Dopo aver descritto la presentazione e le peculiarità della ceramica compendiaria in mostra ai Musei Capitolini, fino al 16 gennaio 2011, il racconto della visita dalla produzione di Faenza – il centro dove a metà del 1500 nacque il nuovo stile a seguito dell’innovazione stilistica e produttiva rispetto allo stile istoriato – passa a descrivere quella degli altri centri ceramici, al nord, al sud e soprattutto al centro dove spicca Castelli per la sua rinomanza nazionale e anche internazionale.
La compendiaria al nord e centro-sud: Trentino, Lazio e Campania
Dopo Faenza in mostra troviamo, all’estremo nord, il Trentino e Tirolo. Come centro di produzione si spiega soprattutto in relazione alla forte domanda che cominciò a venire dalla Germania quando si diffusero i pregi delle produzioni compendiarie, all’inizio del ‘600. Ordini cospicui soprattutto dalle corti principesche, in particolare del duca di Baviera e parecchi altri duchi e membri della famiglia Asburgo; si è accertato che in quel paese mitteleuropeo vi sono 3.700 ceramiche del nostro Rinascimento, molte sono “bianchi” di Faenza.
Viene usato uno smalto costoso a base di stagno per i ceti elevati, tecniche più economiche per le destinazioni ai ceti meno abbienti, come le stoviglie con una semplice vernice di piombo. Non sono mancate imitazioni della tecnica faentina, le cosiddette “habàne”, chiamate così perché prodotte dagli anabattisti, setta religiosa di fede protestante di poche migliaia di componenti. Vediamo forme mosse con le “crespine”, bordi traforati e ondulati, in una parola increspati, da cui il termine.
Nella sala successiva ecco il Lazio, che trova la migliore introduzione nelle parole di Giorgio Vasari, sulle ceramiche “bianchissime e con poche pitture”, personalizzate con stemmi nobiliari. Altrettanto espressive le parole di Pier Paolo Biondi che nel 1588 scrive: “In Acquapendente li vasi si lavorano sottili con bianco finissimo ad uso di Faenza e se ne fa gran spaccio in Roma per le corti de’ Cardinali e de’ Prelati”. Vediamo esposti 7 piatti con stemma centrale, 3 di Roma, 2 di Acquapendente e di Bagnoregio; poi una fiasca e un orciolo per spezie con stemmi del cardinale Pio di Carpi e di papa Urbano VIII Barberini. Di Bagnoregio una targa devozionale, la Crux Angelica di san Tommaso d’Aquino. E’ evidente l’importanza per l’elevata committenza ecclesiastica e nobiliare che alimenta una forte domanda per i centri di produzione.
La Campania segue immediatamente nella mostra. Le sue produzioni si rifanno a quelle di Castelli, che all’epoca era il maggiore centro ceramico del Regno di Napoli e riforniva il capoluogo partenopeo; Napoli era una città di dimensioni europee dalla forte domanda di ceramiche, un mercato che Castelli aveva conquistato con le ceramiche compendiarie dal 1577.
Due artigiani castellani, figli di Orazio Pompei, della famosa bottega, si trasferirono a Napoli per produrre “in loco”, dato che i prodotti di Castelli si portavano nella città a dorso di mulo con un viaggio difficile e costoso, per migliaia di pezzi; un esempio ante litteram di spostamento della produzione sul luogo di consumo. La produzione locale si sviluppa dal 1585, ma è nella seconda metà del ‘600 che la città si rese autonoma: siamo in una fase tarda, non c’è più l’essenzialità del bianco compendiario e gli ornati invadono le superfici con forti decorazioni.
Sono esposti 6 grandi piatti, con figure in campo bianco: leone rampante e torre, uomo con tridente e albero. Oltre a Napoli, è un importante centro di produzione Vietri; e nella regione Salerno soprattutto dal 1590.
C’è l’eloquente riproduzione di un dipinto della chiesa di Santa Maria della Sapienza a Napoli, l’Ultima cena di Gargiulo, 1609-75, con in primo piano un piatto in ceramica stile compendiario.
Toscana, Umbria e Marche
Il quadro dell’Italia centrale è molto ricco, dopo il Lazio e la Campania, vediamo le produzioni della Toscana dove non si diffuse per motivi stilistici, quanto per ragioni pratiche. C’era una stasi produttiva della ceramica dell’epoca e il ricorso al compendiario fu un modo per rilanciare la produzione sulle nuove basi: più che di reazione all’istoriato si trattò dell’adesione al nuovo modo di concepire la ceramica, che ne valorizzava morbidezza e lucentezza, quindi la rendeva più ricercata; e con le nuove tecniche innovative meno costosa perchè prodotta in serie con gli stampi.
De Pompeis cita lo “spolvero”, lo stampo sopra fogli sottili: il disegno dai contorni bucherellati applicato sulla superficie della ceramica da decorare con la polvere passata tra i fori come traccia. Sono tecniche complicate, per la porosità e il cambio di colore dopo la cottura. Notiamo un bacile e un versatoio, e anche piatti più colorati e istoriati del bianco compendiario, evidentemente resta lo stile precedente abbandonato per necessità più che per scelta.
Il curatore parla del risparmio dello stagno con uno strato sottilissimo. Vengono citati Montelupo e anche Siena, sotto l’influsso di Deruta in Umbria. Suggestiva la Targa devozionale per San Lorenzo, prodotta ad Asciano nel 1592: colori tenui, una bell’immagine nella bacheca di cristallo.
Nell’esposizione dell’Umbria ritroviamo le “crestine” citate per il Trentino, con figure allegoriche e scene mitologiche: spiccano rinfrescatoi luminosi per il bianco della maiolica, sono esaltati i caratteri di brillantezza e “pulitezza” del compendiario: non lasciavano il senso sgradevole nel palato dei metalli e il costo era più contenuto per la produzione in serie a stampi e il decoro rapido.
Il centro maggiore è Deruta cui la mostra dedica diverse vetrine e teche: in particolare quella con il calamaio giallo e la coppa con l’immagine mitologica di Venere e Marte. Si ricordano i maestri Franciolli e Manciano “il frate”, dal 1540, e i piatti istoriati con le Metamorfosi di Ovidio.
Le Marche ebbero sollecitazioni apparentemente opposte ma in fondo convergenti, la competizione da un lato, l’imitazione dall’altro, ambedue nei riguardi di Faenza. Non c’erano vere botteghe ma artigiani anonimi che producevano sia in stile compendiario che istoriato; ciononostante ci sono stati lavori di alto livello a Castel Donato. Di Urbino c’è in mostra una produzione importante, un coperchio di Battistero con un rilievo. Vediamo esposti 2 piatti bianchissimi con una figura appena accennata, una alzata con cavallo centrale e un bacile, un rinfrescatoio e un centro tavola.
Il culmine a Castelli in Abruzzo, la conclusione in Puglia
Da Napoli è naturale passare a Castelli per il collegamento che si è citato. E si deve cominciare col dire che anche agli abruzzesi è sempre apparso straordinario come un piccolo paese affogato nel verde ai piedi del Gran Sasso, un tempo difficilmente raggiungibile e isolato d’inverno, potesse avere sviluppato un’arte ceramica sopraffina e conquistato un mercato nazionale e internazionale alle proprie produzioni; all’Ermitage di san Pietroburgo si possono ammirare collezioni di servizi da tavola di Castelli un tempo in uso nelle corti europee, nel 2009 si è tenuta nella città russa una mostra di arte castellana seguita da una mostra a Castelli di opere appartenenti a tale museo.
Per questo a Castelli c’è un Museo della ceramica con i capolavori dei suoi artisti, primi tra loro i fratelli Grue. Nel “Libro Segreto”, Gabriele d’Annunzio dopo aver detto “il sapore della Maiella è tutto nel nostro cacio pecorino” aggiunge : “… domando al servitore che mi porti la forma onde fu tagliata la fetta a me servita, in un piatto di Castelli, in una maiolica di Francescantonio Grue”. Nel museo, oltre ai capolavori di questo e degli altri maestri nelle varie epoche e alle collezioni acquisite anche di recente, c’è il Presepio monumentale, formato nel tempo con l’aggiunta al nucleo iniziale di nuove figure di grandi dimensioni realizzate e offerte dalle botteghe locali. Questo presepio artistico veniva esposto nelle festività natalizie all’aperto con le aggiunte dell’anno, prima che le esigenze di conservazione non lo sconsigliassero; anni fa è stato portato anche a Israele per l’esposizione nei luoghi della Natività, ma la fragilità ora ne sconsiglia lo spostamento.
Castelli non vive di ricordi, ogni anno c’è la Mostra Mercato con stand molto forniti nei quali espongono la loro produzione per l’intero periodo estivo le botteghe di ceramica che lavorano tutto l’anno in un fervore di produzione artigianale di piccola e media dimensione, anche a livello industriale, con un mercato internazionale. Decori prevalenti sono il paesaggio e il “fioraccio”. C’è una Scuola di ceramica molto qualificata che perpetua l’antica tradizione con una formazione artistica e tecnica di alto livello per uno sbocco professionale e un business in piena attività.
De Pompeis, che è direttore del Museo Urania di Pescara, conosce molto bene Castelli, anzi – se abbiamo capito bene da un suo accenno – sembra abbia una lontana discendenza dal famoso ceramista Pompei. Ebbene, con la sua competenza testimoniata da libri e mostre, lo definisce “il centro più importante del regno di Napoli all’epoca della ceramica compendiaria, con committenze metropolitane, cospicue quelle del mondo ecclesiastico e cardinalizio romano”: vengono citati in particolare i Farnese e D’Avalos, Mendoza e De Torres, Caracciolo e Capece Minutolo. E con scambi nei confronti di Napoli, città popolosa di dimensioni europee, dove come si è detto nel 1577 si trasferirono due esponenti della famiglia Pompei; nonché nel Mediterraneo orientale, Zara Spalato e Cipro. Il curatore ne descrive le peculiarità, “lo smalto turchino unico in Italia, la tecnica delle applicazioni in oro, quasi solo sua, con la terza cottura per questo decoro prezioso, a condizioni particolari di temperatura. Peculiarità anche nei soggetti, figure che dialogano per pranzi matrimoniali”. Mostra al riguardo un vasellame rinascimentale con l’uomo che offre un fiore.
Suscita emozione rivedere, sia pure nella riproduzione di un grande pannello murale, il soffitto della chiesetta di San Donato, definito “La Sistina della maiolica”, su fondo bianco in stile compendiario le figure stilizzate di animali, soggetti vari, stemmi, su supporti inconsueti, i mattoncini in ceramica del soffitto. I mattoncini che costituivano il pavimento erano, invece, su un fondo blu intenso, sono esposti in una parete al Museo della Ceramica dopo la rimozione per meglio conservarli.
Dinanzi alla riproduzione del soffitto, in mostra c’è la teca con una statuetta in ceramica raffigurante Santa Colomba, datata 1617, dei conti di Pagliano, feudatari di Castelli. Ci ricorda, ma non è esposta, la “Madonna di Pompei”, una ceramica di colore blu intenso tipo quadretto, grande varie volte i mattoni di San Donato, che ha una particolarità: fu rubata in passato e dopo molti anni ritrovata perché una vecchia del paese, guardando in televisione un servizio su un’asta da Christie’s, riconobbe “la madonnella nostra….!”, furono avvertiti i carabinieri e il nucleo per la tutela del patrimonio artistico riuscì a recuperarla.
Questo accenno alla ceramica di Castelli, che ci è familiare, per introdurre la sala della mostra dedicata alla sua produzione. Oltre ai numerosi piatti esposti in una lunga vetrina e ad alcune brocche che la sovrastano notiamo, in particolare, un vaso cilindrico per fonte battesimale; poi una saliera con lo stemma di due famiglie toscane perché un vescovo di Castelli era originario di Lucca. Forme anche molto particolari di vasellami “abborracciati” e “martellati”, a imitazione dell’argento, anche a forma di conchiglie. C’è una vetrina con 6 vasi, notiamo l’albarello con cavaliere e con un uomo seduto; coppe e rinfrescatoi, mascheroni plastici in rilievo nei vasi di farmacia, di varie fogge, in uno si vede Tobia e l’angelo; e colori diversi dai faentini, pochi blu, giallo ocra: come in una fiaschetta a forma di scarpa e un versatoio a fontana da tavola.
Questo riferimento alla tavola ci porta subito all’ultima sala, dedicata alla Puglia, il centro di produzione più meridionale, c’è una grande tavola apparecchiata, la messa in scena è giustificata dalla molteplicità delle sedi, da Andria a Nardò, da Otranto a Laterza: i colori quelli tipici del compendiario, turchino, giallo e arancio. Un’eccezione alla sobrietà figurativa è nel piatto con il cavallo e nella crespina a settori con Cupido alato dove il decoro copre tutta la superficie, ma sono considerati in stile compendiario per la delicatezza dei colori e del tratto; nei bordi carote, foglie e fiori. Le produzioni di Otranto si ispirano ai bianchi di Faenza, quelle di Laterza richiamano Castelli. Per Andria va ricordata la tradizione ben più antica. Leandro Alberti, 1479-1522, scriveva: “Quivi ad Andri si fanno bellissimi piatti di terra cotta”.
Una nota conclusiva
Il panorama del bianco compendiario nelle regioni italiane ci mostra un fiorire di iniziative dove l’arte si è unita all’artigianato, la tecnologia all’organizzazione produttiva, in una esemplare sinergia tra le diverse componenti che danno una sbocco economico a creatività e produzione materiale.
La mostra ci sembra abbia un valore che va oltre la pur importante esposizione di opere pregevoli per assumere il significato di simbolo e di paradigma su come si può rispondere ai cambiamenti del mercato. Alla metà del ‘500 la crisi della produzione, fino ad allora caratterizzata dall’istoriato con la lavorazione a tornio, fu superata con l’innovazione nel settore in difficoltà; i cambiamenti furono a 360 gradi, dallo stile dell’ornato nel senso della pulitezza del bianco con un diverso smalto e il decoro essenziale, alla tecnica produttiva con la lavorazione in serie introducendo gli stampi.
Ciascuno può fare gli opportuni riferimenti anche a vicende di grande attualità: non si agì su un solo aspetto ma su tutti quelli coinvolti nel processo produttivo, dai “modelli” alla tecnologia fino alla distribuzione. E anche allora ci furono forme di decentramento produttivo sui mercati di consumo, come lo spostamento di ceramisti di Castelli a Napoli, grande città europea, e la produzione nel Trentino per la forte domanda dalla Germania da parte di corti nobiliari. Questo collegamento ci fa sentire ancora più vicine e noi e attuali le tante opere che abbiamo potuto ammirare, oltre 170, nella bella mostra ai Musei Capitolini, esemplare per l’allestimento suggestivo oltre che per i contenuti.
cultura.inabruzzo.it – 16 gennaio 2011 – Postato in: ceramisti, mostre
Dopo aver descritto le peculiarità della “ceramica compendiaria” esposta nella mostra “Il bianco a tavola”, aperta ai Musei Capitolini fino al 16 gennaio 2011, e aver illustrato l’antica ceramica di Faenza – il centro dove a metà del 1500 nacque il nuovo stile a seguito dell’innovazione stilistica e produttiva rispetto allo stile istoriato – passiamo a descrivere l’antica ceramica degli altri centri produttivi nelle diverse Regioni italiane, al nord, al sud e soprattutto al centro dove spicca Castelli per la sua qualità rinomata a livello nazionale e anche internazionale.
La “ceramica compendiaria” al nord e centro-sud: Trentino, Lazio e Campania
Dopo Faenza in mostra troviamo, all’estremo nord, il Trentino e Tirolo. Come centro di produzione si spiega soprattutto in relazione alla forte domanda che cominciò a venire dalla Germania quando si diffusero i pregi delle produzioni compendiarie, all’inizio del ‘600. Ordini cospicui soprattutto dalle corti principesche, in particolare del duca di Baviera e parecchi altri duchi e membri della famiglia Asburgo; si è accertato che in quel paese mitteleuropeo vi sono 3.700 ceramiche del nostro Rinascimento, molte sono “bianchi” di Faenza.
Viene usato uno smalto costoso a base di stagno per i ceti elevati, tecniche più economiche per le destinazioni ai ceti meno abbienti, come le stoviglie con una semplice vernice di piombo. Non sono mancate imitazioni della tecnica faentina, le cosiddette “habàne”, chiamate così perché prodotte dagli anabattisti, setta religiosa di fede protestante di poche migliaia di componenti. Vediamo forme mosse con le “crespine”, bordi traforati e ondulati, in una parola increspati, da cui il termine. E le tradizionali “stufe a olle” in ceramica, una particolarità della zona.
Nella sala successiva ecco il Lazio, che trova la migliore introduzione nelle parole di Giorgio Vasari, sulle ceramiche “bianchissime e con poche pitture”, personalizzate con stemmi nobiliari. Altrettanto espressive le parole di Pier Paolo Biondi che nel 1588 scrive: “In Acquapendente li vasi si lavorano sottili con bianco finissimo ad uso di Faenza e se ne fa gran spaccio in Roma per le corti de’ Cardinali e de’ Prelati”. Vediamo esposti 7 piatti con stemma centrale, 3 di Roma, 2 di Acquapendente e di Bagnoregio; poi una fiasca e un orciolo per spezie con stemmi del cardinale Pio di Carpi e di papa Urbano VIII Barberini. Di Bagnoregio una targa devozionale, la Crux Angelica di san Tommaso d’Aquino. E’ evidente l’importanza per l’elevata committenza ecclesiastica e nobiliare che alimenta una forte domanda per i centri di produzione.
La Campania segue immediatamente nella mostra. Le sue produzioni si rifanno a quelle di Castelli, che all’epoca era il maggiore centro ceramico del Regno di Napoli e riforniva il capoluogo partenopeo; Napoli era una città di dimensioni europee dalla forte domanda di ceramiche, un mercato che Castelli aveva conquistato con le ceramiche compendiarie dal 1577.
Due artigiani castellani, figli di Orazio Pompei, della famosa bottega, si trasferirono a Napoli per produrre “in loco”, dato che i prodotti di Castelli si portavano nella città a dorso di mulo con un viaggio difficile e costoso, per migliaia di pezzi; un esempio ante litteram di spostamento della produzione sul luogo di consumo. La produzione locale si sviluppa dal 1585, ma è nella seconda metà del ‘600 che la città si rese autonoma: siamo in una fase tarda, non c’è più l’essenzialità del bianco compendiario e gli ornati invadono le superfici con forti decorazioni.
Sono esposti 6 grandi piatti, con figure in campo bianco: leone rampante e torre, uomo con tridente e albero. Oltre a Napoli, è un importante centro di produzione Vietri; e nella regione Salerno soprattutto dal 1590.
C’è l’eloquente riproduzione di un dipinto della chiesa di Santa Maria della Sapienza a Napoli, l’Ultima cena di Gargiulo, 1609-75, con in primo piano un piatto in ceramica stile compendiario.
Toscana, Umbria e Marche
Il quadro dell’Italia centrale è molto ricco, dopo il Lazio e la Campania, vediamo le produzioni della Toscana dove non si diffuse per motivi stilistici, quanto per ragioni pratiche. C’era una stasi produttiva della ceramica dell’epoca e il ricorso al compendiario fu un modo per rilanciare la produzione sulle nuove basi: più che di reazione all’istoriato si trattò dell’adesione al nuovo modo di concepire la ceramica, che ne valorizzava morbidezza e lucentezza, quindi la rendeva più ricercata; e con le nuove tecniche innovative meno costosa perchè prodotta in serie con gli stampi.
De Pompeis cita lo “spolvero”, lo stampo sopra fogli sottili: il disegno dai contorni bucherellati applicato sulla superficie della ceramica da decorare con la polvere passata tra i fori come traccia. Sono tecniche complicate, per la porosità e il cambio di colore dopo la cottura. Notiamo un bacile e un versatoio, e anche piatti più colorati e istoriati del bianco compendiario, evidentemente resta lo stile precedente abbandonato per necessità più che per scelta.
Il curatore parla del risparmio dello stagno con uno strato sottilissimo. Vengono citati Montelupo e anche Siena, sotto l’influsso di Deruta in Umbria. Suggestiva la Targa devozionale per San Lorenzo, prodotta ad Asciano nel 1592: colori tenui, una bell’immagine nella bacheca di cristallo.
Nell’esposizione dell’Umbria ritroviamo le “crestine” citate per il Trentino, con figure allegoriche e scene mitologiche: spiccano rinfrescatoi luminosi per il bianco della maiolica, sono esaltati i caratteri di brillantezza e “pulitezza” del compendiario: non lasciavano il senso sgradevole nel palato dei metalli e il costo era più contenuto per la produzione in serie a stampi e il decoro rapido.
Il centro maggiore è Deruta cui la mostra dedica diverse vetrine e teche: in particolare quella con il calamaio giallo e la coppa con l’immagine mitologica di Venere e Marte. Si ricordano i maestri Franciolli e Manciano “il frate”, dal 1540, e i piatti istoriati con le Metamorfosi di Ovidio.
Le Marche ebbero sollecitazioni apparentemente opposte ma in fondo convergenti, la competizione da un lato, l’imitazione dall’altro, ambedue nei riguardi di Faenza. Non c’erano vere botteghe ma artigiani anonimi che producevano sia in stile compendiario che istoriato; ciononostante ci sono stati lavori di alto livello a Castel Donato. Di Urbino c’è in mostra una produzione importante, un coperchio di Battistero con un rilievo. Vediamo esposti 2 piatti bianchissimi con una figura appena accennata, una alzata con cavallo centrale e un bacile, un rinfrescatoio e un centro tavola.
Il culmine a Castelli in Abruzzo, la conclusione in Puglia
Da Napoli è naturale passare a Castelli per il collegamento che si è citato. E si deve cominciare col dire che anche agli abruzzesi è sempre apparso straordinario come un piccolo paese affogato nel verde ai piedi del Gran Sasso, un tempo difficilmente raggiungibile e isolato d’inverno, potesse avere sviluppato un’arte ceramica sopraffina e conquistato un mercato nazionale e internazionale alle proprie produzioni; all’Ermitage di san Pietroburgo si possono ammirare collezioni di servizi da tavola di Castelli un tempo in uso nelle corti europee, nel 2009 si è tenuta nella città russa una mostra di arte castellana seguita da una mostra a Castelli di opere appartenenti a tale museo.
Per questo a Castelli c’è un Museo della ceramica con i capolavori dei suoi artisti, primi tra loro Orazio Pompei del ‘500, le famiglie Grue, 9 artisti della ceramica, Gentili, 5 artisti, Cappelletti, 4 artisti, tre dinastie tra il ‘500 e l”800. Ricordiamo alcune loro opere, e tra quelli che ci sembrano gli epigoni del ‘900 citiamo Rinaldo Pardi, per la sue piastrelle della “Via crucis” in ceramica dipinta, scomparso nel 1945 a 47 anni, ne continua il percorso il fratello DantePardi, con i nipoti che hanno impiantato una scuola di ceramica. Meritano tutti di restare vivi nella memoria.
Nel “Libro Segreto”, Gabriele d’Annunzio dopo aver detto “il sapore della Maiella è tutto nel nostro cacio pecorino” aggiunge : “… domando al servitore che mi porti la forma onde fu tagliata la fetta a me servita, in un piatto di Castelli, in una maiolica di Francescantonio Grue”. Nel museo, oltre ai capolavori di questo e degli altri maestri nelle varie epoche e alle collezioni acquisite anche di recente, c’è il Presepio monumentale, formato nel tempo con l’aggiunta al nucleo iniziale di nuove figure di grandi dimensioni realizzate e offerte dalle botteghe locali. Questo presepio artistico veniva esposto nelle festività natalizie all’aperto con le aggiunte dell’anno, prima che le esigenze di conservazione non lo sconsigliassero; anni fa è stato portato anche a Israele per l’esposizione nei luoghi della Natività, ma la fragilità ora ne sconsiglia lo spostamento.
Castelli non vive di ricordi, ogni anno c’è la Mostra Mercato con stand molto forniti nei quali espongono la loro produzione per l’intero periodo estivo le botteghe di ceramica che lavorano tutto l’anno in un fervore di produzione artigianale di piccola e media dimensione, anche a livello industriale, con un mercato internazionale. Decori prevalenti sono il paesaggio e il “fioraccio”. C’è una Scuola di ceramica molto qualificata che perpetua l’antica tradizione con una formazione artistica e tecnica di alto livello per uno sbocco professionale e un business in piena attività.
De Pompeis, che è direttore del Museo Urania di Pescara, conosce molto bene Castelli, anzi – se abbiamo capito bene da un suo accenno – sembra abbia una lontana discendenza dal famoso ceramista Pompei. Ebbene, con la sua competenza testimoniata da libri e mostre, lo definisce “il centro più importante del regno di Napoli all’epoca della ceramica compendiaria, con committenze metropolitane, cospicue quelle del mondo ecclesiastico e cardinalizio romano”: vengono citati in particolare i Farnese e D’Avalos, Mendoza e De Torres, Caracciolo e Capece Minutolo.
E con scambi nei confronti di Napoli, città popolosa di dimensioni europee, dove come si è detto nel 1577 si trasferirono due esponenti della famiglia Pompei; nonché nel Mediterraneo orientale, Zara Spalato e Cipro. Il curatore ne descrive le peculiarità, “lo smalto turchino unico in Italia, la tecnica delle applicazioni in oro, quasi solo sua, con la terza cottura per questo decoro prezioso, a condizioni particolari di temperatura. Peculiarità anche nei soggetti, figure che dialogano per pranzi matrimoniali”. Mostra al riguardo un vasellame rinascimentale con l’uomo che offre un fiore.
