Alfredo De Poi, addio a una figura prestigiosa nell’arte, nell’impresa, nella politica

di Romano Maria Levante

Il cordoglio per l’improvvisa scomparsa di Alfredo De Poi, avvenuta il 18 agosto a meno di 65 anni nella sua abitazione perugina, non può limitarsi all’ambito della regione dove era presidente dell’Accademia delle Belle Arti “Piero Vannucci” di Perugia. Non solo perché l’Umbria è sentita come patria da tutti gli artisti e da coloro che amano veramente l’arte e la cultura, e la nostra rivista lo reca scritto addirittura nella testata; ma anche perché la vita professionale e la sostanza umana ne rivelano il percorso esemplare di artista e di uomo.

Alfredo De Poi

L’impegno nell’arte di Alfredo De Poi

Appare sintomatico che la morte lo abbia colto non solo intensamente impegnato nel tentativo, finora riuscito, di mantenere in vita l’Accademia delle Belle Arti minacciata di chiusura; ma anche con una mostra delle sue opere aperta a Ferriera di Torgiano, dal titolo “Topografia del Limite”, nello Spazio Arte dell’Associazione culturale Città del Futuro. Il presidente Marco Mandarini, ricordandolo con parole commosse, ha detto che “la passione civile e l’impegno culturale che metteva nella sua vita devono essere esempio per tutti soprattutto per le nuove generazioni”. Ma non ci sono soltanto la pittura e la scultura nella sua attività di artista; ci sono pure i suoi libri, i suoi scritti e le poesie, da “Macchie di Luce”, Ed. Volumnia, del lontano 1969, a “L’ultimo viaggio di Candido”, Umbria editrice, dieci anni dopo.

Un artista, quindi, direttamente impegnato che ha trovato l’approdo nella prestigiosa presidenza dell’Accademia dopo esserne diventato socio d’onore e poi socio di merito ed aver animato altre rilevanti iniziative nel campo della cultura, dal Centro internazionale di cooperazione culturale all’Umbriact, Associazione per l’Arte, la Cultura, il Teatro.

E’ stato anche tra i fondatori del Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali a Ravello. E per la cultura ci fermiamo qui, vi sono altri campi nei quali ha lasciato il segno: li esploriamo ripercorrendo le tappe della sua vita all’indietro nel senso cronologico, partendo dal punto di arrivo per tornare all’esordio.

Perché l’arte pressoché a tempo pieno è stato un approdo per lui, il porto forse lungamente desiderato, e questo può dare la consolazione che si ha dinanzi a qualcosa di appagante anche se purtroppo incompiuta.

Il manager e il politico con il cuore di artista

Non ha lasciato incompiuti gli altri molteplici impegni nei diversi campi in cui ha espresso le sue capacità. Lo troviamo dirigente industriale responsabile della divisione regionale di Telecom Italia e, prima, dirigente dell’Italstat vicino al presidente Bernabei con responsabilità nei rapporti internazionali. Perché pur nei suoi legami regionali, l’estero è stato sempre in primo piano in una visione dei problemi e delle soluzioni allargata alla dimensione che con il tempo tutti vedono ma Alfredo scoprì da subito e coltivò intensamente, anche nell’arte con il Centro internazionale di cooperazione culturale, e prima nel management e nella politica. Parliamo dei legami regionali, ebbene dal 1991 al 1999 è stato Presidente della Camera di Commercio di Perugia, una specie di ponte tra la vocazione imprenditoriale e la passione politica.

Il suo talento lo mette in vista giovanissimo, nel 1970, a soli 25 anni, è segretario nel Gruppo parlamentare della DC, poi l’escalation è molto rapida: entra nel Parlamento Europeo, e nel Consiglio d’Europa che prende molto sul serio trasferendosi a Lussemburgo; nel 1976 deputato al Parlamento italiano nella settima legislatura, confermato nel 1979. Nel 1983 torna sulla scena internazionale con l’importante presidenza dell’UEO, Unione Europea Occidentale, la speranza politica europeista rimasta in vita.

Lascia la politica attiva, la vocazione manageriale lo porta a seguire l’altra sua anima mentre continua ad alimentare il soffio di artista e l’interesse unito all’impegno di operatore culturale finché diventeranno prevalenti e poi pressoché esclusivi. Non è stato, dunque, un “professionista della politica”, anche se non diamo alcun significato negativo a questa qualifica, del resto le capacità e la sensibilità dimostrate su questo fronte le ritroviamo nelle iniziative successive, e così l’afflato sociale e lo spirito di solidarietà.

Mai è venuta meno la sua passione per l’arte, come artista e come operatore, e ha potuto mettere a frutto nel campo della cultura le competenze e le relazioni acquisite nelle altre due “vite”, fino ai suoi ultimi impegni esercitati con tenacia e determinazione per il salvataggio dell’Accademia delle Belle Arti di Perugia.

Abbiano pensato a lui nel leggere che Vàclav Havel, dopo essere stato per tredici anni l’amato presidente della Repubblica Ceca, è tornato a svolgere attività artistica e culturale, intanto come regista di un film. E ha detto: “Forse, se qualcuno mi ricorderà, sarà per i miei scritti. E magari per il mio film”- Il motivo? “Credo che i politici passino, gli uomini di cultura restino”.- E Alfredo De Poi è un uomo di cultura che ha voluto concludere nell’arte un “cursus honorum” prestigioso e ricco di soddisfazioni. Per questo resterà sempre.

I riconoscimenti generali, non rituali ma motivati

Ne danno atto in modo esplicito interlocutori di diverso e anche opposto orientamento, del resto le ideologie non sono state per lui un freno e tanto meno un ostacolo a rapporti a tutto campo pur in una regione dal colore forte ed egemone: c’è un cordoglio che non nasce dal rispetto rituale, ma da un’ammirazione sincera venata da costernazione per la perdita che si farà sentire nella regione e non solo.

Si deve dire che non si tratta soltanto di sentimenti, pur prevalenti, ma di preoccupazioni: intanto per le sorti dell’Accademia senza la sua sapiente opera che la manteneva in vita con un forte spirito manageriale. Traspaiono dalle parole del capogruppo regionale del PD Renato Locchi: “Alfredo non stava risparmiando energie nel portare avanti nel modo migliore anche il suo ultimo incarico, quello di guida dell’Accademia delle Belle Arti di Perugia. L’arte era da sempre una sua passione e all’antica istituzione della città era riuscito fin da subito ad infondere quel piglio dirigenziale necessario a scuoterla dopo anni di difficoltà”.

Piglio dirigenziale, la sua seconda vita trasfusa nella terza e anche le mediazioni e la tessitura della prima vita nella politica.

Così il prorettore dell’Università di Perugia, Antonio Pieretti, parla di lui: “Ha dato lustro a Perugia nei diversi incarichi pubblici che ha ricoperto nel corso degli anni. In particolare, da quando ha assunto la presidenza dell’Accademia, ha voluto stabilire rapporti non solo cordiali con il nostro Ateneo, ma relazioni di fattiva collaborazione tra Università e Accademia che presto avrebbero avuto sviluppi di evidente concretezza. Perugia e l’Umbria perdono un personaggio importante, capace di costruire progetti su idee forti e condivise”. Che fanno identità: progetto e identità sono i pilastri di una visione illuminata che persegue l’efficienza e l’efficacia ma non per qualunque contenuto bensì per valori persistenti e condivisi.

Maurizio Ronconi, con l’occhio del politico, vede qualcosa di più nel suo approccio e nel suo metodo di lavoro: “Alfredo ha sempre privilegiato lo scrupoloso approfondimento dei problemi, una grande sensibilità alla vicenda culturale della sua terra alla quale ha sempre manifestato attaccamento ed amore”. E non dimentichiamo che la sua storia personale proiettata nell’internazionalismo non dà un connotato provinciale a queste qualità, ma insegna come si possano coltivare con eguale forza le due visioni, sommandone i valori positivi, anche perché l’ambito locale è il più adatto al manifestarsi di uno spirito di vera solidarietà: “Per De Poi- è sempre Ronconi – l’impegno sociale era davvero un dovere ma mai esercitato in modo approssimativo e sciatto, sempre con discrezione, capacità e signorilità”.

Qualità che gli vengono riconosciute anche in altre dichiarazioni, come quelle di Renato Locchi che aggiunge a quanto sopra riportato: “Questo era il suo stile: sobrio, colto, generoso, con la capacità di andare al fondo dei problemi, senza mai scadere nel semplicismo”.

L’omaggio delle istituzioni alla sua personalità poliedrica e al suo impegno multiforme

Finora abbiamo citato i giudizi per il loro contenuto, non per la provenienza, ora non possiamo fare a meno di dare conto dell’omaggio delle istituzioni nel quale ugualmente sono banditi i toni rituali per il riconoscimento delle sue qualità personali e dell’impegno fattivo e appassionato in più direzioni.

Cominciamo dal sindaco di Perugia Wladimiro Boccali che lo ha definito “uno dei protagonisti della storia politica, economica e culturale della città, un personaggio pubblico dai molteplici interessi”, per poi ripercorrerne le meritorie attività svolte nella politica, nello sviluppo economico e nel sistema impresa; “come pure forte era la sua vocazione artistica che non ha mai trascurato e che ha avuto modo di esprimere anche nel suo recente incarico di presidente dell’Accademia di Belle Arti ‘Piero Vannucci’”.

Ai livelli successivi del governo locale, il presidente della provincia di Perugia Marco Vinicio Guasticchi ne ha sottolineato “il forte impegno sul fronte istituzionale e la sua dedizione all’arte”; e il presidente del Consiglio regionale Eros Brega nel parlare della sua scomparsa come di “una grave perdita per il mondo dell’imprenditoria e della cultura umbra” ne ha riassunto la figura con queste parole: ”Un politico lucido ed equilibrato, un artista appassionato, un attento esponente del mondo dell’associazionismo”.

Concludiamo questo excursus con il vertice regionale, la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini che dopo averlo definito “uno dei protagonisti più importanti di questi ultimi decenni nel mondo imprenditoriale, culturale ed economico”, ed averne ricordato i prestigiosi incarichi politici ed economici, come primo umbro eletto al Parlamento Europeo e presidente della Camera di Commercio di Perugia, conclude con l’ultimo suo incarico di presidente dell’Accademia delle Belle Arti perugina e ne sottolinea l’impegno profuso “operando per il riconoscimento pieno del suo valore e della sua storia”.

E poiché di impegno culturale si tratta, vengono bene a questo punto le parole dell’assessore regionale alla cultura Fabrizio Bracco tra le quali vogliamo privilegiare quelle nelle quali prevale la dimensione umana e il valore dell’amicizia per “l’improvvisa scomparsa di un amico colto e civile di cui ho sempre apprezzato l’intelligenza e la sensibilità umana che mi legavano a lui”.

Un ricordo personale di Alfredo e non solo

Sono le parole che avremmo scritto subito pure noi se avessimo coltivato di più i rapporti con una cara persona che abbiamo conosciuto e della quale conserviamo un primo straordinario ricordo ormai lontano: le sue nozze con Chiara Radi e la partecipazione di tanti amici nel convento francescano ad Assisi, immagini indelebili; poi occasioni di contatti non sempre liete, nelle quali ci hanno colpito alcuni degli aspetti che abbiamo trovato compiutamente descritti da coloro che hanno avuto consuetudine di rapporti con lui.

Per noi era anche il genero dell’amico e sodale da una vita Luciano Radi, politico di lungo corso che ha saputo affiancare l’arte e la scrittura all’impegno civile, dagli “Scarabocchi dell’onorevole” al “Grappolo di tonache” per i disegni, agli innumerevoli libri che spaziano tra politica e società, vite di santi e introspezioni personali, dopo il celebrato “Buongiorno onorevole” che aprì gradevolmente le finestre del Palazzo.

Gli siamo vicini in questa nuova difficile prova, e non pensiamo soltanto all’Umbria, ma alla sua venuta in Abruzzo per noi, quasi quindici anni fa, a presentare “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale” al Festival del libro di Silvi Marina dove una sezione era dedicata al Poeta e le sue donne; con lui il noto politico teramano Alberto Aiardi e Rino Faranda, l’indimenticabile professore. Una bella giornata abruzzese di cultura e di amicizia, come le tante giornate umbre che Alfredo De Poi consacrava alla sua passione per l’arte.

A questo gemellaggio di cordoglio la direzione della rivista, che nasce in Abruzzo ma ha portata nazionale, si associa con i redattori e i lettori stringendosi a Chiara, ai due giovani figli, a Luciano Radi e all’intera famiglia di Alfredo.

E chi scrive fa proprie le belle parole di Marco Mandarini – citato all’inizio per la mostra di Alfredo con l’Associazione Città del futuro – per dare l’addio al caro e illustre scomparso nel segno di un’amicizia sentita nell’amore per l’arte: “Ciao, grande amico, il tuo ricordo resterà scolpito per sempre nella mia anima”.

“Premio di laurea Alfredo De Poi” dell’Università di Perugia,
a sin. le due studentesse premiate, a dx la moglie di Alfredo De Poi Chiara e il Rettore
Il “Premio Alfredo De Poi” per giovani artisti
Inaugurazione della “”Piaggia Alfredo De Poi ,13 novembre 2021
con il Sindaco di Perugia Andrea Romizi e la moglie Chiara

All’articolo pubblicato nel 2010, abbiamo aggiunto in conclusione le immagini di tre riconoscimenti alla memoria: il “Premio di laurea Alfredo De Poi” dell’Università di Perugia” e il “Premio Alfredo De Poi” per promuovere giovani artisti, istituiti nel 2011 e nel 2018, e l’inaugurazione della “Piaggia Alfredo De Poi” nel 2021.

Da Corot a Monet, 2. L’”economia” e “l’utopia” della natura

di Romano Maria Levante

– 29 giugno 2010 –

Della mostra al Vittoriano dal 6 marzo al 29 giugno, abbiamo descritto l’innovazione iniziale rispetto al paesaggio tradizionale della scuola di Barbison, nelle stampe fotografiche d’autore d’epoca (da Cuvellier a Le Gray a Le Secq) e nei dipinti dei pittori trasferiti nella foresta di Fontainebleau per dipingere “en plein air” (da Daubigny a Courbet a Corot). Si trattava della “vitalità della natura”, l’ouverture della “sinfonia”. Passiamo ora al resto della “partitura” con un tema anche naturalistico, l’“economia della natura”, fino all’“utopia della natura” di Monet.

Sisley: La Senna a Saint-Mammès

L’evoluzione all’interno del movimento impressionista non solo vede approfondire lo stile tutto particolare in cui luce e colore erano dati da pennellate senza gradazioni e senza precisione di particolari con un tratto rapido che faceva sembrare i dipinti degli schizzi appena abbozzati; vede anche mutare i contenuti, legati pur sempre all’ambiente naturale e al paesaggio, ma non più rivolti solo a riprodurre la realtà dei luoghi scelti per la “vitalità della natura” piuttosto che per la bellezza idealizzata dei paesaggi; bensì estesi a ricomprendere l’intera “economia della natura”,

L’“economia della natura” nel naturalismo della seconda metà dell’‘800

Consideriamo il cuore dell’esposizione al Vittoriano, che la fa definire mostra-ricerca, e le dà un carattere rimarchevole: il tema dell’“economia della natura”, che avvicina l’impressionismo all’ecologia, approfondito da due personalità di Storia dell’arte, il curatore della mostra Eisenman, dell’Università di Chicago, e House dell’Institute of Art di Londra membro del comitato scientifico.

