto soprattutto nell’aspetto della campagna eterna e senza tempo, anche se ha rappresentato qualche opificio. Ma, quel che più conta, ora si trova nella capitale della pittura, con l’impressionismo e i suoi massimi esponenti di cui può finalmente conoscere da vicino le opere e frequentarli: Renoir e Cezanne, Pissarro e Toulouse-Lautrec, Corot e Monet, Sisley e Signac. Va anche a lezione con sessanta altri allievi, per imparare la tecnica, dal pittore Fernand Cormon, che ha insegnato a Toulouse-Lautrec e Gauguin. Gli bastano due mesi in cui si applica con più serietà degli altri, sente che il tempo gli manca, ha fretta.

L’impressionismo interpreta la realtà come la sente l’artista che la vede “en plein air” nel suo fulgore rivivendola dentro di sé. Per due anni Van Gogh sarà nella Ville Lumiére e vivrà in un ambiente per molti versi straordinario con la sua capacità di interpretare e assorbire senza subire gli influssi ma recependoli come stimolo al suo eccezionale talento. Vedremo poi che con Gauguin – l’artista che affascina e stordisce tutti con i suoi racconti delle bellezze dei paesi esotici e delle loro donne – ci sarà un rapporto più stretto e tormentato, quando la “discesa infinita” si farà rovinosa.

“Autoritratto”, 1887

In una sorta di caffè degli artisti c’è la proprietaria Agostina Segatori, posa come modella per i pittori, sta anche con loro; Vincent trova in lei qualcosa che gli è mancato, ma per poco, a lui serve per esporre quadri e le fa un ritratto, “L’Italienne”, non in mostra; si lasciano in modo turbolento. Anche con gli altri pittori i rapporti personali non sono buoni, Cezanne gli dice “la sua è una pittura da pazzo”.

E’ il tema della “follia”: la diversità di un’indole indomabile, nella frenesia di vivere a modo suo e di dipingere. Espone nel negozio di Pére Tanguy, che vende articoli per belle arti, litiga anche con lui che pure lo stima ma non riesce a vendere i suoi quadri. Come Theo, sebbene nell’ultima fase preferisca tenerli attendendo tempi migliori; anche Vincent chiede al fratello di non esporli più, sente che la stagione propizia arriverà presto e non vuole disperderli per troppa fretta..

E qui la mostra diventa didascalica, propone una serie di pitture di riferimento per creare l’ambiente nel quale si venne a trovare Vincent. Immergiamoci anche noi nel mondo degli impressionisti, c’è la campagna vista nei giardini pubblici e privati e c’è la città in movimento. Ecco l’“Orto a Auvers su l’Oise”  del 1852 e il “Chiaro di luna su l’Oise” del 1870, entrambi di Charles Francois Daubigny, dai colori ancora spenti, mentre esplodono “Nell’orto” di Pissarro del 1878 e nei due di Paul Gauguin, “Fattoria La Groue, Osny” del 1883 e “Stalla vicino a Dieppe II” del 1885. Dello stesso anno 1885, di Vincent c’è “Veduta di Amsterdam dalla Stazione Centrale”, piccolo olio su tavola nel quale le tinte cominciano a schiarirsi.

Il Seminatore”,1888

Le sollecitazioni coloristiche degli impressionisti vengono ulteriormente proposte in mostra con “Lavori al Pont National” di Armand Guillaumin del 1874 e “Sobborgo” di George Seurat del 1882-83 fino a “Scambio ferroviario a Bois-Colombes” di Paul Signac del 1886.

L’eco in Van Gogh dell’apertura alla luce e al colore è nel dipinto esposto dello stesso 1886, “Persone che passeggiano in un parco”: vediamo un numero inconsueto di figure quasi sempre accoppiate e con bambini, l’occhio di Vincent è mosso dalla sua dissimulata aspirazione alla famiglia nel continuo contrasto con la libertà anche anarchica dell’artista che da lui è sempre rivendicata.

Ancora persone, “Due signore al cancello di un parco ad Asnières”, un sobborgo parigino dove Vincent riassaporava gli umori della campagna pur nella città pulsante di vita, tanto che il motivo dominante, a parte il muro con il cancello e le due figure, è il verde con gli alberi. Lo stile è decisamente impressionista, la pennellata fluida, ancora nessun accenno puntiforme.

Così vede la città con l’occhio alla natura, mentre “Il Moulin de Blute-Fin” riporta agli impianti legati al lavoro dei campi presenti anche nella modernità cittadina. Lo stesso incrocio che si aveva nei dipinti degli impressionisti citati, dove gli orti e la fattoria, la stalla e il fiume si incrociavano con la stazione ferroviaria, paesaggistica anch’essa, e i lavori al ponte, fino al sobborgo con la ciminiera che segna il confine tra città e campagna. Temi incrociati anche nei disegni esposti dei pittori citati, dagli “Alberi con cervi” e “Il boschetto” di Daubigny al “Crepuscolo sui covoni” e “Fabbrica a Pontoise”di Pissarro. Soprattutto troviamo i disegni di Francois Millet del ciclo giornaliero del lavoro nei campi, da “La partenza per il lavoro” del 1863 al precedente  “Contadino che raccoglie il fieno”del 1855, a “Mezzogiorno/Il riposo”  e “La fine del giorno” con il contadino che si infila la giacca, entrambi del 1873; fino alle figure di “Donna che carda la lana” del 1855-56 e “La grande pastorella” del 1862.

Ritratto di Madame Roulin con la figlioletta” , 1888

Il 1887, anno cruciale per il trionfo della luce e del colore

Abbiamo anticipato nell’articolo precedente l’autoritratto del 1886 senza cappello, nel 1887 ne troviamo due molto diversi e non solo perché ha il cappello: le pose, il segno e il colore sono totalmente differenti. I circa quaranta suoi autoritratti lo vedono anche come “cavia” delle prove pittoriche, quando per farle ripiegava su se stesso rispetto ad altri modelli viventi troppo costosi.

Il primo “Autoritratto” del 1887 lo ritrae in veste cittadina, forse come esempio di ritrattistica da proporre ai professionisti parigini, in un abito dignitoso che si ritrova in altri suoi dipinti. Colpisce lo sfondo azzurro, come un cielo trionfante, e le pennellate impressioniste, con segni anche del neo impressionismo di Seurat e Signac; sia nell’abito e nel cappello che nel volto queste pennellate vistose segnano la luce e l’ombra con un effetto coloristico straordinario.

Veste da artista trasandato nell’altro “Autoritratto” dello stesso anno, un’acconciatura da contadino che aveva adottato nel periodo olandese dipingendo il lavoro nei campi, abbigliamento che tornerà in altri suoi ritratti. Il cappello di paglia è anche degli impressionisti che lavoravano “en plein air”, ma Vincent dipingeva all’aperto anche prima di frequentarli. L’arrossamento del volto fa sentire la forza del sole da cui si ripara, il dipinto è sostanzialmente di tre colori, verde l’abito, giallo il cappello e rosso-marrone la barba e la pipa, il tutto con pennellate rapide e distanziate.

Nel “Ritratto di Alexander Reid”, un mercante d’arte scozzese, l’influsso di Seurat e Signac è ancora più evidente, con pennellate piccole quasi puntiformi dai forti contrasti cromatici. Lo stesso appare in “Interno di ristorante”, immagine cittadina linda e pulita con la tecnica puntiforme.

“Albicocchi in fiore”, 1888

Dalla città in interno alla città in esterno. La visione ristretta di “Strada con sottopassaggio (Il viadotto)”e lo scorcio prospettico di “Ponte sulla Senna ad Asnières”, fino alla panoramica urbana di “Strada parallela ai bastioni di Parigi”, una visione straordinaria in cui le figurine umane e le costruzioni sono soprattutto in lontananza, mentre nel primo piano c’è la grande strada fatta di alcune forti pennellate bianche.

Lo sguardo si allarga nelle due visioni di Montmartre, il sobborgo parigino nel quale poteva materializzarsi l’incrocio tra l’amore per la campagna e l’attrazione della modernità cittadina. Sono in sequenza, quasi due “pendant”. “Montmartre: dietro al Moulin de la Galette” si richiama a “Parigi vista da Montmartre” dello stesso anno di Maximillien Luce, in mostra; analoga l’inquadratura con un angolo di muro in primo piano dinanzi al verde, e sullo sfondo i tetti della città in basso. In “Orti a Montmartre” trionfa la campagna, un piccolo mulino a vento sul fondo, mentre in un analogo dipinto del 1886 il mulino e le case avevano una posizione preminente che invece nel quadro del 1887 diventa secondaria rispetto allo spazio agreste. La pittura con i colori

complementari distinti per essere riuniti dall’osservatore viene riferita al neoimpressionismo per l’uso del colore e l’applicazione dei pigmenti; non c’è vero divisionismo perché più che puntiformi le pennellate sono spezzate. E preannunciano gli sviluppi successivi di un’arte tutta personale.

Giardino pubblico con prato appena falciato e salice piangente”, 1888

L’escalation del 1888

Non è di svolta come il 1886 a Parigi, ma certo il 1888 ad Arles segna l’escalation, della “discesa infinita” nella vita come dell’“ascesa infinita” nell’arte. Vincent vi arriva in treno il 20 febbraio, dopo le sollecitazioni ad andare in Provenza, al sole del Sud della Francia, dove troverà luce e calore per la sua pittura: anche Toulouse-Loutrec – che gli ha fatto un severo ritratto di profilo -lo spinge, artisti come Delacroix e Monticelli avevano cercato il sole del Sud, in Francia e nel Nord Africa, Gauguin lo trova in Martinica.

Alloggia in un albergo vicino alla stazione, poi a maggio in un’abitazione tutta sua: “Di fuori è dipinta di giallo, mentre dentro le pareti sono sbiancate a calce. E’ in pieno sole.”, scrive al fratello mandandogli dei disegni. C’è lo splendido quadro “La stanza di Vincent ad Arles”, con il letto, il tavolo e le sedie e “La Casa Gialla”, non in mostra ma nella memoria. Scrive a Theo anche sulla sua nuova vita in Provenza: “Mi sembra che, a intervalli, il sangue abbia più o meno intenzione di rimettersi a circolare, contrariamente a quanto accadeva negli ultimi tempi a Parigi” Dopo la svolta, quindi, non si era appagato, ha avuto un nuovo turbamento: non vi soggiace, cerca sempre di più.

Quel di più è intanto il sole, poco rappresentato, ma presente nel giallo accecante che illumina la sua pittura,  primo esempio “La mietitura” non in mostra come non c’è “Seminatore al tramonto” nel quale spicca un grande sole all’orizzonte.

Vialetto nel giardino pubblico”, 1888

E’diverso da “Il seminatore” che è esposto: sullo sfondo fabbriche e ciminiere in questo, il sole e il grano nell’altro, mentre è simile la figura umana e somigliante il blu del terreno in primo piano; la mostra opportunamente vi accosta il dipinto dallo stesso titolo di Jean Francois Millet, però con colori smorti rispetto a quelli rutilanti di Vincent.

La campagna trionfa in “Albicocchi in fiore”, quasi vi trovasse la rigenerazione dopo l’ultimo periodo parigino: la natura viene sempre più “sentita” imprimendovi la propria sostanza umana e non soltanto “guardata” e percepita con la sola sensibilità artistica. Per questo, secondo Guerri, non va considerato soltanto nel mondo impressionista, ma come anticipatore dell’espressionismo. E’ una campagna che vediamo da vicino in “Ulivi”, il dipinto dove il grande albero in primo piano e il sottobosco sembrano offrire un rifugio sicuro per chi si smarrisse nel sentiero appena tracciato; e nel disegno “Ulivi/pini a Montmartre”, una quinta quasi teatrale dopo la radura, sorvolati da alcuni uccelli, diventeranno corvi minacciosi nell’ultimo quadro del 1890. Una campagna, infine, che si immagina nel disegno “Capanne a Saintes-Maries-de-la-Mer”, le primordiali capanne dal tetto di paglia, ormai dimesse dai contadini, ma per Vincent ne restano un simbolo cui è affezionato; è esposto anche il quadro di Gauguinintitolato “Il campo Lollichon e la chiesa di Pont Aven”, che a forti colori riproduce uno di questi tetti con una scena campestre di buoi al pascolo; dello stesso Gauguin è esposto “L’abbeveratoio”, .quasi un primo piano del precedente.

“La casa gialla”, 1888

Dall’aperta campagna alla sua espressione all’interno dell’abitato, di cui abbiamo già parlato nell’inquadrare la sua pittura in termini generali: “Giardino pubblico con prato appena falciato e salice piangente”” e  “Vialetto nel giardino pubblico” sono due dipinti con il verde inframmezzato da tocchi di giallo che esprimono la pioggia di luce, sia nell’erba e sia nelle foglie degli alberi. In entrambi c’è il sentiero, nel primo si sente la gente anche se non c’è, nel secondo è rappresentata la società arlesiana. Ma Vincent non dimentica l’azione dell’uomo: la mostra ce lo ricorda con i due disegni: “Il ponte di Langlois” e “Strada con palo del telefono e gru”.

Non mancano i ritratti, da “La vecchia Arlesiana” a “Madame Roulin con la figlioletta”,in mostra, ne ricordiamo altri non esposti, da “Joseph Roulin” a “Eugène Boch”, da “La Mousmé seduta” a “Milliet”, persone con cui ebbe rapporti di amicizia, Boch era un pittore e scrittore belga.

Il 1888 non è solo questo, nell’arte come nella vita, tanto che abbiamo parlato di “escalation”. Ebbene, anche se la mostra non può presentarli, è l’anno dei due celebri dipinti urbani, “Terrazza del caffè la sera” e “Caffè di notte”, sempre ad Arles, immagini dalla suggestione incredibile; l’anno di “Spettatori nell’arena”, inconsueta raffigurazione di folla nella cavea romana di Arles dove vede la corrida. E, soprattutto, è l’anno del “Vaso di girasoli”, tema a lui molto caro che nel dipinto del 1888 raggiunge il diapason, in quanto, come è stato detto, trasforma la “natura morta” in “natura viva”. Un natura ravvivata dai colori del Sud della Francia: “In realtà il sole della Provenza non è così forte come lo raffigura Van Gogh, e i colori non sono vivaci come quelli dei suoi quadri. Vincent esasperò tutto perché voleva raccontare la forza e la violenza della natura”, nota Guerri. E lo si vede proprio nei girasoli che sembrano esplodere e nei rami degli alberi che sembrano contorcersi; ci fanno pensare alle temute piante carnivore, forse sono loro che hanno divorato il grande artista. Per ora premonizione nel dipinto “La sedia di Vincent”, vuota e impagliata con pipa e occhiali, come “La sedia del padre” morto; “La sedia di Gauguin” invece sembra una poltrona.

“Veduta di Arles con iris in primo piano”, 1888

L’”escalation” nella “discesa infinita” vede la sua vita presa da nuovi e più gravi tormenti. Ad Arles le sue apparenti “stranezze” turbano gli abitanti, a ottobre chiama a sé Gauguin che entra presto in contrasto con lui, nell’ordine domestico, nell’arte, in tutto. Raffigura Vincent in modo impietoso mentre dipinge dei girasoli secchi, Guerri lo definisce “il ritratto di un demente”; e lo confronta all’autoritratto” dedicatogli da Vincent che invece “si mostra come un bonzo, raffigurandosi al meglio”. Gli fa lo sgarbo di andare al bordello con la “piccola Raquelle”, la preferita di Vincent. I dissapori montano, e anche le stranezze di Vincent che una notte lo guarda torvo mentre dorme, l’altro se ne accorge e lo teme; e quando Gauguin gli annuncia che partirà a Natale, la vigilia lo segue silenzioso col rasoio in mano. Viene fermato dal suo sguardo, torna a casa e con lo stesso rasoio si taglia di netto la cartilagine dell’orecchio destro mutilandosi, e la porta a Raquelle, come fosse l’omaggio dell’orecchio del toro abbattuto: aveva assistito alla corrida nella locale arena, le tradizioni della vicina Spagna erano vive anche lì, sarebbe lui stesso il “toro” sconfitto dall’amico.

In ospedale, è nella sezione dei pericolosi, incatenato al letto. Secondo Guerri più che di follia si tratta di un effetto allucinogeno dell’assenzio, bevanda in voga tra gli artisti. Termina così il 1898, l’anno del “Vaso di girasoli” e del gesto autolesionistico. Violenza nella natura e nell’uomo.