Suscita emozione rivedere, sia pure nella riproduzione di un grande pannello murale, il soffitto della chiesetta di San Donato, definito “La Sistina della maiolica”, su fondo bianco in stile compendiario le figure stilizzate di animali, soggetti vari, stemmi, su supporti inconsueti, i mattoncini in ceramica del soffitto. I mattoncini che costituivano il pavimento erano, invece, su un fondo blu intenso, sono esposti in una parete al Museo della Ceramica dopo la rimozione per meglio conservarli.
Dinanzi alla riproduzione del soffitto, in mostra c’è la teca con una statuetta in ceramica raffigurante Santa Colomba, datata 1617, dei conti di Pagliano, feudatari di Castelli. Ci ricorda, ma non è esposta, la “Madonna di Pompei”, una ceramica di colore blu intenso tipo quadretto, grande varie volte i mattoni di San Donato, che ha una particolarità: fu rubata in passato e dopo molti anni ritrovata perché una vecchia del paese, guardando in televisione un servizio su un’asta da Christie’s, riconobbe “la madonnella nostra….!”, furono avvertiti i carabinieri e il nucleo per la tutela del patrimonio artistico riuscì a recuperarla.
Questo accenno alla ceramica di Castelli, che ci è familiare, per introdurre la sala della mostra dedicata alla sua produzione. Oltre ai numerosi piatti esposti in una lunga vetrina e ad alcune brocche che la sovrastano notiamo, in particolare, un vaso cilindrico per fonte battesimale; poi una saliera con lo stemma di due famiglie toscane perché un vescovo di Castelli era originario di Lucca. Forme anche molto particolari di vasellami “abborracciati” e “martellati”, a imitazione dell’argento, anche a forma di conchiglie. C’è una vetrina con 6 vasi, notiamo l’albarello con cavaliere e con un uomo seduto; coppe e rinfrescatoi, mascheroni plastici in rilievo nei vasi di farmacia, di varie fogge, in uno si vede Tobia e l’angelo; e colori diversi dai faentini, pochi blu, giallo ocra: come in una fiaschetta a forma di scarpa e un versatoio a fontana da tavola.
Questo riferimento alla tavola ci porta subito all’ultima sala, dedicata alla Puglia, il centro di produzione più meridionale, c’è una grande tavola apparecchiata, la messa in scena è giustificata dalla molteplicità delle sedi, da Andria a Nardò, da Otranto a Laterza: i colori quelli tipici del compendiario, turchino, giallo e arancio. Un’eccezione alla sobrietà figurativa è nel piatto con il cavallo e nella crespina a settori con Cupido alato dove il decoro copre tutta la superficie, ma sono considerati in stile compendiario per la delicatezza dei colori e del tratto; nei bordi carote, foglie e fiori. Le produzioni di Otranto si ispirano ai bianchi di Faenza, quelle di Laterza richiamano Castelli. Per Andria va ricordata la tradizione ben più antica. Leandro Alberti, 1479-1522, scriveva: “Quivi ad Andri si fanno bellissimi piatti di terra cotta”.
Una nota conclusiva
Il panorama del bianco compendiario nelle regioni italiane ci mostra un fiorire di iniziative dove l’arte si è unita all’artigianato, la tecnologia all’organizzazione produttiva, in una esemplare sinergia tra le diverse componenti che danno una sbocco economico a creatività e produzione materiale.
La mostra ci sembra abbia un valore che va oltre la pur importante esposizione di opere pregevoli per assumere il significato di simbolo e di paradigma su come si può rispondere ai cambiamenti del mercato. Alla metà del ‘500 la crisi della produzione, fino ad allora caratterizzata dall’istoriato con la lavorazione a tornio, fu superata con l’innovazione nel settore in difficoltà; i cambiamenti furono a 360 gradi, dallo stile dell’ornato nel senso della pulitezza del bianco con un diverso smalto e il decoro essenziale, alla tecnica produttiva con la lavorazione in serie introducendo gli stampi.
Ciascuno può fare gli opportuni riferimenti anche a vicende di grande attualità: non si agì su un solo aspetto ma su tutti quelli coinvolti nel processo produttivo, dai “modelli” alla tecnologia fino alla distribuzione. E anche allora ci furono forme di decentramento produttivo sui mercati di consumo, come lo spostamento di ceramisti di Castelli a Napoli, grande città europea, e la produzione nel Trentino per la forte domanda dalla Germania da parte di corti nobiliari. Questo collegamento ci fa sentire ancora più vicine e noi e attuali le tante opere che abbiamo potuto ammirare, oltre 170, nella bella mostra ai Musei Capitolini, esemplare per l’allestimento suggestivo oltre che per i contenuti.
Info
Musei Capitolini, Roma, Piazza del Campidoglio. Da martedì a domenica ore 9-20, la biglietteria chiude alle 19, lunedì chiuso. Ingresso euro 4, ridotti 3 alle categorie riconosciute, per la sola visita alla mostra, euro 12 ridotti 10 per visita a mostra+ museo, i residenti a Roma 1 euro in meno. Tel. 06.06.08, www.musei.incomuneroma.it, www.zetema.it. Catalogo Editore Umberto Allemandi & C. . Il primo articolo è uscito ieri 15 gennaio 2011.
Foto
Le immagini riprese nella mostra dall’autore sono andate perdute nel trasferimento di questo articolo, come di tutti gli altri, dal sito cultura.inabruzzo.it in cui era stato pubblicato, al sito amalarte.it, operato dal titolare del sito. Al loro posto sono state inserite immagini della “ceramica antica” delle diverse regioni italiane, due ogni regione interessata, tranne il Trentino con una immagine di una produzione tipica, e Castelli in Abruzzo con 12 immagini, tratte dai siti web di seguito indicati. Si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, precisando che sono inserite a titolo illustrativo senza intento economico o pubblicitario per cui, se la pubblicazione nell’articolo non fosse gradita, saranno eliminate su semplice richiesta. I siti – per i quali si rinnova il ringraziamento – sono i seguenti, in ordine di inserimento delle immagini: in apertura, abruzzoturismo.it; Trentino, il capochiave.it; Lazio, museodellacittà.eu, tusciaweb.eu; Campania, napoliantica.com, pinterest.it; Toscana, arteceramicatoscana.it, it.wikipedia.org; Umbria, gpderuta.com, lagazzettadellantiquariato.it; Marche, visiturbania.com, artigianicreativi.it; Castelli, Abruzzo, tesoridabruzzo.com, abruzzostoriepassioni.com, 4 it.wikipedia.org, beweb.chiesacattolica.it, viaggiando-italia.it, abruzzo.life.it, originalitaly.it, ilcascinale.com, iviaggididante.com; Puglia, keej.it, lagazzettadellantiquariato.it. In apertura, Castelli, Abruzzo, Soffitto della chiesa di San Donato,”La Sistina della maiolica”; seguono, 2 immagini per la ceramica di ciascuna delle regioni indicate, Lazio, Campania, Toscana, Umbria, Marche; poi 12 immagini su Castelli, Abruzzo; in chiusura 2 immagini sulla ceramica della regione Puglia.
cultura.inabruzzo.it – 15 gennaio 2011 – Postato in: ceramisti, mostre
In mostra ai Musei Capitolini, dal 20 ottobre al 16 gennaio 2011, la ceramica compendiaria di Faenza e Trentino, Lazio e Campania, Toscana, Umbria e Marche, Castelli in Abruzzo fino alla Puglia. E’ uno stile che all’istoriato sostituisce le “maioliche ‘bianche e polite’” ispirate all’argento: scarsi ornamenti, innova lo stile e la produzione, che diviene di serie con gli stampi e non con più i torni.
“Ma chi ha detto che il bianco è assenza. Bianco è tutti i colori insieme, bianco è la voglia di riempire, bianco è il momento dell’ispirazione. E’ questo il ‘bianco’ a tavola. La maiolica italiana tra 1500 e 1600, offre qualche spunto di riflessione. Quasi una premessa”. Così inizia la presentazione di Umberto Broccoli, soprintendente ai Beni Culturali di Roma Capitale. Non poteva non stimolarci nel ricordo della risposta di Renato Zero allorché lo intervistammo per “Nuova Dimensione” che dirigevamo, nel novembre 1994: “Zero è l’infinito, l’eterno, l’essere e il nulla; il passato che esiste solo nella nostra memoria; il presente che si distrugge nell’attimo stesso in cui si realizza, il futuro che non è ancora, Zero è l’infinitamente grande e piccolo, , l’universo, l’atomo. Nessun sistema scientifico, matematico, filosofico esisterebbe senza questa non-entità: Zero!”.
Broccoli prosegue: “La ceramica è un altro materiale fondamentale per la vita quotidiana di secoli e secoli fa. Meno nobile del vetro, ma certamente più diffusa, la ceramica è onnipresente negli scavi archeologici. Ovunque c’è stata vita dell’uomo, si trovano i cocci, gli scarti gettati via dai nostri antenati che oggi ci permettono di ricostruirne il modo di vivere. Nel vetro prima si scalda con il fuoco e poi si dà la forma, nella ceramica prima si crea la forma e poi la si cuoce al fuoco”.
La rivoluzione della ceramica compendiaria nel XVI secolo
E’ la ceramica compendiaria che siamo venuti a visitare ai Musei Capitolini. Ne parla il curatore della mostra, Vincenzo De Pompeis alla presentazione il 20 ottobre 2010, ricordando la citazione del Garzoni del 1588 che definiva “bianchi” le maioliche “bianche e polite” prodotte con un procedimento innovativo così spiegato: “La loro caratteristica superficie bianca, corposa e coprente per via dell’uso di uno smalto più spesso e più bianco rispetto al passato, permetteva di coprire il ‘biscotto’, conferendo alla maiolica brillantezza, luminosità e un maggior senso di pulizia e di igiene”. Nella composizione chimica c’è una diversa presenza di sali potassici che dà maggiore opacità, mentre il doppio spessore dà maggiore bianchezza. Lo smalto bianco e spesso rivestiva il “biscotto” di terracotta uscito dal forno con un effetto di brillantezza e luminosità e anche di affidabilità e pulizia.
Al posto delle ceramiche istoriate dai colori vistosi, ecco maioliche dalla superficie bianca con modesti ornamenti pastello, celeste, giallo, e ocra, ispirati a stemmi o figure mitologiche o floreali. Due tipologie, una di uso comune, per classi agiate, l’altra per esposizione. C’era ostentazione nei banchetti, sono pervenuti servizi con oltre 170 pezzi numerati; se ne diffuse l’uso nelle corti europee, come in quella di Alberto di Baviera, esposti anche in grandi credenze di legno intagliato.
La rinuncia alla vistosità di colori ed ornamenti, prosegue De Pompeis, veniva compensata dal “maggior movimento delle forme, che si arricchivano di ornamenti plastici e assumevano un maggiore risalto rispetto al passato”. Una rivoluzione, quindi, sia nella semplificazione del disegno e nell’attenuazione del colore che tuttavia, essendo isolato sulla superficie bianca prevalente, attirava comunque l’attenzione; sia nelle forme, a quelle comuni si aggiungono “forme opulente e dinamiche, spesso derivate da stampi e ispirate a modelli in metallo e in vetro, che erano ispirate dal Manierismo”. L’introduzione e il maggiore ricorso agli stampi in sostituzione del tornio portava un’altra rivoluzione, questa volta non stilistica e artistica ma produttiva: nasce la produzione di serie per soddisfare la forte domanda di servizi da tavola che si è detto superare spesso i cento pezzi.
A tale aspetto si è riferito l’assessore alla Cultura di Roma Capitale Umberto Croppi ricordando l’importanza di dare visibilità a forme d’arte trascurate, come nella Crypta Balbi; e ha sottolineato come la compendiaria confermi ulteriormente la capacità italiana di innovare nello stile e nelle tecniche produttive fino alle produzioni seriali. E’ ancora oggi questa la forza del “made in Italy”, che riesce a mobilitare veri talenti anche nell’artigianato oltre che nell’arte. La sede dei Musei Capitolini fa aggiungere all’assessore come sia importante realizzare mostre come questa in sedi prestigiose con straordinarie collezioni permanenti che accrescono così la propria visibilità .
Tornando alla compendiaria, rivoluzionaria fu Faenza, dove avvenne la svolta nella metà del 1500, tanto che con il termine “faience” si è identificata l’intera maiolica perché i suoi “bianchi” ebbero grande diffusione all’estero e fecero conoscere l’intera produzione italiana. La consacrazione viene dalle parole di Pier Maria Cavina che nel 1675 scrisse: “La bellezza più singolare nella nostra Maiolica è la bianchezza colla quale ha emulato il candore dell’argento, e superatolo di pulitezza e per questo capo si rese stimabile fra li vasi degl’altri paesi che in molte parti d’Europa la Maiolica viene nominata Faenza”. Durò fino alla metà del 1600, poi tornarono disegni diffusi e colori forti.
Non abbiamo spiegato ancora il termine “compendiaria”, che risponde al vezzo di complicare le cose semplici, e bene ha fatto la mostra a intitolarsi ai “bianchi a tavola” usando il linguaggio del pubblico e non quello degli addetti ai lavori, sebbene non si possa ignorare la definizione tecnica.
Lo ha rilevato Broccoli mettendo in guardia dall’usare in linguaggio specialistico, tale è il termine suddetto, “la semplificazione del linguaggio fa bene anche alla maiolica”; del resto è sempre stata per l’uso quotidiano, anche l’uso di appendere i piatti al muro per ornamento è molto antico, come mostrano i buchi esistenti nella parte esterna del piatto. Queste parole di un archeologo come lui sono confortanti, perchè il termine è preso dal linguaggio usato dagli archeologi per definire un tipo di pittura romana di età imperiale: con rapide pennellate e figure stilizzate appena abbozzate; ma ha l’imprimatur di uno studioso di fine ‘800, Gaetano Ballardini, che lo introdusse facendolo entrare nell’uso. Viene dalla parola “compendio”, contenuto riassunto in modo sintetico e senza fronzoli.
Dei fronzoli, tuttavia, la compendiaria può averne, sono ad esempio le “crespine” intorno a certi piatti o nel fondo, oltre alle forme che possono essere movimentate e non essenziali, anche per la derivazione di cui si è detto riferita a stampi di altri materiali; ma, ribadisce De Pompeis, “i decori, viceversa, erano molto più riassuntivi, sobri e stilizzati di quelli rinascimentali”.
La visita alla mostra, cominciando dalle statue e dal timpano dei Musei Capitolini
Avendo nella mente le parole di Croppi attraversiamo i Musei Capitolini, con la raccolta straordinaria di opere d’arte distribuite nei piani dei due palazzi, il Clementino e il Palazzo Nuovo, che fanno corona al Palazzo Senatorio sul terzo lato di piazza del Campidoglio di fronte alla monumentale scalinata all’aperto al lato della chiesa dell’Ara Coeli. Non parliamo dell’Esedra con Marc’Aurelio e tante altre statue e reperti, c’è anche una porzione di mura, ora ospita la mostra del “Musico” di Leonardo per l’iniziativa di “Metamorfosi” e della Biblioteca Ambrosiana che detiene il capolavoro. Accenniamo solo a ciò che ci colpisce nel nostro percorso verso la mostra.
Tutto un lato del cortile quadrato di Palazzo Clementino reca i grossi frammenti della Statua colossale di Costantino, dalla testa agli arti, 312-315 dopo Cristo, dalla Basilica di Massenzio. Nel lato di fronte grandi lastre con fregi di armi, nel lato intermedio due statue colossali del Dace Prigioniero del II secolo dopo Cristo fanno corona alla Statua colossale di Roma seduta di età adrianea, 117-138 dopo Cristo.
Saliamo al secondo piano per una stretta scalinata, quella ampia e di rappresentanza si percorre all’uscita; attraversiamo la Sala S. Pietro, c’è una statua deliziosa, “Eros dormiente” di età imperiale, e un grande arazzo del 1660 con Clorinda e Tancredi; poi un lungo corridoio con tre busti romani e la ricostruzione del grande timpano di un tempio della metà del II secolo avanti Cristo che raffigura una scena di sacrifici in presenza di Marte con due divinità femminili, 7 statue di terracotta acefale meno una che rappresenta una dea di fattura molto raffinata.
Con il colore rosato della terracotta negli occhi, entriamo a far conoscenza di un materiale ben diverso, trasformato in bianco con lo smalto, nella penombra della mostra dove le ceramiche esposte nelle vetrine sono in bell’evidenza, illuminate come con l’occhio di bue sulla scena.
La presentazione – di cui si è dato un rapido resoconto – trova l’inatteso coronamento nella visita guidata dal curatore De Pompeis, che ha compensato con la sua disponibilità personale l’insensibilità dimostrata dell’organizzazione per le esigenze dell’approfondimento culturale.
Non deve essere stata semplice la selezione, il curatore dice subito che si è tenuto conto “della valenza storica ed artistica dell’oggetto, della sua unicità dal punto di vista morfologico e decorativo, nonché delle peculiarità stilistiche caratteristiche delle singole produzioni locali”. E questo per i più importanti centri di produzione localizzati nella varie regioni, nel ‘500 in Italia centrale, nel ‘600 anche a nord, in particolare Trentino-Tirolo e a sud, in Campania e Puglia.
Faenza, dove è nata la ceramica compendiaria
La mostra riporta all’origine della ceramica compendiaria, la prima sala è dedicata a Faenza. A questa cittàè intitolata anche una sala della mostra romana dell’artista contemporaneo Echaurrenpresso la Fondazione Roma Museo, al Palazzo Cipolla al Corso, fino al 13 marzo 2011: grandi piatti e altre forme molto vistose fino al monumentale rinoceronte con obelisco, quasi ceramico, sul blu.
Nel “bianco a tavola” invece l’opposto: una sfilata di piatti con fondo bianco e oggetti da mensa o simili, ma anche forme sontuose e bizzarre di ispirazioni manieristiche. Per introdurla, intanto, riportiamo le parole scritte da Giorgio Vasari nel 1550: “Ancorché di siffatti vasi e pitture si lavori in tutta Italia, le migliori terre e più belle sono quelle di Castel Durante e di Faenza che per lo più le migliori sono bianchissime e con poche pitture e quelle del mezzo o intorno ma vaghe e gentili affatto”. Meglio non si potevano riassumere caratteri e diffusione della rivoluzione compendiaria. Elementi di dettaglio li dà una testimonianza d’epoca, Cipriano Dicolpasso nel 1548: “Il bianco ferrarese si dipinge con nero e azzurro; con la nera si tirano gli contorni e con l’azzurro si ombra con il zafferano e con il zallo e non altro”.
Nello stile istoriato le scene mitologiche o storiche occupavano l’intero piatto con toni vivaci, mentre dei rinfrescatoi hanno solo lo stemma. De Pompeis sottolinea i riflessi di acqua ghiacciata, indica le anse ispirate a modelli di altri materiali, “un dialogo tra la ceramica e il vetro-metallo”. Vediamo una grande coppa per frutta, con motivi a ricami e figure stilizzate dai colori tenui..
Esposti in una teca un vaso cilindrico, albarello con la storia di Muzio Scevola, eun’anfora, con Mosè che riceve le tavole della legge; poi, su una lunga tavola apparecchiata, 8 piatti e una grande coppa con una fanciulla che porta un canestro; nei piatti uno stemma o figure come il faraone che chiama Mosè, battaglie e una Natività. Si nota anche un rinfrescatoio con stemma, saliere e alzate anche con piede e tazze, versatoi e brocche sempre con figure appena delineate, dai contorni delicati. De Pompeis la definisce “la tavolozza languida”; diversa dai colori più forti di Castelli. Tra i piatti notiamo l’esemplare numero 172 di un grande servizio, l’uso era per nozze principesche con centinaia di pezzi nei tavoli, lo raccontano i commentatori dell’epoca che avevano partecipato ai grandi pranzi. Notiamo lo stemma d’Este, con quello di Alfonso II d’Ungheria.
Come nei fuochi d’artificio il botto finale dell’esposizione faentina è il “Pellicano”, una piccola-deliziosa statua in ceramica forse di significato religioso come simbolo di carità: si becca il petto per alimentare i piccoli che sono ai suoi piedi.
Un pannello riproduce l’“Apparecchio generale”, un composizione di Christofer Messisburgo di taglio scenografico: dà l’idea delle grandi credenze dove venivano esposti in gran numero i pezzi dei servizi per destare stupore e consentire di effettuare rapidi assaggi prima di andare a tavola; addirittura è disegnata una scalinata per accedervi, tanto la credenza era monumentale. Il pannello conclude la prima parte della visita, quella al “bianco di Faenza”; ne troveremo i riflessi nel “bianco” di altre regioni, tributarie della patria del “compendiario”. Le vedremo presto.
Info
Musei Capitolini, Roma, Piazza del Campidoglio. Da martedì a domenica ore 9-20, la biglietteria chiude alle 19, lunedì chiuso. Ingresso euro 4, ridotti 3 alle categorie riconosciute, per la sola visita alla mostra, euro 12 ridotti 10 per visita a mostra + al museo, i residenti a Roma 1 euro in meno. Tel. 06.06.08, www.musei.incomuneroma.it, www.zetema.it. Catalogo Editore Umberto Allemandi & C. . L’articolo conclusivo uscirà domani 16 gennaio 2011.
Foto
Le immagini riprese nella mostra dall’autore sono andate perdute nel trasferimento di questo articolo, come di tutti gli altri, dal sito cultura.inabruzzo.it in cui era stato pubblicato, al sito amalarte.it, operato dal titolare del sito. Al loro posto, dopo l’immagine con la locandina della mostra, sono state inserite immagini della “ceramica antica di Faenza” tratte dai siti web di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta; precisando che è a mero titolo illustrativo senza alcun intento economico o pubblicitario per cui, se non fosse gradita la loro pubblicazione nell’articolo saranno eliminate su semplice richiesta. I siti – per i quali si rinnova il ringraziamento – sono i seguenti, in ordine di inserimento delle immagini: museicapitolini.it, .ansa.it, ceramicadifaenza.it 4 immagini, lavecchiafaenza.it 2, il vecchio tarlo.it, picclick.it 2, cat.awiki.com, lapsus.it. maiolicaitaliana.com 2 immagini.
Un bel regalo di Natale del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, e gliene diamo atto, con la stessa franchezza con cui lo abbiamo criticato per i tagli alla cultura e, più in generale, per i tagli “orizzontali”, peraltro in qualche caso giustificati dall’idiosincrasia di tutti a “tirare la cinghia”. Per cui ogni spesa diventa necessaria e indispensabile, anche per giornaletti dal contenuto ineffabile e dalla diffusione semiclandestina e non riuscendo a porre priorità, la “decimazione” diventa l’unico sistema risolutivo; anche se le eccezioni sarebbero doverose, come la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma che con 1,6 milioni di euro di contributo annuo non può neppure acquistare i libri in uscita. La citazione delle immagini richiamo l’assidua promozione culturale del 2010, si vedrà il perché.
Per la Festa degli Innamorati il 14 febbraio
L’insensatezza dei contributi ai giornali più o meno “politici” o affini
Anche questa volta crediamo che la nostra voce sarà “fuori dal coro”, come quando abbiamo denunciato lo scandalo per la “lista della vergogna”, ripubblicando per tre volte su questa rivista l’elenco dei contributi milionari (in euro) a una pletora di giornali e giornaletti immeritevoli di tale manna. Le vacche magre dell’attuale crisi economica hanno fatto il miracolo, almeno per ora, la manna si è dimezzata con il taglio del 50 per cento imposto dal decreto “milleproroghe”. Ancora poco per rimediare allo scandalo, che richiederebbe l’azzeramento, ma sarebbe già qualcosa.
Parliamo al condizionale in quanto temiamo che, come avvenne lo scorso anno al varo definitivo della legge finanziaria, l’atto di coraggio del Ministro fu provvisorio o apparente, tipo “scherzi a parte”: la provvidenza – è il caso di chiamarla così anche se non è divina ma molto “umana” nel senso di Paolo Villaggio – venne ripristinata nelle circostanze che abbiamo raccontato a suo tempo, non certo commendevoli. Questo temiamo possa avvenire nella conversione in legge del decreto. E non ci stupiremmo se già qualcosa fosse cambiato, la bonaccia sopravvenuta alimenta ogni sospetto.
E’ in azione l’invadente intellighentia di sinistra che ben si sposa con certo avanguardismo di destra, l’una e l’altro profumatamente finanziati dallo Stato che invece ignora bellamente quanto attiene alla cultura. Quando si cita la Costituzione per giustificare, anzi considerare doverosi gli indegni finanziamenti a certa informazione politica o cooperativa, più o meno fantasma, non si considera che la carta fondante della Repubblica si limita a proclamare un diritto senza accollarsene gli oneri, come per ogni altro diritto di libertà: da quello di soggiorno e riunione (artt. 16 e 17) a quello di associazione e fede religiosa (artt. 18 e 19). Questo e non altro recita infatti l’articolo che viene citato per quanto riguarda l’informazione : “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21).
Per la Festa della Donna l’8 marzo
Ma non si parla mai dell’informazione culturale, neppure quando si condannano i tagli alla cultura; e spesso con le lacrime di coccodrillo di coloro che drenano immeritatamente risorse pubbliche e rivendicano addirittura di avere un “diritto soggettivo” ai contributi statali: è un’informazione che non ha alcun sostegno, a differenza di quella politica riccamente foraggiata sebbene i “rimborsi elettorali”, che vanno ai partiti contigui, siano ben superiori alle spese sostenute per le consultazioni popolari, quindi lascino ampi margini per alimentare la stampa politica vera. Anche l’informazione di varia umanità, dal “cavallo” al “motocross” riceve cospicui contributi statali.
L’informazione culturale è quella che, anche attraverso gli approfondimenti, dà contenuto a quanto proclama solennemente la Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura… tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” (art. 9). Riconoscere un diritto è molto meno impegnativo di promuovere e tutelare; ebbene, mentre al mero diritto si dà un contenuto cogente in termini di sostegno per l’informazione politica e varia, si ignora la promozione e la tutela, sebbene sia ben più forte e impegnativa, che milita a favore dell’informazione culturale.