Entrambi ne hanno analizzato l’evoluzione, nella sua forma più matura, dall’aspetto solo naturalistico: “La ‘nuova pittura’ – afferma Eisenman – trattava del conflitto e dell’interazione dinamica fra natura e industria, svago e lavoro, libertà e costrizione, cambiamento e tradizione. Gli impressionisti rappresentavano in modi al tempo stesso ovvii e sottili l’impatto della modernizzazione sulle città e le campagne francesi”. “La decisione di concentrarsi su scenari di cambiamento – si chiede House – era un modo per celebrare i nuovi paesaggi e le forme di vita che rappresentavano, oppure i contrasti presenti nei soggetti scelti servivano a sottolineare gli sconvolgimenti provocati dalla modernizzazione costituivano pertanto una critica a quei processi di cambiamento?”.

E’ difficile dare una risposta univoca a questa domanda, perché anche nello stesso pittore i medesimi elementi di modernità possono assumere significati diversi da un dipinto all’altro. Allora, si chiede ancora House, “dovremmo distinguere la scena rappresentata dalla maniera in cui era trasposta sulla tela e considerare i dipinti come interpretazioni del paesaggismo anziché come commenti sui passaggi reali”? Ma anche in questo secondo caso la risposta sarebbe incerta: House cita come esempio le fabbriche di Pissarro – certe volte sono “relegate sullo sfondo”, altre sono“il fulcro della composizione” – che possono rendere appropriata o meno una “lettura ecologica” nei due estremi opposti, dalla “distruzione del paesaggio” alla “presenza benevola nel paesaggio”.

Quello che conta, e accomuna i due illustri critici ora citati, è la matrice filosofica-naturalistica della loro impostazione, che parte dalle concezioni che si vennero diffondendo in Francia dopo la metà dell’800 con il geografo Reclus il quale in “La terre”, del 1869, descriveva il pianeta come “un insieme di sistemi umani e naturali”, dai sistemi di fiumi e ghiacci inseriti nel “sistema delle acque” ai sistemi di montagne e geologico fino al “sistema agricolo”; tra loro interdipendenti (le acque vengono dai monti): “Gli esseri umani sono in grado di integrarsi con questi diversi sistemi e vivere in quasi ogni angolo del pianeta, ma sanno anche trarre ispirazione dai suoni e dagli ambienti naturali””; secondo lui “la bellezza artistica e naturale svolgerebbe un ruolo significativo nella creazione e riproduzione di sistemi ecologici complessi”.

E’ un concetto di ecologia espresso già nel ‘700 dal botanico svedese Linneo secondo cui “tutti gli organismi occupano un determinato posto nella natura assegnato loro da Dio e insieme al mondo inanimato formano un ordine grandioso e d equilibrato. In secondo luogo ogni elemento di natura inorganica – minerali, acqua, aria, terra – costituisce il sostrato essenziale per l’esistenza di piante e animali e non può essere rimosso e sconvolto se non sacrificando l’intero sistema ordinato da Dio”. Il tedesco Humboldt descrisse nei volumi del “Kosmos”, “la grande catena di connessioni mediante le quali tutte le forze naturali sono collegate e rese interdipendenti”.

Il termine “ecologia” fu introdotto nel 1866, e diffuso in Francia nel 1874, dal prussiano Haenkel che tra le leggi naturali poneva “l’ecologia degli organismi, la conoscenza della somma dei rapporti degli organismi con il mondo esterno, con le condizioni organiche e inorganiche dell’esistenza; la cosiddetta ‘economia della natura’, le correlazioni tra tutti gli organismi che vivono insieme in uno stesso luogo, i loro adattamenti all’ambiente circostante, le loro modificazioni nella lotta per l’esistenza”. Pensiero derivato da Darwin, di cui era seguace, che aveva parlato per primo di “economia della natura” intesa come insieme di “adattamenti reciproci di tutti i viventi fra loro .e con le condizioni fisiche di vita” in una “selezione naturale” che dipende dai rapporti degli esseri viventi con il rispettivo ambiente fisico e sociale in una continua competizione ad adattarsi meglio. Dell’equilibrio nel mondo naturale e della competizione come principio base del cambiamento aveva parlato anche l’inglese Lyell nei suoi scritti in materia geologica e antropologica.

Tornando a Reclus, va sottolineato che pur essendo evoluzionista non condivideva tale principio darwiniano secondo cui la natura e la società sono impegnate “in continue lotte per la sopravvivenza e per la dominanza”, ma riteneva “i due ambiti reciprocamente essenziali” e osservava “l’azione congiunta della natura e dell’uomo stesso, il quale agisce sulla terra che ha formato”. Lo scrittore Tissandier lo esemplificò nel 1967 in “L’Eau”, dove illustrò i”simultanei effetti distruttivi e riproduttivi” dell’acqua, che da un lato scava, dall’altro deposita sedimenti, azioni evidenziate in due dipinti di Courbet, del 1856 e del 1877: l’acqua è assimilata dallo scrittore al sangue laddove il ferro è lo scheletro della terra, la cui evaporazione, il flusso e riflusso “corrispondono al battito del cuore umano e alla sua linfa vitale”.

In questo contesto, filosofico-naturalistico prima che pittorico, ribadiamo che non si trova una risposta univoca all’interrogativo posto da House sull’approccio degli impressionisti al tema dell’ecologia, se solo descrittivo o anche di denuncia. Mentre concordiano con la conclusione di Eisenman: “Ma ancor più di Reclus, Tissandier e il realista Courbet, furono i pittori impressionisti a rappresentare l’’economia della natura’, avvero la terra come un insieme di sistemi umani e naturali collegati tra loro, con tutte le parti ugualmente vitali e reciprocamente vincolate”.

Questo approfondimento, che abbiamo posto come prologo alla “sinfonia della natura” dei quadri che illustrano “la nuova armonia dell’impressionismo” nel 1870-80, potrà essere ritenuto dispersivo oltre che noioso da chi è giustamente ansioso di passare ai dipinti e ai loro autori. Ma il grande pregio della mostra sta proprio in questa ricerca che dà un’immagine diversa, più colta e pertinente dell’impressionismo, altrimenti visto essenzialmente nei suoi aspetti coloristici e pittorici in generale, alquanto avulsi dalla sua vera matrice; è stata una scelta che può avere un costo per l’esposizione nel renderla meno spettacolare, come il nostro resoconto può apparire meno gratificante. Ma sono prezzi da pagare in nome della cultura. E chi supererà la soglia della conoscenza troverà un ben maggiore godimento quando vedrà le opere potendone apprezzare tutto il significato e il valore anche in termini di contenuti. Come è avvenuto per noi stessi.


Bazille: Veduta di un villaggio

La nuova armonia dell’impressionismo da Daubigny a Guillamin.

La sezione si apre con la “Veduta di un villaggio” di Bazile, 1868, una fanciulla seduta in primo piano che guarda fuori del quadro su uno sfondo che si propone all’attenzione con l’abitato nitido dopo il verde e il fiume, una compresenza quasi competitiva. Di autori rappresentati in mostra da una sola opera c’è anche Boudin, con “Etretat”, 1891, .il cui soggetto – una spiaggia con barche di pescatori che continua nelle monumentali falesie – era stato riprodotto molte volte da Monet, che aveva imparato da lui a dipingere all’aperto, ma sempre senza la cappella in alto sul monte a destra.

Come per i primi impressionisti iniziamo la visita dalle acqueforti e stampe all’albumina esposte in questa sezione, partendo dalle più antiche, le 16 acqueforti di piccole dimensioni di Daubigny, che fanno parte dell’album “Voyage en bateau” del 1861, una sorta di “reportage” disegnato con tratto sottile e forte chiaroscuro, per esprimere la gioia di vivere “en plein air” con i compagni di viaggio di cui sono descritti nelle singole acqueforti particolari divertenti come lo “scambio di volgarità con un’altra barca” o caratteristici come il “pranzo in barca” e il “traino con la fune da parte del mozzo”, ritratto anche “mentre pesca”, fino all’“incrocio di battelli a vapore”, la “ricerca della locanda” e “il ritorno”; e all’avvertimento ecologico “Attenti ai battelli a vapore!” inquinanti.

Troviamo anche 11 acqueforti di Guillamin, alcune con la presenza di persone, in tutte elementi non naturali, casette, ciminiere di fabbriche e fumaioli di barche a vapore inquinanti. Lo rileviamo nelle 6 piccole stampe all’albumina di Pissarro con vedute di un abitato e di chiatte e stabilimenti sulla Senna, e di un covone al centro e filare di alberi sul fondo, “Effetto di pioggia”, 1879, che ricorda il “Paesaggio a Gennevilliers” dipinto dalla Morisot nel 1875, quattro anni prima..

Di questi due artisti c’è una importante presenza di dipinti a olio su tela, per cui passiamo subito alla più spettacolare e ricca sezione della mostra.

Di Guillamin ci sono 7 quadri, in quasi tutti c’è la presenza umana, ma appare dominante l’invadenza delle opere realizzate dall’uomo: come nei dipinti “L’acquedotto ad Arcueil”, 1874, con la condotta e le relative arcate e un alberello in primo piano che configura scorci diversi alla sua destra dove corre la strada e a sinistra con in lontananza donne eleganti a passeggio; e “La Senna a Rouen”, 1899, per metà occupato da passanti con alcune carrozze in sosta; l’altra metà dal ponte sul fiume con barche e gru portuali, case lontane e ciminiere fumanti, la vita industriale moderna in piena attività sotto un cielo di pioggia che proietta i suoi riflessi sul lungofiume e sulla Senna, con tocchi di colore diversi, grigio, blu e rosa nella strada, azzurro, verde e bianco nell’acqua.

Li richiamano in qualche misura due quadri di Harpignies, che nel 1853 dipingeva l’arcadica “Veduta di Capri” che abbiamo visto aprire la mostra, e ritroviamo trent’anni dopo con “Ferrovia a Briare”, e “Il vecchio Pont du Carrousel, Parigi”, entrambi nel 1886-88, assimilabili per soggetto e stile ai due ora commentati.

Tornando a Guillamin, la vita non pulsa ma riposa in “Avamporto, Dieppe” 1881,. con le barche alla fonda e il cielo nuvoloso che lascia cadere una pioggia di luce straordinaria a strisce rosa e bianche sull’acqua mentre torna la natura ma vista nelle sue espressioni tormentate in “Le grotte di Prunal vicino a Pontgibaud (Alvernia) e in “La Forra della follia, Crozant”, 1894, dove muri di pietra e di rami spogli formano una rossa cortina alla forra e alle rovine in lontananza;.

Il “Paesaggio dell’Ile de France”, 1875-85, mostra equilibrio tra le due metà del quadro verticale, gli alberi che svettano sulla destra e la figura umana con le case dinanzi a sinistra la cui incertezza sul percorso sembra riassumere l’incertezza dinanzi all’“economia della natura” che si sta sovrapponendo alla “vitalità della natura”, qui in positivo. Mentre nei tre paesaggi di Cazin, dello stesso periodo, “Equiben sulla scogliera: bassa marea”, “Paesaggio con case, sera di settembre”, fino a “Fortezza”, la visione negativa:sembra che la vitalità si spenga in ambienti desolati e deserti.


Pissarro: Paesaggio a Pontoise

L’“economia della natura” in Pissarro e Sisley.

La vita operosa e la forza della natura spiccano nell’altro acquafortista e grande pittore Pissarro, 8 i dipinti esposti: Nei due più antichi, del 1863, il “Carro con tronchi” mostra la prima, “La Varenne Saint-Hilaire” la seconda con il prato e la quinta di alberi inseriti nella vita delle persone presenti dell’abitato in fondo, ma in uno stile dal primo Harpignes di “Veduta di Capri”. La natura dominante torna nell’ultimo, del 1885, “Il campanile di Bazincourt”, l’intreccio che si frappone all’edificio, fatto di cielo e nuvole, erba e rami, è contornato dagli alti tronchi degli alberi che svettano anche sul campanile, un rapporto simbolico in un suggestivo dipinto “verticale”.

Tra questi due estremi temporali abbiamo due dipinti del 1870, con la natura “abitata” da persone a riposo in “La foresta”, straordinario il folto fogliame nei tocchi impressionisti di verde, luci ed ombre, vero protagonista rispetto alla costruzione da un lato e alle figure centrali che, pur indistinte nello stile impressionista, sono identificati in borghesi per diporto e non in contadini al lavoro; e persone con animali al pascolo nella campagna davanti all’abitato in “Veduta di Marly-le-Roy”.

Sono “abitati” anche i tre dipinti del 1878. Con la presenza umana ben visibile in “Il viottolo di Le Chu”, una coppia chiacchiera, una capra bruca l’erba sulla destra di una campagna che appare desolata, forse per le ciminiere sul fondo, anche se appena accennate, ma il cui fumo bianco si mescola alle nuvole, e in “Riposo nel bosco”, tocchi di foglie e campagna che più impressionistici non potrebbero essere, come le tre figure, indistinte pur se centrali. E’ una presenza che si avverte in “Paesaggio a Pontoise” indirettamente,a parte una minuscola sagoma, nelle casette della fattoria al centro seminascoste dal verde, splendidi gli alberelli, e nel mucchio di concime in primo piano.

Con “Angolo del giardino, neve, Eragny”,1892, una visione intimistica, la nevicata a fiocchi su alberi e siepi con pennellate bianche di raffinatezza giapponese; che si ripete in “Dune a Knokke”, 1894,nel sentiero che porta alle piccole casette a destra, in un angolo riposto all’angolo estremo della composizione, incentrata sulla morfologia ondulata del terreno e sulle nuvole a cumuli.

Non c’è nel pittore una posizione univoca, né di denunzia della intrusione nella natura né di celebrazione positiva della feconda coesistenza, forse la presa d’atto di situazioni diverse la cui rappresentazione sottolinea i dati della realtà senza atteggiamenti precostituiti; il pittore “en plein air” non può che registrare le diverse forme della modernità nella natura che vede sul luogo.

Lasciamo Pissarro, una vera testimonianza la sua, questi quadri sono intrecciati alla sua presenza nei luoghi raffigurati dove ha abitato, e alle vicende della propria vita, nonché alle iniziative del gruppo di impressionisti di cui faceva parte: tra questi spiccano i grandi nomi di Sisley e Monet, di cui si ricorda l’abitazione a Bougival, vicino alla sua di Louveciennes, si erano conosciuti all’inizio del 1860 , anche con Guillaumin e Cezanne, all’Académie Suisse, la scuola di disegno di Parigi.