“Notte stellata sul Rodano”, 1888

L’esplosione del 1889

Il 1899 inizia con il ritorno a casa il 7 gennaio. La vita è ancora più tormentata, la diffidenza degli abitanti di Arles diventa ostilità per il vicino pericoloso; nuovo ricovero dopo un mese per una  crisi.

Per il dottor Rey è dovuta al timore di una ricaduta, secondo Guerri teme gli attacchi e le irrisioni di “bambini e adulti”; dice al sacerdote che hanno l’ardire “di “circondare la mia casa e di scalare le inferriate come hanno fatto, come fossi un animale strano”.Al dottore confida che “per raggiungere l’alta nota gialla che ho raggiunto quest’estate ho dovuto montarmi un po’”. Ce ne saranno ancora di “alte note gialle”, fino alla fine, anzi all’ultimo quadro che vedremo al termine.

Torna di nuovo alla vita di sempre, e ai tormenti quotidiani, c’è stata una petizione dei cittadini perché fosse internato. Ma questo non avvenne in modo coattivo, fu lui a chiedere di entrare nel manicomio di Saint-Paul-de-Mausole presso Saint-Rémy a 25 chilometri da Arles. Potrà dipingere in pace, c’è anche un giardino e si vede la campagna. Ricordiamo quattro quadri che lo raffigurano: “Davanti al manicomio di Saint- Rémy” e “Il giardino di Saint-Paul”, “Il dormitorio di Saint-Paul” e “La ronda dei carcerati”, l’immersione progressiva fino al tremendo girotondo nella cella, lui però presto potrà uscire fuori dall’istituto per dipingere. Nel giardino c’erano gli “Iris” che dipinse in veri capolavori sia in fioritura nel loro squillante blu su steli verdi che nei vasi. E poteva rimirare il cielo, che gli ispirò “La notte stellata”, capolavoro accostato da Guerri a quella dipinta ad Arles: “Nella prima, le stelle palpitavano nella calma del firmamento, ma erano immobili. Nella Notte stellata di Saint-Rémy le stelle si muovono, non hanno più quell’aria viva ma tranquilla, sono parte di una corrente celeste, indecifrabile”. Sgomenta pensare che “dopo averla dipinta, Vincent tentò di ammazzarsi ed ebbe una crisi di pazzia che durò più di un mese”,  ricorda Guerri.

Notte stellata”, 1889

Ma andiamo ai dipinti esposti in mostra, anche se non potevamo omettere quelli ora citati nel nostro excursus vita-arte. C’è il disegno “Campi fuori dalla casa di cura”, con tratti e punti decisi, un’immagine di apertura. E un olio su tela invece molto tormentato, “Montagne a Saint- Rémy, lo dipinse dopo due mesi di internamento, quando poteva già uscire e anche allontanarsi dalla clinica: sembra un ammasso montuoso deserto, ma si intravede una capanna e un angolo con girasoli. Al quale si contrappone, in un certo senso, “Cipressi con due figure femminili”, per la grazia delle loro eleganti siluette contrapposta alla potenza delle grosse chiome dei cipressi: il maschile e il femminile, l’antico e il moderno, il romanticismo e il realismo, la critica qui si sbizzarrisce.

L’ultimo dipinto esposto di quest’anno è “Il ritratto di giovane contadino”, o il “Giardiniere” di Saint-Remy, com’è anche intitolato, più che il lavoratore qui interessa il gioco dei colori dell’abito dimesso come la sua espressione, e dell’erba: è considerata quasi una prova di espressionismo.

Il 1890: la discesa e l’ascesa infinita al loro epilogo

A Saint-Remy è sottoposto alle terribili cure di allora, ha delle crisi, tenta il suicidio, poi quando sente che Theo sta per avere un figlio, temendo che non lo protegga più e lo lasci per sempre in manicomio gli torna la smania per la vita normale, anche se non ci crede, e vuole uscire: Alla nascita ha una crisi più forte, poi convince il fratello a farlo tornare a Parigi: “Sì. Bisognerà farla finita, con questo posto. Non posso fare contemporaneamente le due cose: lavorare e faticare per riuscire a vivere con questi strani malati. Ne sono sfinito”. Non si considera uno di loro, non si sente malato, d’altra parte ha scelto lui di entrare in quel luogo per dipingere con tranquillità: ora basta.

“Ritratto del dottor Gauchet”, 1890

La notte del 16 maggio arriva alla stazione di Parigi, Theo lo porta a casa, c’è la moglie e il piccolo di tre mesi e mezzo, si chiama Vincent: ha cercato invano di impedirlo, aveva l’incubo del fratellino con quel nome nato e morto l’anno prima di lui. E qui immersione nei suoi dipinti, appesi alle pareti, ammucchiati sotto i letti, ovunque, in bella mostra i capolavori e gli autoritratti. Chissà se ha provato la sindrome – come di Stendhal – che Guerri così descrive: “Vedere insieme troppi quadri di Van Gogh fa male: ci si sente minacciati e in pericolo, si ha paura che tutto quel mondo catturato sulle pareti ti salti addosso e ti divori.” Aggiunge: “Ma Vincent è abituato ai suoi figli selvaggi: li tratta con la confidenza di un domatore che spazzola il suo leone”. Notiamo: non è possibile che in questi tre giorni tra le sue tele abbia maturato inconsciamente la convinzione, esposta dallo stesso Guerri, di aver dato tutto, aver raggiunto il culmine, e quindi avere esaurito il senso dell’esistenza?

Ma ancora non è finita, “l’ospite dopo tre giorni puzza” è un detto popolare, anche per questo Theo lo convince a partire dopo tre giorni per Auvers sull’Oise. E lo affida al medico Gachet, che non capirà nulla di lui né in senso clinico (“è più malato di me, a quanto mi è parso” – scriverà Vincent – o almeno altrettanto”), né artistico (snobberà il suo ritratto capolavoro, oltre a lui ritrasse la figlia Marguerite in giardino e al piano). Settanta giorni, settanta quadri: ha fretta, l’epilogo è vicino.

L’8 giugno visita ad Auvers di Theo e famiglia, il 5 luglio Vincent ricambia e va a Parigi. Il 27 luglio, domenica, esce senza cavalletto e va incontro al suo destino: entra in una buca e si spara dal basso in alto, ferita non mortale, almeno immediatamente.

Torna a casa sanguinante, non viene operato e lo curano male, mentre forse si sarebbe potuto salvare. L’indomani arriva Theo: “Non piangere. L’ho fatto per il bene di tutti”, gli dice, e alle rassicurazioni del fratello aggiunge: “E’ inutile, la tristezza durerà tutta la vita”. Non molto per Theo, morirà sei mesi dopo, sarà la moglie Johanna a valorizzare Vincent e l’enorme fortuna che ha in casa con il gran numero di suoi dipinti: dei mille forse prodotti, almeno duecento si sono salvati.

“I bevitori.- Le quattro età dell’uomo”, 1890

Nella mostra, di questi mesi finali vediamo “Donne che attraversano i campi”, predomina il giallo luminoso sul poco verde in un’immagine chiara, lineare e serena; invece il disegno “Strada chiusa con case” dà l’idea di un epilogo senza uscita. Torna il tema del duro lavoro nelle figure chine, ma le “Contadine che zappano un campo innevato” sono ormai evanescenti; erano invece violenti i colori di Gauguin in “Lavandaie al Canal Roubine du Roi” del 1888, nella stessa posa delle contadine, confronto ravvicinato reso possibile dall’esposizione..

Quasi volesse tornare agli amati tetti di paglia simbolo della campagna immutabile dipinge “Fattoria” e “Fattorie verso Auvers”, tutto è tetto, onnicomprensivo, forse anche oppressivo. Mentre non fa storia “I bevitori- Le quattro età dell’uomo”: pur nella potenza delle sue linee nervose e del colore ripete l’identico motivo dell’omonima xilografia di Honoré Daumier esposta anch’essa. Un estremo momento di svago si vede in “Sponda dell’Oise ad Auvers”, la borghesia parigina che si diverte presentata con impasti violenti di colori allineati come lo sono le barche lunghe e strette, un’oasi naturalistica. Due letteredel febbraio 1990, a Joseph Ginoux e ad Albert Aurier, questa fitta fitta e lunghissima, esposte insieme alle due ad Arnold Koenig del maggio 1888 e del gennaio 1889, indicano come fino all’ultimo amasse trasmettere i suoi pensieri.

Non sono in mostra la “Chiesa di Auvers” che precede di un mese la morte e “Campo di grano con corvi” che la precede di venti giorni ed è l’ultimo pervenuto. Il blu che spesso accoppiava al giallo per la forza vibrante del contrasto, qui sembra sopraffarlo quasi comprimendo il colore del grano anch’esso appesantito e meno brillante. C’è il largo sentiero al centro che offre una via di fuga dall’oppressione, il grano si apre come le bibliche acque del Mar Rosso; ma il volo radente dei corvi che si addensa proprio lì come per contrastare la fuga, appare il segno di un infausto presagio.

Si è compiuta la “discesa infinita” nella vita e l’“ascesa infinita” nell’arte; come la “missione impossibile” di Alessandro Nicosia nell’organizzare la mostra e quella anch’essa ardua di Giordano Bruno Guerri nel ricostruire la vita del sommo artista in modo così suggestivo.

Concludiamo anche il nostro viaggio nei gironi della mostra e non solo, con un Virgilio come Giordano Bruno Guerri, che ci ha restituito il vero Vincent mediante la parola e lo scritto, il cinema e il teatro. Riportiamo due citazioni tratte da “Follia? Vita di Vincent van Gogh”, la nostra guida.

La prima è la descrizione che l’artista dà del suo “Il falciatore”, nel quale vede “l’immagine della morte, nel senso che l’umanità sarebbe il grano che si falcia”. Quel grano dell’ultimo suo dipinto con la premonizione dei corvi. “Ma in questa morte nulla di triste, tutto succede in piena luce, con un sole che inonda tutto in una luce d’oro fino”. In un’altra riflessione sempre Vincent va ancora oltre: “Sono talmente convinto che la storia delle persone è come la storia del grano: se non ci seminiamo in terra per germinare che cosa importa? Ci macinano per diventare pane”.

Due inni alla speranza, nonostante il lugubre volo di corvi finale. “Spes contra spem”,un messaggio positivo che ci viene dal sommo artista.

E’ un ulteriore merito della mostra che – per usare le parole di Sandro Bondi – ha permesso di “vedere, come in uno specchio, la straordinaria sensibilità di Vincent Van Gogh, la dolcezza tenerissima della sua anima fragile”.

“Campo di grano con volo di corvi“, 1890.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via dei Fori Imperiali. Ingresso  lunedì-giovedì ore 9,30-19, 30, venerdì-sabato 9,30-23,30, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Interi euro 12, ridotti euro 9,50  per le categorie agevolate. Catalogo: “Vincent Van Gogh”, a cura di Cornelia Homburg, pp. 280, ottobre 2010, formato 28 x 30. Info tel. 06.6782664. Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito ieri 17 febbraio 2011.  

Photo

Le immagini, tutte di opere di Van Gogh, inserite in ordine cronologico, sono tratte dal Catalogo per quelle esposte in mostra, si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti, e “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta; sono state aggiunte altre immagini di opere non in mostra particolarmente significative commentate nel testo, dall’apertura con la “Camera di Vincent ad Arles”, alle conclusive del 1890, “Ritratto del dottor Gauchet” e la visione tragica del “Campo di grano con volo di corvi”, precedute dalle due “Notti stellate”. Nel primo articolo le ultime 7 immagini sono di opere dal 1886 al 1888 commentate in questo articolo. In apertura, “La camera di Vincent ad Arles” 1888-89; seguono, “Autoritratto” 1887, e “Il Seminatore” 1888; poi, “Ritratto di Madame Roulin con la figlioletta” 1888, e “Albicocchi in fiore” 1888; quindi, “Giardino pubblico con prato appena falciato e salice piangente” 1888, e “Vialetto nel giardino pubblico” 1888; inoltre, “La casa gialla” 1888, e “Veduta di Arles con iris in primo piano” 1888; ancora, “Notte stellata sul Rodano” 1888, e”Notte stellata” 1889; continua, “Ritratto del dottor Gauchet” 1890, e “I bevitori.- Le quattro età dell’uomo” 1890; infine, “Campo di grano con volo di corvi” 1890 e, in chiusura, “Autoritratto” 1887.

“Autoritratto”, 1887

Van Gogh, 1. Vita e arte fino alla svolta del 1886, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

– 17 febbraio 2011 – Postato in: cultura.inabruzzo.it, mostre, pittori, e qui trasferito

Al Vittoriano la mostra “Vincent van Gogh, Campagna senza tempo – Città moderna”, dall’8 ottobre 2010 al 20 marzo 2011 dopo la proroga a grande richiesta. Ne segue il percorso artistico nei due versanti tematici, che scorrono lungo quella che Giordano Bruno Guerri definisce “la discesa infinita” nel  libro “Follia? Vita di Vincent van Gogh”,  cui associamo “l’ascesa infinita” nell’arte.

Autoritratto”, 1886

Dopo l’ampio servizio critico di Alessandra Pignotti del 12 novembre 2010 su questa rivista, il nostro racconto della visita alla mostra segue i due percorsi di vita e arte, prima e dopo l’anno di svolta del 1886 a Parigi: la vita sulla traccia del libro, l’arte sulla traccia della mostra, definita “impossibile” per la sua complessità da Alessandro Nicosia,presidente di Comunicare Organizzando, la società realizzatrice di questa e delle principali esposizioni al Vittoriano.

Ancora la natura al Vittoriano, nell’impostazione tematica in cui i grandi artisti sono considerati da un’angolazione particolare nella quale la mostra diventa anche ricerca e non solo esposizione. Nella mostra di marzo-giugno 2010 “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura” di cui demmo conto, gli impressionisti furono visti in un approccio di tipo ecologico e non solo pittorico alla natura, sia nella sua bellezza spontanea, sia con le attività svolte dall’uomo modificandola. Questa volta si è operato forse ancora più in grande, a stare al numero di collezioni private e musei prestatori: oltre a 12 musei olandesi e 2 italiani, opere venute da Francia e Germania, Regno Unito e Svizzera, Giappone e Israele, Canada e Australia e infine da 8 musei degli Stati Uniti. Quasi 70 suoi dipinti e disegni, circa 40 di artisti del suo tempo, soprattutto impressionisti, poi lettere e libri. Curatrice Cornelia Homburg, alla quale si deve lo splendido Catalogo Skirà con vasto corredo iconografico e schede in appendice che non interrompono la continuità delle opere riprodotte.

“Donne che riparano reti“, 1882

Con Van Gogh, l’operazione dello stesso tipo di quella sugli impressionisti appare ancora più delicata, dato che i suoi dipinti tendono ad essere considerati espressione di un animo esasperato e violento, piuttosto che della visione del mondo intorno a lui, presentato come rutilante di luce e di colori accecanti. La natura viene vista anche in questa mostra in due manifestazioni, i cicli immutabili della campagna e l’ambiente cittadino dove si “consuma” la presenza umana: una presenza non invasiva quando si tratta dei contadini; mentre appare distruttiva nella città che tuttavia apre un altro scenario, la modernità e il movimento rispetto alla staticità della tradizione.

Van Gogh riusciva a entrare in contatto stretto con la natura nella campagna che tanto amava e sentiva odio-amore per la città, che gli faceva cercare anche al suo interno le tracce della vita naturale: di qui i dipinti sui parchi pubblici e sui piccoli giardini privati, dove emergono anche motivi più intimi e riposti come quello del rapporto con gli altri, nelle varie espressioni.

L’angolazione prescelta per la mostra introduce così un motivo tematico esterno – la natura intesa come un “fuori di noi” nella duplice ottica di “campagna senza tempo” e “città moderna” – in aggiunta alle sue inquietudini che vanno al di là delle pene dell’artista per scavare nell’uomo.

Un uomo al quale si è attribuita una follia con momenti scatenanti di particolare gravità che hanno oscurato una vita ricca di motivi e piena di eventi: non altro si può definire l’esistenza di una persona di buone letture, che ha bruciato le tappe della vita, e non solo nella pittura, cui si è dedicato negli ultimi dieci anni di un’esistenza spentasi drammaticamente a soli trentasette anni.