Per la Festa del Lavoro il 1° maggio
Lo scandalo dei contributi gonfiati per le tirature taroccate con rese abnormi
“Quotidiani di partito, il conto è salato”, si intitolava il servizio di Marco Gambaro il 3 luglio 2009 su “il Fatto Quotidiano”:“Per ogni copia venduta di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro…. Sopravvivono solo grazie ai contributi pubblici. Che però dovrebbero incentivarli a trovare nuove forme di diffusione, più adatte alle loro caratteristiche. Come gli abbonamenti o i siti internet”.
L’articolo era illustrato da un “collage” bipartisan con le testate di l’Unità, Liberazione e Il Manifesto di sinistra, Secolo d’Italia, Il Foglio, La Padania di destra,in più Il Riformista e Avvenire, politico il primo, di ispirazione religioso il secondo, un vero campionario. E conteneva un’interessante considerazione: “Rivolgendosi prevalentemente a una categoria di addetti ai lavori quali i militanti e il ceto politico, esprimono una discussione endogena che poca relazione ha con il contesto informativo dei cittadini comuni”. Cosa che, da un lato li rende “estremamente deboli sotto il profilo diffusionale e pubblicitario”; dall’altro, aggiungiamo noi, ne riduce di molto l’efficacia per il pluralismo politico restando dei mondi chiusi in se stessi, delle monadi impenetrabili.
L’interesse si accresce dinanzi ai dati delle rese e delle copie vendute, dalla cui somma si ottiene la tiratura sulla quale sono stati commisurati tutti i contributi finora erogati, da ritenersi “in fraudem legis” intendendo lo spirito più che la lettera della norma. Seguiamo la ricostruzione di Gambaro: “Nel 2007, Il Manifesto e l’Unità hanno avuto livelli di resa, la differenza tra copie tirate e vendute in rapporto alle copie tirate, rispettivamente del 60 e del 73 per cento.Avvenire apparentemente restituisce meno copie, ma se si tolgono i 70 mila abbonamenti, la resa sale al 56 per cento. Per Liberazione e Secolo d’Italia (dati Fieg dai bilanci) le vendite risultano rispettivamente di 8 mila e 3 mila copie giornaliere, mentre le rese sono in ambedue i casi dell’87 per cento”.
Per la Festa di Primavera
Si precisa che “ le prime tre testate nazionali hanno una resa del 21,9 per cento”, il che comprova l’anomalia di rese così alte che non portano a ridurre la tiratura come sarebbe logico e giusto: “In altre parole – commenta il giornalista – per ogni copia venduta ai lettori di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro”. Uno spreco indicibile per gonfiare in modo abnorme i contributi per cui al danno economico si aggiunge quello del consumo inutile di carta, quindi di alberi. Per questo, dato che nella grande maggioranza il numero dei lettori è così esiguo e la qualità del contenuto così scadente da non recare danno al pubblico la chiusura, se si devono mantenere giornalisti e poligrafici converrebbe pagarli per restare a casa o per fare altro, come fu per il Sulcis, oppure utilizzare gli ammortizzatori sociali essendo lavoratori uguali a tutti gli altri.
Il passaggio dalle tiratura taroccate ai contributi gonfiati è stato finora automatico e il divario rispetto alle vendite effettive dato dalle rese misura la vera e propria distrazione di fondi pubblici che avviene con il meccanismo perverso sopra descritto. Innanzitutto citiamo i “legittimati” a ricevere contributi: quotidiani organi di partito, quotidiani editi da cooperative di giornalisti e quotidiani editi da cooperative ed enti morali, prima bastava che ci fossero due parlamentari, poi si è passati al requisito di cooperative, ma sembra possano essere formate da azionisti non lavoratori, il che ripropone una mappa di abusi soltanto aggiornata. Lasciando da parte questo aspetto pur importante, ecco come conclude la ricognizione Gambaro: “ Se si escludono i due quotidiani con tirature maggiori, che nel 2006 hanno ricevuto oltre 13 milioni di euro, le altre testate ricevono mediamente da 46 centesimi a 1 euro per copia venduta, un livello pari al prezzo di copertina, e si arriva a oltre 2 euro per copia venduta per alcune testate con vendite particolarmente basse”.
Per la Settimana della Cultura
Lo scandalo in cifre e la prova in video dell’insostenibilità
Dalla tabella che documenta questo scandalo rileviamo che il record dell’assurdo è per Secolo d’Italia con 3,60 euro di contributo pubblico per copia venduta, seguito da Europa con 2,74 euro per copia, uno scandalo bipartisan al quale con valori meno vistosi concorrono Il Riformista e La Padania, 1,16 e 0.86 euro rispettivamente di contributo per copia venduta; Il Foglio con 0,70 e Il Manifesto e Liberazione seguono a ruota con una media di circa 0,50 euro per copia cadauno.
Considerando che il prezzo di un quotidiano nel 2006, anno della rilevazione, era universalmente di 1 euro – ora in qualche caso è di 1,20 – pensare che Secolo d’Italia ha ricevuto dallo Stato 3,60 euro per copia venduta ed Europa 2,74 euro fa inorridire; gli altri dati riportati fanno ugualmente rabbrividire, e non diciamo altro per carità di patria. Si tratta di giornali politici, cioè con una carica ideologica che li legittima, e un retroterra di militanti, oltre ai rimborsi elettorali ai loro partiti.
Si potrebbe pensare a questo punto che se è la politica a legittimare, i movimenti non rappresentati in parlamento, quindi esclusi dai rimborsi elettorali, dovrebbero essere sostenuti dal contributo pubblico per garantire l’espressione delle rispettive opinioni. Non è così, non possono avere la pretesa di essere “mantenuti” dallo Stato, come non lo può pretendere nessuna impresa e attività nonostante si proclami che “l’iniziativa economica privata è libera” (art. 41); né il lavoratore cui “la Repubblica riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art. 4) e perfino “una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera dignitosa” (art. 36).
D’altra parte, lo stesso Fabio Fazio lo ha dimostrato, naturalmente senza volerlo, allorché nella trasmissione televisiva cult “Vieni via con me” ha letto lo sterminato elenco di movimenti politici o presunti tali, invocando platealmente una sedia per la stanchezza derivante dall’interminabile lettura. Lo ha fatto per motivi ben diversi da quelli per i quali lo citiamo – precisamente per mostrare l’impraticabilità del “diritto di replica” – ma lo ha fatto; e quanto dimostrato visivamente non può essere a senso unico, è la prova che è insostenibile la pretesa al mantenimento da parte della finanza pubblica dei giornali di opinione politica, pur se la Costituzione ne garantisce la libera espressione, come fa per gli individui e le associazioni, senza per questo doverli finanziare.
Analogo discorso va fatto per i giornali e giornaletti di “varia umanità”, dalle cronache locali ai contenuti più vari e improbabili; e anche quelli con una propria validità, che attiene ad esempio ai campi dell’economia o delle professioni, non si capisce perché gravino sulla finanza pubblica.
Per “Ottobre piovono libri”
Il ruolo dell’informazione per la cultura nella strategia di valorizzazione dei beni culturali
Diverso il discorso da fare sulla cultura, perché non ha un supporto di militanti come avviene per i movimenti politici, né delle professioni come avviene per altri, mentre ha bisogno di divulgazione per valorizzare beni ed attività che sono un patrimonio di grande valore civile ed economico per l’intera società. L’informazione culturale svolge un servizio dal quale lo Stato e i soggetti pubblici e privati anche imprenditoriali che operano nel campo della cultura hanno un ritorno considerevole.
Lo riconosce Mario Resca, direttore generale per la valorizzazione dei beni culturali, che di continuo sottolinea il valore decisivo della comunicazione ai fini della valorizzazione e mette in pratica questa sua convinzione impegnandosi direttamente nelle azioni conseguenti; nel contempo sottolinea il valore decisivo di tale valorizzazione per la crescita economica del paese, trattandosi di un campo nel quale l’Italia ha risorse straordinarie la cui messa a frutto a livello economico dipende dall’allargamento della visibilità data la crescente competizione nel turismo internazionale.
Resca cita al riguardo le molteplici iniziative attraverso le reti informatiche fino ai Bancomat, e quelle pubblicitarie, peraltro onerose, dagli spot ai cartelloni: tutti ricorderanno quelli sul Colosseo, il David e il Cenacolo portati via “se non li visiti”, ne abbiamo dato conto riproducendoli; come abbiamo fatto per le iniziative promozionali nelle ricorrenze di qualunque tipo: dalla Festa per gli Innamorati alla Festa della Donna, dalla Festa di Primavera alla Festa del Lavoro, dalla Settimana della cultura a Ottobre piovono libri, dalla Notte dei Musei alle “Domeniche in bianco” ei i “Primi martedì del mese”, e a quanto l’inventiva del direttore generale del Ministero per i Beni culturali ha proposto: sempre chiedendo all’informazione culturale di dare ampia divulgazione a tali attività promozionali vitali per il Paese. E’ stato fatto e daremo tra poco i risultati positivi anche economici.
Un “memento” è nelle immagini che illustrano questo servizio, tutte in apertura di ampi servizi su questa rivista; per molte iniziative abbiamo fatto il lancio anche nelle due riviste consorelle www.amalarte.com e www.archeorivista.it con servizi altrettanto ampi di contenuto diverso.
Le iniziative richiamate sono inquadrate nella strategia già accennata di Resca – su cui insistono in primis il ministro Bondi e il sottosegretario Giro – imperniata sulla diffusione della conoscenza del patrimonio culturale per il progresso civile oltre che per lo sviluppo economico del Paese.
Per “La Notte dei Musei”
L’apporto del giornalismo on line, informazione e approfondimento
I comunicati stampa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali si sono moltiplicati per sottolineare la ripresa delle visite ai musei nell’ultimo anno, il 15 per cento di incremento dopo un trend in diminuzione nel quale le flessioni si accumulavano con relativa discesa del nostro paese nella graduatoria europea dell’attrattiva turistica; anche gli incassi in netto aumento, dell’8% circa.
Resca ha vinto la sfida ritenuta ardita soprattutto dai concessionari: con le giornate e i week end nonché le serate di apertura gratuita si è avuto un forte trascinamento, la promozione ha fatto aumentare anche i visitatori a pagamento, che sono tornati nei musei conosciuti per la gratuità.
L’ultimo comunicato sottolinea il grande successo nel giorno dell’Epifania 2011, il numero dei visitatori nei primi 30 siti statali è cresciuto del 51% e gli incassi del 37%: tra gli altri il Colosseo rispettivamente + 30 e +25%, le Terme di Caracalla + 52 e +58%, Castel Sant’Angelo + 56 e +41% per restare a Roma; a Pompei addirittura + 85 e + 72%, rispettivamente aumento di visitatori e incassi tra l’Epifania 2010 e quella 2009.
Sono siti da noi considerati con ampi servizi di approfondimento, al pari delle iniziative promozionali ricordate da Resca come base dei risultati ai quali siamo lieti di aver contribuito.
Infatti tutto questo è stato possibile con l’apporto del giornalismo culturale a stampa e su Internet, al quale, ripetiamo, il Ministero, e Resca in particolare, hanno dedicato notevole attenzione con sollecitazioni continue finora raccolte da una mobilitazione informativa senza precedenti; lo stesso potrà avvenire nel 2011, si è già detto che nel nuovo anno proseguirà l’intensa azione promozionale.
La passione per il giornalismo e per la cultura ha prodotto questo miracolo, nell’epoca del mercantilismo mercenario, al quale Roberto Saviano diede motivazioni che non solo non ci convinsero ma suscitarono in noi una reazione impulsiva; e lo scrivemmo contrapponendo alla venalità che veniva teorizzata mortificando il volontariato culturale, la “classe” di Benigni.
Indro Montanelli, che abbiamo evocato a suo tempo dopo un sogno rivelatore, con le sue parole “lo farei anche gratis” riferite al giornalismo, alimenta e motiva l’impegno disinteressato. Ma non si può far leva in modo indefinito e indeterminato sull’abnegazione e sullo spirito di missione culturale; quando questo non avviene per la passione politica sebbene non produca un ritorno comparabile per il Paese, in termini di progresso civile e di sviluppo economico e neppure per le altre forme più disparate e marginali di giornalismo pur esse sostenute e foraggiate a dismisura.
Per il terzo anello e gli ipogei del Colosseo accessibili al pubblico
Vogliamo dare conto in particolare delle nostre tre riviste on line consorelle – oltre a www. abruzzocultura.it , www.amalarte. com e www.archeorivista. it, i cui servizi sono ben posizionati su Google e Google News– nelle quali non ci siamo limitati all’informazione di massima, in qualche misura obbligata per riviste sulla materia, ma abbiamo dato conto dei dettagli e svolto una funzione di approfondimento in cui risiede, in definitiva, la sostanza della cultura. E tutto questo senza alcun contributo pubblico, e neppure privato, sempre con l’iniziativa e la generosità del titolare e con la milizia giornalistica e culturale assolutamente volontaria di redattori e collaboratori.
Le nostre riviste, che hanno dato sempre ampio risalto alle iniziative del Ministero, lo hanno fatto all’insegna di un volontariato culturale che stride rumorosamente con quanto avviene per l’informazione politica e di “varia umanità”; e per noi non si è trattato soltanto di informazione, ma anche e soprattutto di approfondimento, a largo raggio: dalle citate iniziative del Ministero alle mostre d’arte, in particolare quelle dalle quali viene un ritorno economico con gli incassi derivanti dall’afflusso di visitatori certamente accresciuto dalla divulgazione. Un approfondimento, sulle tre riviste citate, attraverso servizi tematici equivalenti a dei veri e propri saggi, agili e documentati, ma nei quali si adotta il linguaggio del pubblico, non quello dei critici buono solo per gli addetti ai lavori, come ormai viene raccomandato in ogni presentazione di mostre dalle autorità culturali..
Ebbene, lo ribadiamo e figura nel logo a margine “questa rivista non riceve denaro pubblico” – neppure un euro, perciò è cancellato – sebbene nella Costituzione ci sia l’impegno a promuovere la cultura, ben più cogente del riconoscimento del diritto all’espressione libera del pensiero cui si appellano la foraggiatissima informazione politica e non solo per difendere l’indifendibile.
Per la Villa dei Quintili accessibile al pubblico
La prima parte della lista dei contributi erogati nel 2009 e un appuntamento
Il tema sollevato degli abnormi contributi all’informazione politica rispetto alla totale assenza per l’informazione e l’approfondimento culturale va analizzato ancora, e lo faremo al più presto.
Intanto cominciamo a pubblicare la lista dei contributi erogati nell’ultimo anno disponibile: i dati sono del Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ci si accede attraverso il portale del governo, sono erogazioni del 2009 riferite al 2008. E’ una visione sconcertante, però anche illuminante. Per noi non è una sorpresa, ne abbiamo pubblicato uno stralcio per ben tre volte, tuttavia rivedendola ancora, per di più aggiornata al 2009, abbiamo ugualmente avuto un sobbalzo: è stato l’anno della crisi e dei primi dolorosi tagli.
Non servono commenti, ciascuno potrà giudicare; anzi, cominciare a giudicare perchè è solo la prima parte, un assaggio. Il seguito ben più sostanzioso con i giornali di partito, prossimamente, alla conclusione del servizio, la cui lettura ci auguriamo venga stimolata dal quadro non proprio edificante di come si dilapidano le risorse pubbliche negate invece alla cultura. Per il seguito della storia diamo appuntamento ai lettori ricordando che i dati in milioni di euro, per una conversione immediata, sono miliardi raddoppiati con riferimento alle vecchie lire. Buona lettura e a presto.
CONTRIBUTI EROGATI ALLA STAMPA NEL 2009 (ANNO DI RIFERIMENTO 2008) Dati aggiornati al 7 maggio 2010
(I dati contengono: IMPRESA – TESTATA – IMPORTO IN EURO)
Contributi per quotidiani editi da cooperative di giornalisti (Art. 3 comma 2 legge 250/1990)
AREA Agenzia Coop a r.l. A.R.E.A 1.012.255,52
International Press Coop a r.l. Avanti (L’) 2.530.638,81
Dossier Coop Inform. e P.R. a r. l Buongiorno Campania 1.090.019,89
Grafic Edit. Coop Giornalisti a r.l. Cittadino oggi/ Corriere Nazionale 2.338.600,00
Giornali Associati Coop Edit. a r.l. Corriere (di Forlì) 2.530.638.81
19 luglio Coop a r.l. Corriere giorno Puglia e Lucania 2.163.626,56
Giornalisti e Poligrafici Coop a r.l. Corriere Mercantile (Il) 2.530.638,81
Nuova Informazione Coop a r.l. Cronaca (La) 2.497.670,96
Libra Editrice Soc. Coop Cronache di Napoli 996.491,54
Dire scrl Dire 1.012.255,52
Editoriale ’91 scrl Giornale di Calabria(Il) 413.587,66
Agenzia Grtv Soc. Coop Grtv Press 367.190,40
Giornalisti e Poligrafici Ass. Coop a r.l Italia Sera 832.491,19
Linea Soc Coop a.r.l. Linea 2.380.932,89
Manifesto (Il) Coop. Ed.ce a r.l. Manifesto (Il) 4.049.022,10
Stampa Democratica 95 scrl Metropolis 1.636.944,72
Ediz. Giornali Quotidiani Coop a r.l. Nuova Gazzetta di Caserta 722.670,85
Ed.le Giornalisti Associati srcl Nuovo Corriere Bari Sera 1.302.299,32
Centro stampa regionale scarl Ore 12 478.253,83
Progetto 3000 Comunicaz. Coop a r.l. Paese Nuovo 549.864,22
Effe Coop Editoriale s.p.a. Provincia Quotidiano 2.530.638,81
Soc Coop Essepi arl Puglia 373.825,46
Rinascita Soc. Coop a r.l. Rinascita 2.530.638,81
I Romanisti Soc Coop Romanista 13.019,62
Pagine Sannite Coop a r.l. Sannio Quotidiano (Il) 1.726.598,29
Verità (La) Ed.le scarl Verità (La) 1.727.516,84
Impegno Sociale Soc. Coop. Voce (La) 482.651,64
Vidiemme Coop. Giornalistica a r.l. Voce di Mantova 1.440.667,78
Coopress Coop. Giornalistica Voce Nuova (Regioni & Ragioni) 1.974.084,15
Contributi per quotidiani editi da imprese editrici la cui maggioranza del capitale sia detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali (art. 3 comma 2 bis legge 250/1990)
Avvenire Nuova Ed.le Italiana spa Avvenire 6.174.758,70
Laudese Edile srl Cittadino (Il) 2.530.638,81
Conquiste del Lavoro srl Conquiste del Lavoro 3.289.851,60
Edizioni Proposta Sud srl Corriere, quotidiano dell’Irpinia 292.182,96
Editoriale srl Corriere di Como 1.479.800,78
Editoriale Argo Cronaca Qui.it 3.745.345,44
Editrice Europa Oggi srl Discussione (La) 2.530.638,81
T & P Editori esl Domani (Il) 1.326.837,06
Editoriale Bologna srl Domani (Il) (Il domani di Bologna) 1.585.525,48
Gruppo Editoriale Umbria 1819 srl Giornale dell’Umbria 1.965.758,36
Toscana Soc. di Edizioni spa Giornale Nuovo della Toscana 2.530.638,81
Italia Oggi Ed. Erinne srl Italia Oggi 5.263.728,72
2000 Editoriale srl Nuovo Corriere (di Firenze) 2.530.638,81
L’Approdo srl Otto Pagine 1.158.993,91
Ediservice srl Quotidiano di Sicilia 1.666.581,67
Bm Italiana Ed.le srl Scuola Snals 1.716.689,68
La Voce srl Editrice Voce di Romagna 2.530.638,81
Contributi per quotidiani italiani editi e diffusi all’estero (art. 3 comma 2 ter legge 250/1990)
Oggi Gruppo Ed.le America Oggi 2.530.638,81
Italmedia scrl Corriere Canadese 2.834.315,47
Porps International inc. Gente d’Italia 583.147,80
S.E.I. Pty ltd Globo (Il) 2.111.131,14
La Voce d’Italia Voce d’Italia 272.148,34
Contributi per quotidiani editi in lingua francese, ladina, slovena e tedesca nelle regioni autonome Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige (art. 3 comma 2 ter legge 250/1990)
Die Neue Sudtiroler Tageszeitung srl Die Neue Sudtiroler Tageszeitung 866.571,63
Athesiadruck srl Dolomiten 1.568.996,06
Pr. A. E. Promozione Attività Ed.le srl Primorski Dnevnik 1.897.979,11
Pr. A. E. Promozione Attività Ed.le srl Primorski Dnevnik (L. 278/91) 1.032.913,80
Home > epoca > preistoria > Palermo. Al Museo Salinas la preistoria siciliana: necropoli, abitanti, alimentazione
In questo primo “venerdì di Archeorivista” del 2011 si conclude la nostra visita alla sezione dedicata alla preistoria siciliana nel museo archeologico “Salinas” di Palermo. Dopo gli aspetti relativi a fauna, arte e ornamenti del “venerdì” nella settimana prenatalizia, parliamo di necropoli, abitanti, alimentazione. Anche questa ricostruzione, come la precedente, è basata sulle notizie contenute nell’aureo libretto “Le storie della preistoria al museo Salinas” a cura del museo stesso per la Regione siciliana, che colma la lacuna delle modalità espositive tradizionali – i copiosi reperti sono allineati e identificati soltanto con le etichette – in attesa che la ristrutturazione in atto nell’edificio valorizzi meglio la ricchezza dei reperti esplicitando contesto e percorso storico.
Incensiere da Ustica (a sinistra) e Vaso da Polizzello (a destra).
Nel precedente racconto della visita abbiamo iniziato a ricostruire il mondo preistorico siciliano, dopo aver riassunto il contenuto delle 34 vetrine espositive, in ordine a tre aspetti significativi: con la fauna l’uomo preistorico doveva confrontarsi fin dalla sua comparsa sulla terra, ad essa era collegata l’arte primitiva, per questo definita “arte animalistica” in quanto espressa attraverso graffiti e dipinti rupestri nelle grotte dov’erano le prime abitazioni, mentre gli ornamenti ne accompagnano la storia fin dalle epoche più remote, a partire dai ciottoli levigati e dai denti o conchiglie forati e collegati in collane.
Anche questi aspetti saranno più chiari una volta inquadrati nelle necropoli, massima fonte dei reperti, negli abitanti, in particolare della “Conca d’Oro”, e nell’alimentazione, una molla per l’evoluzione della tecnologia e più in generale dei sistemi di vita.
Necropoli e riti funerari nella preistoria siciliana
Le necropoli siciliane sono numerose e ricche di reperti, vanno dal Paleolitico all’Età del Ferro e consentono, quindi, di avere una visione molto ampia: dalle forme più semplici a quelle più complesse di sepoltura, con una molteplicità di riti e di consuetudini che variano non soltanto in base al periodo considerato ma anche al sito archeologico dove sono avvenuti i rinvenimenti.
Si tratta di una constatazione importante tenendo conto che le sepolture sono una testimonianza non solo dei rituali funebri, ma soprattutto della vita dell’epoca perchè “la tomba era considerata dai parenti una seconda casa in quanto, secondo la loro credenza religiosa, dopo la morte il defunto continuava a vivere nell’aldilà, e ciò spiega il ritrovamento all’interno delle tombe di corredi funerari costituiti da gioielli, utensili e offerte alimentari”.
Così Rosaria Di Salvo introduce la sua accurata ricognizione delle “Sepolture e riti funerari nella Sicilia preistorica” ricomponendo in una visione d’insieme i tanti reperti esposti nelle vetrine con le sole etichette e senza commenti.
Da quanto predisposto per il mondo ultraterreno abbiamo conosciuto tante cose sul mondo terreno, perché i rituali funerari servivano a mettere i due mondi in comunicazione, e per questo nei corredi del defunto veniva collocato quanto faceva parte della sua vita e della sua epoca.
Ma oltre a tali elementi, dai resti pervenuti si sono avute notizie antropologiche a largo raggio, fino a stato di salute e alimentazione, attività lavorativa e condizioni ambientali. Troviamo tombe a inumazione e a incenerimento, primarie e secondarie, individuali e multiple; la posizione dei defunti distesa o rannicchiata, con gambe flesse o in un altro assetto; i resti da inumazione nella loro consunzione naturale o di colore rosso se cosparsi di ocra secondo un rito anche purificatorio; i resti da incenerimento in cromatismi diversi a seconda della temperatura di cremazione, e se inferiore a quella di polverizzazione lasciando notevoli frammenti con deformazioni e alterazioni, comunque idonei ad un’analisi osteologia al pari di quelli delle tombe a incenerimento.
Veduta della Necropoli di Pantalica.
Nello scorrere delle ere preistoriche si nota un’evoluzione dei corredi funerari parallela a quella della vita reale: dai più semplici costituiti da ciottoli disegnati e da utensili di selce, alle prime collane di conchiglie degli abitanti nelle grotte, ai primi lavori in terracotta nel Neolitico per passare a corredi sempre più elaborati nell’Età dei Bronzo, che diventano ricchi e preziosi nell’Età del Ferro e quindi in epoca storica. Diciamo in genere “corredo del defunto”, composto come è noto dal corredo personale, con oggetti e ornamenti che riflettono le sue condizioni sociali e la sua attività, cui si aggiungono i resti delle offerte rituali nel culto funerario. Quindi utensili a lato del corpo, in selce e osso, legno e terracotta; gioielli fatti di conchiglie forate, bracciali e pendenti, orecchini e ciondoli in osso e avorio, i più antichi in pietra; perfino il cibo per l’alimentazione. Non bisogna dimenticare che in alcune nostre tradizioni, pur di credenti nella fede cattolica, rimaste almeno fino all’ultimo dopoguerra, nella sepoltura venivano poste monete per pagare il viaggio nell’oltretomba, oltre ad oggetti della vita del defunto che lo avrebbero accompagnato nell’al di là.