In Sisley nei“Covoni”, 1895, ritroviamo il tema di Guillaumin con le ombre lunghe, il contadino in riposo e gli uccelli in volo, icone simboliche di vita agreste; tema caro anche a Monet, c’è una sua serie del 1990-91 e due dipinti, tutti non esposti in mostra: “Covone presso Giverny”, 1887, analogo primo piano con ombre, e “Covone a Giverny”, 1886, nel quale il covone viene aggiunto all’uguale composizione, molto vasta, del “Campo di papaveri, Giverny” di cui si dirà tra poco..

Più indietro nel tempo, al contrario di Pissarro c’è in Sysleyunimpegno nel rappresentare i cicli naturali e anche i loro sconvolgimenti dovuti all’azione invasiva dell’uomo sulla natura, secondo quanto descritto da Reclus e Tissander: quando l’“economia della natura” diventa diseconomia.

Neve a a Port Marly, brina”, 1872, esprime il primo approccio: la neve con tocchi sfuocati a sinistra, degli alberi in alto dietro i quali si intravede un’abitazione, e l’acqua a destra – dove sono a fuoco i riflessi degli alberi dalle foglie accese sulla riva opposta – esprimono visivamente la “poesia sensoriale impressionista”, fatta di sfumature e vibrazioni. Così “Brina in autunno, estate di san Martino”, 1974, due persone parlano al centro di una composizione dominata dalle case in alto e dal rosso delle foglie cadute e dell’intrico di rami, mentre la brina fa brillare l’erba del sentiero, sotto un cielo di nuvole e azzurro che illumina la scena: la presenza umana nella natura vitale.

La documentazione dell’evento idrologico nei due dipinti a distanza di otto anni, “Inondazione a Port Marly”, 1872, reiterato nella “Inondazione a Moret”, 1880, evidenzia la costanza nella denuncia, tenuto conto che la prima inondazione fu da lui riprodotta in altri tre dipinti da punti di vista diversi; tra i due quadri differenza anche nel clima, nel primo c’è rassegnazione attiva, le donne parlano sulla soglia della casa che emerge dalla strada inondata, gli uomini sulla barca che attracca; nel secondo non c’è presenza umana ma sembra che tutto si ribelli, dall’intrico di rami degli alberi spogli alle case poste in alto, con le due macchie nere nell’acqua e nel terreno.

Altrettanto tormentato “La Senna a Marly”, 1873, l’anno successivo alla prima alluvione, la pace non è tornata nella natura, a sinistra la riva scoscesa, a destra una quinta filiforme di alberi, in mezzo l’acqua limacciosa come il cielo, due imbarcazioni invasive, una terza con uno sbuffo di vapore, e una sorte di croce allusiva al centro: quanto basta per ricordare l’incubo recente.

Del 1872 oltre all’inondazione un’immagine molto diversa in “Pescatori che stendono le reti”, la presenza umana è nelle piccole figure sulla barca e a riva, dove le reti con la loro trasparenza velano lo sfondo e, insieme ai panni stesi, richiamano le nuvole che si specchiano nell’acqua nella tipica forma impressionista; come i fili d’erba in primo piano resi vibranti da piccole pennellate di colore.

Siamo così allo straordinario dipinto di Sisley, “La Senna a Saint-Mammès”, 1881, così simile nel titolo a “La Senna a Marly”, così diverso, lì c’era l’inquietudine, qui non solo si sente la pace ritrovata ma la maestosa bellezza della natura in cui le piccole figure umane nelle barche fanno corpo con il fiume, su cui si protende un ombrello di rami e vegetazione riflessa sull’acqua come una quinta teatrale sullo spettacolo della natura che trova la sua massima espressione in quelle acque increspate di tocchi bianchi e viola che le rendono vive e vitali oltre che espressioni della bellezza assoluta, un capolavoro che resta negli occhi e nell’anima.


Monet: Mattino a Fécamp

La natura nel primo Monet e il rifugio dell’ultimo Renoir,

Non a caso i riflessi sull’acqua riprendono il tema prediletto dell’amico Monet, in particolare in “Un ramo della Senna vicino a Vètheuil”, 1878, anche l’acqua è molto simile; mentre l’“Effetto di neve al tramonto”, 1875, di quest’ultimo segue quello di Sisley del 1872 ma è molto diverso, qui non è la natura protagonista ma un complesso di case e industrie con un velo di alberi sulla sinistra.

Siamo giunti così a “Il prato”, 1879, “Campo di papaveri a Vétheuil”, 1880, e “Campo di papaveri, Giverny”, 1885; approdiamo al culmine dell’impressionismo: nel primo due bimbi con l’amica di famiglia Germaine al centro e tre ragazzi più lontani sono letteralmente affogati in un verde con fiori gialli e sfumature d’argento che fa esplodere la natura nelle sue vibrazioni; nel secondo è affogata tra il verde degli alberi la chiesa del paese nello “spazio dietro lo spazio” formato dal prolungamento del prato in primo piano punteggiato dei fiori rossi con qualche fiore giallo e dei tocchi scuri che lo fanno vibrare; nel terzo la “sinfonia della natura” espressa dalle due fasce orizzontali, che stringono le case coloniche allineate nella striscia centrale, davanti quella rossa dei fiori mossi dalla brezza, dietro quella verde scuro degli alberi, e poi il verde chiaro della campagna; non è in mostra la versione del 1886 “Covone a Giverny”, con in più soltanto il covone.

Raffigurazioni stupende che fanno già pensare al “luogo dell’anima, un’utopia in cui abbandonarsi alla riflessione” di cui ha parlato Bondi; in particolare, ha aggiunto, per “occuparsi solamente delle infinite sfumature dei fiori riflessi sull’acqua”. Dalla “vitalità della natura” e dall’“economia della natura” siamo giunti così al “rifugio della natura”, un rifugio ideale che Monet rese effettivo nel giardino acquatico di Giverny, un eden artificiale che aveva tutto il fascino e la suggestione di un’esplosione irresistibile di bellezza della natura.

Un rifugio nella natura fu anche quello agreste di Les Collettes, nel quale Renoir si ritirò nell’ottobre del 1908 dopo avervi acquistato l’anno prima una proprietà agricola; in mostra ci sono due dipinti che ne danno testimonianza, riguardano gli alberi, i loro rami contorti corrispondono ai “fiori riflessi nell’acqua” di Monet, per l’amore che Renoir dedicò loro, espresso nella biografia “Renoir mio padre, scritta cinquant’anni fa dal figlio Jean, il noto regista cinematografico. Definisce gli olivi di Les Collettes “tra i più belli del mondo”, descrivendoli come “imponenti, maestosi e al tempo stesso leggeri come piume”. Ne vediamo alcuni in “Les Collettes”, 1908, dipinto poco dopo il trasferimento, sono contorti perché, sempre secondo Jean Renoir, “esistono da cinque secoli e l’effetto combinato di tempeste, siccità, gelo, potature e incuria ha conferito loro le forme più bizzarre. I tronchi di alcuni somigliano a strane divinità”; e forse per far notare la differenza affianca sulla sinistra un normale albero da frutta dal tronco diritto.

Altra comparazione in “Ragazza sotto l’albero”, 1910, lo stesso bosco di olivi del precedente in cui il raffronto è con un albero a terra, che forma una sorta di L con quello eretto. Un capolavoro di pennellate intense con arancio e verde, giallo e azzurro, e una figurina bianca al centro, piccola e chiara, appena abbozzata, che diventa il centro e il fulcro della scena; come nel quadro precedente per le due figure sulla sinistra che raccolgono i frutti, una china e l’altra in piedi, nel rigoglio arboreo e campestre delle sue pennellate magistrali con al centro il lontano abitato sullo sfondo.

“Se non coltivò la terra per dar vita a un giardino elaborato come quello che il suo migliore amico Claude Monet creò a Giverny negli anni novanta – scrive Stuckey nel bel Catalogo della mostra – anche lui visse la proprietà di Les Collettes come un paradiso privato che lo avrebbe ispirato per il resto della sua vita”. E conclude, riferendosi ancora a Monet: “Al pari di quest’ultimo, Renoir concepì Les Collettes come un’utopia agreste in cui avrebbe trovato un’inesauribile fonte di ispirazione e un rifugio dalla modernità”.


Monet: Ninfee, armonia in blu

L’ “utopia della natura”, il rifugio ideale dell’ultimo Monet.

Nell’anno in cui Renoir dipingeva “Les Collettes” nella sua “utopia agreste”, Monet scriveva così all’amico scrittore Geffroy: “Questi paesaggi d’acqua e di riflessi sono divenuti un’ossessione”. Si era nel 1908, aveva cominciato a dipingere le ”Ninfee” dopo il 1990, allorché si era trasferito nella proprietà di campagna appena acquistata: “Ciò che Monet cercava a Giverny – scrive il curatore Eisenman – non era una comunità solidale ma un’isola utopica, un modello di pienezza o totalità in natura che potesse diventare la base per raggiungere la totalità nelle opere d’arte”.

L’“isola utopica” era il suo giardino, da lui coltivato con grande cura e competenza, studiando i cataloghi, con il proprio capo vivaista Truffault, uno dei maggiori giardinieri francesi e alimentandolo con esemplari provenienti da tutto il mondo, utilizzando serre dove provava piante sconosciute e faceva esperimenti di ibridazione. Cerano insieme fiori locali ed esotici, assortiti per offrire una gamma di forme e colori varia e mutevole: iris viola e tulipani rossi, “non ti scordar di me” azzurri e tulipani gialli, campanelle blu e gerani rossi, con il verde delle foglie, in un paradiso di colori e un tripudio della natura per le fioriture e impollinazioni differenziate nelle diverse ore del giorno e nei differenti periodi dell’anno. Conosceva l’approccio pittorico al giardinaggio di Gertrude Jekill che in “Wall and Water Gardens”, 1903, aveva dedicato un capitolo alle Ninfee.

Monet dedicò loro uno stagno nel giardino acquatico, contornato da salici piangenti e alimentato dal vicino fiume Epte attraverso canali che aveva fatto scavare, superando iniziali opposizioni, per la circolazione dell’acqua necessaria alla vita delle Ninfee. Cerano pergolati e un ponticello di stile giapponese, da lui immortalato in diversi dipinti deliziosi del 1899-900 dai titoli “Lo stagno delle Ninfee”, rispettivamente “armonia verde” e “armonia rosa”più “Ninfee bianche” che potrebbe chiamarsi “armonia bianca”. Diversi colori, riflessi e visioni per le diverse luci del giorno, come nella vastissima serie di riprese della “Cattedrale di Rouen”, dal “primo sole” e dagli  “effetti di luce mattutina”, a “mezzogiorno” e a “pieno sole”fino a “la sera. Anche i dipinti sulle escursioni in barca della compagna Alice e delle figlie Su zanne e Blanche nel fiume Epte rispondono a questa ricerca, come il luminoso “La barca blu” e l’ombroso “La barca a Giverny”. C’era tutto nella sua “isola utopica”, in una simbiosi assoluta tra arte e vita.

Nessuno dei quadri appena citati è in mostra. C’è invece “Il viale delle rose”, 1920, però come testimonianza angosciosa del buio nella vista degli ultimissimi anni; il tunnel fiorito diventa un vortice di colori scuri con macchie rossastre, in un disperato tentativo di vedere o almeno ricordare.

Introduzione ammonitrice del “clou” della mostra, che inizia con “Ninfee” del 1903: un arcipelago sparso di piante acquatiche immerso nelle ombre e nei riflessi degli alberi, in un’oscurità quasi notturna. E’ un quadro a olio di dimensioni normali, 70 per 90 centimetri, mentre i due successivi dipinti del 1914 sono molto più grandi, rientrano nel “ciclo delle Ninfee”, il suo sogno ecologico. Fu realizzato con immense tele panoramiche per novanta metri quadrati, esposte stabilmente dal 1927, l’anno dopo la sua morte, all’“Orangerie” di Parigi, il giardino delle Tuileries visibile dal Louvre. Nella sala ovale si è avvolti dai dipinti posti in circolo, sembra di essere su un’isola dello stagno e guardare lo spettacolo dal vivo, ma avvicinandosi, scrive Eisenman, “l’equivalenza visiva tra dipinto, materia osservata ed esperienza sembra svanire e si è liberi di entrare in uno spazio rarefatto di narcisismo o solipsismo estetico”.

Ninfee” del 1914 , di 2 metri per 1,5, anch’esso piuttosto oscuro, raffigura i fiori esotici che galleggiamo aperti, tra i riflessi verde scuro dei salici piangenti e il viola dell’acqua; ce n’è una versione quasi identica molto più chiara, dai colori più brillanti e i fiori più bianchi, segno evidente che continuava a provare i diversi riflessi e le tonalità della luce come per la Cattedrale di Rouen.

Siamo giunti al culmine, della mostra e dell’arte di Monet, “Ninfee, armonia in blu”, dello stesso 1914, 2 metri per 2, una composizione compiuta anche se inserita nel disegno più vasto, con due notevoli pregi e particolarità: l’equilibrio tra gli addensamenti di ninfee nei due angoli opposti e l’abbandono della prospettiva, le ninfee all’angolo estremo sono più grandi di quelle all’angolo più vicino. La ricerca dell’equilibrio compositivo e della perfezione visiva porta sempre più avanti.

Ma per noi non si tratta di astrazione, siamo d’accordo con André Masson che di questa opera “di un grande maestro di cavalletto che abbia deciso di espandere la sua visione all’ampiezza del mondo” dice: “Lo specchio d’acqua diviene, per analogia, l’intero universo. Una visione cosmica”.

Concordiamo anche con la sua conclusione: “Per questa ragione mi dà un senso di profonda delizia considerare L’Orangerie la Cappella Sisina dell’Impressionismo”. Come per la “Cappella Sistina della Maiolica” della chiesetta di San Donato a Castelli, non c’è parallelo che possa esprimere in modo più compiuto e immediato che si è raggiunto il culmine. E’ il caso delle “Ninfee” di Claude Monet, poste a conclusione del lungo percorso dell’Impressionismo, dalla “vitalità della natura” all’“economia della natura” fino all’“utopia della natura”, che la mostra-ricerca al Vittoriano ha avuto il grande merito di proporre nella sua evoluzione non solo pittorica ma anche culturale.

Tag: Roma, Vittoriano

“Da Corot a Monet, la sinfonia della natura”, 1. La mostra-ricerca al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

– 27 giugno 2010

La  mostra al Vittoriano dal 6 marzo al 29 giugno, offre una lettura insolita dell’impressionismo nella sua evoluzione e nel suo contenuto al di là della rivoluzione figurativa nella luce e nel colore in un carrellata sulla pittura del paesaggio nell’Ottocento francese di 120 dipinti e acqueforti, oltre a 50 stampe fotografiche d’epoca, 20 documenti e lettere di artisti, provenienti da 35 grandi musei esteri, di cui 22 americani e 10 francesi: una ricostruzione preziosa non solo pittorica ma anche culturale in senso lato, in una mostra d’arte che è approfondimento e non solo esposizione.