“Chiatta con due figure che caricano torba” 1883

E allora da questa sua vita movimentata e non solo tormentata, non si può prescindere nel considerare il suo approccio con gli scenari che la mostra propone, dove si riflettono le sue diverse situazioni e gli ambienti in cui si spostava. Non era girovago nel senso di vagabondo: pur con la sua inquietudine molti spostamenti sono dovuti a spinte irresistibili della vita e della pittura, e sempre conseguenti a prese di coscienza personali nel cambiare ambiente, forti e risolutive.

Van Gogh in mostra tra il libro di Guerri e le sue iniziative speciali al Vittoriano

L’incrocio in Van Gogh tra campagna e città, nelle sue evidenze e nelle sue contraddizioni, è anche l’incrocio con la sua vita che ha visto sì, le campagne grigie dell’Olanda del Nord e quelle assolate del Sud della Francia, la Provenza di Arles e Saint-Remy; ma anche l’Aia a cavallo tra campagna e città e soprattutto Bruxelles, Londra, Parigi. In una vita in cui già a 15 anni entrava in un negozio di arte, continuando ad operare per diversi anni in un luogo così evocativo per chi ha l’animo di artista anche prima di metterlo in pratica dipingendo; lui che aveva appreso prestissimo le lingue, dal francese all’inglese, al tedesco oltre al fiammingo, e indulgeva nelle confessioni epistolari che oltre a fare un diario intimo e sofferto della sua vita danno l’interpretazione autentica della sua ispirazione e di come le dava forma artistica; con quali contenuti, quali significati e quali tecniche.

“La vecchia torre della chiesa di Rouen”, 1984

Bene ha fatto l’organizzazione della mostra a vederla come una riscoperta della sua vita, attraverso una certosina ricerca delle opere distribuite nei diversi periodi e non concentrate nella fase finale, più feconda e con tanti capolavori, ma non espressiva di tutto il percorso così accidentato. Che sia questa l’impostazione lo indica la presenza di molte opere della prima fase, l’opposto rispetto alle ultime: come al sole della Provenza corrispondono i colori violenti, il giallo accecante, alle brume del Nord del primo periodo corrispondono intonazioni scure in una serie di dipinti che non è facile trovare, proprio perché non sono del Van Gogh più visto e ammirato, ma lo preparano.

Come l’intero corso di vita prepara una conclusione che arriva quando, pur nella giovane età, ha dato tanto, forse ha dato tutto come dice Giordano Bruno Guerri ricostruendo l’ultima giornata dell’artista: oppresso dalle sue inquietudini; “Dopo mangiato si alza da tavola e esce, per la prima volta senza cavalletto, tela e colori. Ma la pistola è un pennello, con quel colpo Vincent non si uccide, si termina”. Perché avviene questo? Guerri trova “la sintesi della sua vita, la spiegazione della sua morte” nella lettera scritta quella stessa domenica al fratello Theo, l’ultima di un epistolario che ne conta seicento ed è come la trascrizione di una seduta psicanalitica lunga quanto la sua tormentata esistenza, profonda come la sua sensibilità e la sua arte. Vita e arte si incrociano in queste lettere, come la campagna e la città, con i motivi che evocano non solo in chiave ambientale ma soprattutto personale e psicologica; l’ultima non poteva smentire questa profondità interiore: “Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita, e la mia ragione vi si è consumata a metà”.

“Donna che avvolge un filo“, 1884

Un momento di sconforto considerando cosa stava per compiere su se stesso? No, se si legge quanto scriveva sempre a Theo due anni prima: “Noi artisti paghiamo un prezzo incredibilmente alto di salute, di giovinezza, di libertà, delle quali non dobbiamo godere nulla, proprio come il ronzino che tira una carrozza di gente che godrà, loro sì, la primavera”. Sono le parole con cui Guerri conclude il suo “Follia? Vita di Vincent van Gogh” (Bompiani 2009), proprio perché riassumono “la discesa infinita” di una vita legata all’“ascesa infinita” della sua arte: di entrambe prese consapevolezza, e anche di questo Guerri dà una prova lapidaria con le parole dello stesso Van Gogh poste a epigrafe del libro: “Così come in algebra due affermazioni false ne danno una vera, così spero che il prodotto dei miei fallimenti si concluda in un successo”.

Ripercorriamo questi fallimenti della vita che demoliva progressivamente nel ripercorrere il successo dell’arte che costruiva altrettanto progressivamente; fino all’accelerazione improvvisa in entrambe, al sole della Provenza, che lui vedeva più accecante della realtà perché lo sentiva bruciare dentro nella sublimazione dell’arte mentre gli consumava la carne e la stessa vita.

Facciamo questo percorso parallelo nel lato della vita seguendo il libro di Guerri, dove è ben delineato il filo della “follia”, tra virgolette perché vista non come patologia quanto come diversità, e non poteva essere altrimenti per una personalità così fuori dal comune in mezzo a mediocrità e incomprensioni; e cerchiamo di fermarci sulle tappe nel lato dell’ARTE in tutte maiuscole, tappe illustrate dalle opere esposte nella mostra che citeremo come le vere stazioni del suo percorso di vita.

“Contadina che lega un fascio di grano”, 1885

Sarà per una prospettiva di questo tipo che il realizzatore della mostra, Alessandro Nicosia, presidente di Comunicare Organizzando, ha affidato proprio a Giordano Bruno Guerri il compito di ideare, impostare e animare una serie di manifestazioni parallele, discussioni e spettacoli.

Artisti e critici, scrittori e appassionati hanno partecipato a tre dibattiti sulla sua figura i cui titoli fissano alcuni dilemmi: “Vale quanto costa?”, “Era davvero pazzo?” “Cosa ci ha insegnato”.

E quattro film, con taglio differente e diversa intensità hanno presentato la sua vita, con l’attiva presenza di Guerri; in tre di essi interventi da cineforum. Dai due “Van Gogh” di Resnais e Pialat a “Vincent e Theo” di Altman fino a “Brama di Vivere” di Minnelli. Il primo “Van Gogh” del futuro regista di “Hiroshima mon amour” è un cortometraggio del 1848 sulla crisi esistenziale vista attraverso i cambiamenti del volto nei numerosi autoritratti, e l’espressione degli occhi verso l’allucinazione, si ritrasse anche con l’orecchio bendato dopo la mutilazione; il secondo dei due registi francesi tratta dell’ultima fase della vita quando Vincent è sempre più stretto nelle sue angosce e scoppia in scatti d’ira con una sordo rancore verso il fratello che non lo comprende. Alle loro vite parallele è dedicato il film per la televisione di Altman, con un Vincent umano e semplice, e infine il precedente di Minnelli con un Kirk Douglas vicino al personaggio solo nell’aspetto, “ha fatto ciò che ha potuto, è americano”, ci dice Guerri, nel sottolineare alcune incongruenze del film.

“Contadine che zappano patate”, 1885

Dopo il talk show e il cinema, la conclusione con la performance teatrale “Van Gogh, la discesa infinita” tratta dal libro di Guerri da Paola Veneto, anche regista, svoltasi nell’ambiente monumentale del complesso del Vittoriano dov’è una piccola sala della grande quadriga, tra colonne e volte solenni: oltre a Guerri voce narrante, e altri tre bravi attori e un illustratore dal segno raffinato e moderno, c’è stata l’interpretazione di Van Gogh di Alessandro Waldergan che ha saputo esprimere la sua fragilità umana e insieme la forza dell’immedesimazione artistica; e ha retto in modo superbo il confronto con il grande Kirk Douglas del film proiettato pochi giorni prima.

La prima fase della vita, nel 1880 inizia con i disegni

Dunque seguiamo la prima fase della sua vita, che inizia nel 1853 quando Vincent nasce a Zundert, villaggio del Brabante olandese, figlio di un pastore protestante; quattro anni dopo nascerà il fratello Theo, che lo ha seguito e aiutato nella vita ricevendo di volta in volta tutte le sue opere.

Ripercorriamo i motivi e i contrasti che lo hanno fatto grande, l’inquietudine insoddisfatta e bruciante, anche quando non si era ancora immerso nella pittura. Aveva conosciuto l’arte da vicino molto presto, a 15 anni lo zio mercante d’arte lo fa entrare come commesso nella succursale della casa parigina Goupil all’Aia, a contatto con pittori e quadri olandesi e francesi; frequenta musei; e non resta fermo, visita anche Bruxelles, Londra e Parigi. Poi, a 20 anni passa alla sede centrale di Londra, intanto Theo a 16 anni è entrato nella succursale di Bruxelles della stessa Goupil.

Resiste soltanto un anno, torna a Londra per cercare l’amata Ursula, invano; poi va dai genitori che sono ad Etten. Lo prendono crisi mistiche, ci sarà un lavoro in una libreria di Dordrecht in Olanda, ma il delirio religioso lo porta a voler diventare sacerdote sulle orme del padre. Va a scuola a Bruxelles, non lo ammettono e ripiega come evangelista: a 26 anni si fa mandare nel Borinage dai minatori; preso dalla loro vita di stenti si riduce in condizioni miserande, perciò gli tolgono l’incarico; mentre cerca di incarnare lo spirito evangelico, di essere “un cristiano autentico” come diceva lui stesso.

“Casolare sotto gli alberi”, 1885

Il misticismo gli passa dinanzi a tanta insensibilità, elogia la superiorità degli affetti familiari rispetto alla vita appartata dei religiosi, sogna di svegliarsi al mattino con “una creatura accanto”. Sarà un motivo ricorrente la contrapposizione tra la tranquillità della vita normale con moglie e figli e l’inquietudine della sua vita che, avute altre delusioni dopo Ursula, troverà solo prostitute.

Siamo nel 1880. E’ tornato dai suoi, disegna un minatore incontrato per strada, e non si ferma più: per ora nel disegno, sogna di diventare illustratore e cerca di imparare la tecnica, prende lezioni da Anton Mauve all’Aia. Vorrebbe far vedere i suoi disegni a un pittore, non ne ha il coraggio. Ad Etten dove si trattiene otto mesi nella parrocchia paterna, sente la chiesa sempre più ostile, considera duri di cuore gli uomini religiosi, addirittura “orribile” il sistema delle chiese cristiane.

Si invaghisce della cugina Klee che lo respinge, si brucia il palmo della mano sinistra come prova d’amore, poi ci sarà la storia con Sien, una sventurata con cui si unì e voleva sposare in uno slancio di protezione per lasciarla dopo lunghi scontri con Theo che lo manteneva e non lo permise; la dimenticò presto, dopo tanta sofferenza. Intitola appunto “Sorrow” il disegno, non in mostra, che la ritrae seduta nuda, quasi accucciata, con il corpo sfiorito che esprime anche il dramma interiore. Da allora frequenta prostitute per piaceri momentanei visti come bisogno fisico da soddisfare magari a cadenze programmate, per mantenere la forza creativa che lo aveva preso: un imperativo categorico.

“Persone che passeggiano in un parco“, 1986

Abbiamo di questo periodo altri straordinari disegni in mostra, sono a matita e grafite, penna e inchiostro, sembrano già delle composizioni pittoriche tanto sono densi e compiuti. Nel 1881 “La palude” e il “Campo con nubi temporalesche”, natura e campagna; nel secondo due figure umane.

Nel 1882 e 1883 la campagna e il lavoro all’esterno

Nel Natale 1881 litiga con il padre, lascia Etten per l’Aia, settanta chilometri più a nord, un cugino pittore gli regala colori a olio e il necessario per dipingere, ma ancora disegna. Del 1882 vediamo esposti soggetti cittadini, “Stazione di Rijnspoor” e ”Dietro la Schenkweg, l’Aja”, il secondo con uomini schiacciati dal lavoro, ben diversi dai contadini liberi nei campi. Un senso di oppressione anche nel quadro di George Hendrik Breitner,le “Lavandaie sul fossato a Rotterdam”, la condizione umana è resa nel grigiore delle forme e dell’ambiente.

Con il capo chinato il “Giovane con una scopa” disegnato in questo stesso anno, c’è la città in primo piano in “Panetteria nel Geest”, anche qui due al lavoro mentre uno osserva ed “Essiccatoio per il pesce”, dove lo stabilimento occupa parte della campagna senza farle violenza. Ma ecco i colori ad olio, prima su carta, con “Donne che riparano reti”, la campagna la fa da padrona e le figure umane vi si inseriscono perfettamente; poi finalmente su tela “Ai margini di un bosco”, la natura nella sua forza espressiva, con alberi diritti e statuari, in entrambi colori scuri e bagliori in cielo; è esposto anche “Veduta di un bosco” di Théophile de Bock, anche qui tronchi diritti ma più fitti e sottili, la differenza è evidente nella comune ispirazione.

“Due signore al cancello di un parco ad Asméres”, 1887

Si firmerà sempre Vincent, trova il cognome olandese duro e impronunciabile nelle altre lingue, non è sensibilità di un poliglotta, è come se sentisse la predestinazione alla fama universale.

Ha trent’anni, è il 1883, ormai dopo il disegno la pittura, “per cinque anni – scrive Guerri – non farà altro che esercitarsi, martoriandosi per imparare”. E nello stesso tempo si tormenta che vorrebbe avere una famiglia: “Il suo irrisolvibile problema umano fu non riuscire a conciliare il furore del genio con un briciolo di normalità – prosegue – E quando il genio finirà per prevalere, com’era naturale, la sua vita più semplice e quotidiana ne verrà schiantata”.

In mostra vediamo del 1883 due dipinti straordinari nella loro essenzialità, “Gruppo di case coloniche” e “Chiatta con due figure che caricano torba”. Le case coloniche esprimeranno fino al termine il suo ideale contadino, di una campagna immutabile ed eterna, in contrasto con la città in continua trasformazione, all’amico pittore Bernard scriverà nel 1889: “Quanto a me, la cosa più meravigliosa che conosco in fatto di architettura è il casolare col tetto di paglia cosparso di muschio”; le case qui ritratte sono, in effetti, soltanto tetto, questo particolare lo colpiva. Forme scure come quelle sulla chiatta, siamo nella fase oscura della sua pittura, quella meno conosciuta.

Stesso tipo l’acquerello “Bruciatore di stoppe con la moglie”, figure nette, essenziali. Va a vivere da solo a Drenthe, una campagna nell’Olanda settentrionale, un luogo desolato e cupo. Poi torna dal padre che si è trasferito a Nuenen, un piccolo paese, con la famiglia, le sue tre sorelle e il fratello più piccolo, e scrive a Theo che lo vedono come “un grosso cagnaccio” per le sue stranezze, ma aggiunge che capisce, “li lascio stare”. Intanto gli manda i suoi quadri in cambio del sostegno economico che il fratello non gli fa mancare, sia pure con resistenze. Vediamo esposti di quell’anno due disegni desolati, “Paesaggio invernale con la vecchia torre di Neunen” e “Funerale a Neunen in inverno”, lo squallore della stagione si aggiunge a quello della natura, sono molto lineari, essenziali e calligrafici, c’è un senso di ampiezza e di vuoto dove si stagliano figure nette.

“Ponte sulla Senna ad Asnières”, 1887

L’incrocio campagna-città anche sul lavoro nel 1884 e 1885

Di questa sua nuova residenza abbiamo nel 1884 “La vecchia torre della chiesa di Neunen” e “Il giardino della canonica di Neunen”, la cuspide in primo piano e poi in lontananza vista dal giardino, siamo ancora nel periodo oscuro: nel primo dei due si vedono tre uccelli in volo, sembrano i corvi che troveremo nell’ultimo quadro della sua vita; e un disegno, “Fosso” che rende la natura immobile in campagna, straordinari gli steli sottili in primo piano, quasi giapponesi. A fronte l’immagine buia con le “Pale del mulino ad acqua di Gennep”, l’industrialismo incombe.

Lo colpisce ancora di più il duro lavoro che si svolge nei campi, ne diventa attento osservatore quasi che attraverso la fatica volesse cogliere la forza riposta nella natura. E’ splendido “La semina delle patate”: bue, uomo e donna con le teste chine come fossero sotto lo stesso giogo ma nella serenità dell’ambiente; la natura ancora non si mostra aggressiva come sarà più avanti.

Il lavoro è il soggetto principale di questa parte della mostra, che rivela le sue ispirazioni. Vediamo “Donna che avvolge un filo” lavorando all’arcolaio come la “Donna che ripara le reti” di Anthon van Rappard,composizione simile a parte la finestra spostata; è esposta in mostra anche una lunga lettera manoscritta di Vincent a Rappard nel 1883, otto pagine fittissime con dei disegni, tra cui una testa china al lavoro. Immagine speculare in “Uomo che avvolge un filo”, siamo tornati a Van Gogh. Analoga ambientazione scura e positura nel “Tessitore” e “ in “Bottega di tessitore con Seggiolone”, nel quale un bimbo assiste al lavoro; nel secondo c’è luce da una finestra. Ancora più scuro “Contadino che fabbrica un cesto”, con il volto che dà un senso di oppressione.