Una rapida carrellata nei molteplici siti archeologici siciliani, in aggiunta a quanto anticipato, ci fa scoprire i primi resti umani del Paleolitico, intorno a 35 mila anni fa, nel Riparo di Fontana Nova, vicino a Marina di Ragusa, in frammenti che non hanno consentito analisi significative; mentre hanno dato risultati quelle eseguite sui resti rinvenuti nella zona della Grotta di San Teodoro ad Acquedolci, Ragusa, risalenti a 14 mila anni fa: 4 uomini e 3 donne in posizione supina di decubito, arti distesi, fosse di forma rettangolare in uno strato di ocra, ciottoli levigati, lame e punteruoli in selce, perfino denti di cervo forati per collane primordiali.
Il passaggio al Mesolitico, documentato dalle sepolture della Grotta d’Oriente a Favignana, Trapani, mostra nelle fosse coperte da pietre i resti di un individuo maschile con un ciottolo e una lama, un grattatoio di selce e 11 conchiglie forate all’altezza dello sterno appartenenti a una collana; conchiglie che in numero di 8 nella vicina tomba di una donna sono poste all’altezza delle clavicole, con 3 ciottoli rotondi e un punteruolo; i resti della donna hanno gli arti in posizione inconsueta.
Corredo di una tomba di Uditore.
Il Mesolitico nella Grotta dell’Uzzo – la più consistente, ma c’è anche la Grotta della Molara, a Palermo – rivela diverse forme tombali, da ovali a quadrate, i corpi sotto le pietre in posizione supina, rannicchiati con le gambe flesse per entrare nel vano ristretto e le braccia lungo il corpo; anche qui ciottoli levigati, selci lavorate, ossi a forma di punteruolo e ancora ornamenti fatti di conchiglie e denti di cervo forati; in più resti di cibo. Il tutto in 13 corpi, 6 di sesso maschile, 4 femminile e 3 bambini, un quadro esauriente dell’epoca alla quale risale la grotta.
Andando avanti nel tempo, nel Neolitico il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale si riflette anche nel fatto che la Grotta del Monte Kronio, Agrigento –nella quale sono stati trovati pochi resti femminili – era un luogo di raduno, forse per riti collegati a fenomeni di origine termale; più cospicui i ritrovamenti nella Trincea fossato di Stretto Partanna, con i frammenti scomposti di resti di 7 individui, da incinerazione incompleta e sepoltura secondaria, V-VI millennio avanti Cristo.
I siti dell’Eneolitico sono numerosi, le tombe sono poste soprattutto in grotte naturali non più utilizzate come abitazioni essendosi costituiti i villaggi, e anche in piccole grotte artificiali. Dato che la tomba viene ormai concepita come l’abitazione dello scomparso, non è più una fossa singola ma diventa collettiva per i membri della famiglia, nella forma “a forno” con pozzetto di accesso. Così nella necropoli di Piano Vento a Montechiaro, Agrigento, sono stati trovati circa 50 corpi sepolti con l’uso di cospargerli di ocra rossa, adottata per ridurre le esalazioni e purificarli; e resti di animali sacrificati nei riti funerari, con pasti documentati dai frammenti di vasellame che veniva spezzato.
Significative, per altro verso, le tombe di Roccazzo a Mazara del Vallo, Trapani, riunite in corrispondenza dei nuclei di capanne, a forma cilindrica con pozzetto; singole o doppie con corredi collegati al censo del defunto che comprendevano, oltre ai ciottoli e agli utensili di selci, a punte di freccia e conchiglie forate, anche vasi decorati, ciotole e olle grigie o rosse per l’ocra.
Vasi con ocra e resti umani ed animali.
Con l’Età del Bronzo, i flussi migratori portarono nuove abitudini anche nelle sepolture, a Lipari sono state rinvenute urne cinerarie con 30 tombe a incinerazione anche se l’inumazione resta prevalente, con tombe individuali e collettive. Il sito di Castelluccio esprime una cultura che si diffuse e troviamo almeno in 8 località tra cui Castelluccio di Noto: villaggi con capanne circolari e il focolare al centro, una comunità stanziale dedita all’allevamento, agricoltura e artigianato, tombe per lo più collettive scavate nei pendii con chiusure decorate; anche monumentali come quella del “principe” scavata nella roccia con camera funeraria retta da pilastri. Corredi variamente assortiti o assenti, elementi di terracotta a forma di corni oltre ai consueti di selce e osso, conchiglie e denti.
La necropoli di Marcita, a Castelvetrano, Trapani, con oltre 100 individui di entrambi i sessi e di diverse età, mostra soggetti anche di altra etnia e ricchi corredi, mentre in quella dei Sesi a Pantelleria troviamo oggetti litici su ossidiana e di terracotta per mensa, articoli ornamentali e resti ovini e caprini. Una struttura particolare si nota nella necropoli di Thapsos, Siracusa, con una cella fornita di vestibolo accessibile da un pozzetto, un corridoio e nicchie radiali; nei corredi anche vasi in ceramica importati da Cipro, Malta e da Micene, e oggetti in bronzo; addirittura tracce di oro in collane, e articoli ornamentali in pasta di vetro colorata, ambra e avorio.
La struttura si evolve ancora con tombe ad alveare scavate sulle pareti rocciose nelle necropoli di Pantelica, Dessueri e Caltagirone, con piccole celle circolari o grandi camere che introducevano a celle multiple per 4-5 soggetti della stessa famiglia: nei corredi coltelli e armi, nonché oggetti di ornamento come fibule e specchi, anelli e collane in bronzo, in relazione alla posizione e al censo.
Sta per finire la preistoria con l’Età del Ferro, dal IX al VI secolo: le tombe, poste sui fianchi delle alture vicino ai villaggi, sono inserite in ampie camere funerarie chiuse da un muro o una porta, il corpo non più in posizione rannicchiata ma disteso con sopra e intorno gli elementi del corredo. A Polizzello di Mussomeli, Caltanissetta, in circa 100 tombe ricavate sui fianchi della montagna in cavità naturali, sono stati rinvenuti parecchi reperti: nelle tombe di adulti molte ossa di bovini, essendo il bue animale sacro, in quelle per bambini solo ossa di ovini e caprini di giovane età, evidentemente per associarla alla loro. I corredi sono sempre più ricchi, esprimono le condizioni di vita del defunto e lo stadio evolutivo raggiunto, ormai elevato: siamo alla fine della preistoria.
Ma a questo punto riteniamo utile dare un quadro d’insieme delle condizioni di vita per concludere questo volo d’uccello su un periodo suggestivo perché ricerca le nostre origini, i remoti progenitori.
Gli abitanti preistorici della Conca d’oro in Sicilia
Oltre che il periodo, la località è suggestiva, si tratta della “Conca d’Oro” dove sorge Palermo, abitata sin dalla preistoria ben prima dei fenici e romani, arabi e normanni: precisamente dal Paleolitico non in modo stanziale ma con il nomadismo della caccia. Le grotte che si trovano sulle alture circostanti favorivano questi insediamenti per sostare, provvedere alle attività quotidiane e poi per le sepolture; non sono nascoste, si vedono dalla piana e proprio questo ha fatto sì che la gran parte dei reperti venissero dispersi nel tempo.
Sono stati trovati anche resti ossei di elefanti e ippopotami chiamati “ossa dei Giganti” e “dei Ciclopi”, lo raccontano la citata Rosaria di Salvo e Vittoria Schimmenti ricostruendo come vivevano “Gli antichi abitanti della Conca d’Oro” nella stessa pubblicazione del Museo Salinas. Nella “Grotta delle Incisioni dell’Addaura” e “dell’Antro nero o dei Bovidi” ci sono graffiti parietali, così nella “Grotta Niscemi” e in altre, dove sono stati rinvenuti resti di animali, bue e cinghiale, cervo e cavallo”idruntino”, nonché gusci di molluschi.
Nella “Grotta della Molara”, in una zona interna, si vedono i segni del passaggio dal Paleolitico al Meseolitico allorché fu utilizzata per le sepolture. Dagli scheletri rinvenuti – con crani tipo Cromagnon – si è ricostruito l’uso dei
Macina con cereali.
denti “come terza mano per trattenere fibre vegetali, corde, bastoni, utensili”, oltre che per assumere cibi crudi; anche nella “Grotta di San Ciro” le ossa ritenute “dei Giganti” e insieme selci che attestano l’abitazione degli uomini preistorici. Evolvono i modi di vita nel Neolitico, quando si trasferiscono nei villaggi pur mantenendo contatti con le grotte dove oltre alle sepolture porteranno gli animali di allevamento e affineranno gli utensili.
Con l’Età del Rame si diffondono i villaggi nella “Conca d’Oro”, con le rispettive necropoli che attraverso i corredi funerari hanno fornito molti elementi sul tipo di vita. Nei villaggi tra Partanna e Mondello – in quest’ultimo trovate 12 capanne – oltre alla caccia sul Monte Pellegrino si praticava la pesca; nelle tombe sul monte si sono rinvenute ceramiche e utensili di pietra che fanno pensare a una primordiale industria litica. A Boccadifalco, oltre a selci, ossidiana e vasi di vario tipo sono stati trovati un anello di rame e una collana; analogamente nella contrada Sant’Isidoro. Si è potuta ricostruire la fisognomica degli antichi abitanti; rispetto a quelli delle ere precedenti i loro tratti somatici si addolciscono, la corporatura si fa più armoniosa; tra i due sessi c’è differenza nella conformazione delle ossa e nell’altezza media, le donne 152 centimetri, dieci in meno degli uomini.
Interessante il “processo di gracilizzazione” che segue la civilizzazione e la vita stanziale in condizioni ambientali sfavorevoli con diffusione soprattutto di artrosi alle articolazioni. Sembra inoltre che il loro carattere fosse pacifico, data l’assenza di segni di morte violenta: c’è solo un caso di lesione traumatica ossea però rimarginata, quindi non letale. Colpisce l’osservazione che sorgevano villaggi marinari dove oggi è Via Roma, al centro di Palermo, e il mare giungeva dov’è ora la vicina Via Maqueda, addirittura vi attraccavano le imbarcazioni per la pesca.
Nell’“Età del Bronzo” il progresso è testimoniato da una fiasca decorata rinvenuta nel “Riparo della Moarda”, ma non si sono trovati reperti ceramici della cosiddetta “cultura della Conca d’Oro” e non se ne conoscono le ragioni. Dov’è oggi l’aeroporto c’era il sopra citato villaggio preistorico di Boccadifalco, di cui sono state rinvenute soltanto 7 capanne.
Vasellame da mensa
Il trovarsi nel centro cittadino, con Via Roma e Via Maqueda, fa capire quanti reperti siano andati perduti nell’urbanizzazione distruttiva, soprattutto negli anni in cui non si prestava attenzione ai ritrovamenti e comunque si tendeva a non segnalarli per evitare onerosi fermi nell’attività edilizia.
L’alimentazione preistorica, filo rosso del progresso
Elementi in più su come vivevano li fornisce Vittoria Schimmenti nel suo “A tavola con gli antenati”; abbiamo parlato direttamente con la studiosa nella nostra visita al Museo e l’abbiamo sentita animata da passione per le ricostruzioni preistoriche che trovano nell’apposita Sezione del Museo Salinas un ricchissimo materiale, forse meno conosciuto e apprezzato di come meriterebbe.
In effetti attraverso la “tavola” si ricostruisce l’intera giornata, tutta impegnata nel procurarsi il cibo anche con utensili la cui preparazione impegnava essa stessa il resto del tempo. Dopo Tucidide troviamo altre due citazioni classiche, questa volta ad opera della Schimmenti, su come si alimentavano gli antichi. Lucrezio Caro nel I secolo avanti Cristo scriveva: “I primitivi si cibavano solo con quello che la terra dava spontaneamente”. E, dato che siano in Sicilia, ecco Diodoro Siculo due secoli dopo: “I primitivi andavano per le selve e vivevano solo di erbe, di radici e di frutti; vivevano nudi, senza casa e senza fuoco”.
La raccolta spontanea di alimenti da consumare crudi riguardava i frutti della quercia e del corbezzolo, del mirto e della vite selvatica, dell’ulivo selvatico e dell’alloro, del carrubo e del fico; vengono citate anche bacche e radici, germogli e bulbi di fiori e foglie. La carne procurata con la caccia rappresentava il 20% di una “dieta” molto vegetariana, proveniva dal bue e dal cavallo della antica specie “hudruntinus”, dal cinghiale e dal cervo; forse anche da uccelli come quaglia e pernice. Oltre a carne, interiora e grasso per alimentarsi, si recuperavano i denti, specie del cervo per ornamenti, le corna e le ossa per gli utensili, e soprattutto la pelliccia per proteggersi dal freddo. Le condizioni con cui si alimentavano svilupparono gli enzimi e i muscoli mandibolari, ma si logoravano i denti anche perchè usati “come una terza mano” per usi più pesanti della masticazione.
Cambiò molto quando fu possibile utilizzare il fuoco per cuocere i cibi oltre che per riscaldarsi e per difendersi dalle fiere; aumentò l’impegno per procurarsi la legna da ardere e si costruirono spiedi e utensili rudimentali con diversi materiali per spolpare gli animali e tagliare la carne. Addirittura le lame erano inserite in supporti di legno e venivano predisposte con bordi dai tagli diversi per meglio lacerare la carne. Usavano arpioni, fiocine e selci piantate su bastoni per infilzare la preda; per lo più pesci lungo gli scogli, nel Mesolitico dentici e murene, cefali e orate; c’era anche la raccolta di molluschi e crostacei e nelle zone interne di lumache. Nei reperti della “Grotta dell’Uzzo”, le analisi “paleonutrizionali” hanno accertato la prevalenza di alimenti marini e di vegetali, e il consumo di frutti come fichi, carrube e datteri i cui zuccheri creavano carie rilevate nei denti.
Fruttiere.
Nel Neolitico,con la ceramica si potevano cuocere sul fuoco anche i vegetali, non solo la carne negli spiedi: di qui lo sviluppo di recipienti, vasi e vasellame fino a brocche e bicchieri per i liquidi. Non si ricorre più alle forme naturali di conchiglie e ossa cave, si preparano cucchiai in legno e terracotta. E siano alla “rivoluzione neolitica” che cambia le abitudini alimentari con l’abbandono del nomadismo per l’agricoltura e l’allevamento degli animali, in particolare buoi e capre, cavalli e pecore: infatti, avere una produzione stabile e programmata consentiva di variare la “dieta”, aumentare il consumo di carne e utilizzare il latte degli allevamenti che, fatto coagulare, dava il formaggio. A questo punto la caccia veniva praticata meno, come fonte solo accessoria di carne.
Molteplici sono le coltivazioni, dai cereali ai legumi, agli alberi da frutta dei tipi oggi molto noti, come le mele e le pere: si ricorre ad accorgimenti e a nuovi utensili come le macine e i pestelli; il primo pane veniva cotto sulle pietre senza lievito con farine di frumento assolutamente integrali.
L’accurata ricognizione della Schimmenti sembra la cronaca di anni molto vicini a noi, parla di zappe di legno per scavare e di falci per mietere, nonché di accette, pur se di pietra levigata, per tagliare gli alberi. Il progresso – anche se si è ancora nella preistoria – incalza; si essiccano i prodotti per non farli deteriorare e si cospargono di sale, scoperto per un’evaporazione casuale di acqua di mare; verrà usato nella concia delle pelli nell’Era dei metalli. Ma siamo ancora nel Neolitico, la pesca si pratica con lenze e reti oltre che con gli arnesi da punta prima indicati; i resti rinvenuti di delfini e perfino di balene non provengono dalla pesca, ma dall’essersi arenati per venire poi recuperati e utilizzati dagli uomini primitivi: i graffiti della “Grotta del Genovese”, a Levanzo, raffigurano tonni e delfini.
Il mare, oltre che mediante la pesca, fornisce alimenti con le importazioni dal Mediterraneo e dall’Oriente di prodotti quali grano e orzo, sconosciuti nel Neolitico, come era sconosciuta la capra.
Fruttiera ad alto piede da Naro
Con l’Età del Rame divennero più efficienti gli utensili per la coltivazione, l’allevamento e la pesca e, come si è detto, fu abbandonato il nomadismo per la vita nei villaggi; parimenti fu quasi abbandonata la caccia, come provano i resti di animali rinvenuti, quasi solo domestici, Compare l’aratro e il carro con le ruote, tirati dai buoi; con l’orzo si prepara una bevanda alcolica corrispondente all’attuale birra, che ha preceduto cronologicamente il vino; si sviluppa il consumo di legumi e si preparano polente e zuppe di vario tipo. Sembra di descrivere la cucina moderna.
Poi l’ulteriore diversificazione alimentare nell’“Età del Bronzo”, favoritadagli scambi commerciali che oltre ai prodotti portarono nuove colture come vari tipi di alberi da frutta prima sconosciuti.
L’“Età del Ferro” vede nascere la coltura della vite e poi la produzione di vino, quindi quella dell’olivo importato dall’Oriente anche qui seguita dalla produzione di olio, entrambe riservate alle classi più elevate. Seguirà l’estrazione di olio anche da mandorle e noci; e dal lino dell’Oriente per la tessitura, dal ricino dell’Egitto e dal sesamo della Mesopotamia; anche i preistorici usavano dunque l’olio di ricino, non certo, si spera, come nel ventennio… A parte le battute, l’inventiva e la maggiore conoscenza porta a produrre infusi di foglie e frutti con la predisposizione dei recipienti adatti, si arriva già in quest’epoca perfino ai dolci, ricavati dal miele e da particolari frutti secchi.
Il ritmo del progresso si fa sempre più incalzante, lo vediamo attraverso l’alimentazione che è il terminale di un insieme di attività legate alla tecnologia e alla conoscenza. Gli utensili vengono continuamente perfezionati e realizzati nei metalli ben più efficaci di ossi e selci; vediamo come opera l’inventiva con gli “ami per i polpi”. Dall’Asia e dalla Grecia arriva il pollame, che viene allevato anche in Sicilia, come mandorli, noci e noccioli poi diffusi in tutta l’isola. Gli orci e le giare in ceramica si rivelano ideali per la conservazione dei cibi, ottenuta pure essiccandoli e salandoli: questo consente di mantenere provviste anche di carne e pesce. I liquidi vengono conservati in recipienti capaci dove si attinge con tazze provviste di manici: nella nostra infanzia in Abruzzo ricordiamo la “maniera” quadrata e il più piccolo “scommarello” rotondeggiante.
Ormai gli scambi commerciali mettono in contatto con altre usanze ed altri tipi di alimentazione e di preparazione dei cibi, si creano ricette che elaborano e mescolano gli ingredienti. “Ma è soprattutto dall’epoca romana – conclude la Schimmenti il suo excursus preistorico – che il cibo da semplice fonte di sussistenza divenne occasione per banchetti e convivi, si mangia più per soddisfare il gusto e la gola e non per il semplice fabbisogno. E così il necessario diventa superfluo”.
Tutte le immagini, con le didascalie, sono tratte dal citato “Le storie della preistoria al museo Salinas”, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali e dell’identità Siciliana, dipartimento omonimo. La pubblicazione è a cura del Museo Archeologico “Antonio Salinas”, Palermo, direzione e coordinamento generale di Giuseppina Favara; autori dei capitoli contenenti le immagini, a cui si è fatto riferimento anche nel testo, sono Rosaria Di Salvo e Vittoria Schimmenti.
Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 14 gennaio 2011 – Email levante@archart.it
cultura.inabruzzo.it – 12 gennaio 2011 – Postato in: mostre, pittori
Concludiamo la visita alla mostra “Gente d’Abruzzo – Verismo sociale nella pittura abruzzese del XIX secolo” alla Pinacoteca Comunale di Teramodal 30 ottobre al 30 marzo 2011, ,con gli artisti dalle cui opere emergono altri modi di esprimere il verismo sociale dopo Teofilo Patini. A lui abbiamo dedicato il primo articolo, insieme a considerazioni collegate all’icona di Antonio Paolucci nella mostra romana “1861 – I pittori del Risorgimento” e all’iniziativa di Vittorio Sgarbi di inserire nel “Padiglione Italia” per il 150° dell’Unità d’Italia artisti di ogni regione.
La civiltà silvo-pastorale abruzzese
L’Abruzzo forte e gentile senza le asprezze del verismo di Patini si trova in Tiziano Pellicciotti (Tito), “Pastorella con gregge presso Paganica” – altra località vicina a L’Aquila, come Fossa citata per il quadro di Patini”Un monaco e la sua cella” – composizione del primo quarto dell’800. L’ambiente è colorato e luminoso, tanto che le pecore più lontane sembrano macchie di luce; quelle in primo piano, invece, sono ben delineate come la pastorella di cui sono curati particolari anche graziosi; una certa fatica nel volto, e il paese che sembra chiudere l’orizzonte, sono i soli elementi che introducono qualche durezza in una scena per altri versi serena e bucolica.
Tendenzialmente arcadico è “Il primo bacio” di Pasquale Celommi, 1928 circa, nulla interrompe l’ambiente bucolico dove le pecore ordinate e tranquille brucano l’erba, mentre i due giovani si baciano in un posa settecentesca, con un fondale di alberi delicato e armonioso sotto il cielo terso. Si passa alla natura inclemente in “Tempesta sul gregge” di Tommaso Cascella, 1918, figlio d’arte in una famiglia di grandi artisti. Il cielo diventa corrusco, gli alberi nodosi e contorti, i pastori non più giovani leggiadri ma uomini rudi che si spostano pesantemente, il primo appoggiato a un bastone evoca immagini bibliche, torna in mente Mosè; il gregge non è più fatto di poche pecore impegnate a pascolare serenamente, ma da una massa di ovini agitati alla ricerca di un riparo.
Fin qui pecore e pastori all’aperto, come in “Pastorelli e capretta sul declivio”, di Gennaro della Monica. Invece, nel suo “La fiera di Ronzano a Isola del Gran Sasso”, 1880 circa, persone e animali, pur all’aperto, si dividono lo spazio per la sosta e l’attesa: è una scena di vita paesana, “La fiera presso Madonna della Grazie” la trasferiscenel campo boario della città di Teramo. Su Isola, come su Teramo, c’è lo sfondo dominante della grande catena montuosa: “Il massiccio del Gran Sasso” si intitola il dipinto di Ernst Schweinfurth che raffigura “il gigante che dorme”.
Troviamo le pecore anche nel chiuso delle stalle, un tema ricorrente nella pittura abruzzese dell’800 come lo era nella vita dei paesi di campagna e di montagna fino a metà del ‘900 ed oltre. A Tiziano Pellicciotti si deve “Pecore e asinelli”, anteriore a quello sopra citato esposto in mostra: gli asini prevalgono nella composizione, sono immobili e si sente la pesantezza del basto, le pecore emergono dall’oscurità come macchie bianche, non c’è la presenza umana, diventano i protagonisti.
Lo sono ancora di più nell’“Interno di stalla con caprette” di Filippo Palizzi, sembrano dialogare con l’asinello, liberato questa volta dal basto, in un’atmosfera attraversata da un raggio di luce radente e ravvivata dai fiori rossi che spuntano sul fascio di fieno scuro.
L’umanità della gente d’Abruzzo
Ritorna la presenza umana nell’“Interno di stalla con figure” di Giuseppe Palizzi, composizione che rende visivamente un aspetto della vita contadina della “gente d’Abruzzo”: Le caprette saltano verso il ragazzo sulla porta della stalla, la mucca che occupa interamente il primo piano con dietro il vitellino viene munta dalla donna seduta, mentre la luce si riflette sul pelo bianco e sulla testa dall’occhio mansueto, fa pensare a “T’amo, pio bove, e mite un sentimento…”.
Nell’oscurità, invece, “Interno di stalla” di Valerio Laccetti, la luce penetra dalla finestra alta e stretta, dove l’uomo sorregge il bambino affacciato, passa radente sul dorso della mucca con dei riflessi sul pavimento, tenui ma tali da far percepire l’accuratezza dei particolari.
Dalla stalla all’abitazione in “Interno con famigliola abruzzese”, dello stesso Laccetti, quasi una miniatura per le piccole dimensioni rispetto agli altri descritti; rappresenta con chiarezza un ambiente povero ma molto vivo e “abitato”, con uno scorcio prospettico sulla sinistra che ne dilata le dimensioni. La scena è caratteristica: c’è la madre con il piccolo sulle ginocchia, il più grandicello gioca seduto a terra sotto lo sguardo interessato del gatto nero, mentre l’adolescente in piedi cuce tra madie e sedie impagliate tipiche delle cucine abruzzesi fino a tempi recenti.
E’ oscura la stalla in cui si svolge “La prima lezione di equitazione”, dipinto nel quale ritroviamo Teofilo Patini, in un verismo addolcito: più che una lezione è una effusione, il bimbo nudo in groppa al cavallo sul quale piove la luce è molto piccolo, lo tiene il padre di cui sono in illuminati i gambali: la luce permette di intravedere la madre che accorre preoccupata, pecore e galline, un maiale e un cavallo con la testa nella mangiatoia. Un vero affresco nella quasi completa oscurità.
In piena luce e colori, anche se di tonalità pastello, il dipinto “Intimità”, di Sebastiano Tarquini,tutto in primo piano: composizione del tutto diversa, compatta e piramidale rispetto alla dispersione nell’ambiente della precedente, il gruppo ricorda la Madonna con bambino insieme a santa Elisabetta e san Giovannino. Nessun altro elemento oltre alle loro figure distrae da una scena di grande tenerezza: la donna a sinistra mentre allatta il proprio piccolo si accosta a baciare l’altro che le avvicinano le due donne al suo fianco, la giovane e l’anziana. Il panneggio è molto curato, a sottolineare, pur nella povertà dell’ambiente, che il ruolo della donna è dominante e faticoso, e viene svolto con determinazione e dignità in un realismo attento ai problemi della vita quotidiana.