Sisley: ”Sentiero da By al Bois des Roches Courtaut – Estate di San Martino”

“Non ci siamo limitati a esporre una serie di capolavori e di opere impressioniste di grande pregio estetico – ha precisato Alessandro Nicosia presidente di Comunicare Organizzando responsabile della mostra curata dall’americano Eisenman in collaborazione con Brettell – ma abbiamo voluto ricostruire l’intero percorso di evoluzione e innovazione della pittura di paesaggio nell’Ottocento francese fino a giungere alla rivoluzione impressionista, la nuova volontà di rappresentare una realtà che è frutto dell’equilibrio e della commistione indissolubile tra tutte le parti del mondo naturale”.

Il ministro per i Beni e le Attività culturali Sandro Bondi ne ha sottolineato il valore: “Come ci ha ormai abituato nel corso degli anni, il Complesso del Vittoriano non presenta semplicemente una selezione di opere belle, di capolavori di grandi maestri, che affascinano il grande pubblico, ma offre, bensì, uno stimolo culturale, uno spunto di riflessione e di analisi innovativa di un fenomeno artistico importante come l’impressionismo”.

Riflessione e analisi, dunque approfondimento. E chi come noi ne ha fatto la cifra costante del proprio giornalismo culturale lo saluta come un evento da evidenziare ogni volta che si manifesta; e intende darne conto senza fermarsi agli aspetti pittorici ma ricercandone i significati reconditi.

Il sottosegretario Francesco Maria Giro, oltre a definire la mostra “scientificamente fondata” ne ha evidenziato il significato politico che consiste nel ribadire un valore fondamentale come quello del paesaggio, di cui ha ricordato la centralità anche nel codice dei beni culturali.

L’assessore alla Cultura capitolino Umberto Croppi ha osservato che ottenere prestiti così rari da tanti musei stranieri per l’autorevolezza e la qualità espositiva, pur senza disporre di una collezione per ricambiarli, conferma l’elevato livello del Vittoriano oltre che del Palaexpo e delle Scuderie.

Alla Presentazione della mostra l’ospite francese ha ricordato che nel ritiro di Colombey-les-Deux- Eglises, sotto i cieli angosciosi delle Ardenne, Charles De Grulle un giorno disse al ministro della cultura André Malraux: “Questa è la Francia aspra che piace a me, non la ‘douce France’ convenzionale, prediligo la Francia dal carattere burrascoso che si fa amare per i suoi cieli e paesaggi tempestosi”.

E di paesaggi francesi nella visione degli impressionisti si è parlato molto, tutti gli intervenuti ne hanno riassunto l’evoluzione: il superamento della rappresentazione classicheggiante ed arcadica per una concezione olistica in cui le diverse componenti umane e naturali sono collegate in un sistema vitale definibile “economia della natura”, perché tiene conto dell’impatto della modernità in un sistema dinamico che si trasforma nel tempo e nello spazio.

Ma essendo questo l’oggetto della mostra, più che riportarne le conclusioni riteniamo preferibile ripercorrere le varie tappe di tale evoluzione accompagnandole con la descrizione del modo in cui le opere esposte ne danno testimonianza sul piano della creazione artistica e dei contenuti espressi.

Pissarro: “La Senna a Bougival”

Il prologo: i due mondi, il “Salon” di Parigi e gli impressionisti.

La partenza è dai paesaggi esposti nel “Salon” di Parigi, dove era assente qualunque riferimento non solo ai mutamenti in corso nelle campagne ma anche alla vicinanza delle città e alla stessa attività che vi si svolgeva. Si trattava di visioni arcadiche e la presenza umana serviva a sottolineare questa dimensione. La natura era vista priva di ogni segno di attività umana e, spesso, degli stessi abitanti, il paesaggio diventava oggetto di contemplazione; i dipinti del “Salon” dovevano “portare all’aperto” il visitatore dandogli la sensazione di passeggiare nei prati, nei boschi e nelle valli.

Questa esigenza cominciò ad essere messa in relazione allo stress fisico e mentale della vita urbana, superando l’iniziale contrapposizione secondo cui il paesaggio, visto come monumento naturale, aveva un valore minore dei monumenti opera dell’uomo, gli edifici storici della vecchia Francia. Proprio per l’importanza che venne assumendo, il paesaggio doveva avere precisi requisiti pittorici, e poter reggere al confronto con i classici paesaggisti del ‘600 e ‘700 come Pussin e Lorrain.

La mostra prende a simbolo la “Veduta dell’isola di Capri” di Harpignies, 1853, un dipinto di grandi dimensioni rispetto alle piccole tele trasportabili dei paesaggisti, che si ispira a paesaggi seicenteschi nel rappresentare un ambiente in cui le figure umane più che mostrare le loro attività quotidiane rendono l’aspetto accogliente della natura che asseconda l’impulso all’evasione; anche lo stile pittorico è tradizionale, con la precisione dei dettagli e la cura della prospettiva, la gradazione dei toni e l’equilibrio della composizione. Analoga precisione compositiva senza la presenza delle attività umane in “La Durance a Cadenet”, di Guigou, 1866-67, con una differenza non da poco: l’ambiente non è arcadico, anche se limpido e sereno, ma appare alquanto desolato.

Ben diverso lo stile pittorico degli impressionisti, anche rispetto alla natura vista alla prima maniera, come in “Meli in fiore” di Monet, 1872 e in ”Sentiero da By al Bois des Roches Courtaut – Estate di San Martino”, di Sisley, l881. Colpiscono le pennellate rapide, per il primo a dare forma alla fioritura sugli alberi nella campagna, per il secondo a delineare una macchia di vegetazione autunnale a sinistra e un leggero filare sulla destra divisi da un ramo della Senna, in entrambi un cielo straordinario che nel secondo dà luce alla scena riflettendosi nell’acqua come in uno specchio..

Fin qui il salto di qualità nello stile, ma la giustapposizione riguarda anche i contenuti, e viene proposta con tre opere nelle quali fa irruzione l’attività umana nella sua forma inquinante. E’ il fumo che si leva nel cielo portato da alte ciminiere, come sfondo lontano ma invasivo rispetto a dei primi piani contemplativi: alberi, verde e un covone di grano al centro in “Paesaggio a Gennevilliers” di Morisot, 1875; due figure che passeggiano nel sentiero in riva alla Senna in “La Pointe d’Ivry”, di Guillaumin, 1875-1880. Una passeggiata simile, questa volta è una coppia elegante, in “La Senna a Bougival” di Pissarro, 1871, di almeno un lustro precedente, dove la ciminiera che immette un fumo ancora più invasivo è il fumaiolo di una chiatta a vapore nel fiume; fa parte di una serie di quadri del pittore con ciminiere che spargono fumo nella campagna.

Lo stile dei tre dipinti è decisamente “impressionista”, lunghe pennellate sottili di diversa tonalità nel primo, tocchi di colore contrapposti nel secondo, strisce di ombra e luce e pennellate rapide nel terzo, particolari effetti di luce in tutti, negli ultimi due chiari riflessi del cielo nelle acque del fiume.

Dopo questo prologo illuminante inizia lo “spettacolo” della mostra: prima con la “vitalità della natura” vista nella sua varietà e realtà senza ricerche estetiche ed evasioni arcadiche; poi con l’“economia della natura” vista come ambiente in una simbiosi sempre più difficile con le attività umane, costruita e vissuta in pittura e nella vita, fino all’epilogo che Sandro Bondi così descrive: “Forse proprio per la difficoltà di venire a patti con il mutare serrato della realtà in cui vivono, gli impressionisti verso la fine dell’Ottocento abbandoneranno lentamente il mondo reale, cancellandolo dalle proprie opere, per rifugiarsi in un luogo dell’anima, come lo splendido giardino delle Ninfee di Monet, un luogo non-luogo, un’utopia in cui abbandonarsi alla riflessione e occuparsi solamente delle infinite sfumature dei fiori riflessi sull’acqua”.

E’ un processo che seguiremo fino in fondo lungo l’intero percorso della mostra dopo il prologo pittorico che ci ha fatto immergere in un mondo ricco di attrattive e di stimoli alla riflessione, e proprio per questo abbiamo riportato le parole del ministro così amante dell’arte e non di un critico di mestiere: esprimono la suggestione e il richiamo della “sinfonia della natura”, che “omnia vincit” superando l’“economia della natura” negli animi sensibili, e ce ne sono ancora!

Daubigny: “Bordo dell’acqua a Optevoz”

La natura come forza vitale: le foto d’epoca

Non c’è che dire, il prologo della mostra è stimolante, vale la pena approfondire l’inizio del percorso nel quale si scopre la “vitalità della natura”, quanto può dare di se stessa, non più per l’evasione e la contemplazione estetica, ma per la sua forza intrinseca. Quella che promana dalla sua consistenza reale, senza alcuna ricerca di luoghi particolari che ne mostrano la bellezza, al contrario evidenziando quelli nei quali non c’è nulla di estetico ma di possente. Il che vuol dire superare i limiti delle marine e dei fiumi, delle colline e dei paesaggi, ed immergersi nel suo mondo così particolare, vicino e presente ma difficile da decifrare; entrare nel bosco della realtà, fitto e multiforme, cominciando a rappresentare la foresta e gli alberi come protagonisti.

Per prima ha rivelato questa dimensione arcana la fotografia, prendendo a proprio soggetto e protagonista questo aspetto fino ad allora trascurato o ignorato; spesso addirittura evitato.

La mostra ne dà conto con 32 stampe d’autore d’epoca, per lo più all’albumina o al sale da negativo su carta, ad eccezione delle prime quattro: una litografia e due acqueforti di Bresdin, che passa dall’estetizzante “Rami”, 1856, e dall’allegorico “Il Buon samaritano”, 1867, al più realistico “Ruscello nel bosco”, 1880, tipico sottobosco dei pittori di Barbizon di cui diremo; la quarta stampa, una acquaforte di Rousseau, “La quercia nella roccia”, 1861, è una tipica espressione di questa “scuola”, se si può chiamare così, che fece della foresta di Fontainebleau la sua casa e l’oggetto delle proprie riproduzioni pittoriche nonché delle proprie preoccupazioni ambientali; nella litografia ora citata si erge come protagonista il grande albero solidamente radicato al suolo.

Era considerata “riserve artistique”, con la sua vasta estensione di oltre mille ettari, e divenne nel 1861 parco nazionale protetto dopo le minacce alla sua integrità che portarono proprio Rousseau – il quale la considerava “l’unico ricordo ancora vivo dell’epoca d’oro della madrepatria, da Carlo Magno a Napoleone” – a chiedere a Napoleone III fin dal 1852 di farne una riserva naturale, desiderio che fu esaudito nove anni dopo. La foresta che viene ritratta è insieme l’espressione della “vitalità della natura” e del sogno che resti intatta e incontaminata, percorso dall’inquietudine che si tratti di un’illusione; questo perché la presenza umana si faceva sempre più aggressiva, anche da parte dei contadini che la depauperavano prelevando la legna per il loro sostentamento.

Troviamo poi il grande ciclo fotografico di Cuvelier, 11 stampe artistiche di cui 5 vanno dalla “Scena silvestre” del 1860 a “Il querceto” del 1865, passando per “Strada carraia attraverso la foresta”, “Querce e faggi”,” e “La quercia Bodmer”, tutti del 1863. Nessuna presenza umana, le grandi querce sono le “star” del grande spettacolo offerto dalla natura, che ha carattere universale. Vi abbiamo ritrovato la bellezza e il fascino di paesaggi boscosi del nostro paese natio sul Gran Sasso: le querce secolari in vario modo piantate sulle rocce in gruppi spesso scultorei nel folto della foresta o in radure del bosco dell’Aschiero, che va verso “Cima alta” alle falde di Corno Piccolo.

Cuvelier ha fotografato anche stagni e paludi della foresta, da “Belle Croix” a “Palude a Piat”, da “Palude a Fampoux” a “Ninfee a Fampoux” quasi una premonizione dell’ultimo Monet, tutte tra il 1860 e il 1863. E soprattutto ci mostra due opere di grande purezza compositiva: “Vicino alla grotta, terreno bruciato” e “Strada per Briquet”, dello stesso periodo delle precedenti, ma molto diverse: la prima di straordinaria intensità, due pini scheletriti con due solitari visitatori seduti su rocce che guardano lontano nella desolazione, la seconda configura una architettura arborea che troviamo anche in Rousseau: Cuvelier era giovanissimo, nato nel 1837 e figlio d’arte fotografica.

Torniamo alle grandi querce con le tre stampe di Le Gray, “Crocevia nella foresta”, “Quercia e rocce” e “Masso lungo la strada”, se non seguisse nei tre la scritta “Foresta di Fontainebleau” le diremmo riprese dal succitato bosco dell’Aschiero, dove vi sono punti perfettamente identici.

L’altro grande fotografo di Fontainebleau è Le Secq, nelle 8 stampe in mostra, del 1851-52, vi troviamo i motivi del “Sentiero nella foresta” e delle “Querce spoglie in inverno”, e anche il “Sottobosco” e il “Ruscello nella foresta”, fino ad “Albero morto in una foresta” e “Cava”:avvisaglie del pericolo che minaccia l’ambiente, oppure variazioni sul tema il primo e visione architettonica della natura il secondo come le cattedrali che amava fotografare? L’interrogativo resta aperto ma ci introduce all’opera pittorica nella stessa foresta di Fontainebleau del gruppo che si trasferì a Barbizon, l’abitato e la vita nella foresta “en plein air” in simbiosi artistica e umana.


Corot: “Canale in Piccardia”

Il gruppo di Barbizon, la “vitalità della natura”

In linea con i fotografi artistici, i pittori dipingevano la natura vista nell’ottica di Fontainebleau, come appariva nella realtà senza idealizzarla e senza scegliere scorci particolarmente suggestivi, essendo un organismo vivo che mostrava vitalità anche nelle espressioni all’apparenza meno spettacolari. A Cuvelier, Le Gray, Le Secq si affiancano idealmente Corot, Daubigny, Diaz de la Pena. Abbiamo visto Rousseau autore di una acquaforte, ora vediamo i suoi dipinti a olio.

Come i fotografi, anche loro lavoravano “en plein air”per cogliere la luce e l’atmosfera nelle loro manifestazioni transitorie e per questo più suggestive. Naturalmente lo facevano con lo stile che sarà caratteristico degli impressionisti, pennellate rapide con tocchi di colore, ben diverse dalla precisione fin nei dettagli e dai colori pieni dei paesaggisti tradizionali.

I temi sono ancora rigorosamente naturalistici, danno l’immagine di un’armonia ambientale e umana – anche tra nobili e contadini – nessuna modifica oltre quella naturale delle trasformazioni temporanee date dal succedersi delle stagioni e dall’avvicendarsi delle ore con l’alternarsi delle varie espressioni della luminosità diurna e delle ombre della sera e della foresta. Nessuna intrusione era ammessa, neppure quella dei turisti richiamati dalle loro opere, le scene rurali erano solitarie.