Volti ravvicinati nello stesso 1884 nella “Testa di contadino” e nella “Testa di contadina”, impressionanti nell’esprimere una condizione umana di sofferenza e di sopportazione, ma anche di determinazione; li ha visti da vicino lavorare duramente come aveva visto i minatori con i quali quasi si identificano, la forma non è delineata come nel disegno, i tratti sono spessi e pesanti. Altri due dipinti dello stesso titolo ritraggono la testa maschile e quella femminile con minore gravità, l’espressione sempre severa è quasi attonita in lei, riflessiva in lui, siamo tra il 1884 e il 1885.

“Ritratto di Alexander Reid”, 1887

Si avvicina l’anno della svolta, è sempre in famiglia ma sono difficili i rapporti con il padre, che definisce “il più dolce degli uomini crudeli”: è un religioso e il figlio legge libri “peccaminosi” di autori come Zola e Hugo. Per liberarsi un po’ dalla pressione Vincent affitta uno studio dal sacrestano cattolico, dalla padella alla brace. Abbiamo visto dai dipinti citati come si appassiona al lavoro dei tessitori, il prete cattolico li paga perché non posino per lui. Svanisce la storia d’amore con Margot, presa al punto di seguirlo in campagna quando dipinge e a tentare di uccidersi per l’ostilità della propria famiglia. Si chiariscono i rapporti con il fratello, divenuti tesi, gli darà i suoi dipinti in cambio del mantenimento, però con la garanzia che Theo non interferirà nella sua vita.

Ci avviciniamo gradualmente ai dipinti in mostra di tale anno, il 1885, cominciando da quattro disegni in gessetto su carta di grande efficacia in un segno sottile che, con il chiaroscuro, sembra scolpire. Appaiono come sculture le figure chine “Contadina che raccoglie un fascio di grano”e “Contadina che raccoglie patate”; nonché la figura eretta “Contadina che lega un fascio”, galleria straordinaria del duro lavoro dei campi; in “Covoni di grano e mulino” c’è la campagna che il lavoro ha reso ordinata, quello delle donne che abbiamo visto raccogliere le spighe per fare i covoni; il mulino in fondo è la destinazione finale che porterà al completamento del ciclo naturale e insieme umano. La trasposizione a olio non si fa attendere, è nelle scultoree “Contadine che zappano patate”. La mostra espone il dipinto di Jean Francois Millet, “I raccoglitori di fieno” del 1850 che riunisce le due immagini delle contadine curve e in piedi. E’ di questo stesso anno “I mangiatori di patate”, ritenuto il dipinto più rappresentativo del periodo olandese, non in mostra: una famiglia contadina in un ambiente oscuro e misero, così la descriveva a Theo con umana comprensione: “Questa gente ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto”.

“Interno di ristorante“, 1887

E’ una fase che si conclude quasi simbolicamente con “Verso sera”, il culmine della pittura oscura della prima metà dei suoi dieci anni di vita artistica: il titolo rende bene l’atmosfera, un’ombra pesante quasi omogenea avvolge la scena incorniciata da alberi, con una piccola figura nera in primo piano: ma al centro una forma chiara allungata sembra portare una luce nuova nella sua pittura, luce che esploderà presto in modo accecante. E già lo intravediamo nello stesso anno in “Veduta di Amsterdam”, è la città che sembra portare quella luce finora quasi assente.

Siamo alla svolta, andrà da Theo a Parigi dopo aver frequentato l’accademia di pittura ad Aversa. Che sarà, come scrive Guerri, l’“ultima tappa prima della Francia”, non rivedrà più l’Olanda; andrà via senza rimpianti perché lo respingono retrocedendolo alle prime classi tra i ragazzi di dodici anni. Anticipiamo la svolta con il primo autoritratto di Vincent esposto in mostra, dei circa quaranta che si conoscono. E’ del 1886, ha trentatre anni, si ritrae senza cappello, l’espressione concentrata e intensa, mascella serrata e occhi fissi, sembra volersi sottoporre a un esame attento e penetrante. Sebbene ancora non ci siano i colori e i tocchi assimilati dall’impressionismo, l’intonazione è più chiara e luminosa delle altre teste dipinte in passato; inoltre l’influsso impressionista si nota dalle pennellate leggere anche se c’è sempre il suo tocco inconfondibile. Scrive in inglese, proprio nel 1886, all’artista Horace Mann Livens, “ho molto ammirato certi dipinti impressionisti” mentre afferma di non essere “impressionista maturo”.

La “discesa infinita” della vita diventerà vorticosa, e così l’ “ascesa infinita” dell’arte: inizia la fase più calda in tutti i sensi, ci torneremo presto percorrendo i dipinti esposti nella mostra con la filigrana della vita seguendo la ricostruzione di Giordano Bruno Guerri che non trova vera follia nelle cadute esistenziali dell’artista, ma i brucianti contrasti creati dalla sua arte superiore.

“Strada parallela ai bastioni di Parigi”, 1887

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via dei Fori Imperiali. Ingresso  lunedì-giovedì ore 9,30-19, 30, venerdì-sabato 9,30-23,30, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Interi euro 12, ridotti euro 9,50  per le categorie agevolate. Catalogo: “Vincent Van Gogh”, a cura di Cornelia Homburg, pp. 280, ottobre 2010, formato 28 x 30. Info tel. 06.6782664. Il secondo articolo sarà pubblicato in questo sito domani 18 febbraio 2011.  Per la mostra citata “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura”, cfr. il nostro articolo in questo sito, 27-29 giugno 2010.

Photo

Le immagini, tutte opere di Van Gogh, inserite in ordine cronologico, sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti, e “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta; lee ultime 7 immagini, di opere dal 1886 al 1888, anticipano il commento del secondo articolo, in cui sono citate, che riguarda tali anni e gli ultimi, 1889 e 1890, molto fitti e intensi. In apertura, “Autoritratto” 1886; seguono “Donne che riparano reti” 1882, e “Chiatta con due figure che caricano torba” 1883; poi, “La vecchia torre della chiesa di Rouen” 1984, e “Donna che avvolge un filo” 1884; quindi, “Contadina che lega un fascio di grano” 1885, e “Contadine che zappano patate” 1885; inoltre, “Casolare sotto gli alberi” 1885, e “Persone che passeggiano in un parco” 1986; ancora, “Due signore al cancello di un parco ad Asméres” 1887, e”Ponte sulla Senna ad Asnières” 1887; continua, “Ritratto di Alexander Reid” 1887, e “Interno di ristorante” 1887; infine, “Strada parallela ai bastioni di Parigi” 1887 e, in chiusura, “Il ponte di Langlois”1888.

” Il ponte di Langlois”, 1888.

Cranach, l’altro Rinascimento, 2. Dai ritratti alla seduzione

di Romano Maria Levante

Dopo la pittura di Corte, relativa agli ambienti e temi più legati a quel mondo è il momento della Ritrattistica e della Religione, di altri Temi mitologici e della Donna come la vede Lucas Cranach, il grande pittore dell’“Altro Rinascimento” in mostra alla Galleria Borghese a Roma, dal 15 ottobre 2010 al 13 febbraio 2011, in un confronto tra il Rinascimento italiano con 30 opere di pittori celebri, tra cui Tiziano e Raffaello, e il Rinascimento tedesco dell’artista che della donna seppe esprimere anche il potere legato all’erotismo e alla sessualità con i dipinti di celebri eroine.

Il confronto dei due Rinascimenti. La ritrattistica

Come riassumere le prime immagini. già commentate, della pittura di corte di Cranach e come definire l’“altro Rinascimento” rispetto a quello italiano? Possiamo dire che, a differenza del nostro Rinascimento, non si ispira all’antico e non ha forme classicheggianti, ma nordiche: riproduce la natura nei particolari e con uno stile pittorico di origini e ispirazione fiamminghe.

Il curatore Bernard Aikema afferma: “Cranach entra in competizione con Durer come entra in competizione con i grandi pittori italiani ma sempre traducendo queste novità in un linguaggio pittorico che per esempio si riconosce molto direttamente nelle sue figurine, quasi senza struttura ossea, quasi fatte di gomma con la pelle liscia e quei sorrisi maliziosi delle femme fatale un po’ inquietanti. Tipica invenzione cranachiana, che ha avuto immenso successo in centro Europa”.

Diversa l’attività ritrattistica, per avere un’idea della sua vastità basta considerare che, ad esempio nel 1532, il suo principe elettore – era l’epoca di Giovanni Federico I – gli commissionò sessanta coppie di ritratti dei predecessori, cioè Federico il saggio suo zio e Giovanni suo padre, che poteva eseguire soltanto con le tecniche cui abbiamo accennato a proposito della “pittura di corte”, cioè cavalletti affiancati per una lavorazione quasi in serie con sagome in cartone e lucidi e varianti su un impianto comune. Altri ritratti multipli furono quelli che vedremo più avanti a proposito della sua pittura religiosa, in particolare fatti a Lutero e a sua moglie dopo la trasgressione delle nozze, “originali di massa” richiesti in gran numero per diffondere il nuovo verbo protestante.

Il primo che vogliamo citare è il “Ritratto di Lucas Cranach il vecchio”, l’autore si pensa sia il figlio Luca Cranach il Giovane che ne continuò l’opera: un mezzo busto forse del 1550, l’ombra inconsueta e i minuziosi particolari della barba escludono ci sia la sua mano, non è un autoritratto.

La ritrattistica di Cranach il vecchio fu innovativa: oltre al busto, la mezza figura e il profilo in tre quarti sperimentò anche la figura intera a grandezza naturale, come nel dittico del duca di Sassonia “Enrico il Pio e la moglie Katharina”. Ritrasse i bambini che assumevano ruoli nella corte e diede a delle signore di corte abiti e atteggiamenti di figure come Giuditta e Maria Maddalena.

Il busto con la testa in particolare rilievo lo troviamo nel “Ritratto del Malgravio Casimiro”, che ricorda nel taglio dell’immagine, nell’abbigliamento e acconciatura, a parte la barba, un dipinto di Durer. Stessa inquadratura nel “Ritratto postumo di Federico il Saggio” e nel “Ritratto di giovane barbuto con cappello rosso”, mentre nel “Ritratto di Carlo V” del 1533, a differenza dei precedenti il mezzobusto è rivolto verso sinistra. Nello stesso periodo Tiziano ritrasse l’imperatore con il cane a figura intera, mentre Cranach tornò sul tema nel 1550 ad Augusta dando di Carlo V un’immagine decadente, anche l’artista era in un’età avanzata, lo si avverte nel quadro. Il “Ritratto di principe di Sassonia” di Cranach del 1516-18 viene messo a confronto con “L’elettore Giovanni Federico di Sassonia” del 1533 di Tiziano, venuto dal Museo storico di Vienna.

Tiziano era un altro pittore di corte che “pensava in grande e in modo manageriale” con un “sistema estremamente duttile, aiutato da numerosi assistenti”. Abbiamo citato Mantegna per il mezzo secolo a corte dei Gonzaga prima che Cranach facesse il suo mezzo secolo dagli elettori di Sassonia. Bernard Aikema – curatore di mostra e catalogo con Anna Colida – aggiunge: “All’epoca una ditta paragonabile a quella di Cranach era quella di Tiziano che nell’Italia settentrionale era un po’ la controfigura di Cranach per molti aspetti: pittoricamente era completamente diverso”. Queste analogie lo fanno concludere che “c’è un parallelismo assoluto tra Cranach e Tiziano” nella gestione dell’attività di corte, a cui si aggiunge l’incontro nel 1550-51 come pittori di corte nei fronti opposti dopo la sconfitta dell’elettore di Sassonia fatto prigioniero: e raffigurato sia da Cranach accorso da lui, sia per il vincitore da Tiziano che si richiamò al pittore tedesco. Si è saputo che Tiziano fece anche un ritratto a Cranach allora di 77 anni, andato perduto.

Dei ritratti femminili ci piace sottolineare le due figure a tre quarti e a figura intera: la prima “Ritratto di una giovane dama”, la seconda, “Fanciulla con una mela”, ritrae una damigella di corte. La nobiltà delle figure rappresentate fa dubitare, in particolare il critico John Martin, se tali dipinti “possano talora essere ritratti ideali, o quanto meno ritratti in cui la reale personalità della donna raffigurata sia stata subordinata all’ideale cranachiano della bellezza”.

Lo vedremo più avanti, per ora aggiungiamo solo alla galleria di ritratti due coppie di bambini a mezza figura: “Ritratti di un principe sassone” e “Ritratti di Maurizio e Severino di Sassonia”. Il primo dittico ritrae i due bambini nella loro espressione infantile, pur se con abiti e ornamenti del rango, mentre il secondo ne mostra la consapevolezza, soprattutto del più grande, non solo nell’abbigliamento ma nello sguardo imperioso in una vera introspezione psicologica.

Mentre questi sono dittici bene accoppiati, ci sono poi le “Coppie male assortite”, vediamo Giovane uomo e anziana” e “Giovane donna e anziano”: ritratti impietosi di uomo e donna accostati nella loro differenza di età, figure burlesche i cui contrasti spiccano sul fondo nero.

Ed ora dovremmo commentare i “Ritratti di Hans e Margarethe Luther”, ma questo richiede di parlare del mondo in cui entrò Cranach, quello della religione, luterana e anche cattolica.

La pittura in nome della fede luterana

Nel ricordare la vita di corte dell’artista abbiamo già accennato all’irruzione del motivo religioso non più solo come soggetto particolarmente frequentato nell’arte pittorica ma come personale coinvolgimento nella rivoluzione protestante essendo amico di Martin Lutero che dalla stessa Wittenberg fece partire la riforma luterana,, definita da Joachim Jacoby nel Catalogo “uno spartiacque della storia europea”, nel senso che apportò “un rinnovamento spirituale ma allo stesso tempo turbolenza, guerre e secoli di dissenso nei confronti del Continente”,

Come vi fu coinvolto il nostro artista? “E’ lo stesso Cranach a dare alla riforma un nuovo aspetto esteriore , rappresentando in modo radicalmente nuovo i soggetti religiosi”, prosegue il critico. “Inoltre, grazie ai ritratti delle figure rappresentative di questo movimento, Martin Lutero e FIlippo Melantone, fu sempre Cranach a dare letteralmente un volto alla Riforma. Durante i primi anni i ritratti di Lutero si susseguirono in rapida successione”. Il primo citato è un’incisione del 1520 in cui viene ripreso di tre-quarti con un aspetto severo, l’anno dopo invece un profilo da precettore benevolo, fino alla successiva xilografia “Lutero come Junker Jorg”. Era questo (“giovane nobiluomo Gorge”) il nome con il quale Lutero si era rifugiato nel castello di Wartburg per sfuggire alla cattura da parte dell’imperatore che voleva incarcerarlo: il ritratto e la Bibbia da lui tradotta in tedesco contribuirono molto alla diffusione del nuovo verbo luterano.

In mostra vediamo i “Ritratti di Martin Lutero e Katharina Von Bora”, del 1529, quattro anni dopo le nozze che trasgredivano al celibato e furono viste come una escalation della sfida a Roma, dipinti che furono prodotti in serie in diversi formati per diffondere il nuovo verbo. Sono entrambi su sfondo azzurro, di Lutero solo il viso ha il colorito naturale, per il resto tutto è nero, il mantello e il cappello; molto severa nel suo colletto bianco e pelliccia la moglie Katharina.

Due anni prima, a dieci anni dall’affissione alla porta della chiesa dell’iniziale manifesto, aveva dipinto i “Ritratti di Hans e Margarethe Luther”, i genitori di Martin Lutero ripresi a mezza figura in atteggiamenti familiari, imbronciato lui, stanca lei, e potevano essere riuniti in dittico.

Oltre ai ritratti ci furono xilografie e dipinti di Carnach per le nuove visioni della fede protestante. Tra le prime le illustrazioni del libello “Passional Christi und Antichristi” dove la vita ascetica di Gesù viene posta a confronto con l’immagine screditata del Papa ed altre esemplificazioni visive.