Un ruolo faticoso, non solo per il lavoro nella casa e nella stalla. Ne fa fede il tema delle “Lavandaie”, declinato da Carlo Patrignani, 1912, in modo solare: siano usciti dal buio delle stalle e dagli interni spesso altrettanto oscuri di certe povere abitazioni, anche se c’è il calore umano a renderle vivibili. Qui siamo “en plein air”, verrebbe di parlare di Arcadia per la nitidezza calligrafica e l’equilibrio della composizione dove terreno e specchio d’acqua, vegetazione leggera e architetture altrettanto armoniose sono l’ambiente ideale per un minuetto, pardon, per inserirvi due figure graziose in costumi tradizionali – forse gli abiti della festa – che sembrano mimare il risciacquare i panni nelle acque guardandosi compiaciute, mentre la terza è coperta e altre due più lontane osservano la scena. Non c’è fatica, ma lirismo e colore, gioventù e bellezza, un Parnaso!
Il “verismo gentile” di Celommi
Com’è diversa ”La lavandaia” di Pasquale Celommi, 1885-1888! Le spalle esprimono la forza fisica, le mani gonfie e arrossate per il troppo lavare la fatica, il viso sorridente l’accettazione del ruolo, l’esibizione del vestito della festa in una intensa rappresentazione quasi fotografica il “verismo gentile, dal tono affabile e coinvolgente”, nella definizione di Mariella Gatta.
Altrettanto gentile è il verismo di “Uno sposalizio abruzzese”, sempre di Celommi, 1884-86 circa: tutti i partecipanti sono disposti su una linea orizzontale, quasi si preparassero alla foto di gruppo, in atteggiamenti diversi e molto espressivi a seconda del ruolo, dallo sposo con l’abito di circostanza colorato che guarda intensamente la sposa chiusa nel suo pudore femminile, alla gente festante: l’uomo che sventola il cappello con la mano sugli occhi per ripararsi dal sole e la giovane donna elegante nel suo costume con il velo in testa che porge dei confetti a una bambina la quale solleva la veste per raccoglierli; la ragazza che guarda estasiata la sposa e quella che versa una bevanda nel bicchiere, le figure da parti opposte della donna, forse la madre, che arriva ancora indaffarata e dei bambini che giocano, fino ai suonatori, oltre alla chitarra si riconosce il caratteristico “ddu-botte. C’è festa nella gente e nell’atmosfera, nei colori luminosi con le ombre che si stagliano e nel movimento allegro e discreto.
La “dinamicità della scena – commenta Paola Di Felice – è sottolineata dalla pennellata fluida che lascia trascorrere lo sguardo come su un’onda in movimento. Il tema ricorda da vicino quadretti tipici della civiltà contadina meridionale”. C’è anche, aggiungiamo noi, tutta la delicatezza del suo “Il primo bacio” citato all’inizio, che ha il dolce sapore dell’Arcadia. La Di Felice conclude che quest’opera esprime “ancora una volta l’amore dell’artista per la sua terra, quel suo bisogno di ‘vero’ che è bisogno irrinunciabile di recupero della propria identità e delle proprie radici”.
Sono dell’abruzzese forte e gentile, e lo abbiamo visto ora; ma anche forte e fiero: “L’operaio politico”, dello stesso Celommi, 1888, ci dà quest’altra faccia della luna, il volto aggrottato e attento, la carica vitale sottolineata dalla luce radente, l’impegno sociale nel giornale che sta leggendo con attenzione e negli altri sul tavolo dov’è poggiato il cappello. “Ne deriva – è ancora la Di Felice – un forte messaggio di rivendicazione sociale che la concentrazione nella lettura dell’umile operaio, mentre affonda il suo sguardo sui caratteri del foglio, sottolinea con forza”. La composizione, nella ricerca dei particolari prima indicati, “connota il gusto per il ‘vero’ dell’artista, rinvia all’interesse di Celommi per le condizioni sociali del soggetto”.
“Alla stazione”, il cammino della speranza della “gente d’Abruzzo”
La fierezza dell’abruzzese non si traduce soltanto nell’impegno rivendicativo. C’è anche l’orgoglioso rifiuto della condizione di miseria e di povertà, quando la natura avara non dà alternative per rimuoverla. Di qui la valvola dell’emigrazione, che ha visto gli abruzzesi affrontare con coraggio “il “cammino della speranza”; e non per i più vicini paesi europei, ma soprattutto verso le “lontane Americhe”: dove hanno costituito comunità fiorenti, Toronto è chiamata “la seconda città abruzzese dopo Pescara”, per la popolazione che vi risiede originaria dell’Abruzzo.
Ed è noto il carico di amarezze e sofferenze che ha comportato per gli emigrati e le famiglie rimaste nei paesi, quando la lontananza era assenza completa a parte le lettere che si leggevano come quelle dal fronte viste nella citata mostra romana “1861 – I pittori del Risorgimento”. Un esodo biblico se si considera che dal 1876 al 1915 espatriarono dall’Abruzzo circa 600 mila persone, dal 1916 al 1945 quasi 160 mila e dal 1946 al 1976 altre 465 mila, in totale un milione e 200 mila persone da una regione che conta un numero di abitanti di poco superiore. Il “Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana”, aperto da poco più di un anno a Roma alla Gipsoteca del Vittoriano, dà conto di questa epopea con ricchezza di documentazione e immagini suggestive.
Non poteva mancare una testimonianza di questa epopea nella mostra sulla “Gente d’Abruzzo” , la troviamo in “Alla Stazione”, di Carlo Patrignani, 1907, con un gruppo in attesa di partire per altri lidi. I pastori seduti in primo piano non hanno smesso le loro tipiche acconciature, sono pensierosi. Invece il folto gruppo di donne è con gli abiti della festa, i costumi popolari abruzzesi; sono sorridenti e vivaci, la luce contribuisce a dare all’insieme vitalità e dinamismo.
Anche qui, come in “L’operaio politico” di Celommi, c’è un forte messaggio, e va sottolineato che maestro di Patrignani fu Patini, “il primo ‘pittore sociale’ dell’Ottocento italiano”. Lo ricorda Monica Minati che conclude: “Su questo evidente e nuovo interesse verso il tema sociale ebbe, inoltre, una qualche ascendenza l’abruzzese Francesco Paolo Michetti (1851-1929), già noto per i soggetti ispirati alla sua terra d’origine, resi attraverso l’adesione alle tematiche del verismo, di evocazione folkloristica e sociale”.
Il Cenacolo dannunziano nella mostra
Quali siano queste tematiche lo vediamo subito dalla mostra, passando alla seconda delle nostre motivazioni personali: quella legata a D’Annunzio, che figura in un ritratto opera di Francesco Paolo Michetti esposto con altri ritratti dello stesso pittore, grande fotografo: quello dello scultore Barbella, del musicista Tosti e di se stesso; oltre a una scultura che ritrae Gaetano Braga.
Si ricompone nella sala B della Pinacoteca, il Cenacolo di Francavilla, non soltanto con questi ritratti che fanno sentire la presenza dei protagonisti, quasi guardassero dalle pareti, ma soprattutto con le sculture di Barbella e le pitture di Michetti. All’ambientazione mancano le musiche di Tosti e le prose e poesie di D’Annunzio, non sarebbe stato difficile aggiungerle, ma questo avviene solo nelle mostre di arte contemporanea. Del resto crediamo non servisse, nel Cenacolo rinato nella sala con i quadri del pittore e le forme dello scultore, i versi e le parole dannunziane tornavano alla mente e le musiche di Tosti risuonavano nelle orecchie, “’A vucchella” prima tra tutte.
Ricordiamo, dunque, il Cenacolo dannunziano prima di declinare il particolare verismo dell’artista. E’ stato una fucina creativa, con influssi reciproci, la pittura e la scultura dei due artisti citati ispiravano la poesia e la scrittura di D’Annunzio, e viceversa; ci sono descrizioni di vecchi, scritte da D’Annunzio, che nascono da una scultura di Barbella come dalle pitture o fotografie di Michetti. E si legge che D’Annunzio ventenne nel “Canto Novo” si era ispirato al quadro “I morticelli” per descrivere un funerale sulla spiaggia: “Stagna l’azzurra calura” s’intitola il sonetto.
La compresenza e compenetrazione tra le arti che si realizzava nel Cenacolo è stato un lievito per la cultura e ha segnato una strada che andrebbe sempre battuta: l’abolizione degli steccati di genere per un’arte universale che mutui stimoli ed ispirazione dalle forme diverse un cui si presenta; le recenti “Lettere d’amore”, o meglio le “lettere inedite di Gabriele d’Annunzio rilette in forma teatrale da Dacia Maraini” sono un esempio attuale di commistione tra due generi contigui; è vicino al Cenacolo il sodalizio del pittore contemporaneo Maugeri con il poeta Benedetti, i cui frutti soprattutto pittorici abbiamo potuto ammirare nella mostra al Vittoriano di cui abbiamo dato conto di recente; il Cenacolo era innovativo nell’avvicinare generi ritenuti lontani e incomunicabili.
Nella sala, varie sculture di Barbella esposte vicino ai quadri di Michetti, in un sodalizio che ha portato il secondo a cimentarsi anche con la terracotta, oltre che con i pennelli e la macchina fotografica. Ce ne sono tre, altre cinque sono collocate nella sala C al piano superiore, ma ne parliamo ora considerandole insieme, come se fossero tutte nella sala B dedicata al Cenacolo.
La “personale” di Barbella
Sono sculture di piccole dimensioni ma di grande intensità, anche questa è una sorta di mostra “personale”, di Costantino Barbella, all’interno della mostra collettiva. Nei due “Onomastico del nonno”, 1907, uno in bronzo, l’altro in terracotta, “la scena – sono parole di Bianca De Luca – è resa in maniera molto spontanea e genuina. è un vero idillio di tenerezza”.
Diversi i sentimenti che ispirano “Triste storia” e “Luce nelle tenebre”. Nel primo, di bronzo, tre donne pensierose fino a diventare inespressive, con lunghe tuniche, quasi “le tre grazie” tristi, ricordiamo sempre la piccola dimensione sui 30 centimetri; come triste è “Luce nelle tenebre”, in terracotta, se si considera che la figura rappresentata – modella un busto di donna avendo gli occhi spenti – è in fondo l’immagine dello scultore che stava perdendo del tutto la vista. Misure molto simili quelle di “Montagnolo”, in terracotta, e “Su su (Contadinella con otre di vino)”; in bronzo: nel primo torna la serenità, nel secondo addirittura c’è un movimento giocoso.
Ma è quasi una preparazione alle due più grandi sculture in cui, a nostro avviso, raggiunge una straordinaria forza espressiva: “Rancore”, in terracotta, e “Sogni felici”, in bronzo. In “Rancore” vediamo lei torcere lo straccio che ha in mano con il viso imbronciato, mentre la conca le pende al fianco come un segno distintivo, quasi la spada dei cavalieri e la pistola dei cow boy; lo associamo all’immagine della Contadinella della pasta De Cecco, invece della conca il fascio di spighe, ma siamo influenzati dal fatto che uno dei partecipanti al Cenacolo dannunziano fu Paolo De Cecco.
Smesso il broncio, sembra della stessa fanciulla l’immagine di “Sogni felici”, scultura di 80 per 50 cm, che la vede abbandonata nel sonno a seno nudo in una posa plastica e sensuale “per aderire, scrive Mariella Gatta, “ai gusti di una committenza sempre più incline a soggetti piacevoli e di puro godimento visivo”. Giudizio centrato, il godimento visivo c’è ed anche nel senso di purezza, tanto la giovane è indifesa e innocente, da guardare e rispettare. Ma suscita essa stessa un sogno proibito, tutti vorrebbero trovarsela al fianco nel risveglio mattutino e mirarne l’espressione felice.
Michetti dalle piccole sculture ai dipinti di verismo folkloristico e sociale
Passare da questa opera per noi spettacolare alle due piccole sculture in terracotta di Francesco Paolo Michetti potrebbe sembrare ardito. Invece “Madre con bimbo” e “Pastorella” suscitano un senso di tenerezza che, su piani diversi, si può accostare a quella con cui si possono guardare i “Sogni felici”: nella prima la tenerezza viene dal caldo abbraccio tra madre e bambino, nell’altra dai dolci lineamenti del viso della pastorella: in effetti c’è un senso pittorico che nasce dalla stessa ragione delle due opere, accondiscendenza per l’amico Barbella da un lato, prova d’autore dall’altro verso chi criticava il suo metodo di servirsi di fotografie e di schizzi per i suoi grandi quadri.
Di questi non troviamo “La processione del Corpus Domini” e “La figlia di Iorio”, ma il grande, in tutti i sensi, “I morticelli”, 1880, una processione religiosa anche questa, ma funeraria, con i corpicini dei neonati gemelli portati dietro al sacerdote e la croce con un gruppo variopinto di donne al seguito e dei violini suonati da cinque robusti paesani vestiti di scuro che chiudono il corteo.. Il tutto con sullo sfondo la linea e i colori del mare sotto un cielo terso quasi abbagliante, così commentato da Boito: “La mestizia del quadro somiglia ai rintocchi d’una campana, che suoni a morto. Infatti suona nel quadro una nota, la quale torna spietata e con insistenza: l’azzurro”. Tanto forte da far scrivere a D’Annunzio in una lettera al sodale del Cenacolo Paolo De Cecco, “quell’ebrezza sovrumana d’azzurro mi fa pensare”, e a ispirargli nel citato sonetto di “Canto Nuovo” “Stagna l’azzurra caldura”, che nell’“azzurro intenso di cielo e di mare” vede “la prima manifestazione potente del dolore”.
Dal dolore alla gioia, i neonati prima funerei ora sono un inno alla vita: E’ “Prima nidiata”, non solo il bebè sulla culla ma i pulcini che gli saltellano intorno, il ciclo vitale continua, nei particolari pittorici c’è tanta poesia. Ma la morte si riprenderà la vita nella “Seconda nidiata”, non esposto in mostra, la culla sarà vuota e solo i pulcini continueranno a saltellare, questa volta sulle gambe della madre inginocchiata in lacrime.
In fondo, nell’anima della “gente d’Abruzzo”, a diretto contatto con le forze della natura anche dure e ostili come nelle montagne più impervie e isolate, il senso della morte e quello della vita sono compresenti, vissuti nella consapevolezza che c’è un disegno e una regola, un ordine: forse quello della poesia di Aleardo Aleardi, dove alla domanda “Che cosa è Dio?”, “Ordine mi risposero le stelle”
C’è vita nello “Studio per mattinata”, il quadro conclusivo della nostra visita alla sezione michettiana: le figure di giovani ragazze che si materializzano indefinite come possono esserlo nei sogni nella pineta sul mare, rivolte a chi guarda ballando e cantando ci fanno pensare a “la vita è bella”, l’ espressione che D’Annunzio scrisse più volte nella stessa pagina della “Licenza” della Leda: la bellezza della vita è nella natura, “una creatura da non abbracciare, da non possedere, …tutta l’aria è volontà e voluttà di vita”. Questo suscita il dipinto che Matilde Serao definì “il canto più alato, più gioioso che il genio italiano abbia innalzato alla luce, alla primavera, alla gioventù”, come ricorda Bianca De Luca, sottolineando che ai suonatori confusi in un macchia scura abbia dato i volti di Barbella e Tosti, De Cecco e se stesso. Questa notazione fa dare al quadro di Michetti il senso della totale identificazione. Manca D’Annunzio, ma è come se lo spettacolo fosse per lui, forse vi si ispirarono le sue parole nelle quali spiega da par suo come e perché “la vita è bella”.
La dimensione religiosa del verismo sociale
Anche dal Cenacolo dannunziano è venuto un ritratto della “gente d’Abruzzo” che si aggiunge a quello del lavoro duro e sofferto, della forza e della determinazione, della pazienza e della gentilezza. Non abbiamo parlato di un carattere compresente, la religiosità. Ci sono state mostre delle opere religiose, a Roma quella a Montecitorio sull’ “Arte ferita”, e a Castel Sant’Angelo, ne abbiamo parlato a suo tempo; è un campo nel quale l’arte abruzzese ha dato innumerevoli capolavori di pittura e scultura, oltre all’architettura delle sue tante chiese. Si tratta di una terra “nativamente religiosa”, come diceva D’Annunzio che scrisse parole alate per la Chiesa abruzzese.
Il “verismo sociale” non va considerato al di fuori dell’ispirazione religiosa sebbene i suoi motivi siano molto terreni. In mostra non è assente, ci sono i due dipinti di Teofilo Patini, ancora lui!, su “San Carlo Borromeo tra gli appestati” : un piccolo “studio preparatorio”“ riprodotto in grandi dimensioni nel “bozzetto” di 170 per 90 centimetri circa, il dipinto finale è dal 1888 nel Duomo dell’Aquila. Nel saluto del giorno dell’inaugurazione l’arcivescovo Vicentini fece un parallelo con il “trittico sociale” sempre di Patini che abbiamo commentato nel primo articolo, dicendo: “Usato con lo stesso pennello a ritrarre scene sociali… ora si è trovato a dipingere una sventura che non gli veniva dalla mano dell’uomo, ma da quella di Dio e che perciò solamente da Dio poteva aspettare il conforto”. Inoltre “le piaghe sociali gli avevano suggerito argomenti di dolorosa realtà”. Tale la scena con il moribondo a torso nudo riverso in primo piano circondato dagli appestati mentre i dignitari in secondo piano portano un polittico; al centro il Santo che implora la misericordia divina ricorda ci Pio XII nel volto, nella figura e nell’atteggiamento ieratico a braccia larghe verso il cielo.
Sta per terminare la visita, uscendo sul Ballatoio ci soffermiamo davanti alle due grandi sculture di Raffaello Pagliaccetti, alte circa un metro. Il gesso del 1885 “Figura di giovane demente” o “Lo scemo con le mani incrociate” evoca una realtà dei paesi che veniva vista con comprensione ma anche indifferenza; qui c’è una drammaticità da maschera tragica, Paola Di Felice parla di “una smorfia che si traduce in ghigno di dolore urlato all’umanità tutta”, ogni fibra del corpo appare tesa e contorta, è una rappresentazione “senza indulgenza, con un verismo crudo, brutale”.
L’opposto “La cieca orfanella abruzzese”, del 1879, in terracotta, una figura malinconica e dolente, dalla tristezza antica nonostante la giovane età: le pupille spente, un “rassegnato abbandono”, il volto con dei fremiti che rivelano “l’inquietudine di un’anima”. Mentre ci accingevamo ad aggiungere a tali parole il richiamo alle Madonne religiose, quasi fosse angelicata dalla sofferenza, abbiamo visto che chi le ha scritte, sempre la Di Felice, va oltre definendola “novella ‘Madonna in cenci’” realizzando così la saldatura tra verismo sociale e motivi religiosi.
In questi motivi possiamo trovare – al di là del preminente motivo fideistico – qualcosa di consolatorio, che aiuta a superare le miserie e le ristrettezze di una vita difficile, rese dal “verismo sociale” di cui abbiamo visto tante espressioni. Due immagini ci portano a questa considerazione. La prima è il tondo ceramico di Basilio Cascella, “Chiesa di San Bernardino all’Aquila”, tre giovani donne in costume abruzzese scendono lungo l’ampio scalone che parte dalla facciata monumentale, altre figure salgono, in un ambiente solenne e insieme familiare, come il clima di serenità che lo pervade. Ancora più espressiva l’altra opera, dell’autore si conoscono solo le iniziali, B.S. (anonimo), “Aquila in festa a piazza del Duomo”, un’esplosione di fuochi di artificio nel cielo notturno con la facciata illuminata su una folla partecipe, immersa nel buio iluminato da festoni e da altri segni di festa. L’anonimato dell’autore, fine XIX secolo, la rende quanto mai significativa, quasi un sigillo simbolico di come lo spirito religioso possa trascinare la gente d’Abruzzo in manifetazioni di vitalità collettiva che fanno dimenticare le tante sofferenze individuali.
Tanti identikit un’unica identità della “Gente d’Abruzzo”
Tanti identikit per un’unica identità: ne abbiamo parlato a lungo e non è il caso di ricapitolare. Alla dimensione civile e paesana declinata nei suoi molteplici momenti e aspetti, duri per l’inclemenza della vita e della natura ma alleggeriti dalla grazia e dalla leggerezza, si è aggiunta la dimensione religiosa del verismo sociale, fino alla sua trasposizione laica in un’identificazione superiore.
Una dimensione, questa della “gente d’Abruzzo”, che merita di essere celebrata nel 150° dell’Unità d’Italia, insieme con quella delle altre genti del nostro paese, in un federalismo nazionale che nella consapevolezza delle proprie radici territoriali e umane trovi nuovi motivi di riaffermazione orgogliosa in un tessuto unitario rafforzato e valorizzato nelle sue componenti.
Ad Antonio Paolucci e a Vittorio Sgarbi, che nei diversi ambiti di elevato prestigio hanno colto come la dimensione artistica sia importante nelle riflessioni indotte dall’anniversario, va la proposta formulata all’inizio, che con la visita alla mostra si è arricchita di motivi legati a forti sentimenti.
Info
Pinacoteca Comunale di Teramo, Viale Bovio. 3. Catalogo “Gente d’Abruzzo – Verismo sociale nella pittura abruzzese del XIX secolo”, a cura di Pierluigi Silvan, Scienze e lettere, 2010, pp. 216, formato 24x 28. Il primo articolo, con il quadro generale e Teofilo Patini, è uscito il 10 gennaio 2011 sempre in cultura.inabruzzo.it . Per le mostre citate cfr. i nostri articoli usciti in tale sito: “1861, i pittori del Risorgimento”, 2 articoli l’ 8 gennaio 2011, e “Padiglione Italia” 26 maggio 2011, “Maugeri al Vittoriano con benedetti: il pittore e il poeta” 22, 24 giugno 2010, e “Sos arte dall”Abruzzo, a Roma una grande mostra per non dimenticare” 12 aprile 2010 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli vengono trasferiti su questo sito).
Foto
Le immagini sono state tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Francesco Paolo Michetti, “I morticelli” 1880, cm 94 x 262, firmato, L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo; seguono, Tiziano Pellicciotti (Tito), “Pastorella con gregge presso Paganica” sec. XX, primo quarto, cm 16 x 36, firmato, Pratola Peligna, L’Aquila, Collezioni d’Arte della Banca di Credito Cooperativo, e Pasquale Celommi, “Il primo bacio” 1928, cm 65 x 111, firmato, Teramo, Collezione privata; poi, Tommaso Cascella “Tempesta sul gregge” 1918, cm 100 x 109,5, firmato e datato, Chieti, Museo d’Arte Costantino Barbella, proprietà della Provincia di Chieti, e Gennaro Della Monica, “La fiera di Ronzano a Isola del Gran Sasso” 1880 ca, cm 63,5 x 78,5, Teramo, Collezioni d’Arte della Banca di Credito Cooperativo; quindi, Filippo Palizzi, “Interno di stalla con caprette” cm 39 x 52, Pescocostanzo, L’Aquila, Collezione privata, e Giuseppe Palizzi, ““Interno di stalla con figure” cm 90 x 117, Pescocostanzo, L’Aquila, Collezione privata; inoltre, Valerio Laccetti, “Interno con famigliola abruzzese” , cm 30 x 40, Sulmona, Collezione privata, e Sabatino Tarquini, “Intimità” , cm 71 x 100, L’Aquila, Collezioni d’Arte del Municipio; ancora, Pasquale Celommi, “La lavandaia” 1885-88, cm 108 x 65, firmato, L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo, e Carlo Patrignani, ” Alla stazione” 1907, cm 56.2 x 75,2, firmato e datato, L’Aquila, Collezione Pecorelli; continua, Francesco Paolo Michetti, “Ritratto di G. D’Annunzio” , cm 60,5 x 47,5, Chieti, Museo d’Arte Costantino Barbella; poi, Costantino Barbella, “Onomastico del nonno” post 1907, bronzo, h cm 23, firmato, Chieti, Museo d’Arte Costantino Barbella, “Rancore”, terracotta, h cm 64, firmato, Teramo, Collezione privata, “Sogni felici” , 1900, bronzo, cm 80 x 50 x 40, firmato e datato, L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo in deposito da collezione privata; quindi, Francesco Paolo Michetti, “I morticelli” 1880, particolare (parte sin), particolare (parte dx), e “Studio per ‘Mattinata’”, cm 67,5 x 128, Chieti, Museo d’Arte Costantino Barbella; infine, Raffaello Pagliaccetti, “La cieca orfanella abruzzese” 1879, terracotta dipinta a olio, cm 92 x 48 x 75, firmata, Teramo, Pinacoteca civica, e Basilio Cascella, “Chiesa di San Bernardino all’Aquila” , ceramica, diam. cm 37, L’Aquila, Collezioni d’Arte della Cassa di Risparmio della Provincia; in chiusura, B.S. (anonimo), “Aquila in festa a Piazza del Duomo” fine sec. XIX, cm 63,5 x 78,5, siglato, L’Aquila, Collezione Piccirilli.
Non avremmo voluto questa coincidenza tra il lancio che facciamo ora della manifestazione “Cinema & Storia, 100+1. Cento film e un Paese, l’Italia” e la scomparsa nei giorni scorsi del grande regista Mario Monicelli, protagonista con uno dei suoi film cult della precedente edizione cui dedicammo a suo tempo tre ampi servizi soffermandoci sul suo “Un borghese piccolo piccolo”. Non c’è contraddizione, comunque, il sommo interprete della commedia all’italiana resta presente con i suoi capolavori, e con la sua energia, manifestata anche negli ultimi tempi quando ha incontrato i giovani in agitazione dicendo “Non limitatevi a protestare, dovete agire”. E se il modo con cui lui stesso ha agito nel momento decisivo può lasciare sconcertati, ne conferma la dignità.