Tra i primi oli su tela quello di Rousseau, ”Palude nelle lande, primavera”, 1844-48; il pittore, trasferitosi a Barbizon intorno al 1836-38, anticipa di quindici anni le stampe di Cuvelier, e include il lavoro rurale, le mucche si abbeverano guidate da un contadino e case sparse nello sfondo, macchie di alberi in primo piano e cielo impressionista riflesso anche sull’acqua, campagna in stile tradizionale con precisione dei dettagli e pennellate molto sottili, quasi da miniatura.

Di poco successivi 4 oli su carta di Bonheur, 1850, sono schizzi a colori di località montane, con il terreno rovinato forse per il passaggio del bestiame in “Vicino a Taleyran” e per l’asportazione della torba in “Alvernia”; le montagne di “Vulcano” e “Pirenei/Aspe” mostrano una conoscenza anche geologica, la “vitalità della natura” è espressa dai movimenti di nuvole per la condensazione del vapore che ristagna. Nessuna presenza umana e neppure di animali, sebbene fosse noto come animaliere che ritraeva mucche e contadini, pecore e pastori idealizzati, ma gli schizzi sono “appunti” presi in un giro di Francia con la sorella, un’artista molto apprezzata.

Dello stesso anno “Il fiume” , di Dupré – insignito della Legion d’onore negata invece a Rousseau fino al 1867, che per questo gli tolse il saluto – uno specchio d’acqua arcadico e campagne idealizzate all’orizzonte sotto una grande quercia in stile paesaggistico britannico.

Nell’arco di dieci anni le due opere in mostra di Daubigny, entrambe “acquatiche”: “Bordo dell’acqua a Optevoz”, 1856, e “Mattino sull’Oise”, 1866, con i riflessi delle nuvole, rese con striature nel cielo, e degli alberi, specchiati nelle acque, tali da poter essere visti come un “dipinto nel dipinto”, tanto sono fedeli alla realtà che si riflette nelle acque: il primo dei due, anzi, sembra sia stato dipinto su una barca oppure nello studio galleggiante del pittore; lo stile è tradizionale, ispirato al paesaggio olandese del ‘600, si vuol far sentire la poesia della natura; aveva vinto un premio al “Salon” del 1853, in seguito un’opera esposta al “Salon” nel 1857 gli valse la Legion d’onore.

Contemporaneo fu Diaz de La Pena, seguace di Rousseau: sono esposti “Paesaggio con figura”, 1865, lo specchio d’acqua al centro dove si riflette il cielo, un bosco ai margini e una figura di contadina ai bordi dello stagno; e la “Foresta di Fontanaibleau”, 1868,del tipo delle fotografie d’autore di sottobosco che abbiamo descritto: lavorando “en plein air” nel bosco si coglievano i raggi filtranti tra le ombre, come si vede nel dipinto che ha la precisione di una miniatura nel disegnare foglie e cortecce, e fu criticato dagli impressionisti puri per la sua oscurità.

Courbet: “La Mosa a Freyr”

La galleria presenta cospicui gruppi di opere di due dei più noti pittori della scuola di Barbizon.

Di Courbet abbiamo due dipinti su temi montani: “La Mosa a Freyr”, 1856, una parete rocciosa che ricorda “La cava” della fotografia di Le Secq ed è di rara precisione geologica, riflessa nell’acqua, mentre il cielo non è quello con le nuvole degli impressionisti, forse fu dipinto in viaggio in tutta fretta; “Gola nella foresta (Le puits Noir)”, raffigura anch’esso le rocce in quella che viene chiamata “pittura storica della natura” per gli alberi le cui radici penetrano nel terreno rupestre e fanno staccare i massi sparsi nella vallata. Di ambiente marino, invece, “L’onda”, 1870, che gli fece offrire la Legion d’onore, da lui rifiutata in opposizione a Napoleone III, immagine tempestosa del mare con cielo e pennellate di stile chiaramente impressionista, in tutti non vi è presenza umana né animale: Guy de Maupassant descrisse il pittore mentre dipingeva questo quadro fornendo particolari di come la natura si facesse sentire e fosse poi riprodotta in pittura.

Figure umane sono presenti nei 5 dipinti di Corot esposti. “Nel Morvan”, 1841-42, il primo in ordine cronologico della serie che abbiamo ora descritto, figure oscure sono nella gola di una località montuosa della Borgogna, sovrastata da una chiesetta in alto, mentre sulla sinistra si stagliano luci e ombre, il cielo è senza nuvole. “Strada in salita (Gouvieux vicino a Chantilly)”, 1855-60, mostra la predilezione dell’artista per il tema dei sentieri, c’è una biforcazione con figure del mondo rurale, diverse da quelle classicheggianti di derivazione olandese dei primi anni: si vedono case in lontananza, il cielo domina la composizione con la sua luminosità, e la vegetazione è fatta di tocchi rapidi. In “Canale in Piccardia”, 1865-70, ci sono tre figure al lavoro sulla sinistra in un ambiente quasi idilliaco che le lascia indifferenti, mentre la luce piove sulle acque del canale e sugli alberi in fiore leggeri e aerei che isolano una serie di vedute suggestive. Anche in “Ricordo di Coubron”, 1872, l’attenzione è attratta dall’uomo al lavoro e dalla contadina che lo guarda sulla sinistra della composizione, in una posizione analoga a quella del dipinto precedente; la vegetazione è resa nelle diverse tonalità di verde, c’è anche uno specchio d’acqua attraversato da una barca.

La vita scorre, il paesaggio risulta come dipinto sul cavalletto “en plein air”, ci troviamo dinanzi alle espressioni dello spirito di Barbizon, che non rinnegano le raffigurazioni idealizzanti del ‘600 in quanto non vi sono ancora irruzioni di elementi estranei; ma innovano nella raffigurazione artistica per il modo con cui viene dato il colore e per l’effetto del cielo sulla natura sottostante.

Ancora sono soltanto i turisti a disturbare l’ambiente naturale, ma siamo vicini al momento nel quale la scena muta radicalmente. Irrompono nel paesaggio i sistemi umani e naturali non in contrasto tra loro ma strettamente collegati. Molte cose cambiano anche per gli impressionisti: si passa dalla “vitalità della natura” all’“economia della natura”.

Lo vedremo presto nella sezione della mostra intitolata “La nuova armonia dell’impressionismo”, che culmina nel ritorno alla “Natura come rifugio ideale”. Entreremo idealmente nelgiardino delle Ninfee di Monet, che Sandro Bondi, ci piace ricordarlo, ha definito “un luogo dell’anima, un luogo non-luogo, un’utopia in cui abbandonarsi alla riflessione”. Proveremo tutte queste emozioni.

Caravaggio, 2. Il successo, la fuga, l’epilogo, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

La mostra di Caravaggio a Roma alle Scuderie del Quirinale, fino al 13 giugno 2010, espone 24 capolavori, opere selezionate tra quelle autografe del Maestro, con un allestimento che rende massima la suggestione di avere “Caravaggio puro, Caravaggio essenziale, Caravaggio vero” secondo le parole di Antonio Paolucci, il direttore dei Musei Vaticani: che nella presentazione definì la mostra, “la più semplice e facile del mondo”, come “il capolavoro di Strinati”, l’ideatore. Descritta la “giovinezza” con le opere dal 1592 al 1599, nel percorso di vita e di arte passiamo al “successo” con le opere dal 1600 al 1606 e infine alla “fuga” con le ultime opere dal 1607 al 1610.

Il successo: 1600-1606

Dagli sfondi verdi della “giovinezza”, nell’allestimento si passa a sfondi rossi per il passaggio alla nuova fase, quella del successo, alla quale vengono riferite le opere tra il 1600 e il 1606.

Abbiamo visto come con “Giuditta” la sua arte si tradusse in una composizione dove i moti dell’anima si imponevano in un realismo non più solo naturalistico ma psicologico dai toni crudi e violenti. La complessità aumentò ancora con l’incarico di decorare le pareti della Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi: lo ebbe nel 1599 da Virgilio Crescenzi, esecutore testamentario del cardinale Contarelli, subentrando al Cavalier D’Arpino, nella cui bottega era stato nel 1593, che dopo aver affrescato il soffitto non poteva completarla, tutto preso dalle prioritarie committenze papali: ne derivarono i dipinti sulla “Vocazione” e sul “Martirio di San Matteo”,il secondo oggetto di ripensamenti e sostituito con una rappresentazione più ortodossa.

Lo stesso avvenne con l’incarico successivo avuto da Tiberio Cerasi – amico di Vincenzo Giustiniani, suo estimatore e grande collezionista – tesoriere papale e acquirente della Cappella della chiesa romana di Santa Maria del Popolo, dove fu accettata una seconda versione meno concitata della prima della “Conversione di San Paolo” e del “Martirio di San Pietro”: in entrambe un’atmosfera di quiete, definita “di sospensione”. Nella cappella la pala d’altare, con l’“Assunzione della Vergine”, fu commissionata ad Annibale Carracci, che vi portò un naturalismo classico immediatamente accettato rispetto a quello legato al vero di Caravaggio, che comportava dei problemi tanto da ricevere il primo rifiuto. Un dipinto di Annibale Carracci lo abbiamo trovato a Pasqua nella chiesa romana di Santa Caterina dei Funaridi recente restaurata e aperta al pubblico per una delle rappresentazioni del “Festival della spiritualità” dell’Eti con Pamela Villoresi.

La sua fama, e con essa la quotazioni, era cresciuta a tal punto che le opere rifiutate trovavano subito compratori: la sua ”Morte della Vergine” fu acquistata da Rubens per il duca di Mantova.

Risulta che Giustiniani, nella sua vastissima collezione di 120 dipinti dei pittori più famosi , ne avesse 15 di Caravaggio, tra cui “Amor omnia vincit” del 1602 circa, esposto in mostra, proveniente dallo Staatliche Museen zu Berlin. Anche senza questo collegamento diretto, i lavori per le chiese romane non sono temi estranei alla mostra che non espone tali opere, sia perché è un momento centrale della sua vita che ha inciso molto sulla sua arte; sia perché l’esposizione delle Scuderie non esaurisce l’esibizione romana di Caravaggio che prosegue nell’itinerario in cui la cappella Contarelli e la chiesa di Santa Maria del Popolo sono tappe fondamentali del suo successo.

Amor omnia vincit” fu ritenuto così straordinario da venire coperto con un velo di seta dal curatore della collezione Giustiniani “perché altrimenti toglieva pregio a tutte le altre rarità”. Il curatore era Sandrart, e scriveva che “tutto era dipinto con grande precisione, con colori rilevati , nitidezza e rilievo”, aspetti che ne marcavano il realismo. La posa del ragazzo alato, colto nello slancio tra spartiti e strumenti musicali, fasciato da una luce violenta che lo fa sbalzare dallo sfondo scuro è molto familiare, come fosse in preda a un abbandono confidenziale e non pensasse a mostrarsi composto: un realismo fresco e spontaneo. Né si tratta di un amorino stereotipato, reca la fattezze di un giovane che lavorava per lui, Cecco Boneri, il quale diventerà pittore, un altro caso di utilizzo di modelli naturali da lui conosciuti e resi riconoscibili.

All’inizio del 1600 risulta residente nel palazzo del cardinal Mattei ed è impegnato in una serie di opere per Ciriaco Mattei, dipinte tra il 1601 e il 1603 ed esposte in mostra per un facile confronto.

La “Cena in Emmaus” è la prima della serie, del 1601 circa, dalla National Gallery di Londra. In essa il suo verismo raggiunge un livello molto elevato sia nell’atmosfera, che nulla ha di luogo sacro dato che il tavolo con Cristo e i tre discepoli sembra in un locale popolare; sia negli atteggiamenti e nei gesti, di Cristo con un mantello rosso e il braccio destro proteso, e dei due discepoli seduti, uno allarga le braccia, l’altro si appoggia al sedile, mentre un terzo è in piedi immobile e assorto. Nella composizione riappare la cesta di frutta che sporge dal tavolo e l’effetto di luce intorno alla caraffa.

Viene automatico confrontarla con l’altra “Cena in Emmaus” esposta, del 1606, dalla Pinacoteca di Brera di Milano; fu eseguita dopo l’episodio di sangue di cui parleremo nella “fuga”, nel feudo dei Colonna vicino Roma dove si era rifugiato. Vi troviamo molti punti in comune con la prima, l’ambiente popolare, il tavolo con tovaglia bianca e al centro il cesto con il pane e caraffa d’acqua,i due discepoli seduti, uno allarga le braccia, l’altro si appoggia sulle mani; la persona in piedi forse è l’oste cui in questa versione si aggiunge l’ostessa. Il gesto benedicente è diverso forse perchè, come ha notato Maurizio Calvesi, qui sembra essere di congedo e non di preparazione, come è diverso il viso pur nella rassomiglianza, essendo più maturo.

Ma torniamo indietro di cinque anni, al 1601, troviamo la “Conversione di Saulo”, da una Collezione privata romana, di dimensioni ancora più grandi del dipinto di analogo soggetto a Santa Maria del Popolo, 2,40 per 190 centimetri. Qui la luce si riflette particolarmente sul santo a terra e il cavallo non ha il primo piano dominante del quadro nella chiesa; invece che dal suo pelo la luce è riflessa dall’armatura del soldato e da un viso che si protende verso la persona a terra; il realismo lo troviamo nelle mani che il santo porta a coprire il viso e nelle braccia protese di altre figure.

Altrettanto realismo nella “Cattura di Cristo”, del 1602, dalla National Gallery di Dublino: la drammaticità della scena anche qui è accentuata dai gesti, in una composizione spostata sulla sinistra dominata dalla figura di Cristo, con lo stesso mantello rosso, stretto tra Giuda che gli dà il bacio del tradimento e il braccio del soldato in un’armatura rilucente, con San Giovanni alle spalle colto in un’espressione atterrita, le braccia alzate verso il cielo, in un’atmosfera cupa e oscura.

Dello stesso anno “San Giovanni Battista”, dal Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City, posa classica in età giovanile, una figura pensosa con il corpo nudo che spicca per la luce che lo fascia e le ombre nette che disegna, su dei drappeggi rossi e uno sfondo nero. La povera croce fatta con un lungo bastone obliquo che dà equilibrio alla scena, sembra uno scettro e l’espressione pensosa esprime molta energia, quasi fosse un dio della foresta a riposo ma pronto ad agire.

Non possiamo non confrontarlo con il “San Giovanni Battista”, la cui datazione è oscillata dal 1598-99 al 1602-03 fino al 1606, dalla Galleria Corsini di Roma. E’ la stessa figura giovanile dal corpo nudo fasciato di luce che spicca con il drappo rosso nel buio, in posa meno classica e più realistica rivolta sulla sinistra, per terra vicino alla ciotola c’è il bastone a croce; ha un’espressione intensa, niente affatto convenzionale, nel viso che resta un po’ in ombra sotto la massa di capelli.