Anche le immagini dell’iconografia religiosa tradizionale sono rese in forma nuova, più semplice ed essenziale, per trasmettere in modo immediato il messaggio religioso senza pathos ma con intento divulgativo dei suoi contenuti. Questo in “Cristo e l’adultera” e soprattutto nel “Centurione sotto la Croce” che vediamo in mostra in tutta la sua impressionante semplicità: oltre al Cristo crocifisso tra i due ladroni c’è solo il centurione a cavallo con la scritta in tedesco che gli esce di bocca “Veramente quest’uomo era il figlio di Dio”, un messaggio forte e diretto e senza orpelli: lo sfondo è nero cupo senza alcun paesaggio né altro segno esteriore che possa distrarre.

Immagini della fede, la committenza cattolica

Le alterne vicende dell’iconoclastia protestante, cui Lutero comunque si oppose, favorirono o rallentarono la richiesta di ritratti e immagini per il nuovo verbo. Cranach, comunque, non trascurò la committenza cattolica neppure dopo il messaggio luterano: Abbiamo già accennato alle commesse per la chiesa di Halle e per il Duomo di Berlino: “Tanto per le dimensioni quanto per la rilevanza ideologica – osserva il critico Jacoby – entrambi i progetti rappresentano il concetto di ‘pale d’altare coordinate’ e possono essere paragonate alle decorazioni prodotte sotto la direzione di Giorgio Vasari per le chiese fiorentine di Santa Maria Novella e Santa Croce”.

Dei dipinti per le committenze cattoliche vediamo innanzitutto “San Gerolamo nel deserto” e “La visione di Sant’Eustachio”. All’opposto dell’essenziale “Centurione sotto la Croce”– a dimostrare la diversa destinazione e ispirazione -la figura principale è immersa in un paesaggio ricco di elementi naturali che sono di per sé architetture e, in assenza di altri soggetti trattandosi di romitori, di animali di vario tipo e nelle più diverse posizioni, in primo piano e in prospettiva. Viene esposto a raffronto il “San Gerolamo” di Lorenzo Lotto dal quale si differenzia perché qui il santo è quasi avulso dall’ambiente, mentre nell’artista italiano ne è parte integrante.

La piccola tavola “Santa Barbara”, con la sontuosa veste della santa che ha in mano un libro vicino alla torre della sua prigionia riporta alla “Santa Caterina” dello stesso Carnach, come ulteriore esempio di repliche differenziate con varianti anche notevoli ma ricondotte a un unico impianto originario. Mentre la “Vergine e Bambino che mangia un grappolo d’uva” richiama il dipinto del Perugino – identici i colori del manto e della veste – ma in Carnach il paesaggio retrostante ha un ruolo prevalente sulle figure in primo piano,mentre nell’altro è uno sfondo poco visibile. Stesse similitudini e dissonanze nella “Madonna con Bambino e San Giovannino”.

Il dipinto del 1531 “Il sacrificio di Abramo” ha caratteri analoghi, colori forti, prevalenza della natura con la scena rovesciata, i due servitori in primo piano, la scena madre del sacrificio interrotto dall’angelo in alto in piccolo, segno del carattere corale e non solo personale dell’evento.

Sempre in campo biblico, due dipinti a grandezza naturale “Adamo ed Eva” che nella mostra spiccano in maniera particolare. Sono del 1528 e a dimostrazione dell’interesse dell’artista per tale tema sta la sua xilografia del 1509, anch’essa in mostra, successiva a quella di Durer del 1504: Durer dava rilievo alle due figure nelle loro perfette proporzioni, laddove l’incisione di Cranach le inseriva, sommergendole, nel viluppo della natura tra albero, animali e altro ancora. Le figure dipinte hanno la levigatezza e le forme sottili dello stile tedesco rispetto alla maggiore floridezza italiana, queste però non sono filiformi come altre e hanno un chiaro richiamo erotico.

Tra erotismo e tenerezza l’incisione “La penitenza di san Giovanni Crisostomo” con il corpo nudo tra gli alberi della giovane che ha il neonato in grembo vigilata dai cervi, mentre Giovanni è rimpicciolito sullo sfondo per scontare la sua colpa. Vicina a questa immagine – nella collocazione di donna e bambino sotto un albero – la xilografia “Riposo durante la fuga in Egitto”, qui però la donna è vestita, trattasi della Vergine con San Giuseppe, è del 509; Caravaggio ne farà un capolavoro con l’angelo seminudo e il cartiglio recante lo spartito misterioso che fu decifrato.

Le xilografie “La tentazione di Sant’Antonio” e “San Giorgio” concludono questa rassegna di temi religiosi con figure molto diverse: nel primo il santo sollevato in alto dai diavoli è confuso tra viluppi inestricabili di rami e fauci di bestie e demoni; nel secondo, invece, il santo si staglia imponente nella sua armatura dopo il combattimento con dei putti che reggono elmo e parte dell’armatura, il suo capo è circondato dall’aureola. Un finale in gloria, dunque.

La seduzione femminile

E dato che siamo entrati nell’erotismo proseguiamo in una vera e propria galleria di sensualità femminile, che Aikema nel Catalogo introduce così: “L’immagine della donna sensuale, seducente e (semi)nuda costituisce una delle novità più spettacolari dell’arte del Rinascimento italiano (Botticelli, Raffaello, Tiziano). Così vuole tradizionalmente – e giustamente – la storiografia artistica. Ma il pittore cinquecentesco del nudo femminile per antonomasia non è italiano: è tedesco, si chiama Lucas Cranach e non segue la tipologia classicheggiante che siamo soliti associare al concetto di nudo rinascimentale”.

Nel Rinascimento italiano le forme sono morbide e floride, c’è un ideale di bellezza muliebre unita al benessere del corpo e dello spirito, una sorta di estasi corporale e spirituale insieme, senza ansia e tanto meno angoscia, il creatore dispensa i suoi doni anche nell’armonia delle linee arrotondate. Il modello tedesco, dell’“altro Rinascimento” di Cranach, dà ai corpi una estrema leggerezza, sono “figurine eleganti dai corpi flessibili e apparentemente privi di struttura ossea, creature decorative, dalla pelle liscia e bianchissima e dall’aspetto vagamente inquietante, quasi una sequenza ininterrotta di ‘lolite’, ma con attributi iconografici ogni volta diversi”.

La galleria di dipinti esposti mostra figure che esprimono diversi contenuti e significati, dal religioso al profano, dal tradizionale al rivoluzionario; con il particolare che abbiamo anche qui produzioni in serie con varianti significative. Due sono le immagini ricorrenti: Venere e Lucrezia.

Di Venere vediamo tre dipinti, uno dei quali a grandezza naturale: “Venere e Cupido che ruba il favo di miele”, con inserita nello sfondo nero la morale molto edificante, quasi da favola di Esopo: evoca il dolore che punisce la “voluttà delle nostre brame” come il morso dell’ape il bimbo che ha rubato il miele dall’alveare, metafora della mela di Adamo ed Eva. E’ la proprietà della Galleria Borghese che ha dato avvio all’intera mostra, datato 1531. veramente pregevole.

Oltre 20 sono le varianti sul tema, in mostra c’è la piccola tavola “Venere”, uno splendido nudo su sfondo nero, il cui accostamento alla “Nascita di Venere” di Botticelli e alla “Venere di Urbino” di Tiziano evidenzia la differenza cui abbiamo prima accennato, nella raffigurazione della bellezza muliebre; la minore floridezza delle forme, tuttavia, non ne riduce la sensualità, perché dà un che di provocante e di ambiguo tanto che, ricordail critico Andrew John Martin, nella metropolitana di Londra due anni fa volevano rifiutare il manifesto che la riproduceva per la mostra di Cranach.

Abbiamo poi “Venere e Cupido”, che si avvicina di più alle forme rinascimentali italiane ed è ben accostata al quadro di tale soggetto di Gianpietrino. Ancora più vicina alle forme floride la xilografia dallo stesso titolo, ritenuta vicina al Botticelli sia nelle proporzioni che nella posa.

La Venere da sola, che abbiamo appena commentato, ci porta alle immagini di “Lucretia”, altro tema seriale, e precisamente al dipinto, anch’esso di piccole dimensioni, da Vienna, in cui sullo stesso fondo nero e lo stesso pavimento spicca un nudo molto simile, a parte il pugnale impugnato nella destra e non solo il velo sottile come l’altro dipinto. Anche se sono molto simili e simmetrici, tanto da far pensare a due “pendant”, Bodo Brinkmann, citato da Martin, qualifica questa Venere come “la più lasciva e seduttiva dea dell’amore che Cranach abbia mai dipinto”, mentre il “pendant”, la Lucrezia “viennese” come “la più seria e tragica di tutte le sue Lucrezie”. Martin, seguendo Brinkmann, arriva a cercare un significato alla somiglianza: “L’amore virtuoso e la fedeltà fino alla morte potrebbero essere contrapposti all’amore vizioso e all’invito all’adulterio”.

C’è un’altra “ Lucretia” sempre nuda, però molto diversa, una matrona piuttosto che una giovane sensuale, tra tendaggi e un paesaggio con alberi e case che “entra” in modo prepotente dalla finestra. Poi due tavole intitolate “Lucrezia” o “Il suicidio di Lucrezia” : la matrona ha forme più floride ed è vestita in modo sontuoso dalla cintola in giù, solo il seno è scoperto : nella prima – sullo sfondo spiccano le torri e il paesaggio – brandisce il pugnale nelle mani serrate dal basso verso l’alto e, a parte questo particolare, ricorda nella posa e nell’atteggiamento “Lucrezia” di Jacopo Palma il Vecchio, anch’essa esposta; l’altra tavola è un ovale su fondo nero, il pugnale nella mano destra va dall’alto verso il basso, l’espressione appare maliziosa. Si è molto discusso del voyeurismo collegato a questo esempio di virtù: è “una ‘ignuda’ che fa vedere le proprie grazie” chiosa Martin, e cita Johannes Erichsen che parla di “oscillazione tra monito morale e attrazione erotica”. Ma è voyeurismo provocato oppure ostentazione del “potere delle donne”?

Il potere delle donne nel mito e nella Bibbia

E’ un “potere” che in Cranach si esprime soprattutto sui temi biblici e mitologici, dove è abbinato all’inganno”, in tedesco Weibermacht e Weiberlist; e si traduce – scrive Aikema – “in una fioritura di soggetti dove una figura femminile utilizza il proprio fascino per dominare, compromettere o addirittura distruggere un uomo illustre e inconsapevole”. Le scene bibliche e mitologiche le abbiamo viste in tanti pittori, ma è Cranach il primo a trasferirle nella pittura del Nord Europa dopo che tali temi erano entrati nelle maioliche; ne abbiamo avuto conferma nella recente mostra romana “Il bianco a tavola”, sullo stesso periodo,- e nelle vetrate, nelle formelle, nelle stampe.

Basta citare i titoli perché tornino alla mente gli altri artisti che si sono ispirati agli stessi temi: “Salomè con la testa di San Giovanni Battista” in due raffigurazioni, dove colpisce l’espressione niente affatto tragica, anzi estasiata della donna che regge il vassoio con la testa mozzata. Molto simile “Giuditta con la testa di Oloferne”, dove il capo mozzato è simile a quello di Giovanni nei due dipinti precedenti, ma anche Giuditta è uguale alla seconda Salomè, sempre nel sistema seriale in cui si modificavano dei particolari di un impianto comune, qui c’è la spada invece del vassoio; ricordiamo che Caravggio ne diede interpretazioni drammatiche, con la fredda determinazione di Giuditta, qui il volto esprime piuttosto bellezza e levigatezza, Abiti e acconciature sono molto elaborati e raffinati, li troviamo immutati in questi dipinti, simili a quelli della giovane nella “coppia male assortita” di cui si è detto, nella quale, però, l’espressione del viso è ammiccante.

Non sono soltanto truculente le immagini del potere della donna, c’è anche quello che nasce dall’intesa e dall’affetto, dalla condivisione e dall’amore. Abbiamo una sfilata di soggetti, cominciando dal tema biblico di “Lot e le figlie”, del 1529, una delle diverse raffigurazioni dell’“inganno” delle figlie che per garantire la discendenza lo ubriacano e seducono: secondo il già citato Martin, nel dipinto meno drammatico“Lot scivola, per così dire, nel ruolo del vecchio delle coppie male assortite”, ed è proprio vero vedendo i due visi accostati; molto lontana sullo sfondo la scena della fuga con la città in fiamme e la moglie trasformata in un statua di sale. Come questo è lezioso così è realistica la stessa scena raffigurata da Bonifacio Veronese nella drammaticità e nel realismo espressivo, con simbolismi e atteggiamenti che fanno riflettere sul significato morale.

Riflessi moralistici evidenti in “Davide e Betsabea”, del 1534, la storia biblica dell’amore del re per la moglie di un generale, che non viene raffigurata nuda come in altri dipinti sul tema, ma in abiti da gentildonna circondata da damigelle come in un minuetto, forse con intenti edificanti per testi luterani; è “potere delle donne” anche questo, conquistare con l’eleganza e non l’erotismo.

Altra “coppia” con il potere nella donna è “Aristotele e Fillide”, lei giovanissima addirittura lo cavalca come un somaro reggendosi alla sua barba e guardando con malizia lo spettatore, con le loro due figure immerse nel verde che non fanno pensare alle “coppie male assortite” nonostante la differenza di età: un vasto paesaggio fa da sfondo, con in primo piano di alberi e rocce.

Vogliamo concludere questa rassegna di dipinti sul “potere della donna” tornando agli splendidi nudi di Cranach. E cosa meglio del “Giudizio di Paride”, che si risveglia avendo dinanzi i corpi ignudi delle tre dee, quasi “tre grazie” le cui forme, più morbide che nelle Veneri prima commentate, contrastano con la rigida armatura che lo imprigiona. E infine “Diana e Atteone”, il giovane cacciatore trasformato in cervo dalla dea sorpresa a fare il bagno con le sue ninfe: una scena di caccia sullo sfondo, un primo piano con lo stagno dove spiccano i sette nudi diafani e delicati, in varie posizioni e atteggiamenti con un effetto sicuramente seducente.

E di certo, il “potere della donna”, qui impersonato in una dea, è sublimato nella trasformazione in cervo – per di più attaccato subito dai cani – dell’uomo che poteva insidiarla. Un contrappasso per tante situazioni in cui il cacciatore diventa selvaggina: è questo un messaggio educativo, in aggiunta alle altre morali che si possono evidenziare, che si può trarre dalla mostra di Cranach.

Cranach, l’altro Rinascimento, 1. La pittura di corte

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Borghese a Roma, dal 15 ottobre 2010 al 13 febbraio 2011, il Rinascimento tedesco a confronto con il Rinascimento italiano nella mostra di Lucas Cranach, per la prima volta in Italia con 57 opere esposte insieme a 30 opere di artisti come Lorenzo Lotto e Dossi, Pinturicchio e Bellini, Ghirlandaio e Carpaccio, Tiziano e Raffaello. L’algido Rinascimento tedesco nei dipinti provenienti da molti musei e quello caldo italiano in quadri della Galleria Borghese con aggiunte significative. Dopo “Caravaggio e Bacon” un’altra mostra nella sede monumentale di una straordinaria collezione permanente, in un progetto di lungo periodo che prende lo spunto dai capolavori presenti- questa volta Venere e Amore di Cranach – per costruire eventi prestigiosi.

La mostra e la presentazione dei ministri italiano e tedesco

Il progetto “dieci grandi mostre in dieci anni” è stato confermato: per il 2011 preannunciata la mostra su “I Borghese e l’Antico”, per il 2012 su Tiziano, successivamente su Dosso Dossi, Domenichino e Bernini. Prima di Caravaggio e Bacon c’erano stati Correggio, Canova,e Raffaello. Va ricordato come esempio di museo con preziose presenze artistiche e monumentali che non si limita a esporre i propri tesori ma si apre alle mostre con opere esterne acquisendo nuova vitalità.

Questa volta la vita si sente fluire nella carne, i nudi delle figure rinascimentali posti a confronto nella fredda e spesso inquieta immagine tedesca e nella calda e solare immagine italiana, ed è un evento. E’ un nastro che corre lungo le pareti: in prima fila Cranach con l’“altro Rinascimento,” in altra fila la serie di artisti italiani con il “nostro Rinascimento”. E’ un accostamento congeniale al pittore tedesco perché, sebbene sia sempre rimasto in Sassonia, ha guardato attivamente anche l’arte italiana; addirittura di Tiziano fu un fiero competitore, se si può usare questo termine, essendo entrambi artisti di corti diverse nello stesso periodo storico e con opere di soggetti confrontabili.