Il presidente Napolitano ha parlato di “estremo scatto di volontà”, Pupi Avati di “gesto di coraggio”, Paolo Villaggio di “gesto meraviglioso”, Bernardo Bertolucci di “gesto vitale, quasi festoso”. La nota stonata in Parlamento nella definizione di “gesto tremendo di solitudine non di libertà ” della teodem Paola Binetti particolarmente infervorata, cui ha fatto eco il ministro Gianfranco Rotondi parlando di “scelte che non debbono essere un esempio”; prima c’erano state le parole di Walter Veltroni, “ha vissuto e non si è lasciato vivere, non si è lasciato morire e ha deciso di andarsene”. E la figlia Martina Monicelli: “Non è morto solo. E’ morto come ha voluto lui, come ha scelto. Mio padre ha deciso tutto”. In ogni caso non si è trattato di un atto di debolezza ma di forza, è stato protagonista a 95 anni e lo rimarrà sempre, con i suoi film e la sua personalità.
I contenuti della manifestazione
“The show must go on”, si dice in questi casi e la regola vale ancora di più con un grande maestro del cinema, anche perchè le sue opere continueranno a presentarci il suo genio e la sua vitalità. Torneranno ancora nel cartellone degli spettacoli per gli studenti, dopo la pausa di quest’anno nel quale non è compreso tra i sette film, nella prima edizione c’era “Un borghese piccolo piccolo”.
Il nuovo cartellone guarda al regime fascista nella tragedia di “Roma città aperta” e nella prospettiva più sfumata di “Una giornata particolare”, rispettivamente di Roberto Rossellini e di Ettore Scola; poi due scorci sociologici molto diversi in “I Vitelloni” e “Accattone”, di Federico Fellini e di Pier Paolo Pasolini, le società patriarcali in “Padre Padrone” e “Salvatore Giuliano” con in più i misteri d’Italia, dei fratelli Taviani e di Francesco Rosi, fino al film che porta “sul palcoscenico della storia”, “Il Gattopardo” di Luchino Visconti. Un “parterre de roi” registico di straordinario spessore, del resto tutti i film sono stati premiati con Nastri d’Argento ed altri riconoscimenti, e chi non fu “profeta in patria”, come “Accattone”, fu premiato all’estero.
Ci accorgiamo di essere subito entrati in medias res senza neppure precisare di cosa stiamo parlando. Abbiamo assistito alla presentazione della nuova edizione dell’iniziativa per il cinema nelle scuole superiori della Provincia di Roma: lo scorso anno sono state coinvolte 30 scuole con 90 classi e 1800 studenti della Capitale e delle località della provincia, E’ stata fonte di riflessioni e di discussioni, la storia rivissuta attraverso opere che hanno riportato a situazioni e tempi passati da far conoscere ai giovani con un linguaggio immediato e coinvolgente quale quello del cinema. Prevale il bianco e nero, e c’è già del coraggio nel proporre un linguaggio visivo inconsueto, da reperto archeologico, ma per questo con forza attrattiva non da fiction ma da documento storico.
La continuità nella riproposizione annuale crea un filo rosso in grado di collegare fatti e situazioni in modo da creare una memoria condivisa. Rileggere la storia attraverso il cinema rappresenta una valida integrazione del programma scolastico, e non solo: perché, ha detto il presidente della provincia Nicola Zingaretti, “ci racconta come eravamo e come, nel corso degli anni, siamo cresciuti, cambiati, divenuti cittadini di un Paese nuovo”. Sono radici da non rimuovere ma da far conoscere con una scavo nella storia recente che diventa un viaggio nella memoria; non di quella personale dei ragazzi ma almeno delle loro famiglie, di qui anche il dialogo tra generazioni.
La storia del Novecento viene rivissuta con la suggestione della spettacolo cinematografico, che nelle scuole ripropone la visione collettiva oggi soppiantata in parte da quella individuale attraverso la televisione; solo in parte, perché le multisale mostrano nuovi segni di vitalità dopo la lunga fase di crisi delle sale tradizionali. Anche per questo aspetto la visione comune può essere contagiosa.
Gli interventi alla presentazione e il programma
Oltre al presidente della Provincia Nicola Zingaretti ne hanno parlato dal palco alcuni dei personaggi del cartellone. Renzo Rossellini, nel ricordare l’episodio dei ragazzini quasi partigiani in “Roma città aperta” di Roberto Rossellini, ha detto che l’espressione di solito rivolta loro “non si fa” andrebbe sostituita con “fatelo”. Sull’importanza dell’iniziativa ha aggiunto: “Il cinema per far capire, se non si sa capire non si sa decidere”. Massimo Ghini ha raccontato di aver abitato in via Rasella, la sua finestra dava sul cortile dove si svolge una scena drammatica del film ora citato; ne è seguito il possesso di una giacca di Rossellini, meta di un vero pellegrinaggio con la sua interpretazione del grande regista in “Celluloide” di Carlo Lizzani, Per Ettore Scola “non si tratta di conoscere la storia, ma lo spirito della storia e il cinema può aiutare in questo”. I fratelli Paolo e Vittorio Taviani dicono che il cinema aiuta a “capire il mondo e capire così meglio se stessi”.
Fabio Ferzetti è l’ideatore e organizzatore dell’iniziativa promossa dalla Provincia di Roma nel progetto ABC, Arte Bellezza Cultura, con l’Associazione Giornate degli Autori e Cinecittà Luce, e il sostegno della Direzione per il cinema del MiBAC. Ne ha presentato contenuti e intenti, insieme al bilancio positivo della passata edizione. Al termine gli abbiamo chiesto se c’è stata una strategia particolare nell’individuazione di quei sette titoli, proprio loro, tra i cento a disposizione. Ha risposto che “i soli criteri sono stati la qualità dell’opera e del regista, e la proposizione di tematiche diverse, anche se connesse, su alcuni periodi cruciali della nostra storia”. E’ una “storia a puntate, c’è il Risorgimento, il fascismo, il dopoguerra”. Il tutto senza forzature di alcun genere.
Questo è avvenuto il 16 novembre 2010 al grande Auditorium di via della Conciliazione, ci siamo tornati dopo il convegno della Cei su “Dio oggi” del 10-12 dicembre 2009 quando ci si interrogò sul tema “Con Lui o senza di Lui cambia tutto”. Ha fatto gli onori di casa Veronica Pivetti con brio e leggerezza, l’iniziativa è stata presentata anche con un “trailer” nel quale erano cuciti alcuni momenti dei sette film proposti: Poi la sfilata dei personaggi, di alcuni abbiamo già detto.
Ecco gli avvisi: ci saranno , come lo scorso anno, incontri di formazione dei docenti in dicembre-gennaio in diversi luoghi della provincia di Roma; tra gennaio e marzo 2011 alcune giornate-evento in cui le scuole, con i ragazzi partecipanti, incontreranno registi e attori famosi, Ricordiamo lo scorso anno l’incontro con Marco Bellocchio a Frascati, con lui c’era l’attore Timi, portò bene perché fu seguito a breve distanza dagli otto David di Donatello, regia compresa, al suo “Vincere”; il film proposto alle scuole era quello del suo esordio, il celebre “I pugni in tasca” un’inquietudine giovanile, che si scatena nell’ambito familiare, non affatto sopita come mostrano i ricorrenti fatti di cronaca. Nell’Aprile 2011 ci saranno le premiazioni, raccontammo quella della scorsa edizione, nell’assolato cortile di Palazzo Valentinidove ha sede la provincia, premi conferiti dinanzi a un’affollata platea, presentava Serena Dandini, e Veronica Pivetti era già nelle prime file.
Roma città aperta, l’anteprima all’Auditorium
La sorpresa della mattinata è stata la proiezione di “Roma città aperta”, un’anteprima del più celebre film del lotto per i tanti studenti presenti, quasi una prova generale: visione in religioso silenzio, applauso finale. Si tratta della copia restaurata del capolavoro che, pur se visto più volte, suscita sempre nuove emozioni. Possiamo dire di avervi trovato un antesignano di “La vita è bella” di Roberto Benigni nel brusco cambio del clima: dalla pur relativa serenità o almeno assuefazione nelle difficoltà all’incubo della repressione fino alla tragedia finale. In “Roma città aperta” è tale che viene dimenticato Francesco scampato al rastrellamento, poteva essere la ripresa della speranza, invece scompare; i ragazzini dopo aver dato l’estrema consolazione al loro parroco prima della fucilazione nell’ultima immagine si allontanano affranti, non c’è il bimbo festante di “abbiamo vinto!” che dà al finale di “La vita e bella” il segno della speranza; ma c’è lo sfondo del Cupolone.
Tutto ciò conferma la forza espressiva che ci riporta a quel clima come fosse un documentario, C’è tutto delle paure di allora, con gli spietati rastrellamenti e le atroci torture, le dure restrizioni e la fame, i luoghi sono quelli dei fatti e comunque sono veri come i personaggi. Siamo venuti a conoscenza del mistero sulla sceneggiatura del film, il cineasta Stefano Roncoroni nel libro “la storia di Roma città aperta” la pubblica integralmente. Ma non improvvisava Rossellini come si è detto per tanto tempo? No, c’era una sceneggiatura completa, l’aveva il produttore Aldo Venturini che, rintracciato da lui tramite il barbiere, non gli permise di fotocopiarla ma soltanto di leggerla in sua presenza, tanto ne era geloso in un rapporto con quel testo molto contrastato: al riguardo diceva che il film ”aveva dato gloria a tutti ma a lui aveva portato solo grane”. Ebbene, Venturini chiese di poterlo leggere ad alta voce per antica abitudine, in realtà per registrarlo con un microfono nascosto. Le sceneggiature scritte sono perdute, ma le prime tre pagine della copia consegnata per la certificazione all’ufficio competente sono identiche alle prime tre pagine della registrazione di Venturini, la prova è certa. Una sola differenza nella realizzazione, lo sparo ad Anna Magnani e il colpo di grazia ad Aldo Fabrizi nella sceneggiatura erano previsti ad opera di fascisti in camicia nera, mentre nel film furono sostituiti dai tedeschi nella ricerca di pacificazione che era in corso.
Per questa sceneggiatura il film fu candidato al Premio Oscar, che Rossellini ebbe per il film successivo della “trilogia della guerra” comprendente “Paisà” e “Germania anno zero”. Fu premiato con il “Grand Prix” al Festival di Cannes e con alcuni “Nastri d’Argento”.
Gli altri sei film del cartellone 2010-11
Gli altri film sono anch’essi molto noti, ricordare le loro storie può far entrare nello spirito della manifestazione che accompagnerà gli studenti delle scuole superiori partecipanti nella provincia di Roma per l’anno scolastico 2010-11. Siamo nel 1953, Federico Fellini ha già girato “Lo sceicco bianco”, una favola triste nel mondo dei fumetti; in “I Vitelloni” racconta la vita di giovani sfaccendati nella sua Rimini fuori dalla stagione balneare, con le loro debolezze e i loro sogni, c’è l’approfittatore e l’idealista, Moraldo in cui forse Fellini vide se stesso, dato che in un’intervista del 1956 parlando di quella vita vuota e inconcludente ma romantica ricordò quando “da ragazzo una bella mattina ho preso il treno e me ne sono andato in città”; aggiungendo – riguardo agli amici lasciati – che “sarò costretto ogni volta a tradirli”, ma la città “in fondo è il loro sogno segreto”.
Ben diverso il clima di “Accattone”, come diverso era Pier Paolo Pasolini, osteggiato in Italia ma premiato come miglior film al Festival di Karlovy Vary. Siamo nel 1961, è la vita di un ragazzo di borgata nella periferia romana, tra furti e prostituzione ma anche con slanci sentimentali. Descrive l’emarginazione che non è solo cittadina, ma anche nazionale nelle aree depresse, e mondiale nei paesi arretrati; le aspre polemiche che lo accompagnarono dimostrano quanto fosse graffiante e aggressivo. Il tempo gli ha reso giustizia, quanto è narrato nel film che portava sullo schermo i personaggi di strada dei suoi romanzi, ha poi trovato nella realtà manifestazioni sempre più eclatanti che nel film sono quasi vaticinate, lui aveva avuto l’occhio per puntarvi la macchina da presa dopo averli colti con la macchina da scrivere. E ne restò vittima lui stesso nell’entrare nel loro mondo.
Appena successivo “Salvatore Giuliano”, del 1962, regia di Francesco Rosi, ripercorre la vita del bandito indipendentista siciliano dopo il ritrovamento del suo corpo, con la tecnica del flash back innestandola sul processo alla banda, a Gaspare Pisciotta in particolare che si accusò dell’uccisione contro la versione ufficiale che parlava di un conflitto a fuoco con i carabinieri e poi in carcere fu avvelenato. Ci sono questi primi misteri d’Italia, che iniziano con la strage a Portella della Ginestra in un raduno di lavoratori; e le spettacolari retate dei carabinieri nella lotta alla mafia, le rumorose resistenze dei familiari all’azione della giustizia, c’è soprattutto una certa Sicilia vista nei luoghi dove si erano svolti i fatti, l’affresco dell’ambiente e del clima prevale sullo stesso personaggio.
Nella cronologia del cinema, ma non della storia, segue “Il Gattopardo”, del 1963, un flash back ben più retrodatato sulla società siciliana, Palma d’oro al Festival di Cannes oltre ai “Nastri d’argento”. Sullo sfondo dell’impresa dei Mille, che avanzano nella Sicilia , la figura del principe di Salina, in cui rifulse la classe di Burt Lancaster, un cow boy che riuscì a impersonare magistralmente la nobiltà decadente, e poi Alain Delon, il nipote Tancredi con la splendida Claudia Cardinale, figlia di un nuovo ricco che si fidanza fino al grande ballo nel palazzo palermitano dove si festeggia il gattopardismo, cioè la conservazione nelle sembianze della rivoluzione scongiurata,
Un salto di quasi tre lustri e siamo al 1977, con gli ultimo due film del cartellone. “Una giornata particolare” di Ettore Scola – David di Donatello, Golden Globe e i “Nastri d’argento” – è un film speciale, come emerge anche dalla definizione del regista che lo ha chiamato una “tragica commedia all’italiana”: una storia di esclusi i quali si ritrovano in un rapporto fatto di sincerità e di comunicazione, che li isola dal resto mentre esplode tutt’intorno la manifestazione popolare per la visita di Hitler a Roma. Il regime c’è nella mortificazione e nella repressione, ma la storia della giornata fa prevalere sulla massificazione celebrativa la forza della coscienza silente ma non doma,
Con “Padre Padrone” dello stesso anno, i fratelli Taviani portano nella Sardegna arcaica, dove il giovane protagonista vive fino a vent’anni solo con il gregge al pascolo, fuori dal mondo e fuori dal tempo. Poi la vita militare svolge su di lui il ruolo un tempo assegnatole, fa “il militare a Cuneo”, per dirla con Totò, si affranca dai tabù, scopre lo studio e la cultura, tutte cose che lo allontanano anni-luce dal padre. Di qui lo scontro epocale tra generazioni e civiltà, in un’emancipazione che non è soltanto verso la civiltà contadina o l’autoritarismo familiare, ma diventa archetipo dei processi di liberazione rispetto a ogni forma di oppressione delle tante presenti tuttora nel mondo.
Riassunti i contenuti dei film prescelti ci sembra di poter trovare un filo rosso, è la faticosa evoluzione sul piano personale e collettivo di un Paese con tante contraddizioni espresse nelle singole storie, ma anche tanta vitalità e l’indomita capacità di riemergere come l’araba fenice dalle proprie ceneri ogni volta che il pollice verso della storia sembra condannarlo alla decadenza.
Un incontro e un appuntamento con gli studenti di un liceo scientifico della provincia
Al termine abbiamo voluto parlare con gli studenti, sciamavano nel grande atrio dell’Auditorium e in via della Conciliazione, l’organizzazione ha offerto loro patatine o simili da sgranocchiare. Sullo sfondo il vicino Cupolone, quasi una staffetta con l’ultima immagine di “Roma città aperta”, di tempo ne è passato, i ragazzini sono cresciuti…
Ci siamo avvicinati a un gruppo con la professoressa, sig.a Martelli. Sono dell’ultimo anno del Liceo scientifico “Borsellino e Falcone” di Zagarolo, abbiamo scherzato sulla scomoda fama acquisita con “Ultimo tango a Zagarolo” di Franco Franchi e Ciccio Ingrassa, e poi con l’esilio penitenziale dell’esorcista Milingo per un “ravvedimento” che evidentemente non c’è stato, considerato l’epilogo. A loro l’occasione di dare un’immagine diversa, la manifestazione contempla una premiazione finale, anche se non si tratta di una competizione. Nella precedente edizione abbiamo dato conto del lavoro svolto da una classe premiata, studenti del classico del Liceo-ginnasio “Tacito” nella Capitale; ci interessa l’avvicendamento con lo scientifico e la provincia.
Ora più che parlare di come si procederà, abbiamo fatto la reciproca conoscenza: la professoressa considera la prospettiva cinematografica come parte integrante del programma di storia. Anche i ragazzi prendono la cosa molto seriamente. Il bianco e nero non li scoraggia, tutt’altro: proprio perché insolito già sentono che acuisce l’interesse. Facciamo i nostri auguri a questi ragazzi e alla professoressa, ai quali diamo appuntamento per conoscere come risponderanno a tali stimoli. In loro impersoniamo simbolicamente le numerose scuole impegnate nel programma, all’inizio di un percorso che si preannuncia ricco di motivazioni e di sensazioni forti. Quelle che solo il vero cinema d’autore riesce a trasmettere nel profondo delle coscienze di generazione in generazione.
Il 7 ottobre 2010 è iniziato l’Anno culturale della Cina in Italia, nel quarantennale dell’apertura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi: un centinaio di iniziative in campo culturale e artistico nonché turistico, e anche economico e scientifico, a Roma e Milano, Torino e Firenze e altre città in gemellaggio con località cinesi, presentate a Roma a Palazzo Barberini. In primo piano le due civiltà millenarie che non hanno eguali, con l’interesse reciproco a conoscersi e confrontarsi.
Abbiamo scelto di dare conto della manifestazione in occasione della visita in Cina di una settimana, iniziata il 25 ottobre, del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano accompagnato dal Ministro per gli Affari Esteri Franco Frattini: visita definita dal capo dello Stato “missione di forte amicizia e reciproco riconoscimento”, e “un momento fondamentale del mio mandato di Presidente della Repubblica”. Il Ministro Frattini ha detto di voler porre la materia dei diritti umani tra i temi al centro dell’incontro con il suo collega cinese. La missione è stata aperta dal colloquio con il presidente cinese Hu Jintao e dalla visita alla “Città proibita”. Oltre a Pechino e Shangai visitata Macao per la mostra sul gesuita Matteo Ricci che vi soggiornò, astronomo e viaggiatore.
Ben prima di questa importante missione, incontro nella vastissima “Sala dei Marmi” del maestoso Palazzo Barberini per lanciare l’Anno culturale della Cina in Italia. Sedici grandi dipinti, dieci statue e busti, la grande figura scultorea di donna velata al lato del tavolo degli oratori, due colonne tortili all’ingresso che fanno entrare nell’atmosfera introducendo in un mondo misterioso.
Una presentazione affollata, dieci personaggi al microfono, dal coordinatore per l’Italia della manifestazione Giuliano Urbani al suo omologo cinese, dal direttore generale per l’Asia del Ministero degli Esteri Attilio Iannucci al presidente della Fondazione Italia-Cina Cesare Romiti, dal direttore generale per la valorizzazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Mario Resta all’ambasciatore della Repubblica popolare cinese Ding Wei.
La presentazione e gli spettacoli inaugurali
Il clima è solenne, nel quarantennale dell’apertura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi si presentano le espressioni di cultura cinese predisposte in Italia per questo evento, un centinaio di iniziative di natura artistica e culturale nonchè turistica, arrivando al campo economico e scientifico: a Roma e Milano, Firenze e Torino, Napoli e in altre città gemellate con città della Cina.
Si incontrano due civiltà millenarie che non hanno eguali al mondo, incarnate dall’aquila romana e dal dragone cinese nella mostra-simbolo dell’evento. “Potenze globali della cultura” le ha definite Mario Resca, impegnato da tempo negli accordi culturali di grande rilievo che includono l’apertura di uno “spazio Italia” al grande Museo di Pechino a Piazza Tienanmen con la reciprocità dello “spazio Cina” al Museo romano di Palazzo Venezia. Dopo l’intervento di Attilio Iannucci, che dal versante diplomatico ha riaffermato i reciproci vincoli di amicizia, l’intervento dell’ambasciatore Ding Wei ha sottolineato l’importanza che il suo grande Paese annette alla manifestazione e più in generale alle relazioni culturali con l’Italia. Giuliano Urbani ha riassunto il contenuto delle iniziative e Cesare Romiti ha parlato dei rapporti attivati dalla fondazione Italia-Cina.
Un’attenzione particolare merita il logo della manifestazione, creato da Liu Bo, professore dell’Accademia Centrale di Fine Art Cinese, a cui si deve anche il logo per le Paraolimpiadi dei Pechino del 2008. Rappresenta l’intreccio tra l’Erhu, uno strumento musicale a due corde che risale a 1400 anni fa, e la gondola veneziana con il rosso della Cina e il verde della nostra bandiera su uno sfondo blu. L’Erhu ricorda il profilo di un martello sia pure filiforme, la gondola quello di una falce anch’essa stilizzata; per noi è come se i due simboli di un’ideologia aggressiva siano trasmutati prodigiosamente nei segni delicati e pacifici intrecciati per esprimere la condivisione della cultura.
Tante finestre sulla Cina nei suoi aspetti tradizionali e in quelli moderni, dalla musica al teatro, dagli spettacoli popolari a quelli colti, dall’architettura al design, dalla fotografia alla culinaria; e poi scienza e tecnologia, energia e ambiente, educazione e infine turismo dove tutto può confluire. La “fabbrica del mondo” per le produzioni manifatturiere dimostra di saper produrre anche cultura. E’ un mondo affascinante quanto lontano, per conoscerlo da vicino si pubblica da 38 anni “Mondo cinese”, Rivista quadrimestrale di studi sulla Cina Contemporanea, da quest’anno a cura della Fondazione Italia-Cina. Nel numero di giugno 2010, dal titolo “Le sfide della sostenibilità”, una serie di servizi di approfondimento, presentati da Cesare Romiti, ci fanno capire che anche in quel grande e misterioso paese crescono i fermenti per le sfide del mondo contemporaneo.
L’Anno culturale della Cina in Italia – un’altra occasione per capirne di più – è iniziato con un evento all’altezza: il 7 ottobre si è tenuto al Teatro dell’Opera di Roma il Concerto inaugurale dell’Orchestra filarmonica cinese, di oltre 100 elementi, definita dalla rivista Gramophone “una delle 10 orchestre più entusiasmanti del mondo”, diciamo solo che si è esibita in più di 30 paesi. Ha suonato musiche dei due versanti: per l’Occidente brani dal Barbiere di Siviglia, Turandot e Madama Butterfly, per l’Oriente citiamo tra gli altri La concubina ubriaca dell’opera di Pechino.
Nello stesso giorno è stato offerto l’antipasto della mostra “I due Imperi, l’Aquila e il Dragone”, già svoltasi a Pechino e al Palazzo Reale di Milano, che verrà allestita a Palazzo Venezia e inaugurata l’11 novembre. Per celebrare solennemente l’avvio dell’Anno della cultura cinese, il primo ministro cinese Wen Jabao e il ministro della cultura Cai Wu hanno presenziato all’esposizione alla Curia Julia nel Foro Romano di un numero limitato ma significativo di pezzi affiancati alle statue di Traiano e Caracalla: guerrieri di terracotta dell’imperatore Qin con i leoni dalle fauci spalancate posti a guardia dell’area sepolcrale e religiosa dell’antica Cina. E’ l’avanguardia del grosso dell’esposizione forte di 450 opere, alcune delle quali mai uscite dalla Cina perché considerate “tesori nazionali”: un’iniziativa di punta all’insegna del dialogo tra due culture coeve – entrambe risalenti al primo-secondo secolo avanti Cristo – i cui contatti si limitarono a degli scambi con le dinastie Qin e Han, tra il secondo e il quarto secolo, dato che viaggiatori e mercanti generalmente non superavano i confini dell’impero persiano.
A seguire, dall’8 al 10 ottobre, sempre a Roma, all’Auditorium del Parco della Musica c’è stata la “Festa dei Giovani”, inaugurata alla presenza del vice ministro dell’Educazione cinese Hao Ping: arte e musica, danza e teatro in un happening creativo e spettacolare: protagonisti trecento ragazzi dei due paesi, e i tanti giovani intervenuti. Infatti oltre alle esibizioni di musicisti e ballerini cinesi e italiani, ci sono state le dimostrazione di cultura e arte negli stand all’esterno dove i giovani cinesi e italiani hanno potuto incontrarsi e conoscersi, in uno scambio stimolante e fecondo.
Le iniziative in programma per l’Anno della cultura cinese in Italia
Abbiamo detto che si tratta dell’Anno culturale della Cina in Italia, e abbiamo parlato finora soltanto delle iniziative inaugurali dei primi tre giorni subito dopo la prima settimana di ottobre. Per novembre 2010 in evidenza il “Forum Innovazione Italia-Cina” a Roma, l’8 del mese, organizzato dai ministri di settore dei due paesi Wan Gang e Brunetta con la partecipazione di ben 250 studiosi cinesi e italiani: tra i temi previsti, scienza della vita ed e-govenment, efficienza energetica e design. A questo associamo l’iniziativa a Macerata, in data da definire tra aprile e ottobre 2011: Convegno sui servizi offerti da banche e società finanziarie alle piccole medie imprese, che attiene anch’essa a temi legati all’economia.