Ed ecco la “Deposizione”, tra il 1602 e il 1604, dai Musei Vaticani, realizzato con grande rispetto dato il tema, in un’atmosfera solenne con richiami alla pittura di Raffaello e all’arte classica, sembra un gruppo scultoreo. E’ resa realistica dalle due braccia rivolte al cielo a mani aperte della pia e dal volto di Nicodemo che regge il corpo per le gambe e sembra guardare l’osservatore quasi per chiedergli aiuto, mentre spiccano le mani che lo sorreggono sotto le ascelle, senza che si veda il volto e il corpo di chi lo sostiene da quella parte. La luce fascia il corpo di Cristo, non manca il mantello rosso, questa volta nelle mani della Madonna.

L’“Incoronazione di spine” degli stessi anni, dal Kunsthistorische Museum di Vienna, faceva parte della collezione di Giustiniani ed ha minori contrasti dei precedenti essendo percorso da una luminosità diffusa, torna l’elemento dei riflessi sull’armatura e il mantello rosso che ravviva la scena, priva della drammaticità che abbiamo sottolineato quasi per un’accettazione del destino in un’atmosfera immobile come nei dipinti della chiesa di Santa Maria del Popolo. La composizione è scandita dalle diagonali dei bastoni dei persecutori che flagellano un Cristo dal viso reclinato.

Con il “Sacrificio di Isacco”, del 1603, dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, concludiamo questa sezione. In questo dipinto, che gli sarebbe stato commissionato dal cardinale Barberini prima di diventare papa Urbano VIII, ritroviamo il senso del tragico di “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”, soprattutto nell’espressione atterrita e nella bocca spalancata del volto sul quale si sta per abbattere l’arma da taglio, evidentemente oggetto di attento studio da parte del Maestro. Nel viso e nell’atteggiamento di Abramo come nella disposizione orizzontale delle sue braccia ritroviamo il “San Gerolamo” che vedemmo esposto alla Galleria Borghese nella mostra Caravaggio-Bacon e commentammo. Nelle braccia dell’angelo, che con la mano destra gli afferra il polso per impedirgli l’uccisione del figlio e con la sinistra punta il dito, vi è tutto il realismo della gestualità; mentre nel viso di Isacco è stato riconosciuto il garzone Cecco, modello anche per la testa dell’angelo anche se i connotati sono stati modificati dal Maestro da una base più somigliante.

La “fuga”: 1607-1610

Per non interrompere la cavalcata dei successi di Caravaggio nella seconda fase della sua vita, espressi negli splendidi dipinti esposti sul fondo rosso della relativa sezione della mostra, non abbiamo parlato delle disavventure che non sono mancate. Lo facciamo entrando nel settore a fondo grigio,ilcolore che l’allestimento ha dato al periodo più agitato fino al triste epilogo.

Nel 1603 fu processato per aver diffamato il rivale, il suo biografo Baglione, che si era sentito offeso, con Tommaso Salini, da sonetti a lui attribuiti. Ne uscì bene e rilasciò dichiarazioni rimaste agli atti sulla sua concezione del realismo nella pittura. Però nei tre anni che seguirono fu arrestato diverse volte, sembra cinque, per fatti di limitata gravità, fino al più rilevante, ma che si risolse anch’esso bene, relativo all’aggressione a un funzionario pontificio, Mariano Pascalone.

Sono episodi che si inquadrano nel clima dell’epoca, e non ne danneggiarono l’immagine, tanto che pur in quel periodo i committenti si moltiplicarono e continuò a produrre opere impegnative, come quelle descritte. Inoltre presentava una forte attrazione e un ascendente sui giovani pittori.

Un esempio è costituito dall’episodio di Pascalone, in un primo momento lo costrinse a lasciare Roma per la corte del principe Doria, il quale aveva sposato un nipote dei Colonna suoi protettori. Anche lì gli fu offerta un’ambita committenza, ma volle rientrare nella Capitale appena il problema fu risolto. Ed ebbe l’importante commessa pubblica della cappella dei Palafrenieri per un’opera che aveva come destinazione finale San Pietro. L’opera non vi finì, ma ci fu una compensazione nel nuovo dipinto per la €€€Cappella dei Palafrenieri che fu spostata e richiedeva una pala d’altare.

A questo punto, siamo al 1606, gli capita la disavventura più grave che ne segnerà in modo profondo la vita e l’arte, e avvolge in un alone misterioso parte della sua vicenda umana. Muore Ranuccio da Terni in una rissa con il gruppo dei giovani di cui faceva parte il nostro, non è stato accertato il motivo, forse una provocazione da parte del creditore o altro: scatta l’accusa di omicidio con la conseguente pena di morte, deve lasciare di nuovo Roma.

Inizia così la sua fuga definitiva che lo vede inizialmente a Napoli. E, come avvenuto fino ad allora, arriva una committenza molto importante, le “Sette opere di Misericordia”, di grandi dimensioni, quasi 4 metri per 2,60. Siamo nel 1608, in mostra c’è la “Flagellazione di Cristo”, di quel periodo, dal Museo di Capodimonte a Napoli, appartiene alle opere nelle quali si è controllato dopo le esperienze delle prime versioni rifiutate. Cristo appare nel fascio di luce con i flagellatori in ombra.

Ma non si ferma, è in contatto con Fabrizio Colonna che, per salvarsi da un’analoga imputazione, era entrato nell’ordine di Malta, precisamente del San Giovanni di Gerusalemme. Ecco il nostro è nell’isola mediterranea nel 1607, l’anno dopo sarà alle prese con il “Ritratto di Alof de Wignacourt” a figura intera, che è al Louvre; invece alla mostra citata Caravaggio-Bacon era esposto, e da noi fu commentato, il “Ritratto di fra Antonio Martelli, Cavaliere di Malta”, fino alla cintola. Proprio nel 1608 divenne cavaliere per meriti di pittore insigne e realizzò la pala per l’oratorio con la “Decollazione di san Giovanni Battista”, ebbe compensi e molti riconoscimenti.

Dipinse anche “Amore dormiente”, dalla Galleria Palatina a Palazzo Pitti Firenze, in mostra, nella figura distesa che ha poggiato arco e freccia ed è immersa in un sonno profondo; ci si vede il suo approdo nell’Ordine che doveva dargli finalmente un po’ di serenità e una vita del tutto rinnovata.

Ma ancora una volta tutto cambia, viene arrestato nella stessa Malta e recluso nella tremenda “guva” di Forte Sant’Angelo, un segreta ricavata nella pietra dalla quale riuscì a fuggire; non si sa perché vi fu rinchiuso, né come si liberò, certo è che fu espulso dall’Ordine con ignominia.

Siamo nel 1608, è l’ora della Sicilia, sbarca a Siracusa. gli viene affidato un dipinto per la chiesa dedicata alla patrona di Sicilia, e realizza il “Seppellimento di santa Lucia”, in cui, commenta Alessandro Zuccari, esprime la sua meditazione sulla morte: “Non solo nel formulare un’immagine d’intima e commossa partecipazione al rito funebre, ma anche nel mettere a punto dettagli iconografici che rivelano una particolare attenzione alle fonti agiografiche relative alla martire cristiana”. Altro che “pittore maledetto”!

La sua vita torna ad essere frenetica, va e a Palermo; poi di nuovo a Napoli, non si tratta di irrequietudine quanto di volontà di far perdere le tracce, pende una condanna a morte sul suo capo; ma, contraddizione nella contraddizione, il lavoro pittorico è molto intenso. A Messina dipinge la “Resurrezione di Lazzaro” e l’“Adorazione dei pastori” con un incarico pubblico nonostante fosse ricercato per omicidio. Quest’ultimo, 1608-09, dal Museo regionale di Messina, è esposto in mostra e presenta una scena inconsueta, la madre a terra appoggiata alla mangiatoia con la piccola creaturina è un Madonna dell’umiltà, invece i pastori sembrano un gruppo scultoreo, monumentale.

Ancora a Palermo dove dipinge una “Natività”, la pittura riflette queste convulsioni della sua vita, i fondi scuri si accentuano e così le ombre tagliate dalla luce, le figure si rimpiccoliscono e gli spazi si accrescono, soprattutto il segno diventa rapido ed essenziale, ormai la sua arte domina la scena essendo scomparso Annibale Carracci che era rimasto l’epigono della classicità.

Le due ultime opere in mostra sono del 1610, l’anno terminale, i soggetti in un certo senso opposti.

Annunciazione”, dal Muséedes Beaux Arts di Nancy, è un tema delicato, la Madonna nell’oscurità ha un aspetto dimesso come l’ambiente, nel fondo scuro si intravedono misere suppellettili; mentre l’Angelo sferzato dalla luce sembra incombere dall’alto con il suo gesto.

Invece “Davide con la testa di Golia”, della Galleria Borghese, è drammatico, con la sinistra del giovane che stringe la testa mozzata dove viene vista l’effige di Caravaggio; per l’espressione stravolta, la bocca spalancata e il soggetto ricorda “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”.

Così il 1610 nel quale finisce tragicamente la “fuga” si riallaccia al 1599, anno del secondo dipinto, nel quale finiva il periodo della “giovinezza” e iniziava il “successo”. L’allestimento della mostra ci immerge in un fondo grigio in carattere con la tristezza che ci prende, per molti motivi.

L’epilogo

Tocchiamo con mano l’ironia del destino, si erano moltiplicate le pressioni sulle autorità pontificie perché gli fosse concessa la grazia, i suoi protettori non lo avevano abbandonato, tra loro i Colonna che lo hanno seguito per tutta l’esistenza, e a palazzo Colonna a Napoli aveva fatto diversi dipinti, nel suo nuovo stile. Finché eccolo lasciare la città via mare quando la grazia venne accordata dal Pontefice. Ma non sbarcò a Roma, bensì in Toscana, sembra a Porto Ercole, e si mise alla disperata ricerca della “feluca”, una barca che trasportava i suoi bagagli con due quadri forse per il Papa. Non fece in tempo a ritrovarli, la barca era tornata a Napoli, fu ucciso da una febbre misteriosa quanto micidiale. I dipinti furono recuperati dai Colonna, li fecero restaurare per riparare i danni dell’acqua, e finirono a Costanza Sforza Colonna.

Di lui non fu trovato neppure il corpo, la stessa fama si attenuò fin quasi a scomparire, è tornato all’ammirazione di tutti solo nel Novecento, fu “riscoperto” da Roberto Longhi.

Abbiamo detto molto più della vita e delle singole opere esposte, anche perché della sua arte parlammo in due ampi servizi su www.abruzzocultura.it in occasione della mostra precedente con Bacon alla Galleria Borghese, che abbiamo ricordato. Quella attuale alle Scuderie non è soltanto questo, e sarebbe già tanto; ci sono anche sistemi digitali per ingrandire i particolari, laboratori per i ragazzi, e soprattutto un approfondimento dei vari aspetti della sua figura.

Dal 25 febbraio al 9 aprile ogni giovedì le “Lezioni d’autore”, così frequentate che a parte la fila non si trovava posto nella sala conferenze del Palazzo delle Esposizioni. E c’era un motivo, tenevano le “lezioni” i maggiori esperti, ecco i nomi in ordine di “apparizione” e i temi: Strinati sulla mostra e Vodret sulla tecnica, Paolucci sulla religione e Calvesi sull’uomo senza maledizioni, Zuccari sull’Annunciazione e Gregori sulle ricerche, infine Marini sulla fuga verso Sud.

E non è finita, le molteplici iniziative per il IV centenario continuano a tenere banco. Il 21 maggio è stato presentato al loggiato di Palazzo Venezia il volume curato da Maurizio Calvesi e Alessandro Zuccari “Da Caravaggio ai Caravaggeschi”, con l’intervento di Rossella Vodret, Caterina Volpi e Sebastian Schutze: non un libro di riproduzioni d’arte ma una raccolta oculata di diciotto studi d’autore su altrettanti aspetti del grande Maestro: dai primi passi a Milano alla produzione giovanile, dall’approdo romano ai committenti, fino ai suoi seguaci e al problema delle copie.

Sui seguaci c’è poi il vasto studio curato da Alessandro Zuccari: “I Caravaggeschi”, il primo repertorio completo in due volumi, nel primo una vera “mappa” del cavaraggismo italiano ed europeo, nel secondo le monografie dei 48 artisti caravaggeschi con repertorio critico, iconografico e bibliografico: un’opera monumentale di quasi 900 pagine in un prezioso cofanetto.

E’ uno scavo in profondità che insieme alle altre molteplici iniziative per il IV centenario completa idealmente le “lezioni d’Autore” associate alla Mostra: approfondimento critico e galleria visiva..

Ma pur ripercorrendo le dotte dissertazioni e le preziose riproduzioni iconografiche del mondo intorno al Maestro, resterà sempre negli occhi e nel cuore il fascino unico dei suoi capolavori: i 24 protagonisti sotto l’occhio di bue del proscenio nel più grande spettacolo del mondo. E’ ciò che ci vuole per stimolare l’immaginazione, la fantasia, i sogni. Perché sulla scena, nelle luci della ribalta, ci sono le opere certe del grande Caravaggio, nella sua vera identità che ne fa l’unico, l’assoluto.

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Caravaggio, 1. “Puro, essenziale, vero”, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

E’ tornato Caravaggio a Roma alle Scuderie del Quirinale fino al 13 giugno 2010, dopo essere stato alla Galleria Borghese in coppia con Bacon, ma nulla di ripetitivo sebbene dei quadri della Galleria, presenti ora alle Scuderie, fossero stati già esposti in quell’occasione. Ma non sembrano gli stessi, tanto è mutata l’ambientazione. Non era certo la presenza di Bacon a cambiarne la fisionomia, tanto era distinto e distante, quanto la ridondanza artistica della Galleria che incorporava i dipinti nel proprio contesto architettonico e scultoreo, pittorico e ambientale facendone parte integrante, poco evidenziata, di una residenza principesca tutta particolare.

L’impostazione della mostra

Alle Scuderie del Quirinale, invece, la scena è tutta per i dipinti del Maestro, ciascuno é alla ribalta investito da un fascio di luce nel buio come fosse l’occhio di bue del palcoscenico che illumina la star, lo sfondo è neutro, l’isolamento rispetto agli altri quadri ne fa dei solisti, non dei componenti di un’esposizione corale. E ognuno dei grandi dipinti esposti sembra voglia raccontare la propria storia, in un inedito “Spoon River” pittorico. Anche se qui non si tratta di un’“antologia”, anzi si è evitato volutamente il percorso antologico per seguire un percorso sintetico e mirato: la ricerca delle cosiddette “opere capitali”, cioè quelle accertate con sicura autografia del Maestro.

L’approccio è inusuale e per ciò stesso rimarchevole nell’anno delle celebrazioni del suo IV Centenario nel quale la ricerca esplora in profondità l’intera produzione sua e della bottega, cercando di definire i confini di un catalogo mutevole; e si estende ai Caravaggeschi, per disboscarne il bosco troppo folto e ricercando l’autenticità dell’ispirazione.