La grande innovazione di Cranach è applicare ai temi iconografici del Rinascimento italiano non più lo stile classico ma quello fiammingo, riconoscibile nella forma e nel colore, in tutto. Un evento che meritava la massima risonanza, lo si è visto nella presenza congiunta dei ministri della cultura italiano e tedesco alla Galleria Borghese per la presentazione della mostra il 14 ottobre 2010.

Il ministro italiano Sandro Bondi lo ha definito “un avvenimento di grande importanza per la nostra cultura e per la cultura europea, che parla all’Europa intera”. La prima mostra in Italia dell’artista tedesco “è espressione di uno dei traguardi più alti della civiltà europea”. Non solo per il suo contenuto, ma perché dimostra come “nell’epoca rinascimentale circolassero così intensamente le idee, i modelli letterari, artistici, e ci fosse un simile scambio di esperienze anche con un pittore mai venuto in Italia. Eppure aveva assimilato i frutti del nostro Rinascimento”. Il ministro ha parlato anche degli aspetti religiosi della pittura di Cranach: “Si deve ricredere chi pensava che lo spirito protestante non fosse penetrato in Italia e vi fosse stata solo la controriforma”: si sono avuti forti influssi dal punto di vista religioso e storico, “la riforma protestante è penetrata nel tessuto del nostro paese”. Ha aggiunto che “ci illudiamo se crediamo di poter affrontare i problemi economici e sociali a livello europeo solo con gli strumenti della politica, senza fare appello alle sorgenti della nostra civiltà”. Ha poi annunciato due grandi mostre d’arte italiana in Germania nel 2011.

Il ministro tedesco della cultura ha sottolineato “l’unicità della mostra fatta di dipinti prestati da musei di vari paesi, da Germania e Francia, da Gran Bretagna a Stati Uniti e, naturalmente, dall’Italia”; e il fatto che ”diversamente da altri artisti tedeschi non ha mai visitato l’Italia, è la prima volta che viene nella culla del Rinascimento”. La presenza di due ministri “testimonia le ottime relazioni tra i due paesi sin dai tempi di Goethe”. E a questo riguardo ha ricordato la casa Goethe a Villa Massimo a Roma, le biblioteche e istituti tedeschi a Firenze e Venezia. La collaborazione culturale sarà sviluppata con nuove mostre, anche di ritrattistica rinascimentale, a Venezia e Firenze, e anche a Dresda. La mostra di Cranach l’ha definita ”meravigliosa”.

Gli hanno dato atto dell’impegno nei rapporti culturali tra i due paesi il sottosegretario Francesco Maria Giro che ha sottolineato come “entrambi i governi credono all’importanza di valorizzare il patrimonio culturale europeo” e il direttore generale per la valorizzazione Mario Resca il quale ha definito Italia e Germania “due potenze sorelle che hanno nella cultura la propria identità di paese”.

Chi è stato Lucas Cranach

Per meglio comprendere l’“Altro Rinascimento” di Cranach è bene conoscere gli aspetti peculiari della vita e dell’attività. Il suo percorso artistico prende l’avvio in età non precoce quando dopo il suo trasferimento a Vienna nel 1502 dalla natia Kronach in Franconia, nel 1504, a trentadue anni, fu chiamato da Federico il Saggio, elettore di Sassonia come artista di corte nella capitale Wittenberg.

Lo stile drammatico, nella forma e nel colore come nei soggetti mostrato a Vienna, sembra fosse all’origine della designazione del principe, che si pensa avrebbe voluto Durer, al quale aveva commissionato un ritratto, per “ripiegare” poi su Cranach che mostrava di ispirarsi alle potenti xilografie dell’artista il quale nel 1501 aveva creato le potenti incisioni di Apocalisse; l’anno prima di Cranach era entrato alla sua corte il veneziano, in rapporti con Durer, Jacopo de’ Barbari per uscirne nel 1506, quando da due anni vi si era insediato stabilmente Cranach. Questa presenza fu fruttuosa perché de’ Barbari trasmise le visioni prospettiche italiane ai pittori e ai committenti del Nord Europa, che influenzarono l’artista, unitamente a Durer; come lo influenzò l’intensa vita culturale locale; va ricordato che quando entrò nella Corte, da due anni Federico aveva fondato un’Università e l’isolata cittadina di Wittenberg era divenuta un centro di cultura umanistica.

Altri influssi gli vennero dalla pittura fiamminga, da David a Bosch, e dalle nuove forme d’arte del versante sud delle Alpi, in particolare dell’Italia, che conobbe nella corte di Margherita d’Austria, committente illuminata, a Malines nelle Fiandre: vi fu mandato nel 1508, dopo quattro anni nella corte di Sassonia. Eseguì il ”Ritratto di Massimiliano I” e di colui che diventerà Carlo V; l’anno dopo, nel 1509, uscirono le sue xilografie della “Passione”, la risposta all’“Apocalisse” di Durer.

Chiusa questa parentesi, si insedia a Wittenberg dove gestisce una mescita di vini, si sposa nel 1512 – ha due figli che diverranno artisti e poi tre figlie – e in seguito per ben trent’anni, dal 1519 al 1549, fa parte del Consiglio comunale, divenendo borgomastro per tre volte, nel 1537, 1540 e 1543.

La sua fisionomia di artista si evolve: dirige una vera officina dove avrà fino a dieci assistenti in un’attività con caratteri imprenditoriali al di là della bottega d’arte. Questo non solo per le opere monumentali e quelle commissionate in grande numero, ma anche per la sua responsabilità sulle iniziative di corte in campo artistico e non solo: opere d’arte e decorazioni come addobbi stabili o temporanei, mobili e medaglie. E anche per le committenze private dei benestanti locali, che si aggiungevano all’attività di corte di per sé molto intensa, soddisfatte anche con copie e varianti.

Sarebbe già molto tutto questo, ma si aggiunse un aspetto fondamentale: dopo il manifesto protestante di Martin Lutero del 1517, esposto alla porta della chiesa di Wittenberg, Cranach – che ne era amico vivendo nella stessa città – ne diffonde le idee con la sua arte pittorica: fu testimone alle nozze di Lutero con Katharina von Bora e le celebrò con i Ritratti della coppia che fissavano visivamente il nuovo modello e la trasgressione delle regole cattoliche. Non si limitò a questo, curò stampa e diffusione del Nuovo testamento e poi dell’intera Bibbia nel 1534. Sul lato artistico i riflessi si trovano anche in opere di ispirazione direttamente religiosa, sul peccato originale e la redenzione, nella figura di Cristo con l’adultera e i bambini e nella Crocifissione con il centurione.

L’incidenza delle immagini sulla vita spirituale e sociale era molto dibattuta nel mondo protestante, in forme anche violente, tanto che tra il 1521 e il 1522 – pochi anni dopo il manifesto di Lutero – in sua assenza alcune chiese di Wittenberg furono invase da monaci e studenti che ne devastarono gli arredi in una sorta di furia iconoclasta. Furono sconfessati, ma cessarono di fatto le ricche committenze per tali dipinti. E’ di quel periodo, 1524, un “Ritratto di Cranach” eseguito da Durer a Norimberga dopo il loro incontro: molte cose li univano sin dall’inizio della vita di corte..

Con il suo spirito imprenditoriale si rivolse non solo al mercato delle classi borghesi in crescita, con soggetti mitologici, ma anche alla committenza della Chiesa cattolica tedesca: il cardinale Alberto di Brandeburgo gli affida una vasta serie di dipinti per la chiesa di Halle e il duomo di Berlino: la cattolica Halle, cui furono destinati 142 dipinti, dista pochi chilometri dalla luterana Wittenberg.

Non si trattava soltanto di una contrapposizione religiosa: nella battaglia di Muhlberg del 1547 l’imperatore Carlo V sconfisse i riformatori della Lega di Smalcalda e prese prigioniero Giovanni Federico il Magnanimo. Cranach fu chiamato all’accampamento di Carlo V e nel 1550 accompagnò Federico in esilio ad Augusta. Abbiamo qui, in questo stesso anno, il memorabile incontro con Tiziano, massimo ritrattista degli Asburgo, che fece un Ritratto anche a Cranach.

Restò vicino all’elettore di Sassonia, terzo nella dinastia, quando nel 1552 terminò il breve esilio e poté stabilirsi a Weimar, Dopo qualche esitazione lasciò la “bottega” al figlio omonimo e lo seguì a Weimar, dove morì nel 1553 a 81 anni. Fedele al suo principe fino al termine della vita, artista di corte fino in fondo.Ma un artista non solo di corte, la mostra dà conto delle sue tante vite..

Cranach a corte per mezzo secolo come Mantegna

Parlare della pittura di corte è riduttivo rispetto all’attività artistica svolta da Cranach per i tre successivi “elettori” sassoni, sia perché comprendeva le altre molteplici attività decorative e artistiche, sia per la libertà di avere committenze private e di affrontare altri temi. Questa complessità fa dell’artista tedesco qualcosa di più di un pittore, non si parla propriamente di scuola, bensì di impresa o di “marchio” Cranach, proseguito dal figlio, che ne prese il posto.. Quando le committenze erano per diecine di opere similari come i ritratti, usava metodi che consentivano la lavorazione multipla con cavalletti in serie e, nella pittura, con varianti portate a uno schema fisso.

Sono andate perdute le tante opere di decorazione per feste e tornei, cerimonie e ambienti particolari, come grandi tele e pitture murali esterne e interne su tanti palazzi della Sassonia; oltre a questo, addobbi per matrimoni di Stato, come quello della residenza di Torgau dove lavorò due mesi, decori per vestiti e mobili, cassoni e vetrate, lapidi e medaglie; un testo sulla nuova università di Wittenberg – il Dialogus di Meinhard – indicava i cicli di storia romana e mitologica, allegorie e ritratti dipinti nei saloni del castello della cittadina. Aveva una squadra che arrivò a dieci assistenti ed era impegnato anche in stampe e incisioni, anzi le sue prime incisioni seguendo Durer potrebbero aver avuto un peso nella sua scelta come pittore di corte non essendo stato possibile avere il primo.

Ma com’era la posizione di pittore di corte? Ne dà un’accurata descrizione Martin Warnke nel Catalogo della mostra, ben documentato, facendo un “paragone storico-artistico” con Mantegna che stette stabilmente dai Gonzaga di Mantova per un periodo analogo a quello di Cranach – quasi mezzo secolo – in un’ideale staffetta: Mantegna alla corte di Mantova dal 1459 al 1506, Cranach alla corte di Wittenberg dal 1505 al 1553. Il fatto che entrambi alla morte del signore che li aveva ingaggiati furono confermati dal successore e poi da colui che seguì indica “un’incondizionata fiducia nelle qualità pressoché atemporali dei loro maggiori artisti”, cioè i due pittori di corte.

Pur se diversi e distanti geograficamente e nel tempo avevano in comune il trattamento del pittore di corte. Gli veniva assicurato il sostentamento dignitoso, abiti anche per i lavoranti e l’alloggio, entro il castello oppure all’esterno in una residenza di prestigio: Cranach nel 1518 lasciò il castello per una grande abitazione nella Schloss strasse dove rilevò farmacia e mescita di vini dolci, attività che proseguì. Inoltre un regolare appannaggio, a Cranach 100 fiorini (180 ducati a Mantegna), mentre le opere d’arte erano remunerate separatamente. L’appartenenza alla Corte ne era il segno distintivo, Cranach ebbe come stemma e sigla un serpente alato (Mantegna usava il motto di Ludovico Gonzaga e poi il titolo di comes palatinus). Questo riconoscimento proseguiva dopo la morte: per Cranach i tre figli del principe elettore Giovanni Federico fecero erigere a Weimar una delle tombe tedesche più sfarzose per un artista del Rinascimento (la cappella di Mantegna con il busto di bronzo è nella chiesa di Sant’Andrea di Mantova destinata ad ospitare le tombe dei Gonzaga).

Per tornare alla vita e all’arte va sottolineato che all’ingresso nella Corte principesca non era estranea la segnalazione del mondo letterario e umanistico nel quale poi si aveva accesso: Cranach fu paragonato nell’ambiente colto ad Apelle, il pittore di corte di Alessandro Magno (lo stesso era avvenuto per Mantegna, anche a questo riguardo il parallelo è giustificato).

Veniva concesso di lavorare per terzi, come riporta Schwarzmann per Cranach: “In particolare per noi deve lavorare con tutto lo zelo possibile e… dipingere per noi a un prezzo un po’ più basso di quello che farebbe a un estraneo”.

La particolare posizione a Corte ha creato dei sospetti nella critica, che per parecchio tempo ha visto Cranach condizionato dal mondo feudale, quindi indifferente alla sensibilità artistica del mondo borghese (lo stesso per Mantegna la cui opera a Corte fu considerata esteriore e incapace di rendere la spiritualità iniziale). Ma la rivalutazione è stata totale e ha incluso le opere considerate “in serie” su un impianto comune, ritenendo di grande interesse la semplice ricerca di pur piccole differenze.

I risultati dell’ingente lavoro svolto “con tutto lo zelo possibile” si vedono nella selezione di opere in mostra, cominciando con i temi riguardanti la vita che ruotava intorno alla Corte tra le cacce e i tornei e i ritratti dei personaggi di corte e altri nobili del tempo. I temi profani, mitologici o di altra natura, erano molto diffusi. E così quelli religiosi, che in Cranach avranno aspetti peculiari: temi legati al protestantesimo; attraverso Lutero; e al cattolicesimo con le committenze delle chiese.

Cacce e tornei, scene di umanità primitiva e mitologica

La nostra visita alla mostra comincia ammirando il nuovo allestimento, con dei paraventi cremisi che isolano in un certo senso dalle monumentali pareti istoriate della Galleria Borghese; nel precedente allestimento per “Caravaggio e Bacon” i dipinti in mostra erano semplicemente accostati a pareti talmente invasive e prorompenti che riuscivano addirittura a soverchiare i grandi dipinti di Caravaggio; valorizzati invece alle “Scuderie” con l’occhio di bue che isolava ciascuno di essi nella penombra quasi fosse una star, e tale si rivelava, tanto suggestiva era la messa in scena.

Qui l’isolamento è reso con discrezione dai pannelli come fondali, e consente di calarsi nell’atmosfera creata dal pittore tedesco senza le interferenze dell’ambiente espositivo.

Delle pitture di corte cominciamo a considerare quelle che ne esprimono maggiormente il clima, perché riproducono le più spettacolari attività dei nobili, la caccia alla selvaggina e i tornei.

Intendiamo soffermarci, in particolare, su tre grandi tematiche: la caccia al cervo e il giardino dell’eden; l’umanità primitiva e gli uomini selvaggi, la famiglia del fauno e le scene mitologiche. Non esauriscono i temi di corte, che spaziano per l’intero arco della produzione, e riguardano soprattutto i ritratti e altri soggetti di natura mitologica e soprattutto religiosa; ma ci sembrano i più espressivi di una visione tutta particolare da parte di un testimone diretto di quelle situazioni, spinto alla ricerca anche culturale delle proprie origini primitive in ambienti mitici. Ci fanno conoscere quel mondo al quale sono stati rivolti i giudizi più severi, come quello di Georg Dehio dei 1928, citato da Warnke: “Con le sue bamboline pallide, senza sangue, leziose, la qualità della sua produzione diminuisce, proprio mentre il suo successo cresce”.

Cominciamo con le due “Caccia al cervo”, del 1540 e 1545, quindi nell’ultimo decennio, perché le più espressive di quel mondo: non ci sono le “bamboline pallide”, ma scene venatorie concepite come un arazzo ad intarsi costituiti da una folla di piccole figure, in prima fila il principe con la balestra, sullo sfondo il grande castello di Torgau, una sede di Giovanni Federico II; c’è un corso d’acqua nei due dipinti che hanno analogie, anche se non sono varianti su uno schema comune. Lo stesso soggetto è presente anche in una xilografia dallo stesso titolo che invece è dell’inizio della sua attività a corte: 1505, una visione d’insieme a cui si accosta molto il dipinto di quarant’anni dopo, sempre una “ripresa” corale dall’alto, mentre nella famosa “Caccia notturna” di Paolo Uccello la “ripresa” era quasi a livello dei cacciatori; stesso angolo di visuale nell’altra xilografia degli inizi “Torneo sulla piazza del mercato”, una giostra spettacolare con il groviglio di figure di cavalieri e musicanti, nonché della gente assiepata nella gran baraonda della giostra cavalleresca.