Tornando allo spettacolo dopo questa parentesi impegnativa, a novembre ci sarà il .mese di Promozione turistica cinese, nel quale è prevista l’esibizione dei “Monaci di Shao Lin, suonatori di musica tradizionale e artisti folcloristici” a Milano in Piazza Duomo il 17 novembre 2010 e a Firenze in Piazza della Signoria il 19 novembre.
Saltiamo al febbraio 2011 perché a Roma si celebrerà la festa della primavera cinese con il “Festival del capodanno Cinese”: una sarabanda di esibizioni, sfilate in costumi della tradizione e danze folcloristiche, carri e acrobati, danzatori nelle parti di draghi e leoni, scene di Gongfu.
Queste sono le principali evidenze segnalate, ma il calendario è fittissimo, proviamo a riassumerlo precisando che oltre Roma, che fa la parte del leone, sono previste iniziative anche a Venezia e Milano, Firenze e Siena.
Venezia parteciperà con cinque iniziative, tra cui la Mostra del Padiglione cinese alla 12^ Biennale di architettura, fino al 21 novembre 2010 e il Padiglione cinese alla 54^ Biennaledi Venezia il 6 novembre 2011; altre iniziative il Concerto dell’orchestra sinfonica Guangzhou il 29 novembre 2010 al teatro La Fenice e la Mostra retrospettiva del cinema cinese nel settembre 2011. A Treviso, al Museo Cassamarca, nell’ottobre 2011 la stimolante Mostra: Manchu, ultimo Impero.
Milano, oltre alla già citata Promozione turistica del 17 novembre 2010, organizzerà due mostre, nel marzo 2011: Design cinese alla Triennalee Disegni di animazione cinese a Gallarate, che attirano in modo particolare ripensando all’antica e popolare arte delle ombre cinesi; e una mostra nell’aprile 2011 di Artiste contemporanee cinesi. Saltando a Napoli, al Museo archeologico nazionale, troviamo la Mostra degli affreschi di Pompei e Xi’an, la data non è stata ancora fissata.
Per Firenze, dove è in programma lo stesso spettacolo per la Promozione turistica il 19 novembre 2010, in data da definire si svolgerà la Mostra sulle porcellane cinesi della famiglia Medici. Maceratadedica, a maggio 2011, una Mostra a Matteo Ricci, il celebre astronomo che si conquistò la considerazione dei cinesi e ha lasciato la sua testimonianza e documenti preziosi.
Abbiamo premesso che Roma fa la parte del leone con il maggior numero di iniziative. Oltre a quelle citate, le Pitture dei contadini cinesi del XX secolo; a fine settembre c’è stata la Promozione e presentazione turistica della provincia di Shanki; in ottobre, la Mostra fotografica dei progetti realizzati attraverso la collaborazione nella tutela ambientale Cina-Italia.
Saltando al febbraio 2011, due spettacoli travolgenti: la Danza folcloristica del leone e del drago per festeggiare il Capodanno cinese e il Balletto di Shangai, al Parco della musica nell’ambito del Festival internazionale di danza moderna. Ancora l’arte di Tersicore nell’Opera di danza eseguita dall’Accademia di Beijng con “Il canto dell’eterno rimpianto” e nel Balletto contemporaneo di Pechino al Festival di danza moderna di Tivoli. Altro spettacolo con la Jazz band cinese al Festival di Musica d’estate di Roma. Tutti per luglio 2011.
E dato che con il jazz siamo nella modernità, ecco la Mostra di architettura contemporanea cinese al Maxxi nel settembre 2011. Chiudiamo con la citazione dei Francobolli dell’Anno della cultura cinese in Italia.
Saperne di più sulla Cina per saperne di più sul futuro dell’umanità
Si è pensato a tutto, e non poteva essere altrimenti. E’ un’occasione epocale per avvicinarci di più a un grande continente che al passato millenario aggiunge nel terzo millennio un ruolo sempre più determinante, anzi decisivo, nelle sorti dell’umanità.
E’ un paese che brucia le tappe nello sviluppo ponendosi ai primissimi posti nel mondo con i suoi tassi di crescita del 10 per cento all’anno, almeno cinque volte quello dei paesi europei; e mostra un’evoluzione anche nei campi ai quali sembrava refrattario, come la sensibilità ambientale e il sistema sociale.
Sotto il primo aspetto, dopo aver rifiutato in passato di sottoporsi a qualsivoglia restrizione, nel 2009 la Cina ha annunciato l’impegno a ridurre in dieci anni del 40-45% le “emissioni di carbonio per unità di Pil” rispetto al 2005; per il secondo aspetto, mentre fino al 1990 le imprese cinesi non avevano accantonamenti per la sicurezza sociale, sempre dal 2009 – evidentemente un anno di svolta – tutti i residenti di Pechino hanno la copertura assicurativa mentre la quota di popolazione assicurata è passata dal 22 all’87% dal 2003 al 2008 e un terzo degli ultrasessantenni residenti nelle aree urbane ha la pensione, mentre la spesa per il welfare è triplicata negli ultimi cinque anni.
Tutto a posto? Certamente no, le ombre non mancano, quelle sui diritti umani si sono stagliate nette con la dura reazione cinese all’assegnazione del Premio Nobel al dissidente Liu Xiaobo, incarcerato per la sua lunga battaglia non violenta volta ad affermarli; sul piano politico si ha l’opposto della liberalizzazione dell’economia, il partito unico resta chiuso in se stesso anche se si profilano due fazioni in una sorta di bipolarismo interno, e nel programma siano annunciati criteri meritocratici e competitivi in un inedito sforzo di trasparenza dinanzi all’opinione pubblica interna.
Ombre anche sui progressi che abbiamo segnalato: è incerto se l’impegno volontario a ridurre le emissioni sarà mantenuto, i rimborsi assicurativi delle spese mediche sono insufficienti e le malattie possono portare all’impoverimento, del resto questo avviene anche negli Usa, o almeno avveniva prima della riforma di Obama.
Le sperequazioni sociali si sono accentuate, ma i lavoratori cinesi hanno cominciato a scendere in piazza, e si è innescata la dialettica tipica dei paesi avanzati. Si fa strada a poco a poco l’esigenza di una crescita compatibile con l’ambiente, la scelta dell’economia di mercato appare comunque irreversibile ed ha portato alla zona di libero scambio con l’Associazione dei paesi del Sud est asiatico che sarà completata in due fasi, nel 2010 con i primi 6 e nel 2015 con gli altri 4: Asean e Cina insieme nell’Acfta di cui faranno parte due miliardi di persone potenziali consumatori.
Queste notizie le abbiamo ricavate scorrendo semplicemente la citata rivista ”Mondo cinese” dove sono esposte con analisi documentate le “Sfide della sostenibilità”. Per la cultura basterà seguire le iniziative dell’Anno culturale cinese in Italia che toccheranno la serie variegata di settori nei quali si esprime la tradizione e si manifesta l’innovazione. Sulla Cina ne sapremo dunque di più, e sarà importante perché vorrà dire mettersi in condizione di saperne di più anche sul futuro dell’umanità.
La nostra immersione nell’archeologia carceraria del penitenziario di Santo Stefano prosegue con un’immersione nella storia evocata dalle vicende dei reclusi nel carcere borbonico che dal Regno di Napoli e poi dal Regno delle due Sicilie viene adottato anche dal Regno d’Italia e dal regime fascista fino alla Repubblica italiana che negli anni ’60 ne decretò la chiusura.
Veduta frontale del carcere risalendo il sentiero dal lato anteriore.
La storia patria si intreccia con la vicenda carceraria
Fu da subito reclusorio per ergastolani, autori dei delitti più efferati, ma anche politici condannati all’ergastolo, nei tempi passati, soprattutto per commutazione della pena di morte. Non potevano sperare nella grazia che interveniva per i detenuti comuni dopo trent’anni di buona condotta, avendone già usufruito con la commutazione. Ma la loro speranza era nei rivolgimenti storici..
Già nel 1799, dopo i moti di Napoli, i primi detenuti politici si aggiunsero alla “parte marcia della società” che vi era rinchiusa, tra loro Giuseppe Settembrini, padre di Luigi Settembrini. Nel 1806, per resistere ai francesi, il re di Napoli accetta l’aiuto di Fra Diavolo che viene nominato generale e arruola i detenuti con la promessa della grazia, il suo tentativo fallisce e viene giustiziato; in quegli anni la stessa cosa avviene per Matteo Manodoro di Pietracamela, anche lui ritenuto bandito nella visione dei giacobini vicini ai francesi, patriota in quella di parte borbonica.
E siamo al 1848, dopo la sconfitta di Murat tornano i Borboni e si costituisce il Regno delle due Sicilie, nel 1817 viene riaperto il carcere di Santo Stefano. Nuovi moti a Napoli, le speranze dei liberali che si affidavano alla Costituzione vengono calpestate, Luigi Settembrini e Silvio Spaventa sottoposti a un processo-farsa, il primo arrestato il 23 giugno 1849 e accusato, come documenta in modo minuzioso lui stesso, di essere capo settario, autore di un proclama e detentore di stampe vietate. L’assurda accusa può essere facilmente smontata ma nel processo del 16 settembre viene sostenuta dalla testimonianza altrettanto assurda – strappata con “stolte e crudeli sevizie” ai compagni di detenzione – che Settembrini aveva ordito in carcere un complotto con una setta rivoluzionaria per uccidere un ministro, il prefetto e il presidente della Corte.
Risultato: condanna a morte, e dopo i drammatici “tre giorni in cappella” – la cella della morte dell’epoca in attesa dell’esecuzione da un momento all’altro – ecco la commutazione delle pena per grazia reale nel carcere a vita al penitenziario di Santo Stefano per intervento del cardinale Cosenza, arcivescovo di Capua, su preghiera della moglie Giulia rivoltasi al vescovo di Caserta.
Un bel salto nella storia ci porta alla reclusione degli anarchici che dopo diversi attentati andati a vuoto riescono ad assassinare Umberto I con i colpi di pistola di Bresci. mandato all’ergastolo di Santo Stefano e dopo quattro mesi trovato impiccato in cella nonostante l’avancorpo militare incaricato di vigilarlo a vista: più che un suicidio forse fu un’esecuzione, ne abbiamo viste simulate in forme analoghe anche nei tempi moderni. Il suo corpo fu seppellito nel piccolo cimitero.
Altro capitolo la detenzione politica degli antifascisti nel ventennio dopo che fu dato alle commissioni provinciali il potere di punire i reati di opinione con diversi gradi di sanzioni, dalla semilibertà al confino nelle isole, dalla sorveglianza speciale al carcere a Porto Longone e Fossombrone,Volterra e Santo Stefano: in questi casi nessun lavoro esterno, cella e ora d’aria con in più misure speciali di isolamento per impedire i contatti: dopo tre anni di segregazione se c’era il ravvedimento si passava alla semilibertà, altrimenti reclusione per altri tre anni
Così a Santo Stefano, oltre ai patrioti del Risorgimento sono stati segregati anche quelli definiti sovversivi nel regime fascista, tra loro Amendola e Pertini il quale ultimo vi soggiornò poco, fu spostato ad altre carceri, tra condanne ed evasioni in Italia, Francia e Svizzera: c’è una lapide all’ingresso del penitenziario che ne ricorda la detenzione nell’isola nel 1929 per tre mesi , cella 36 terzo livello. Anche Terracini, presidente della Costituente, e Scoccimarro, vi furono detenuti.
Alla fine della guerra l’ingresso degli alleati che liberano i detenuti politici, non quelli comuni che fanno una rivolta con a capo Mariani nel novembre 1943, prendono ostaggi 64 agenti di custodia.
Poi nella storia del carcere non più politici ma solo detenuti comuni e il grande esperimento umanitario di Perucatti imperniato su fiducia e rispetto, lavoro per tutti, incontri con le famiglie prolungati per intere ventiquattr’ore, tutela dei carcerati anche rispetto agli stessi agenti di custodia oltre alle strutture ricreative di cui si è detto nella I parte, per la socializzazione e il recupero..
La vita dei detenuti, la memoria diviene storia
Sulle condizioni dei detenuti per il primo periodo della sua storia, quello del Regno di Napoli e poi delle due Sicilie, c’è il diario particolareggiato di Luigi Settembrini a descriverla dall’interno come partecipe di quella sofferenza estrema e insieme osservatore, tanto si sentiva estraneo a una punizione così atroce che molti condannati pluriomicidi sentivano come dovuta e anche meritata.
Una visione dell’anfiteatro carcerario
Il suo racconto è impressionante, riguarda tanti momenti e situazioni. Tutto è sentito come oppressione, anche “il cielo che è terminato dalle alte mura dell’ergastolo, e che come un immenso coverchio di bronzo ricopre il tristo edifizio e ti pesa sull’anima. Se passa volando qualche uccello, oh come lo riguardi con invidia, e lo segui col pensiero e con la speranza stanca, e con esso voli alla tua patria, alla tua famiglia, ai tuoi cari, ai tuoi giorni di gioia e di amore che sempre ti tornano in mente per sempre tormentarti”. E’ solo un piccolo scampolo di miriadi di espressioni altrettanto toccanti, nelle quali non c’è nulla di stantio, è il reportage spontaneo e genuino dall’interno di una realtà nella quale le reazioni non sono scontate, è un terribile esperienza che sorprende anche lui.
A cominciare dalla minuziosa descrizione dei diversi tipi di condanna, se ai ferri o all’ergastolo, indica anche il numero di maglie della catena e la palla di ferro o il puntale legato agli anelli o alle sbarre. La promiscuità è insopportabile, si è a stretto contatto con gente di ogni risma: oltre al compagno di cella di cui abbiamo detto all’inizio, in fondo incolpevole del delitto commesso dal padrone e dai suoi sgherri, c’erano dei veri assassini. Si formavano dei clan spesso di matrice regionale e rischiava anche l’inoffensivo appartenente alla regione di cui ci si voleva vendicare. Misure di afflizione corporale erano previste con fustigazione sotto gli occhi dei reclusi, ma non servivano da monito per tutti, al contrario facevano gioire la fazione avversa al fustigato.
“Ma neppure puoi star molto su questa loggia ingombra di masserizie e di uomini che ti urtano, gridano, vantano, bestemmiano, accendono fuoco, fendono legne: e poi nel cortile non vedi che condannati trascinare penosamente le sonanti catene, spesso vedi lo scanno sul quale si danno le battiture, spesso la barella con entro cadaveri di uccisi. il vento ti molesta, il sole ti brucia, la pioggia ti contrista, tutto che vedi o che odi ti addolora, e devi ritirarti nella cella”.
Dalla padella alla brace, potremmo dire, perché nello spazio di “sedici palmi quadrati, e ce ne ha di più strette”, vi sono nove, dieci e più reclusi: “Sono nere e affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo e sozzo”. E qui la minuta descrizione dei “letti squallidi, coperti di cenci” con un piccolo spazio residuo e le pareti nere dove sono affastellate le “povere e sudice masserizie; una seggiola è arnese raro, un tavolino rarissimo, è vietato ogni arnese di ferro” e così via, tutto è indicato con precisione in un’atmosfera da tregenda: “pochi fanno comunanza, perché il delitto li rende cupi e solitari: spesso ciascuno accende il suo fuoco, onde esce un fumo densissimo che ingombra tutta la cella e le vicine, ti spreme le lagrime, ti fa uscire disperatamente su la loggia, dove trovi altre fornacette accese che fumano, ed invano cerchi un luogo non contristato dal fumo, che esce dalle porte, dalle finestre, da ogni parte”. E non è tutto: “Qui si vive a discrezione de’ venti e del mare, divisi dall’universo, e soffrendo tutti i dolori che l’universo racchiude”.
Questo per le condizioni materiali, e quelle psicologiche? Anche peggiori, tra urla e grida “che fieramente echeggiano nel silenzio della notte, come ruggiti di belve chiuse”, gemiti e strida con i cadaveri nelle barelle. Fino all’agghiacciante conclusione: “Quando stanco d’ozio, d’inerzia e di noia cerchi un po’ di riposo e di solitudine sul duro e strettissimo letto, mentre dimenticando per poco gli orrori del luogo corri dolcemente col pensiero alla tua donna, ai tuoi figlioletti, al padre, alla madre, ai fratelli, alle persone care all’anima tua, senti il fetido respiro dell’assassino che ti dorme accanto, e sognando rutta e bestemmia”. L’unica salvezza é nella fede: “O mio Dio,quante volte ti ho invocato in quelle ore di angosce inesplicabili; quante notti con gli occhi aperti nel buio io ho vegliato sino a giorno fra pensieri tanto crudeli, che io stesso ora mi spavento a ricordarli”.
Presto interviene la comprensione per i delinquenti e gli assassini con cui deve forzatamente convivere, perché “non sanno quello che fanno” si potrebbe dire, non sono responsabili di azioni frutto dell’ignoranza e della degradazione che sono colpe gravi di chi li ha tenuti in quelle condizioni: “Quando entrai nell’ergastolo gli uomini che qui sono mi facevano orrore, dopo alquanti giorni mi fecero pietà. Sono scellerati, sì, ma perché sono scellerati? Ma essi solo sono scellerati?”
E rivolgendosi a coloro che fanno le leggi e giudicano gli uomini chiede: “Prima che costoro fossero caduti nel delitto, che avete fatto voi per essi? avete voi educata la loro fanciullezza, e consigliata la loro gioventù? avete sollevato la loro miseria? li avete educati col lavoro? avete voi insegnato ad essi i doveri del loro stato? avete loro spiegato le leggi?”. Fino ad esclamare: “Non dite che alcuni uomini non possono correggersi: ma voi li avete prima educati, avete fatto nulla per impedire i delitti? E dopo i delitti avete tentato alcun mezzo per correggerli? Pane e lavoro sono gli elementi di ogni educazione, i mezzi per domare ogni durezza, per mansuefare ogni fierezza”.
Una lezione di alta civiltà raccolta da Perucatti che vi imperniò l’intero suo sistema carcerario, valida tuttora che l’abbiamo vista riemergere come un reperto prezioso dall’archeologia carceraria.
L’altra grande sofferenza morale è quella della lontananza dai propri cari, per di più in una segregazione senza speranza. Anche qui si nota un’evoluzione quanto mai eloquente, con il tempo lo spirito di sopravvivenza prevale sulla disperazione, pur in un carcere così oppressivo trova il modo di trasmettere e ricevere messaggi segreti dalla moglie, lettere con inchiostro simpatico ed altri accorgimenti, fino alla progettazione di un’evasione mancata a cura del fuoruscito Panizzi.
Torneremo al termine sulla vicenda romanzesca che a un certo punto gli apre le porte della libertà. Ora vorremmo sottolineare che la sofferenza morale la supera nel trasmettere sentimenti in cui l’affetto è un balsamo per le ferite morali nello stesso tempo in cui è una ferita esso stesso.
Una struttura accessoria
L’assenza dei propri cari la sente come un dolore lancinante, si rivolge a loro con toni toccanti nel diario e nelle lettere, percorrono l’intera sua vicenda carceraria, sono innumerevoli le espressioni d’amore per moglie e figli negli otto anni di detenzione. Ne riportiamo soltanto una del 17 aprile 1854, dopo i primi quattro lunghi anni da recluso a Santo Stefano: “Ho baciato il tuo ritratto, o mia diletta, ma l’ho baciato segretamente. Gli uomini tra cui sono, se m’avessero veduto m’avrebbero deriso, perché non conoscono la virtù e l’amore. Che nuovo tormento è questo di dover tenere celato come delitto il più sacro, il più casto degli affetti? Ho baciato il tuo ritratto, ho riveduto gli occhi tuoi, ma non sono dessi, non hanno quella luce e quell’amore. Gli occhi tuoi li ho qui nell’anima mia, e qui scintillano come due stelle, e mi spandono una luce soave per tutta l’anima”.
Con il Regno d’Italia le condizioni migliorano, si dimezza la dimensione delle celle e in ognuna un solo recluso, i detenuti sono ammessi a lavorare nel carcere. Dalla promiscuità che generava incidenti anche mortali all’isolamento il miglioramento c’è, pur se si diffonde la depressione.
Il piccolo cimitero del carcere
Questa esperienza si protrasse per alcuni anni, tra contrasti e polemiche di ogni tipo dall’esterno, senza che vi fosse neppure il pieno sostegno del personale di custodia che non aveva più la licenza di comportarsi con la durezza di sempre verso i detenuti. Per cui la prima evasione dell’agosto 1956 gli fu addebitata anche se riuscì a superare la crisi, avvenne dal settore lavorazioni, per quindici giorni ricerche infruttuose a Ventotene dove il fuggiasco era approdato a nuoto nascondendosi tra gli scogli, poi l’arresto mentre cercava di lasciare l’sola su un’imbarcazione. Ma Perucatti non superò la seconda evasione dopo due anni, quando i due detenuti evasi non furono ritrovati, anche se si pensa che forse morirono annegati nel tentativo. Il nuovo direttore reintrodusse le severe misure di massima sicurezza ma dinanzi a un carcere ingestibile dovette incentivare la buona condotta: “Il carcere è cambiato, non si torna più indietro”, commenta la guida Salvatore.
La chiusura comincerà nel 1962 e sarà lunga fino all’accelerazione che avvenne alla morte di tre detenuti impegnati a scaricare la merce nell’approdo più periglioso dell’isola; nel 1965 era già semivuota, a parte pochi detenuti per le operazioni di chiusura completate solo nel 1975.
Il carcere fu lasciato incustodito, con l’arrembaggio dei soliti vandali per sottrarre quanto ritenuto utile, le porte furono divelte. Ha bruciato le tappe nel subire la sorte comune ai reperti archeologici, risultati di spoliazioni che nelle antichità hanno riguardato gli stessi materiali da costruzione.
Chiuso e di fatto abbandonato, salvo le visite guidate che ne mostrano al pubblico la deplorevole fatiscenza e rivelano anche per questo verso la scarsa cura che si ha per tutto quanto è storia da rispettare, almeno attraverso un’efficace manutenzione e custodia, e memoria da valorizzare.
Il lato posteriore del carcere
Da Santo Stefano a Ventotene, tra la storia e la natura
La nostra guida Salvatore ha le sue idee in proposito, e le abbiamo riportate all’inizio. Ci auguriamo che qualche idea l’abbia anche chi può porre rimedio a una situazione paradossale: si mostra doverosamente a tutti un pezzo di storia patria e nel fare questo si scopre la scarsità di risorse destinate ai beni culturali e l’assenza di iniziative che possano convogliarvi risorse esterne.
Scendiamo il ripido sentiero verso un approdo diverso da quello dal quale siamo sbarcati con il gommone della barca “Luna” del nostro amico Ciro: questo attracco è più scosceso e periglioso. Ci troviamo ora sull’imbarcazione a motore che si lascia alle spalle Santo Stefano e punta su Ventotene. Al timone Francesco detto Spadino in una fiammante maglietta rossa, a lui ci affida Salvatore che dopo due ore di spiegazioni mantiene tutta la cortesia mostrata nella mattinata.
Ci sembra di rivedere la scena con cui si apre il film di D’Alatri“Sul mare”girato proprio a Ventotene, del quale abbiamo parlato nel servizio del 24 luglio scorso sulla rivista consorella www.amalarte.it. Il motoscafo divora le onde, il porto romano si avvicina. Siamo tornati nell’isola principale, in passato terra di confino per centinaia di perseguitati politici. Il continente è ancora lontano ma non sentiamo il bisogno di tornarci, tanto è bella la natura da queste parti.
E poi si respira la storia ed è un tonico potente, anche nel caldo mese di agosto quando si cerca soprattutto riposo e disimpegno. Ma allorché alla bellezza della natura si aggiunge la suggestione della memoria si può dire di aver fatto il pieno di emozioni. E allora non ci resta che andare nella piazza principale di Ventotene alla libreria “Ultima spiaggia” per prendere il libro di Luigi Settembrini,“L’ergastolo di Santo Stefano”: è la lettura dei giorni che hanno lasciato il segno.
Il sentiero percorso in discesa nel lasciare il carcere dal lato posteriore
Spes contra spem
Questa lettura ci permette di non chiudere la nostra descrizione dell’archeologia carceraria nel segno della reclusione senza speranza, bensì della riacquisita libertà. Che non è stata quella effimera dei detenuti fuggiti alla “Papillon” e poi ripresi oppure scomparsi, ma una libertà vera che venne dal non essersi lasciato piegare dall’inedia cui condannavano i reclusi avendo mantenuto la mente vigile e lo spirito attivo non solo nella traduzione dal greco dei “Dialoghi” di Luciano, pur disponendo soltanto di un minuscolo dizionarietto, ma anche nel descrivere impietosamente le condizioni inumane del carcere e nel tentare, riuscendovi, di trasmettere all’esterno il suo diario insieme alle lettere colme di sentimenti per la propria famiglia, in particolare la moglie e il figlio.
Nelle lettere c’è l’organizzazione del tentativo di fuga cui abbiamo accennato con l’amico Panizzi fuoruscito a Londra dove si era occupato del figlio Raffaele, avviato tra incertezze e contrasti alla carriera di ufficiale di marina; un tentativo al quale il soggiorno nell’infermeria di Santo Stefano forniva punti di riferimento perché poteva vedere il mare e quindi l’eventuale “vapore” liberatore.
Ma soprattutto il suo diario generò un movimento di opinione all’estero contro le condizioni inumane di vita dei reclusi politici, per cui le pressioni di governi quale quello inglese indussero il sovrano a commutare la pena nell’esilio in Argentina per le nozze del figlio Francesco, l’erede.