Si risale addirittura ai precursori, gli artisti milanesi che Michelangelo Merisi vide nell’adolescenza e nella sua prima giovinezza di cui non vi è nessuna sua traccia pittorica, e nei quali si possono trovare i semi del grande Maestro, tanto che Vittorio Sgarbi, alla presentazione delle iniziative del IV centenario ne parlò definendo la mostra che cercava di promuovere e il Maestro “Gli occhi e il buio di Caravaggio”: ci colpì al punto di farne il titolo del nostro servizio.

Qui invece la concentrazione su Caravaggio è tale da evitare le opere a rischio di “bottega” e le “ulteriori versioni” anche se generalmente accreditate a lui, ma soggette a pareri discordi; si sgombra il campo dalle dotte discussioni dei critici d’arte sulle attribuzioni, a “parlare” sono soltanto le opere sicure del Maestro, che raccontano la loro storia, e le loro storie allineate fanno quella di Michelangelo Merisi, intrecciandone la pittura con la vita. Non certo da “pittore maledetto” – immagine che gli si è appiccicata anche per la biografia per certi versi tendenziosa del suo rivale e avversario Baglione – ma pur sempre movimentata, la diremmo anzi “spericolata”.

Non è stata una scelta facile, ha richiesto una riflessione approfondita sul piano scientifico e un’azione non facile sul piano organizzativo trattandosi di prelevare per quattro mesi “quelle” opere, e proprio quelle, dai maggiori musei del mondo nell’anno del IV Centenario: dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano e dagli Uffizi di Firenze sono arrivati la Canestra di frutta e il Bacco, dal Metropolitan di New York e dall’Ermitage di San Pietroburgo I musici e Il suonatore di liuto, dallo Staatliche Museum di Berlino e dal Kimbell Art Museum di Fort Worth l’Amor vincit omnia e I bari e così via dai più importanti musei.

Si è scelto invece di rinunciare all’operazione più facile, esporre i dipinti sicuri della chiesa romana di Piazza del Popolo e delle altre chiese, vicini e disponibili: si è voluta rispettare la loro collocazione storica, senza sottrarli al proprio ambiente e contesto ma facendone parte integrante di un percorso caravaggesco romano che non si esaurisce alle Scuderie: ma è nell’esposizione che trova il suo filo d’Arianna tra le vicende della vita e le diverse espressioni stilistiche di un’arte straordinaria.

La presentazione: Strinati e Paolucci

Come è nata questa impostazione lo ha spiegato all’anteprima l’ideatore della mostra, Claudio Strinati con tono commosso e parole non di circostanza, espressione di un immedesimarsi sincero e intenso: “L’idea ispiratrice, un po’ scientifica e un po’ fantasiosa, è stata che curatore della mostra fosse l’autore, Michelangelo Merisi, una pretesa giustificata da una lunga frequentazione nella quale si è tentati di trovare una sintonia. E allora, trattandosi di celebrarne l’anniversario, mi sono detto: se gli avessi parlato nel 1610 e gli avessi chiesto: ‘Maestro, come faresti la mostra?’ credo mi avrebbe risposto: ‘Facciamola con le opere più belle e sicure che sono queste, senza quelle incerte, e coinvolgiamo i miei estimatori. Quelle nelle chiese è bene lasciarle dove sono, le altre prenderle, ce n’è una che non la molleranno facilmente, ma alla fine la molleranno”. Previsione realizzata: il celebre Canestro di frutta è uscito così per la prima volta dalla Pinacoteca della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano; e si è potuta realizzare una mostra straordinaria.

Antonio Paolucci, al quale la posizione di direttore dei Musei Vaticani dà un’autorevolezza che si aggiunge all’elevato spessore di studioso, l’ha chiamata “la mostra di Strinati” , usando le parole “mai nulla di così bello, un Caravaggio puro, un Caravaggio essenziale, un Caravaggio vero” che “tocca tutte le espressioni dell’animo umano”. E non è stato facile, ha sciorinato le difficoltà che Strinati per modestia aveva taciuto: “L’idea è stata temeraria per due difficoltà: era problematico avere i prestiti e non era necessariamente gradita dai colleghi. E’ stata superata la prima, Strinati lo hanno accontentato; la seconda è caduta per il fatto che non deve essere gradita dai colleghi ma dalla gente, e questo si ottiene presentando i quadri che si conoscono dal liceo classico. Così facendo, pur se temeraria, è diventata la mostra più semplice e facile del mondo: siamo stanchi di mostre complicate e difficili, ci si rivolge alla gente mediamente colta che vi si deve riconoscere, non ai pochi addetti ai lavori”. E ha concluso definendola “il capolavoro di Strinati”.

Molto altro è stato detto alla presentazione da Croppi e Broccoli nell’ottica romana, da Emmanuele nell’ottica di presidente delle Scuderie e del Palexpo, e da Rossella Vodret e Francesco Buranelli nell’ottica di curatori della mostra. Ci sembra, tuttavia, che Strinati e Paolucci abbiano dato l’interpretazione autentica di un evento che ha messo in fila in paziente attesa folle di visitatori.

Con questa introduzione siamo entrati nel clima della mostra, la racconteremo ripercorrendo anche le tappe principali della vita del Maestro attraverso le 24 opere esposte nei periodi in cui è divisa. Premettiamo soltanto che al fascino dell’allestimento di Michele De Lucchi si aggiunge quello ottenuto dai curatori mediante il confronto tra opere e soggetti in modo da creare una dialettica autentica rispetto a quella, che si è evitata, tra i diversi atteggiamenti della critica sulle attribuzioni.

E mediante la collocazione in tre grandi settori contrassegnati da uno sfondo di diverso colore, che corrispondono alle differenti fasi della sua vita: così ci immergiamo nel verde della “giovinezza”, per poi passare al rosso del “successo” fino al grigio della “fuga”, alla quale segue la scomparsa.

La fase della “giovinezza”: la vita

La rassegna pittorica di questa fase inizia nel 1592, dopo il trasferimento a Roma. Dei primi ventuno anni – era nato il 29 settembre 1571 nella cittadina vicino Milano di cui Michelangelo Merisi prenderà il nome – non si conoscono sue opere, ma i particolari della prima parte della sua vita possono fare luce sulla formazione che si riverbera sulle opere pittoriche che nascono a Roma.

Il padre Fermo Merisi era architetto e amministrava la casa di Francesco Sforza, del ramo cadetto e marchese di Caravaggio. Questa posizione gli dava una certa stabilità e benessere economico e metteva in contatto la sua famiglia con la corte della marchesa, Costanza Colonna figlia di Marcantonio, un aristocratico molto vicino al papato. Ma durò poco, la peste di Milano del 1577 fece tra le sue vittime il padre Fermo e un fratello, e lui a soli sei anni restò affidato alla madre.

Sette anni dopo, nel 1584, lei lo fece entrare nella bottega di Simone Peterzano che si impegnò a insegnargli per quattro anni il mestiere del pittore, al costo non certo modico di 44 scudi d’oro. Si trasferì nella casa di Peterzano nella Milano che recava ancora i segni della peste ed era esposta alle scorrerie spagnole. Dalla quiete della provincia contadina al clima inquieto e tormentato di una città dominata dal fervore religioso di Carlo Borromeo, riflesso nelle opere delle chiese commissionate a Peterzano. Il giovane apprendista completò i quattro anni di tirocinio e apprese il realismo lombardo del suo precettore ma soprattutto si fece un’idea personale della pittura “fedele al vero”. Conobbe di certo il “Cenacolo” di Leonardo che lo istradò ulteriormente sul “vero”, in un viaggio a Venezia l’opera di un allievo di Raffaello con nuove forme di rappresentare l’espressione e la prospettiva; nonché conobbe i pittori milanesi suoi precursori con i tratti di umanità e di umiltà e l’uso delle ombre nei loro dipinti, lo sottolinea Sgarbi parlando degli “occhi di Caravaggio”.

Un’altra improvvisa accelerazione nella sua vita, muore la madre nel 1590, lui vende le proprietà e divide il ricavato con i due fratelli, poi nel 1592 si trasferisce a Roma, non si sa se perché già coinvolto in un fatto criminoso, come scrive Giovanni Bellori, o per esprimervi l’arte acquisita.

La città è in pieno fermento per le committenze religiose legate anche alla Controriforma, e lui in un primo periodo cerca di far valere il pregresso rapporto familiare con gli Sforza e i Colonna, i quali ultimi gli procurarono l’ospitalità di Pandolfo Pucci, dalle frequentazioni ecclesiastiche. Non resistette a lungo, lamentandosi per il vitto insufficiente lasciò la sua casa e andò a vivere da solo. Ancora nulla sulla sua attività, sembra che lavorò per un pittore, Lorenzo, venuto dalla Sicilia, poi ne conobbe un altro, Gramatica, e qui spunta la notizia di alcune “mezze figure” dipinte per lui.

Una malattia la fa ricoverare all’ospedale dei poveri della Consolazione, ma è subito ripagato di questa disavventura, entra nella bottega di Giuseppe Cesari, un colpo da maestro trattandosi di un personaggio molto vicino a Clemente VIII, da poco assurto al soglio pontificio, e come Cavalier d’Arpino pittore molto quotatoe nell’ambiente ecclesiastico e nobiliare.

Fin qui il cono d’ombra sul Caravaggio pittore, solo notizie sul giovane Michelangelo Merisi, del quale, anche se per quattro anni fa l’apprendista da un pittore e per altri quattro anni frequenta pittori – di tutti si sanno i nomi – non si conosce nessuna opera. Nella bottega del Cavalier d’Arpino, si legge nella biografia, “fu applicato a dipinger fiori e frutti”, arte ritenuta minore della pittura di figure, ma che per la sua ricerca del vero era sullo stesso piano di attenzione spinta alla

Le prime opere del periodo giovanile: 1593-94.

Siamo nel 1593, dal cono d’ombra che abbiamo cercato di rischiarare con notizie sulla vita si passa alla luce delle sue prime opere: il “Ragazzo con canestra di frutta” della Galleria Borghese, dove la natura morta si sposa alla figura con la stessa cura del particolare e intensità di rappresentazione. La mostra lo presenta per un raffronto con il “Bacco” del 1596-97 della Galleria degli Uffizi, anch’esso con il suo canestro, e con la “Canestra di frutta”, del 1597-98, in prima uscita assoluta dalla Pinacoteca della Biblioteca Ambrosiana.

Tre opere con tanti punti in comune riconducibili al naturalismo del primo periodo romano con una luminosità data da un cono di luce che taglia la composizione nel primo, oppure da un’atmosfera di chiarezza diffusa negli altri due. L’attenzione agli stessi particolari si nota per le macchie sulle foglie e, nelle due “canestre”, per la spaccatura naturale del fico troppo maturo.

Molto interesse suscita l’inconsueto accostamento delle figura alla natura morta, che troviamo nei due primi dipinti. In entrambi c’è pari cura per i particolari della “natura morta” e quelli della “natura viva”; come avveniva per i fiamminghi, molto seguiti a Roma, le forme venivano poste in risalto nei loro dettagli con la luce anche riflessa. Anna Coliva rileva “la diversità di stesura esecutiva della figura, più sfumata e imprecisa nella definizione”; la attribuisce “all’intenzionale sfida a rappresentare con diversa capacità mimetica la contrastante natura della realtà viva, dotata di anima, e quella morta, degli oggetti inanimati”. La fonte luminosa unica integrava i due temi riuniti, la persona e le cose.

L’arco dei soggetti doveva allargarsi presto dalla mitologia e la frutta a composizioni ispirate anche dalla realtà quotidiana. Il suo naturalismo diventa realismo ispirato alla vita che si svolgeva tra osterie e botteghe dove imperversava la svolta moralistica di papa Clemente VIII con il divieto dei giochi di bettola e l’ostracismo per mendicanti e zingari, oltre che per i delinquenti.

E’ di questo periodo “I bari”, del 1594-95, dal Kimbell Art Museum di Fort Worth anteriore a due delle opere prima commentate e anticipate per la comparazione. Il nostro ha lasciato la bottega del Cavalier d’Arpino, i soggetti rappresentati sono quelli tipici delle osterie, si tratta di uno dei suoi primi dipinti con più figure. E’ una composizione quasi triangolare, su più piani, sembra in rilievo, con tre soggetti, i due giocatori e il baro che sbircia di soppiatto le carte, e tre oggetti, carte, scatola con dadi e tavolo; i movimenti delle braccia sono avvolti dalla luminosità di matrice veneziana, con l’assonanza coloristica della giubba del baro con quella del giocatore suo compare. Ebbe molta importanza per lui perché fu acquistato dal cardinal Del Monte, che da allora cominciò a proteggerlo, e perché fu apprezzato dall’ambiente aristocratico.

1594-99: soggetti musicali, religiosi, biblici

Il nostro risiederà presso il cardinale e alcuni dipinti successivi saranno di argomento musicale, per così dire, essendo Del Monte non solo musicista e studioso della materia ma anche collezionista di strumenti e partiture che hanno un ruolo non secondario nei due dipinti in mostra, “I musici” dal Metropolitan Museum of Art di New York e “Suonatore di liuto” dall’Ermitage di San Pietroburgo: ambedue a cavallo del 1595.

Parla bene di entrambi i dipinti il suo biografo rivale Baglione, cosa alquanto rara: per il primo, che parte dal 1594, scrive di “alcuni giovani ritratti dal naturale assai bene”; per il secondo, che arriva al 1596, “che vivo e vero tutto il parea”. Naturale e vero, soprattutto nelle bocche socchiuse dei suonatori che in tutti e due sembrano prese dalla realtà e, per il secondo, anche nel movimento molto pronunciato e non convenzionale delle mani. E’ evidente la cura nel rappresentare gli strumenti, che nel secondo dipinto sono mostrati con la prospettiva di derivazione lombarda, e il panneggio che assume connotati classici, con le pieghe delle tuniche bianche rispetto ai rigidi corsetti degli abiti romani moderni dipinti nei “Bari”.

Ma qui, soprattutto nei “Musici”, è l’allegoria pagana a subentrare insieme al classicismo stilistico, tanto che la figura in secondo piano ci sembra richiamare il suo “Bacco”; e c’è un amorino che prende un grappolo d’uva; come lo richiama il piatto con la frutta alla destra del “Suonatore di liuto” anche nei fichi maturi spezzati e nelle foglie maculate, il realismo nella “natura morta”. La caraffa con i fiori di cui si intravede il riflesso dell’acqua, così nelle parole del pur severo Baglione: “Sopra quei fiori eravi una viva rugiada con ogni esquisita diligenza finita. E questo (disse) fu il più bel pezzo che facesse mai”.