Le “bamboline” cominciamo a vederle nel “Giardino dell’Eden” del 1530, dove in alto è dipinto un film della creazione con le figure sottili di Adamo ed Eva, rispetto alla figura imponente del Creatore e alla natura lussureggiante con le varie specie di animali opime e rotonde in primo piano.

Ma soprattutto nell’“Umanità primitiva”, in cui si identifica “L’età dell’oro” dove gli stessi alberi e cespugli rigogliosi sono abitati da grassi animali e da figurine umane nude nelle pose più serene e idilliache: il girotondo, l’uomo e la donna insieme nel bagno, distesi o seduti sul verde in dolce compagnia; c’è anche una “variante” che ci mostra quella particolare tecnica, le figure sono spostate ma vengono riprodotte nella composizione con una notevole similitudine.

Il passaggio dall’Umanità primitiva” agli “Uomini selvaggi” segna anche il passaggio dall’“Età dell’oro” all’ Età dell’argento”. Nell’ambiente naturale con la prospettiva meglio definita ci sono quattro uomini di età diversa che lottano con i bastoni, due a terra, mentre due donne badano ai piccoli senza esserne turbate e una terza guarda la scena tenendo un bastone, tutti i corpi sono nudi, quelli delle donne levigati e senza ombre. Le figure maschili in movimento richiamano la “Battaglia di uomini nudi” di Pollaiolo, quelle femminili statiche pittori come Memling e Bosch.

Anche qui troviamo un diverso dipinto di “Uomini selvaggi”, con figure della stessa tipologia in altre posizioni, sempre con lo sfondo: due uomini in lotta afferrano una donna, in una sorta di ratto delle Sabine. Le figure nude ed efebiche di uomo, donna e due bambini, piccolo e piccolissimo, sono protagonisti anche di “La famiglia del fauno”dove si precisa e si arricchisce la prospettiva dello sfondo con rupi, castello e specchio d’acqua, mentre in primo piano si vede una belva uccisa.

Le figure nude in un’atmosfera bucolica sono la caratteristica saliente di queste pitture di corte che trasferiscono nel dipinto miti e credenze. Lo vediamo nella “Scena mitologica”, simile prospettiva e vegetazione scura dell’ambiente, due figure maschile e femminile in piedi, e a terra altre figure di giovani e bambini, sembra esserci una disputa nella coppia, comunque l’atmosfera è serena.

Con due immagini mitologiche e allegoriche si arricchiscono i motivi di corte, In “Bacco e il grande tino” la figura con un recipiente nelle mani, domina una platea piena di piccolissimi infanti, sulla solita vegetazione, dove c’è l’albero di frutta e in lontananza la consueta prospettiva. Tranne la figura di Bacco, arrossata, le altre sono lisce e delicate, gli infanti si affollano intorno al tino. E’ l’unico pervenuto di questo soggetto, quindi non c’è stata committenza seriale..

Con “Malinconia” cambia tutto tramite i piccoli putti nudi che cercano di spingere una palla grossa come loro, con dei piccoli bastoni sotto lo sguardo sereno della damigella alata elegantemente agghindata, che affina un bastone con il coltello, mentre incombe lo sfondo consueto di rupi con costruzioni ad esse abbarbicate, in una visione di prospettiva fino ai lontani monti all’orizzonte. La serenità della scena è contrastata dall’immagine molto in piccolo sul lato sinistro, un gruppo di diavoli e streghe sembra rapire un dignitario, . La scala è diversissima, le figure principali sono in primissimo piano, le altre in una sorta di quadro nel quale c’è anche la prospettiva e lo sfondo.

Un’immagine assorta e serena conclude questo assaggio, con le pitture più legate al mondo di corte. Bernard Aikema, curatore con Anna Coliva della mostra e del catalogo edito da “24 ore Cultura” – rimarchevole la straordinaria bellezza iconografica, anche con preziosi ingrandimenti di particolari, e ricchezza di documentazione con approfondite analisi critiche – afferma: “In questa mostra proponiamo alcuni esempi di questi momenti in cui Cranach riprende le tematiche delle iconografie dei grandi pittori italiani per tradurle poi nei suoi termini: in ‘un altro Rinascimento’ che non rispetta la proporzionalità albertiana e il ruolo della figura in rapporto con lo sfondo”.

Vedremo gli altri soggetti, dalla ritrattistica alla pittura religiosa, che si muove sui due versanti del protestantesimo e del cattolicesimo; i temi biblici e mitologici e la sua visione della seduzione femminile con particolare riguardo al potere della donna visto attraverso eroine della storia e del mito. Ci saranno confronti tra l’“altro Rinascimento” del grande pittore tedesco e il Rinascimento italiano, con i nostri campioni presi a confronto, trenta dei quali in mostra. Potremo citarne solo alcuni dovendo concentrarci sulle molte opere di Cranach, che non vedremo più, mentre sappiamo che i dipinti esposti di Bellini e Pinturicchio, Jacopo Palma e il Ghirlandaio, Parmigianino e Lorenzo Lotto, Carpaccio e Raffaello li vedremo ancora, sono nella Galleria Borghese. Allora appuntamento a presto per i grandi temi portati alla ribalta della mostra dopo le scene di corte.

Contributi editoria. Ai giornali politici dimezzare, azzerare e rifondare

di Romano Maria Levante

Nel decreto di fine anno “milleproroghe”, nel quale si rivedono gli impegni e le scadenze, sono stati dimezzati i contributi a quelli che chiamiamo giornali politici, di “varia umanità”, spesso fantasmi dalla diffusione clandestina: una pletora eterogenea di beneficati a vario titolo, non certo commendevole, come si è visto nel precedente articolo. Nella conversione in legge saranno fortissime le pressioni per una retromarcia di Tremonti dopo quella dello scorso anno; non solo vanno respinte, ma si deve puntare all’azzeramento per rifondare un sistema: se si vogliono erogare contributi all’informazione, comprenda quella culturale e in particolare l’approfondimento. Su basi che non siano legate alle vendite, eludibili come le tirature, ma riconoscano il valore e la qualità.

L’impegno disinteressato delle nostre riviste on line

Abbiamo già spiegato che per il sostegno pubblico ai giornali politici e vari si invoca a torto la Costituzione fino a reclamare un assurdo “diritto soggettivo” – per fortuna rimosso dal 2008 – ai contributi milionari (in euro); mentre l’apporto del giornalismo culturale viene recepito gratis, senza sostegno pubblico, ricevendone invece ritorni economici rilevanti oltre che di alto significato civile.

Questo rappresenta una contraddizione, ci si avvale di apporti necessari, anzi vitali, come quelli dell’informazione e approfondimento culturale, per ottenere tangibili risultati economici, vantando giustamente gloria e meriti dei risultati conclamati; ma si assiste inerti alla dissipazione di risorse per l’informazione elargite alla politica, molto spesso millantata “in fraudem legis” o alla cooperazione con lo stesso vizio di mistificazione, senza spezzare non una lancia ma neppure uno stecchino sull’esigenza di dirottarli alla cultura. Non è una guerra tra poveri, ma una notazione doverosa, una “vox clamantis” nel deserto che riteniamo doveroso elevare alta e forte.

E quando parliamo di giornalismo culturale ci rivolgiamo sia a quello tradizionale su carta stampata, sia a quello on line, la forma più avanzata soprattutto per le nuove generazioni; che il Ministero per i Beni Culturali dia notevole valore a Internet lo prova l’utilizzazione anche di Facebook e di Twitter per divulgare le proprie iniziative, con l’aggiunta di altri veicoli telematici.

Il direttore generale del MiBAC Mario Resca di recente ha sottolineato come dalle Rassegne stampa, aperte anche ai siti Internet, risulta che nell’ultimo anno sono triplicate le fonti informative; nel contempo si è invertito il trend negativo nelle visite ai musei – l’indicatore della valorizzazione dei beni culturali – che da una continua discesa è tornato a salire, come numero e come incassi: aumento del 15% delle visite e dell’8% degli incassi nei primi 10 mesi dell’anno appena terminato.

Post hoc o propter hoc? Vorremmo sapere se il responsabile del MiBAC per la valorizzazione collega questi due trend da lui sottolineati e se dà una parte del merito, oltre che alle proprie innovazioni di inedito marketing culturale, all’apporto volontario dell’informazione a ciò dedicata.

Torniamo alla notizia sul decreto “milleproroghe”, alla buona notizia, non perché “mal comune è mezzo gaudio”, cioè se le riviste culturali non hanno provvidenze pubbliche non l’abbia neppure l’informazione politica. Ma perché è l’inizio di una resipiscenza che abbiamo invocato almeno tre volte negli ultimi mesi sulle nostre riviste, mostrando l’impresentabilità della lista dei contributi: riportavamo i molti milioni di euro l’anno nella dissipazione bipartisan a Libero e L’Unità, per passare a cifre minori, ma non inferiori ai 2,5 milioni di euro a Secolo ed Europa, il Foglio e Rinascita, Liberazione e Il Manifesto tra questi con la cifra più alta, per citare i più noti e combattivi; poi la pletora altrettanto o più scandalosa di quelli ignoti. Ma rinviamo alle nuove liste, oltre a quelle già pubblicate tre volte, sono riportate in appendice di questo articolo, che è il seguito dell’appendice dell’articolo precedente, riguardano anche queste i versamenti del 2009 per il 2008..

Abbiamo detto che l’esperienza dello scorso anno induce ad essere cauti, questi contributi erano stati cancellati del tutto, ma vennero reintrodotti dopo il clamore delle proteste, Federazione Nazionale della Stampa in testa. Anzi, in coda, perché in testa ci furono le “direttore” di Secolo d’Italia e l’Unità con seguito di altri direttori in visita al Presidente della Camera, l’antico “ragazzo di Via Milano” sede del “Secolo” nella poltrona della terza carica dello Stato. .Non “c’azzeccava” con la materia, ma fece la telefonata “a viva voce” a Tremonti al quale fu strappato l’assenso alla reintroduzione; lo rivendicò chiedendo l’adempimento il direttore Polito intervistando Fini all’atto di consegnargli il premio “Il politico dell’anno” conferitogli da Il Riformista. Fini confermò l’impegno di Tremonti aggiungendo, bontà sua, che si sarebbe dovuto verificare quali giornali “meritassero” il contributo, sentenziando intanto apoditticamente che Il Riformista era tra questi.

L’impegno disinteressato delle nostre riviste on line

Chissà se si ripeterà una simile pantomima, e non ci riferiamo al premio – anche se mai come quest’anno Fini è stato il politico che ha fatto parlare di più di sé, nel bene o nel male a seconda delle posizioni – bensì alla processione: non quella del dipinto di Francesco Paolo Michetti cara agli abruzzesi, ma quella di un anno fa dal presidente della Camera appena ricordata. I sospetti nati dalle recentissime dichiarazioni di appoggio dei “finiani” ad una eventuale presidenza del Consiglio di Tremonti in alternativa all’inviso Berlusconi, crediamo sconsiglino il ripetersi dello spettacolo non certo edificante dello scorso anno, sarebbe troppo imbarazzante per entrambi. Ma anche senza azioni plateali di questo tipo si sta lavorando per l’atteso bis, una nuova retromarcia di Tremonti.

Quanto abbiamo prodotto per la valorizzazione della cultura, concorrendo ai rilevanti effetti in termini di crescita civile e anche di sviluppo economico che il Ministero dei Beni culturali rivendica, citando l’ampia divulgazione promossa del patrimonio e delle iniziative culturali, ci dà la legittimazione a far sentire la nostra voce: parlano i fatti verificabili nella raccolta di articoli delle nostre tre riviste accessibile on line con un semplice click. Non per rivendicare meriti da narcisisti, ma per contrapporre al clamore da umiliati e offesi dei soliti noti una voce che fa parlare i fatti.

Oltre alle iniziative promozionali del Ministero abbiamo contribuito alla divulgazione delle mostre d’arte con servizi di approfondimento: più di 100 servizi in due anni sulle grandi mostre nazionali, poi molte note sugli eventi culturali e la minuziosa documentazione sull’arte abruzzese, fitta e quotidiana, come l’informazione sull’archeologia, una miniera di cosa avviene nel mondo in presa diretta. Inoltre i “venerdì di Archeorivista”, siti archeologici visitati e raccontati settimanalmente.

E’ preziosa la documentazione regionale, marca giornalmente un’identità che si rinnova di continuo nell’arte. Mentre lo speciale approfondimento nei servizi a livello nazionale è di particolare valore: nel Convegno “Giornalismo ed editoria in linea con il futuro” dell’11 gennaio 2011, in preparazione del 26° Congresso della Federazione Nazionale della Stampa, abbiamo sentito parlare, ci è sembrato Stefano Folli, di “pessimo giornalismo che viaggia sul web” perciò “si possono prevedere micro pagamenti per analisi e approfondimenti”: i nostri sono gratuiti, ma tale riconoscimento è significativo. Ci ha regalato la citazione l’ascolto notturno di Radio Radicale.

L’autorità morale ci viene dal logo che correda la nostra testata, la scritta “Questa rivista non riceve denaro pubblico”, con l’euro cancellato: neppure un euro, in nessuna forma nemmeno per rimborso od altro. Non è una rivendicazione pauperistica di matrice francescana, non siamo tali né ci atteggiamo ad esserlo. Possiamo dire di fare di necessità virtù, e per questo ci teniamo a far sapere che esiste quest’altra faccia della luna mentre i riflettori sono puntati soltanto su quelli che si stracciano le vesti nel vedere dimezzati i milioni (in euro) percepiti in molti casi per due decenni.

Libero, uno dei giornali beneficati dai contributi, ha fatto una commendevole azione informativa nel calcolare quanto hanno ricevuto dallo Stato i politici più eminenti: in testa Fini , ancora lui, con oltre 9 milioni di euro, poi gli altri, Berlusconi ha percepito 5 milioni, nessun effetto, sono briciole per lui. Perché il quotidiano di denuncia non fa lo stesso calcolo per tutti i giornali beneficati dai contributi, compreso il proprio, cumulando quelli ricevuti nel tempo, magari anche con il calcolo degli interessi? La legge è del 1990, la cifra denuncerebbe vent’anni di gravi dissipazioni di risorse.

Da Libero a il Fatto quotidiano

Anche il Fatto quotidiano rivendica di non esserne coinvolto: non c’è l’euro cancellato ma la scritta “Non riceve alcun contributo pubblico”, che fa parte della testata, è analoga alla nostra. Gli è stato rinfacciato di fruire delle altre provvidenze per l’editoria, per le spese postali, ecc. in parte rientrate, per noi inesistenti: ma sarebbe ingeneroso non sottolinearne l’estraneità ai contributi.

Nell’articolo precedente abbiamo riportato l’analisi del suo Marco Gambaro, che mette il dito sulla piaga delle tirature dei giornali politici vergognosamente soverchianti le vendite con rese fino al 90%, che gonfiano il contributo dello Stato per copia venduta a livelli anche più che doppi e tripli del prezzo di vendita: in base all’artifizio di moltiplicare le tirature per moltiplicare i contributi.

Ma vorremmo vedere, al di là dei parametri e dei valori unitari, che calcoli la dissipazione di risorse elargite nel tempo a ogni singola testata, commisurata al parametro vistosamente irregolare delle tirature gonfiate a dismisura “in fraudem legis”; calcolo che certamente Libero, pur essendo parte interessata, potrebbe fare avendo un livello di rese fisiologico ma percependo alti contributi per i livelli di vendite; di certo non lo farà, e vorremmo essere smentiti da una sua resipiscenza.

Insistiamo perché il Fatto Quotidiano dedichi una nuova inchiesta a tale problema pubblicando – come noi abbiamo fatto tre volte e facciamo ancora oggi – la “lista della vergogna” e calcolandone l’onere peri trascorsi venti anni. Si è limitato a un asettico resoconto quasi tacitiano senza alcun commento del contenuto del “milleproroghe”, se ci è sfuggito un approfondimento di questi giorni saremmo grati di una rettifica; altrimenti saremmo del pari grati se ce ne spiegassero il motivo.