Si protrasse per due anni questo tira e molla in un’alternanza di speranze e delusioni e anche tra i problemi sollevati dalla compatibilità dell’esilio con le convinzioni politiche: lui non ha dubbi, sarebbe poi ritornato. Finché si imbarca con gli altri esiliati sul vapore che fa scalo a Cadice dove resta a lungo in attesa della nave americana dove avrebbe fatto la seconda parte del viaggio, si parla di almeno 60 giorni di navigazione che era arduo superare nelle condizioni in cui si svolgevano.
Qui la realtà romanzesca prende corpo in una inattesa visita sulla nave di Raffaele nell’elegante divisa da ufficiale di marina: dice di aver saputo per una provvidenziale coincidenza che incrociava nello stesso porto il vapore dei deportati in Argentina ed era venuto a salutare il padre. Sarebbe già molto dopo la reclusione a Santo Stefano, ma è solo l’inizio. Perché non è il caso che lo ha portato a Cadice, e non si trova più sul veliero dal quale era sceso per far visita al genitore allorché salpa sotto lo sguardo triste di Luigi Settembrini che lo vede partire senza sapere quando rivedrà il figlio.
Se lo ritrova tra le braccia appena la nave che lo porterà in Argentina lascia Cadice, e non più come visitatore, ma come finto cameriere che si è fatto assumere con l’intento di dirottarla. E lo fa con determinazione e abilità, usa argomenti molto convincenti non escluso il ricorso alla forza se necessario. Il comandante deve cedere, la nave invece che in Argentina approda in Inghilterra, la terra della libertà. Lui vi si ferma un anno prima di rientrare in patria, la sua odissea è terminata con un dirottamento che anticipa quelli vissuti negli anni recenti, ma allora con alte finalità morali.
Dove nel crocevia di motivazioni generali e personali, politiche e sentimentali, in cui si incrociano i valori etici di libertà con i più puri affetti familiari, la storia di Luigi Settembrini riesce a produrre un capolavoro letterario di umanità e insieme di giustizia in un “happy end” esaltante.
E abbiamo voluto che fosse pure l’“happy end” della nostra visita. Anche da un penitenziario così arcigno e protetto il recluso ingiustamente può trovare la forza e i mezzi per uscire. Il vecchio film francese di Robert Bresson, “Un condannato a morte è fuggito”, lo esprimeva attraverso la ricerca spasmodica senza speranza ma poi coronata dal successo con l’apertura della breccia nella cella impenetrabile; in Settembrini la chiave è stata la forza morale nella resistenza e nella denuncia, con l’aiuto della cultura alla quale non ha rinunciato mai, dai “Dialoghi” di Luciano al diario della vita carceraria nel quale sfogava indignazione e sofferenza, e si rifugiava nei ricordi familiari.
Un insegnamento per tutti. E una conferma, che ci viene dall’immersione nell’archeologia carceraria, della validità del motto che invita a non disperare mai: “Spes contra spem”.
Ph. Romano Maria Levante, tutte.
Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 8 ottobre 2010 – Email levante@archart.it
Con la ripresa dopo la pausa estiva dei “giovedì di Santa Marta” – gli incontri letterari settimanali al Collegio romano promossi dal ministro per i Beni e le Attività Culturali Sandro Bondi ai quali ci siamo ispirati per i nostri 20 incontri archeologici settimanali dal febbraio scorso – riprendono anche i “venerdì di Archeorivista”, che raccontano visite a siti e musei archeologici o temi assimilabili.
Ieri giovedì 30 settembre nella Sala Convegni dell’ex chiesa di Santa Marta in piazza del Collegio Romano è stata presentata la rivista trimestrale “Accademie e biblioteche d’Italia” con un affollato incontro coordinato dal Direttore generale per le Biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Maurizio Fallace. E’ stata una vera celebrazione del libro, con le appassionate letture di Manzoni da parte di Pamela Villoresi e di Calvino da parte di Mattia Ruspoli Sbragia e la poetica esaltazione della bellezza del libro e della lettura del Consigliere del Ministro Giuseppe Benelli. Ma ecco la sorpresa, il “giovedì di Santa Marta” si è concluso con una visita alla cripta dell’antica chiesa, guidata dall’archeologa Angela Maria Ferroni che ne ha inquadrato le origini nella storia di Campo Marzio e ha mostrato, in un percorso che si è snodato tra antichi ambienti a volta, il pavimento romano alla profondità di cinque metri. Abbiamo preso questa coincidenza ipogeica, del tutto inattesa in una presentazione di libri, non solo come un segno beneaugurante ma come un gemellaggio ideale con la nostra iniziativa parallela.
Tornando a noi, riprendiamo i racconti delle visite agli ipogei anche virtuali con l’archeologia carceraria, uno scavo nella storia della nostra umanità se è vero che dalle carceri si misura la civiltà di un popolo. E imperniamo il nostro racconto su un libro, coincidenza fortuita anche questa, che dà al gemellaggio ideale appena evocato un rapporto biunivoco, non ricercato ma determinatosi nella realtà. Detto questo, chiamare teatro il penitenziario di Santo Stefano – che possiamo definire “l’Alcatraz italiano” – non è solo metafora: lo vedremo dall’architettura e soprattutto dalla condizione carceraria.
Visione di una parte dell’anfiteatro carcerario
L’archeologia carceraria è storia da rispettare e memoria da valorizzare
Luigi Settembrini, che vi fu rinchiuso per otto anni, scrive che quando vi entrò tra i suoi cinque compagni di cella c’era “un abruzzese di un villaggio presso Teramo, e chiamasi Giovanni”, condannato per complicità in undici omicidi, compiuti dal “signore suo padrone” e dai suoi sgherri, aveva solo bussato alla porta eseguendo l’ordine ricevuto, un superstite dell’eccidio lo denunciò e lui fece i nomi dei colpevoli: sei di loro e il padrone impiccati, “egli con altri dannato all’ergastolo, dove è giunto da pochi mesi”. Questa “ouverture” ci introduce al “teatro” di Santo Stefano.
Ha la forma e la struttura di un vero teatro, la sua planimetria rimpicciolita è perfettamente sovrapponibile a quella del San Carlo di Napoli. I tre ordini di palchi diventano celle poste a semicerchio nella concezione “panottica” tipica del teatro, che assicura visione totale della scena da ogni punto.
Ma mentre nel teatro la scena è al centro dove convergono gli sguardi dai palchi tutt’intorno, nel carcere è l’opposto, gli sguardi delle sentinelle poste al centro devono potersi diramare verso le celle, tutte sotto continua sorveglianza. Al motivo funzionale di praticità ed efficacia per la vigilanza se ne aggiungeva uno quasi subliminale nella concezione di quell’epoca che per recuperare i detenuti occorreva che le loro menti fossero dominate, e questa struttura lo consentiva; ci volle il direttore Perucatti, del quale parleremo, per sovvertire questi concetti.
Il genio italico ha anticipato il trattato che nel 1791 uscì in Inghilterra sulla concezione “panottica” a visione totale del carcere: la progettazione fu dei due principali tecnici dei Borboni, Francesco Caffi ingegnere con Antonio Winspeare maggiore del genio, che avevano partecipato al progetto urbanistico di Ventotene, per il porto, le rampe di accesso e la strada fino al Forte. Il progetto, iniziato nel 1786, si concluse nel 1790 con la costruzione durata 7 anni; nel 1797 fu inaugurato ufficialmente, ma l’utilizzazione iniziò subito con la manodopera carceraria impegnata nei lavori.
Queste sono le prime notizie che ci dà la nostra guida, Salvatore Schiano di Colella, in una visita di due ore che diventa una carrellata su quasi due secoli di storia patria, il carcere è stato chiuso negli anni sessanta dopo le evasioni degli ultimi anni degne di Papillon utilizzate anche come pretesto per estromettere il direttore che aveva ispirato la sua gestione all’umanità e al dettato costituzionale.
E’ un vero viaggio nel tempo dove la storia si collega alla sociologia, la politica al costume, nelle parole della guida dalle quali traspare partecipazione personale e, perché no, affetto per quel pezzo di storia d’Italia che mostra anche – questo l’esordio di Salvatore – come “da un ordine e una pulizia estrema si può passare a un disordine e un degrado altrettanto estremi”.
Ci sentiamo di fare una denuncia e insieme un appello: come viene rispettata e valorizzata l’archeologia industriale – il “Lingotto” di Torino è solo il più evidente di una miriade di esempi – così non si giustifica il colpevole abbandono dell’archeologia carceraria, una struttura che oltre al doveroso rispetto per la storia in essa racchiusa è meritevole, oltre che suscettibile, di valorizzazione sul piano culturale, come altre strutture dismesse, da Procida all’Asinara che non vanno abbandonate, e non si accampi la solita scusante della carenza di risorse adeguate. Con le sponsorizzazioni potrebbero affluire in modo adeguato, basta uscire dall’inerzia e produrre idee costruttive; crediamo che non tarderebbero risposte in grado di tradursi in iniziative concrete o di proporre altre soluzioni.
Per Santo Stefano, alla guida Salvatore le idee non mancano e lo dice senza esitazioni pressappoco così: “Potrebbe divenire un grande museo sull’evoluzione dei diritti umani. In aggiunta potrebbero esservi ospitati laboratori di ricerca, la piccola isola è una riserva naturale dove si possono rivitalizzare le colture. Una foresteria per ricercatori e personale e anche un piccolo albergo dov’era la residenza del direttore sono ulteriori componenti di questa o di altre idee per utilizzare una così grande struttura carica di storia che va salvata dal degrado”.
Ci espone queste idee al termine della visita, mentre con una accorta regia mostra grandi fotografie di quando il penitenziario era in attività, veramente “ordine e pulizia estrema” almeno esteriore, muri bianchi con le arcate in vista e la disposizione degli altri blocchi oltre al ferro di cavallo del carcere simili a quelle residenze coloniali viste in molti film di ambiente esotico.
E non abbiamo ancora parlato dello spettacolo incantevole che si gode dello sperone su cui si vede “grandeggiare l’ergastolo, che per la sua figura quasi circolare sembra da lungi un’immensa forma di cacio posta su l’erba”, scriveva Luigi Settembrini raccontando minuziosamente il suo approdo nel 1851: ”Per iscendere sull’isola si deve saltare su uno scoglio coperto d’alga e sdrucciolevole. Cominciando a salire per una stradetta erta e scabrosa”.
Segue la descrizione di un’isola che non c’è più, non soltanto nel negativo del penitenziario ora chiuso e in rovina, ma neppure nel positivo delle coltivazioni, tornata com’è allo stato di abbandono preesistente al carcere: “Sino a pochi anni addietro l’isola era tutta selvaggia ed aspra; ora è coltivata, tranne una ghirlanda intorno, dove tra gli sterpi e le erbacce pascono le capre pendenti dalle rocce, sotto di cui si rompe il mare e spumeggia. Su la parte più larga e piana del monte sorge l’ergastolo”, scrive sempre Settembrini.
Avevano diversi approdi – dice la guida Salvatore – il Marinella per i velieri e le barche che portavano merci, e il n. 4 per i detenuti e persone con merci alla rinfusa. Poi tre di emergenza, un porticciolo non agibile, la “vasca azzurra” nella roccia vulcanica, l’“approdo del burrone”.
Uno scorcio ravvicinato dell’anfiteatro
L’arrivo nel penitenziario
Ci guardiamo intorno, cerchiamo di immedesimarci nell’arrivo dei condannati, la scena che si presentava loro è la stessa a parte il colore del muro, oggi annerito: “Il gran muro esterno dipinto di bianco e senza finestre, è sparso ordinatamente di macchiette nere, che sono buchi a guisa di strettissime feritoie, che danno luogo solo al trapasso dell’aria”.
Il condannato non poteva godere dello spettacolo della natura, e noi che abbiamo di fronte la bellezza del mare e la nera sagoma del penitenziario possiamo apprezzare le parole di Settembrini: “Non si può dire che tumulto d’affetti sente il condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che non dovrà più rivedere; con che frequenza respira e beve per l’ultima volta quell’aria pura; con che desiderio cerca di suggellarsi nella mente l’immagine degli oggetti che gli sono intorno”.
Quindi la descrizione degli edifici dopo la “terribile porta”: un casolare sulle rovine della Villa Giulia di Santo Stefano, dependance della grande Villa Giulia che a Ventotene divenne quasi un carcere a sua volta, o meglio un luogo di espiazione per le imperatrici cadute in disgrazia in un vero paradiso della natura; un recinto con le croci del “cimitero dei condannati”; la “casetta del tavernaio divenuto coltivatore dell’isola”; e poi, “un edificio quadrangolare sta innanzi l’ergastolo, e ad esso è unito dal lato posteriore”.
Due torrette agli angoli, cinque finestre e la porta di ingresso con la sentinella, dove non c’è scritto “perdete ogni speranza o voi che entrate”, non sono degni neppure di questo, ci si rivolge alla società affermando che “finché la santa Legge tiene tanti scellerati in catene, sta sicuro lo Stato e la proprietà”, e lo si fa in latino: “Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis vincta tenet, stat res, stat tibi tuta domus”. Commenta amaramente Settembrini: “Parole non lette o non capite dai più che entrano, ma che stringono il cuore del condannato politico e lo avvertono che entra in un luogo di dolore eterno, fra gente perduta, alla quale egli viene assimilato. Bisogna avere gran fede in Dio e nella virtù per non disperarsi”.
Le singole arcate con le celle
Poi un cortile quadrilatero circondato dalle abitazioni dei sorveglianti, con magazzino, forno e taverna: Settembrini descrive il personale, oltre al comandante, ufficiale di marina e al suo aiutante detto “comite”, “pochi caporali, e bastevol numero di aguzzini; un altro ufficiale comanda un drappello di soldati, i quali guardano l’esterno. Vi sono anche due preti, due medici,un chirurgo e tre loro aiutanti; v’è il provveditore e il tavernaio”. Un microcosmo che si è profondamente modificato nel tempo, ma di cui è illuminante riscoprire la consistenza nella fase storica iniziale.
La descrizione dell’ingresso nel carcere si fa incalzante: gli “agozzini coi loro fieri ceffi” perquisiscono e tolgono la catena ai condannati all’ergastolo, la controllano ai condannati ai ferri, poi la registrazione e le prescrizioni del comandante “dopo averti biecamente squadrato da capo a piè”, se si violano “vi sono le battiture e la segreta”. Si attraversa un secondo androne, un custode apre il cancello sul ponte levatoio che fa superare il muro con la palizzata e il fossato, “varchi il ponte ed eccoti nell’ergastolo. Immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto, dipinto di giallo, con tre ordini di palchi formati da archi,che sono i tre piani delle celle dei condannati; immagina che in luogo del palcoscenico vi sia un gran muro… che nel mezzo di esso muro in alto sta una loggia coverta, che comunica con l’edificio esterno, e su la quale sta sempre una sentinella che guarda, e domina tutto in giro questo teatro; e più su in questa gran tela di muro sono molte feritoie volte ad ogni punto. Così avrai l’idea di questo vasto edificio”.
Abbiamo voluto descrivere l’impressione provata entrando nel complesso con le parole di Settembrini nelle quali l’ansia e l’angoscia non celano lo stupore. Lo stesso devono aver provato, pur se si sono aggiunte costruzioni e si sono modificati gli accessi, i detenuti delle epoche successive, in particolare i politici dinanzi all’iscrizione all’ingresso e alla spettacolare scenografia dell’anfiteatro carcerario di forma teatrale. In noi non c’è l’ansia e l’angoscia nell’entrare ma certamente lo stupore. Ansia e angoscia verranno dinanzi ai particolari della vita carceraria.
C’erano 99 celle, 33 per ognuno dei tre piani, tutte per gli ergastolani tranne metà delle celle del primo piano per “un centinaio di condannati ai ferri -scrive Settembrini – nell’altra metà del primo piano i più discoli, nel secondo i meno tristi, nel terzo quelli che han dato pruova di essere rassegnati”, il pensiero va alle tre cantiche dantesche. In alto “una loggia scoperta che gira innanzi tutte le celle”, invece dei trentatre archi di ciascuno dei due piani inferiori; nel terzo piano le undici ultime celle sono per l’infermeria “e queste sole invece di buchi esterni hanno finestrelle ferrate, dalle quali si può vedere un po’ di verde e la vicina Ventotene, hanno invetriate e pareti bianchi”.
Un paradiso che Settembrini dopo essere stato all’“inferno” poté sperimentare descrivendo in modo straordinario ciò che vedeva, fino a scrutare il mare in attesa del vapore che “deve il giorno prefisso comparire da Capo Circiello, accostarsi a Ventotene. Se viene da altra parte non possiamo vederlo”, questo nel progetto della fuga non avvenuta, la liberazione avverrà in modo altrettanto romanzesco.
E’ il momento di entrare nell’anfiteatro, all’interno dello spettacolare ferro di cavallo; prima occorre superare l’ingresso dov’era la recinzione con il ponte levatoio che veniva alzato un’ora prima del tramonto dando la sensazione del totale isolamento, “un’isola nell’isola”, la definisce Settembrini che aggiunge: “Quando è abbassato sempre aspetti e sempre speri, alzato non più aspetti né speri”.
Non è soltanto la prima impressione, se l’8 febbraio 1955, dopo quattro anni di reclusione, scriveva: “Oh come mi ha trasfigurato l’ergastolo! Alle pene fisiche mi sono già abituato: alle pene morali non mi abituerò giammai, soccomberò sì ma combatterò sempre, mi difenderò sempre il cuore, che è la mia rocca, la mia inespugnabile fortezza. Oh povera mente, povero cuore mio, quanti nemici assaltano l’uno e l’altra! Mi viene a piangere quando riguardo me stesso, e miro la mia mentale e morale . No, no, non mi vincerete: io combatterò sino all’ultimo , finché mi palpiterà il cuore. Oh tremendo ergastolo! Oh angoscioso ergastolo che mi squarci tutte le fibre della vita. Oh, mi si spezzasse il petto, e la finissi una volta per sempre!”. Disperazione che supera ogni qualvolta si ripresenta in un percorso psicologico e umano esemplare e illuminante.
In ogni cella erano rinchiusi da 6 a10 ergastolani, negli 11 metri quadrati e anche meno di superficie dovevano restarci per l’intera giornata, a parte l’ora d’aria nella quale potevano vedere soltanto il cielo e non l’esterno. Quindi le 99 celle contenevano 900-1000 detenuti che potevano cucinare all’interno della cella con le fornacette, la conseguenza era un denso fumo nero che la particolare struttura riversava tutto all’interno rendendo l’aria irrespirabile, ci torneremo.
La finestra con le sbarre si trovava sopra la porta e non c’era, quindi, circolazione d’aria. Soltanto una parte delle celle all’ultimo piano aveva l’apertura sull’altra parete, ma era in alto e a bocca di lupo per cui non si poteva vedere l’esterno; quelle dell’infermeria, con la vista sull’esterno verso Ventotene erano l’eccezione, e abbiamo detto che Settembrini vi soggiornò per un breve periodo.
L’evoluzione nel tempo del carcere per ergastolani
Regno di Napoli, poi delle due Sicilie, e Regno d’Italia, regime fascista e Repubblica italiana, la storia fa passi da gigante e il penitenziario di Santo Stefano non rimane fermo. Non solo nella struttura, con molte aggiunte e modifiche, ma soprattutto nel trattamento dei detenuti. E di questo vogliamo parlare mantenendo sullo sfondo i mutamenti epocali che si sono verificati nel tempo.
Padiglioni per la direzione e il personalee
L’interesse per l’isoletta, come per Ventotene, risale ai tentativi di colonizzare le isole pontine a cominciare da Ponza dove nel 1738 Carlo III insedia coloni per sottrarla allo Stato Pontificio; per Ventotene si tentò l’“esperimento Russeaux”, nel 1768 vi furono insediati 200 uomini e donne di malaffare secondo la teoria del “buon selvaggio”, ma fu dichiarato fallito dal vescovo di Gaeta nel 1771 perché “vivevano in nequizia” una “vita libertina”, sono rispediti a continuarla nei luoghi di origine. “Tre anni sono troppo pochi per un simile esperimento, e poi non è il vescovo il più adatto a giudicare”, così il commento di buon senso di Salvatore. Il sovrano non demorde, nel 1772 un Editto reale trasferisce a Ventotene contadini e pescatori di Napoli.
Ma torniamo a Santo Stefano, la decisione del 1786 di progettare un carcere per portarvi la “parte marcia della società” deriva anche dalla sua conformazione vulcanica con le coste scoscese, facile da controllare. La struttura “panottica” faceva il resto, con una torretta al centro dove c’è anche una cappellina. Nell’avancorpo gli ambienti per la guarnigione militare, la costruzione originale senza aggiunte è in rosa, vivevano in locali così ristretti che la condizione dei custodi non era molto diversa da quella dei detenuti. Già con il Regno delle due Sicilie si provvide ad ampliare alcune strutture per renderle meno invivibili.
Fu con il Regno d’Italia che si concessero maggiori spazi a tutti e le condizioni di vita divennero meno severe, gli agenti di custodia potevano anche recarsi a Ventotene, dove peraltro non c’erano particolari diversivi. Furono fatti numerosi lavori edili, che vengono descritti uno ad uno dalla guida Salvatore, ma si tratta di aggiunte e modifiche a
una struttura che resta la stessa. In particolare garitte per le sentinelle, prima c’era l’anomalia che i sorveglianti dovevano stare all’addiaccio mentre i detenuti erano al coperto in celle prima comuni poi dimezzate e singole.
Con la Repubblica italiana negli anni ’50 si compie un vero balzo in avanti, arriva un direttore così illuminato da fornire il carcere di servizi ricreativi che non c’erano neppure a Ventotene: una sala cinema, poi anche una sala Tv, un campo di calcio, fino alla pista per go kart. L’approvvigionamento di acqua con navi cisterna era così regolare e abbondante che paradossalmente da Ventotene ci si rivolgeva spesso a Santo Stefano.
Il campo di calcio realizzato dal direttore Perucatti
Una figura di direttore illuminato rischiara per un po’ l’immagine cupa del carcere, si chiamava Eugenio Perucatti, e le sue non erano iniziative estemporanee. Ne avremo la prova nella libreria “Ultima spiaggia” della piazza di Ventotene, che espone in una valigia di fibra, con libri rari d’epoca non in vendita, un vero trattato di 560 pagine edito dallo stesso Perucatti nel 1956 dal titolo di per sé eloquente “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”, che descrive analiticamente il suo “metodo”.
La valigia è alla sommità di una preziosa isola libraria con le memorie dei condannati al confino nell’isola, primo tra essi Altiero Spinelli e il suo “Manifesto di Ventotene” con Ernesto Rossi e altri; e anche con scritti sul carcere di Santo Stefano, in particolare quello dell’anarchico Alberto Marini e del patriota Luigi Settembrini, entrambi pubblicati meritoriamente nel 2009 e 2010 dalla libreria a cura dell’Editrice omonima “Ultima spiaggia”. C’è pure un voluminoso tomo su Gaetano Bresci, autore dell’attentato riuscito alla vita di Umberto I .
Abbiamo detto dei servizi ricreativi introdotti da Perucatti, e come abbiamo citato all’inizio il cartello ricordato da Luigi Settembrini non possiamo non citare quelli introdotti dal direttore umanitario. In progressione si incontrano le scritte “Questo è un luogo di Dolore”, poi “Questo è un luogo di Espiazione”, infine “Questo soprattutto è un luogo di Redenzione”. Finché si giunge a “Piazza della Redenzione”, c’erano anche immagini del Redentore e di san Giuseppe. “Ogni luogo e ogni tempo sono adatti ad adoperarsi nel bene” si legge, il carcere con Perucatti ha cambiato davvero pelle in omaggio al dettato costituzionale dell’articolo 27 che ne fa un mezzo per la rieducazione del condannato possibile pure in una struttura creata con l’impostazione opposta.
Salvatore si diffonde sulla questione della coltivazione dell’isola, dal 1832 per conto della Real Marina fino al 1931 allorché fu data in enfiteusi a due famiglie di contadini con la relativa casa colonica: si produceva per l’autoconsumo anche con il lavoro dei detenuti, la manodopera carceraria a basso costo rendeva economica la produzione; ora non é più così, già prima della definitiva chiusura del carcere i quasi 30 ettari dell’isola sono tornati incolti, destino del resto comune a tanta parte delle nostre campagne. Si parla di una richiesta di 22 milioni di euro, rimasta senza seguito, l’handicap è la mancanza di sorgenti d’acqua e anche un eventuale dissalatore richiederebbe di rifare il sistema idrico a costi proibitivi; quando l’isola era in attività sopperiva con una-due navi cisterna al giorno e con due grandi cisterne che raccoglievano l’acqua piovana.
La visita prosegue nelle strutture esterne all’anfiteatro, vediamo dov’era lo spaccio e dove le visite dei familiari, la chiesetta e la cupoletta. Si stringe il cuore nel vedere l’orto botanico divenuto un intrico di vegetazione selvaggia e il campo di calcio irriconoscibile per le erbacce che lo hanno invaso, si distingue per gli alti muri che lo circondano, immaginiamo avesse fatto la gioia dei detenuti. Poi il cimitero che guarda verso Ventotene, ci sono 47 tombe con le salme non richieste dalle famiglie, certo nel passato meno vicino non avveniva mai, spesso ai carcerati non restava nessuno e comunque la traslazione era difficile e costosa, anche Bresci sembra vi sia sepolto.
Ma non è questo il vero contenuto della visita. Come in ogni visita archeologica – e lo è anche l’approdo a Santo Stefano – ciò che conta è soprattutto quello che non si vede e si deve ricostruire, evocato dai resti in evidenza. Ebbene, c’è tanto da ricostruire ed evocare, in termini di storia patria e di umanità senza tempo e senza confini. Proseguiremo nel prossimo “venerdì di Archeorivista”.
Ph. Romano Maria Levante, tutte.
Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 2 ottobre 2010 – Email levante@archart.it