Le deludenti modifiche a una legge da rifondare totalmente

Detto questo, non ci è sfuggito, sull’edizione on line del 2 ottobre 2010 di tale quotidiano, l’analisi di Guido Scorza, intitolata “Il porcellum dei contributi all’editoria”, che inizia così: “Ogni anno centinaia di milioni di euro lasciano le casse dello Stato sotto forma di contributi all’editoria: oltre 360 milioni quelli stanziati, nel bilancio dello Stato, per il solo 2010. Di questi, decine e decine di milioni – oltre 40 milioni nel solo 2008, secondo gli ultimi dati resi disponibili dal dipartimento dell’editoria della Presidenza del Consiglio – vanno ad arricchire le tasche di imprese editrici di quotidiani e periodici organi – di nome o di fatto – di movimenti e partiti politici. Si tratta, molto spesso, di quotidiani e periodici che non arrivano neppure nel circuito delle edicole o che, se vi arrivano, vendono qualche decina di copie ogni giorno”. Un’“ouverture” promettente, soprattutto dopo l’analisi di cui abbiamo riportato i risultati nel precedente articolo, sullo scandalo delle rese indecenti e dei contributi gonfiati. Ma le nostre aspettative sono andate in parte deluse perché l’articolo si limita alle carenze del provvedimento predisposto per la revisione di tale metodo che non darebbe le garanzie di aderire alle copie vendute soprattutto per i giornali politici.

E’ sacrosanto dire che si tratta di “leggi e leggine scritte trasversalmente dagli amici degli amici e per gli amici degli amici”, ma non ci sembra sottoscrivibile l’accettazione di “una delle tante pagine buie della nostra storia alla quale – chi più consapevolmente e chi meno – ci siamo tutti dovuti rassegnare, magari con l’augurio che, prima o poi, si sarebbe voltata pagina. Difficile, però, immaginare che la nuova pagina sarebbe stata più buia della precedente”. Ma è più buia non tanto per la sostanziale esenzione dei giornali di partito dal vincolo delle copie vendute rispetto alla mera tiratura, quanto perché la revisione – che corregge solo in parte l’anomalia più abnorme – perpetua di fatto un sistema che non ha alcuna giustificazione razionale ma è frutto dell’interessata convergenza bipartisan “degli amici degli amici e per gli amici degli amici”.

Se la correzione è deludente – solo la parte variabile è riferita alle vendite, mentre c’è una parte fissa, e poi si escludono i giornali di partito da questo parametro più veridico – anche il nuovo meccanismo è aggirabile, basta che risultino vendute anche copie elargite con i marchingegni suggeriti dalla fertile fantasia nostrana. Il fatto che il particolare sia sfuggito al controllo del Consiglio di Stato – come lamenta il giornalista – mostra già che la diga di carta sia ben poca cosa in un paese di azzeccagarbugli; la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ne siamo certi, si avrebbe per le copie “vendute” come si è avuta per le “tirature”. E poi, perché riferirsi alle vendite, e la qualità’?

E’ l’istituto in sé che non ha ragion d’essere com’è concepito, mancando la giustificazione logica prima di quella morale. Perché se si intende dare dei contributi all’informazione, non si può limitare a quella politica escludendo o ignorando l’informazione e l’approfondimento culturale: c’è un riconoscimento costituzionale ancora più forte alla cultura che “la Repubblica promuove”; e la valorizzazione, con tutela, dei beni culturali è alla base della strategia di progresso civile e sviluppo economico del paese, che deve far leva su un patrimonio, storico e artistico, unico al mondo per superare la competizione internazionale sul piano del turismo. A questo fine l’informazione e l’approfondimento culturale sono strumenti indispensabili che danno ritorni economici tangibili, come si vede dalla forte crescita degli incassi ai musei in parallelo con la maggiore divulgazione.

Sotto questo profilo, tenendo conto anche della penetrazione dei siti culturali internet, non sono di certo le vendite il parametro cui riferirsi, ma bisogna far leva sulla qualità e sull’approfondimento che sono la quintessenza della cultura e il differenziale competitivo che dà un vero punto di forza.

Ripetiamo che ci aspettiamo dal il Fatto Quotidiano e, perché no, da Libero – confidiamo nella nuova conduzione, spes contra spem – la documentazione e valutazione approfondita che non può occupare una rivista culturale diversa dalle due citate: di battaglia, su fronti opposti, che dovrebbero convergere su una denuncia sacrosanta, senza remore per gli interessi che ne sarebbero toccati.

Ma prima di concludere riportiamo il commento all’articolo di Guido Scorza, postato l’11 novembre 2010 alle ore 13, 24 da certo Vincenzo, lettore di il Fatto Quotidiano on line: “Lo scandalo sono quei 360 milioni che si spartiscono allegramente questi signori. L’articolo denuncia và bene. Sarebbe stato perfetto se non vi foste dimenticati (?) di fare l’elenco di tutte le testate giornalistiche che ne usufruiscono, con affianco la cifra percepita. Aspetto una risposta, soprattutto dal sig. Travaglio, grazie”. Ci uniamo alla domanda di Vincenzo, l’avevamo già scritta più o meno negli stessi termini prima di leggere la sua, diamo la nostra parola; e spieghiamo anche il perché.

Al gemellaggio virtuale tra la nostra testata e quella di il Fatto Quotidiano – evidenziano entrambe l’assenza di contributo pubblico – non corrisponde un analogo approccio nella materia. A Radio radicale imputammo la stessa contraddizione, pubblicò meritoriamente la “lista della vergogna”, anzi allora fu la nostra fonte, ma tutto finì lì; non svolse una conseguente denuncia, forse perché l’emittente è tra i fruitori dei contributi, nel suo caso giustificati, eccome, dalle sue solide motivazioni di servizio pubblico di qualità per la politica e la cultura economica, sociale e civile.

Nelle critiche alla Rai, tale radio e il partito radicale non hanno mai sottolineato – come noi abbiamo fatto purtroppo senza seguito – la dissipazione di 1600 milioni di euro l’anno sottratti alla cultura che secondo la Corte Costituzionale è la sola legittimazione della devoluzione, a canone di abbonamento obbligatorio, dell’“imposta” conseguente al possesso di un apparecchio televisivo; ma ha combattuto l’emittente pubblica essenzialmente perché “oscura “ i radicali, e lo ha fatto attraverso il pervicace minutaggio delle presenze dei politici e la burocratica contestazione del mancato adempimento agli obblighi del “contratto di servizio” da parte del suo rappresentante in Commissione parlamentare di vigilanza: si guarda l’erba e non l’albero, anzi la foresta di abusi.

L’impegno intenso quanto disinteressato delle nostre riviste on line

Torniamo a il Fatto Quotidiano dopo l’intermezzo sui Radicali, sordi alle nostre sollecitazioni fatte anche direttamente nella loro sede alla presentazione del dossier “La peste italiana”, libello giallo con oltre 10 pagine su 80 sulla Rai che ignorano il problema di fondo. E ripetiamo che ci piacerebbe fosse spiegato il silenzio sulla questione di fondo della legittimità di questi dissennati contributi; a parte lo scandalo nello scandalo del riferimento alla tiratura e non alle vendite, non sanato con la revisione del sistema predisposta dal Dipartimento. Ci aspettiamo uno degli imperdibili articoli giornalieri di Marco Travaglio, che uniscono alla documentazione analitica l’ironia sferzante. Di lui abbiamo un ricordo personale: parlammo a lungo alla Fiera Internazionale del libro di Torino del 2001, mentre firmava fiumi di dediche dinanzi a una catasta del suo libro di allora “L’odore dei soldi”; eravamo lì per presentare un libro su D’Annunzio nel padiglione della Regione Abruzzo.

Chissà se ricorda l’episodio, c’era la fila per avere il suo autografo. Di suoi libri di documentazione e denuncia ne sono seguiti tanti, così di articoli. E’ troppo chiedergliene uno sui contributi ai giornali politici, vari e fantasma – nei quali il giornale di cui è vice direttore meritoriamente non è coinvolto – facendo appello a quell’incontro nel momento del suo primo successo editoriale? Ha combattuto contro le leggi ad personam e ad aziendam, perché non lo fa contro questa legge fatta ad usum delphini – nel senso di Scorza “dagli amici degli amici e per gli amici degli amici”? Non meno perversa perché dissipa quelle risorse che, spostate nella cultura, avrebbero un vero effetto positivo sulla crescita civile ed economica del paese per i motivi che abbiamo cercato di richiamare.

Restiamo in attesa, l’“odore dei soldi” lo stimola quando ne vede fare un cattivo uso, non per interesse personale, su questo metteremmo la mano sul fuoco. Speriamo che la lista che terminiamo di pubblicare spulciando nel sito del Dipartimento per l’editoria e l’informazione, lo ripetiamo, abbia questo effetto su di lui ancora una volta. Al di fuori di qualunque interesse personale.

La seconda parte della lista dei contributi erogati nel 2009

Pubblichiamo il seguito delle liste dei contributi erogati nell’ultimo anno disponibile, il 2009 riferiti al 2008, dati del Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che abbiamo rilevato dal portale del governo. La prima parte, pubblicata nel nostro articolo dei giorni scorsi, recava anche il nome dell’Impresa di appartenenza della Testata; fornito per mostrare con precisione le singole titolarità, in questo seguito delle liste dove figura la gran parte dei giornali politici oltre a quelli di “varia umanità”, riteniamo di semplificare riportando soltanto la Testata in maiuscole perché appaia subito in evidenza. E’ un secondo elenco di risorse pubbliche dilapidate, che non entrò nella trasmissione di Fabio Fazio “Vieni via con me” a fianco dell’elenco di partiti politici la cui lettura gli fede invocare una sedia per la plateale lunghezza. Ricordiamo che i dati in milioni di euro, per l’immediata conversione, sono miliardi raddoppiati con riferimento alle vecchie lire. E, per una comparazione altrettanto immediata, facciamo presente che il magro contributo pubblico annuale perla Biblioteca Nazionale di Roma è di 1.600.000 euro. Non aggiungiamo altro. Meditate gente, meditate! come diceva Renzo Arbore.

Seguito: CONTRIBUTI EROGATI ALLA STAMPA NEL 2009 (RIFERIMENTO 2008)

Dati aggiornati al 7 maggio 2010

IMPRESA IMPORTO IN EURO

Contributi per testate organi di partiti e movimenti politici con gruppo parlamentare in una delle Camere o presenti nel Parlamento europeo o di minoranze linguistiche con almeno un rappresentante in una Camera o già con tali requisiti e fruitrici dei contributi al 31.12.2005

(Art. 3 comma 10 legge 250/1990 e Art. 20 co 3 ter DL n. 223/2006 convertito da l. 248/2006)

  • CAMPANILE NUOVO (IL) 713.982,34
  • CRONACHE LIBERAL 2.798.767,84
  • DEMOCRAZIA CRISTIANA 303.204,78
  • EUROPA 3.527.208,08
  • LIBERAZIONE 4.555.149,86
  • PADANIA (LA) 3.947.796,54
  • PEUPLE VALDOTAIN 306.447,59
  • RINASCITA DELLA SINISTRA 918.561,04
  • SECOLO D’ITALIA 2.952.474,42
  • SOCIALISTA LAB (IL) 480.061,60
  • TERRA (NOTIZIE VERDI) 2.484.656,16
  • UNITA’ (L’) 6.377.209,80
  • ZUKUNFT IN SUDTIROL 661.132,42

Riportiamo per completezza e memoria alcuni dei giornali a maggiore contenuto politico della prima lista, già da noi pubblicata, dove figurano come giornali di cooperative di giornalisti

  • AVANTI (L’) 2.530.638,81
  • MANIFESTO (IL) 4.049.022,10
  • RINASCITA 2.530.638,81
  • DISCUSSIONE (LA) 2.530.638,81
  • AVVENIRE 6.174.758,70

Contributi per imprese editrici di quotidiani o periodici organi di movimenti politici, trasformati in cooperativa entro e non oltre il 1° dicembre 2001 (Art.153 legge 388/2000)

  • APRILE 201.292,49
  • AREA POLITICA COMUNITA’ ECONOMICA 365.786,62
  • CRISTIANO SOCIALI NEWS 58.699,14
  • DENARO (IL) 2.455.232,22
  • DUEMILA (IL) 181.033,57
  • FOGLIO (IL) 3.745.345,44
  • METROPOLI DAY 2.024.511,05
  • MILANO METROPOLI 74.125,41
  • OPINIONE DELLE LIBERTA’ 2.009.957,81
  • ROMA 2.530.638,81
  • VOCE REPUBBLICANA 634.721,66

Contributi per periodici editi da cooperative di giornalisti (Art. 3 comma 2 quater legge 250/1990)

  • CARTA 506.660,00
  • CHITARRE 277.769,62
  • COMMUNITAS 185.500,35
  • CONFSAL 47.601,38
  • CRITICA SOCIALE 246.891,03
  • ECO DI BASILICATA 59.236.74
  • FORUM ITALIA 325.984,59
  • GRANCHIO (IL) 89.947.77
  • IN COMUNE 224.567,43
  • JAM 221.749,45
  • LEFT AVVENIMENTI 506.660,00
  • LUNA NUOVA 506.660,00
  • MARE E MONTI 105.101,66
  • MERCOLEDI’ 227.281,52
  • MINERVA 201.947,28
  • MODUS VIVENDI SCIENZA
  • NATURA E STILI DI VITA 475.578,77
  • MOTOCROSS 506.660,00
  • MUCCHIO SELVAGGIO 423.160,82
  • NEXT EXIT 122.933,43
  • NOI DONNE 86.161,75
  • NOVI MATAJUR 303.730,60
  • NUOVA ECOLOGIA 506.660,00
  • OEP – NOTIZIARIO AGRICOLO SPAZIO RURALE 405.444,63
  • OFFICINA 503.281,29
  • PAGINA (LA) 98.873.15
  • PIAZZA – AVVENIMENTI 145.765,58
  • QUI MAGAZINE 491.850,94
  • RASSEGNA SINDACALE 506.660,00
  • RID – RIVISTA ITALIANA DIFESA 409.850,91
  • RISK 319.637,69
  • SABATO SERA 506.660,00
  • SALVAGENTE (IL) 506.660,00
  • SOLE DELLE ALPI
  • IL CANAVESE 445.512,04
  • SUONO STEREO HI FI 221.640,41
  • SUPER PARTES IN THE WORLD 153.082,04
  • TEMPI 259.740,93
  • TRENTA GIORNI NELLA CHIESA E NEL MONDO 506.660,00
  • WHAT’S UP 49.205,76
  • ZAINET LAB 506.660,00

Contributi alle imprese editrici di periodici esercitate da cooperative, fondazioni o enti morali oppure da società nel cui capitale siano maggioritari tali soggetti senza scopo di lucro

(Art. 3 comma 3 legge 250/1990)

Sono 141 Testate , di cui nel 2009 a 20 contributi fino a 10.000 euro, a 47 contributi da 10.000 a 40.000 euro, a 39 tra 40.000 e 70.000 euro, a 11 tra 70000 e 100.000 euro, a 24 contributi oltre i 100.000 euro. Per brevità riportiamo solo queste ultime i cui contributi sono di maggiore entità.

  • ADISTA 122.100,00
  • AMICO DEL POPOLO (L’) 260.840,00
  • AZIONE (L’) 120.578,00
  • BIELLESE (IL) 310.053,60
  • CAR AUDIO & FM 297.400,00
  • CITTA’ NUOVA 138.000,00
  • CORRIERE DI SALUZZO 144.165,00
  • ECO DEL CHISONE 291.920,00
  • ERRE COME ROMA 270.000,00
  • FAMIGLIA CRISTIANA 312.000,00
  • GAZZETTA MARTESANA 167.271,00
  • GIORNALINO (IL) 306.000,00
  • NUOVO RINASCIMENTO 101.230,00
  • QUADERNI DI MILANO 312.000,00
  • RHO SETTEGIORNI 233.087,20
  • SPRINT E SPORT 222.148,40
  • TIRACCIO 211.200,00
  • TOSCANA OGGI 150.334,60
  • TRIBUNA ECONOMICA 138.000,00
  • VERONA FEDELE 133.580,00
  • VITA CATTOLICA (LA) 141.080,00
  • VITA DEL POPOLO (LA) 195.393,00
  • VITA TRENTINA 116.432,00
  • VOCE DEL POPOLO (LA) 105.772,60

Fonte Presidenza del Consiglio, Dipartimento per l’informazione e l’Editoria, www.governo.it.

Contributi erogati nel 2009 (anno di riferimento 2008) – Dati aggiornati al 7 maggio 2010.