Anche la partitura musicale in entrambi merita di essere sottolineata, perché torna nel “Riposo durante la fuga in Egitto”, degli stessi anni, dalla Galleria romana Doria Pamphilij, eseguito per un monsignor Petrignani che lo ospitò nella parrocchia di San Salvatore in Lauro nel 1594, quando lasciò la bottega d’Arpino. Ci sembra di vedere nella figura efebica con un leggero panneggio classico che ne avvolge il corpo un residuo pagano che accompagna la tenera immagine della Madonna stretta al Bambino mentre Giuseppe, quasi appartato, regge lo spartito per l’efebo angelo che suona il violino: è stato identificato il motto musicale “Quam pulchra es et quam decora, charissima in deliciis”, dal “Cantico dei Cantici”, la glorificazione della Vergine Maria. Il tutto immerso in una natura senza profondità né prospettiva, la luce fa spiccare l’angelo quasi pagano e la Madonna cristiana, quasi un passaggio di consegne all’insegna della sacralità della musica.

Passiamo al 1599, la scena cambia drasticamente, il naturale e vero delle figure, che avevamo identificato nelle bocche socchiuse dolcemente, assume espressioni di forte determinazione e straziante tragicità in “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”, dalla Galleria Nazionale romana d’Arte Antica di Palazzo Barberini. Anche questo è un dipinto di svolta, perché si cimenta con una scena particolarmente drammatica mostrando la sua capacità di rappresentare storie allora molto richieste. Il contrasto tra l’espressione decisa e ferma della giovane Giuditta e l’orrore degli occhi sbarrati della vecchia serva unita alla tremenda agonia di Oloferne – bocca spalancata e sguardo nel vuoto – mostrano il livello raggiunto nel rappresentare i moti dell’animo, di matrice leonardesca.

Il volto di Giuditta è quello di Fillide Melandroni, una cortigiana che diede le sue sembianze anche a sante ed eroine del nostro, e per il realismo rappresentativo era perfettamente riconoscibile, cosa che creò non pochi problemi all’artista nel suo nuovo ambiente, diverso da quello popolare. Ma ben altri problemi stavano per addensarsi sulla sua vita! Ne parleremo ripercorrendo le altre due fasi, il “successo” e la “fuga”, con la descrizione delle restanti 16 opere in mostra alle Scuderie..

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Cinema & Storia, 100 storie per la nostra storia: un primo piano

di Romano Maria Levante

Dopo aver raccontato la premiazione per l’iniziativa alla quale hanno partecipato 30 scuole della provincia di Roma, intitolata “100 + 1, Cento film più un Paese, l’Italia”, che ha visto impegnati 1800 alunni con i rispettivi professori, facciamo un primo piano sul liceo ginnasio “Tacito” di Roma, risultatotra i premiati con una delle quattro “menzioni speciali” ai lavori scritti, per rendere onore al merito e far percepire a tutti gli interessati le vaste potenzialità della manifestazione.

Il primo piano non può che aprirsi con la fotografia di gruppo di un’allegra brigata di studentesse e studenti intorno alla professoressa, al termine della premiazione, prima del “rompete le righe”. Serena Dandini ha concluso la sua conduzione fresca e disinvolta nel sole implacabile che inondava il cortile di Palazzo Valentini assecondata, nel leggere le motivazioni e consegnare i premi, dai registi e attori i cui interventi sono stati in carattere con la sua freschezza e disinvoltura.

L’immagine successiva che ci sembra molto eloquente è la locandina ideata per la manifestazione dalla scuola premiata, ne ribadiamo lo spirito critico e l’iniziativa di proporre una nuova denominazione per superare il 100 + 1 troppo simile alla “carica dei 101” di disneyana memoria, che evoca un “comic” tenero ed esilarante, ma di impronta infantile, su una storia invece molto seria: perché è la nostra storia – lo propone il loro titolo che abbiamo fatto nostro – scritta con 100 storie, anch’esse molto serie pur se con il tono della commedia: sono il costume e la vita del Paese.

La menzione speciale al Liceo Classico “Tacito” di Roma: parla la professoressa

A questo punto, dopo aver raccontato nel servizio precedente la premiazione, la nostra vocazione all’approfondimento ci ha fatto rivolgere l’attenzione alle “menzioni speciali” di cui non si è saputo altro che la motivazione. Non hanno avuto il televisore a 40 pollici o le video camere dei tre cortometraggi premiati ex aequo, ma l’attestato e soprattutto il riconoscimento morale, ed è quel che più conta, della validità del lavoro svolto con gli strumenti classici della scuola: la scrittura.

E siamo stati fortunati, aveva avuto la “menzione” proprio il gruppo che avevamo fotografato per la gaiezza e la simpatia di ragazze e ragazzi sorridenti alle prese con le fette della torta di “Cinema & Storia”. Appena ci siamo rivolti alla professoressa abbiamo capito di aver trovato quello che cercavamo, una testimonianza diretta per conoscere da vicino il modo con cui si è proceduto. Che poi si trattasse dell’unico liceo classico premiato per noi è stata la ciliegina sulla torta, di licei classici ne abbiamo frequentati due, il Melchiorre Delfico di Teramo e poi il Minghetti di Bologna.

Il nostro “blow up” inizia con una testimonianza, quella della professoressa che dopo la fotografia si presta a raccontarci “com’è andata”, mentre le ragazze continuano a gustare il loro pezzo di torta scherzando. “La maggiore difficoltà – ha esordito parlando degli allievi – è stata invogliarli e riflettere su cose che ignoravano del tutto. Dovevamo scoprire un mondo a loro sconosciuto, in particolare il passaggio dell’Italia da paese agricolo a nazione industriale con il boom economico”.

Ebbene chi come noi ha vissuto il “miracolo economico”, i “favolosi anni ’60” e poi il ’68 si deve immedesimare in una generazione che forse neppure dai genitori ha avuto trasmessa la memoria di quel periodo. Solo il cinema lo può riportare alla loro attenzione con la forza coinvolgente delle immagini e il fascino delle storie narrate. Ci sta provando anche la letteratura, con il Festival in corso a Roma alla Basilica di Massenzio, imperniato appunto sulla “Vita Dolce” per celebrare il sessantennale della “Dolce vita”. Però lo fa nella rilettura attuale, di scrittori e filosofi che leggono propri testi sui temi proposti, mentre il cinema permette di calarsi direttamente nella realtà evocata.

Ma lasciamo proseguire la professoressa: “Dopo lo sconcerto iniziale sono seguite le azioni di inquadramento di quel periodo perché potessero immergersi in una realtà i cui contorni fossero in qualche modo delineati. Così siamo andati alla riscoperta di un mondo all’apparenza meno concitato di oggi, con tanti problemi”. E qui una notizia forse sorprendente anche per gli organizzatori: “Non si sono appassionati soltanto alla storia del costume, lo strumento cinematografico li ha presi, sono andati anche alla tecnica cinematografica sui piani e sulle sequenze, con riferimento a due film molto diversi anche nell’aspetto più appariscente oltre che nel contenuto: il bianco e nero di ‘Io la conoscevo bene’, il colore di “Un borghese piccolo piccolo”.

Un aspetto che la professoressa sottolinea in modo particolare è il lavoro collettivo della classe al completo: “Hanno partecipato i ventuno componenti, nessuno escluso, tutti sullo stesso piano prima individualmente e poi collettivamente”. Ed ecco come si è proceduto, facendo attenzione a che ogni apporto fosse valorizzato : “C’è stato, dunque, un lavoro preparatorio, ho dovuto allungare i tempi di cui potessimo disporre rispetto a quelli che si potevano sottrarre al normale programma”.

Per il lavoro conclusivo, nel quale si sono tirate le fila di quanto emerso dalla visione e dalle discussioni sui film visionati, Internet è stata fondamentale, è stato come creare un Intranet della classe: “Comunicavamo con le e mail, ognuno ha fornito il proprio apporto singolo, poi è iniziato il lavoro di gruppo”. Come? “I pezzi forniti da ciascuno sono stati valutati in modo collegiale per individuare le parti più valide e condivise da utilizzare; su questa base si è provveduto alla riscrittura collettiva organizzata per gruppi”. La riunione conclusiva si è protratta fino a sera tardi.

La professoressa ci tiene a sottolineare l’importanza del punto di partenza: l’ammissione esplicita “non sappiamo nulla”, la consapevolezza di non conoscere la materia. Sottintende il principio socratico “so di non sapere” come principio basilare del sapiente, altrettanto valido per dei giovani discenti. Osserviamo che quell’ammissione fa onore a loro, nel costume di un paese fotografato oltre che dalla maschera di Alberto Sordi anche dal “sarchiapone” di Walter Chiari con la presunzione di mostrare di sapere tutto, anche quello di cui non si sa nulla: ebbene, questa classe non avrebbe descritto il “sarchiapone” né avrebbe detto: “io lo allevo” come invece “fan tutti”.

I contenuti proposti da due film alquanto impegnativi sono molto diversi, il secondo pone anche problemi complessi sul sistema di valori. Perchè in “Un borghese piccolo piccolo” c’è un capovolgimento dei ruoli e sembrano sbiadire i confini tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Per l’analisi svolta dalla classe il protagonista è negativo sin dall’inizio, nel sostituirsi al figlio e cercare tutte le scorciatoie per un malinteso amore paterno, prima di precipitare nel dramma finale.

“Non è stato facile far entrare dei ragazzi in un mondo così livido e spietato da entrambe le parti, ma non è stato traumatico, ci ha aiutati il loro interesse alla tecnica cinematografica nello studio delle sequenze”. Anche se, come vedremo dalla loro analisi, i contenuti hanno lasciato il segno.

La professoressa mostra un vero trasporto nel raccontare questa sua esperienza, ci dà anche l’elaborato nel quale il lavoro è confluito. Ne daremo conto di seguito, è intitolato “100 storie per la nostra storia – Contributo degli alunni della II A al progetto ‘Cinema & Storia”. Si presentano così: “Siamo gli alunni della classe II A del Liceo Ginnasio statale ‘C. Tacito’ di Roma, ‘capitanati’ dalla professoressa Laura Maria Teodori”. E nelle virgolette alla parola “capitanati” ci sembra di vedere una citazione: al “capitano, mio capitano!” dell’“Attimo fuggente”.

Alla moviola con le immagini e i contenuti

Qualcuno non riterrà ortodosso fare il “il traduttor dei traduttor d’Omero”, ma è utile se si vuole toccare con mano come è stato tradotto in pratica quanto detto dalla professoressa, e verificare la portata formativa dell’iniziativa. Naturalmente l’elaborato finale è solo la punta dell’iceberg costituito dall’effetto in profondità nell’animo e nella sensibilità dei ragazzi, la parte più importante.

Sin dall’inizio si parla di interesse e passione, lavoro e proposte, visioni e analisi, dibattiti e confronti, emozioni e riflessioni. Quella riassuntiva vede così “il vero cinema”: “E’ divertente, pieno di contenuti, impegnato, non noioso: dà un’idea del mondo e un’idea di sé. E la storia non incontra il cinema per caso, non lo sfiora tangenzialmente, non è un genere. Cinema è storia”. Per loro questo nesso è così importante che contrappongono all’immagine leggera suggerita da 100+1 la più austera intitolazione che qualifica i film come “cento storie” per costruire “la nostra storia”.

E’ solo l’inizio, l’analisi dei due film non è fatta in una visione d’insieme delle vicende narrate, anche se alla fine ricompongono il quadro per trarne una loro morale. Non si improvvisano critici cinematografici, si comportano da veri cineasti che esaminano le sequenze ritenute cruciali e le analizzano ad una ad una con un occhio alla macchina da presa e uno sguardo ai contenuti.

Seguiamoli in questa scomposizione per immagini delle due storie, quasi in un’operazione di montaggio alla moviola, si precisano i minuti. Ed era evidente che nell’introspezione la parte del leone la facesse Adriana, la protagonista di “Io la conoscevo bene”, impersonata da una giovanissima e stimolante Stefania Sandrelli, quasi un’identificazione con i sogni e le illusioni frustrate di tanta gioventù in una vita reale invece spesa nella noia e nelle inquietudini: sette sono le sequenze, per “Un borghese piccolo piccolo” sono tre, poi per entrambi le schede di sintesi.

Scene da “Un borghese piccolo piccolo”

La durezza del tema di questo secondo film con protagonisti i maturi genitori stravolti dal dolore portava a una rimozione, ben venga che invece si siano potuti fissare alcuni momenti cruciali. C’è l’anonimato di un lavoro svolto da “persone prive di immagine, di volto”, in “un luogo tragico e ridicolo”; si coglie la tragedia anche in una “massima aspirazione” malintesa e avvilente.

Come lo è la “religione piccola piccola” della seconda sequenza dove, invece che un rito collettivo, “la religione è solo un fatto privato. Tutto è privato, particolare. Annullata la comunità, l’incontro, la parola, la condivisione.

Nel cuore delle sequenze irrompe l’“’ordinaria’ mostruosità”, vista non soltanto nella tortura cui il protagonista sottopone il giovane che ha ucciso suo figlio dopo averlo sequestrato: “La mostruosità è prima. La mostruosità è già nel modello di vita. E’ nel pensare a se stessi soltanto. E’ chiuso al mondo il borghese piccolo piccolo, questo mostro. Comunità niente vuol dire per lui”.

La sintesi finale “dal ridicolo al tragico” segnala il taglio cinematografica delle parti del film, “la prima parte è caratterizzata da situazioni grottesche, quasi comiche”; poi la svolta drammatica, “in un attimo la situazione cambia, viene messa da parte quell’amara comicità”. Ci fa venire in mente “La vita è bella”, dove c’è analogo spartiacque quando alla farsa subentra un clima cupo da incubo.

Dell’analisi dei ragazzi colpisce e fa riflettere l’aver colto nel finale la possibile continuazione di un evento irripetibile, ormai non serve la tragedia più spaventosa per scatenare i peggiori istinti, al “borghese piccolo piccolo” basta che “un giovane lo insulta per strada”: si scatena lo “spirito del giustiziere” che è entrato in lui, “Giovanni insegue il giovane, presumibilmente, lo ucciderà”.

E’ una conclusione su cui meditare: “Questo film provoca disagio. Ci domandiamo quanto del borghese piccolo piccolo è in noi. Se anche noi siamo piccoli piccoli mostri”. Hanno colto, senza saperlo, le perplessità di Alberto Sordi evocate da Giuliano Montaldo, temeva si equivocasse e fosse preso per comportamento esemplare da imitare; no, i ragazzi lo hanno capito bene. Anche se in loro è subentrato un disagio. Quanti piccoli piccoli mostri tra noi, e se lo fossimo noi stessi?

Filosofia e psicologia, modelli e valori, quanti contenuti hanno potuto cogliere in un film! Per giunta meno congeniale per loro dell’altro molto più vicino ai propri turbamenti di adolescenti. Che provocano l’inquietudine esistenziale, non il disagio identitario. Nell’altro film prevale la prima.

Scene da “Io la conoscevo bene”

L’inquietudine è nella figura di Adriana, protagonista della loro analisi: dalla “sequenza iniziale” sono tutte dominate dall’adolescente che vive sulla propria persona il passaggio dalla vita rurale a quella cittadina nell’esodo epocale dalla “campagna” dove “tutto sembra essere fermo, dove tutto sembra essere senza tempo”, verso un mondo diverso, “per la ricerca della fortuna in città”.

La sequenza “con lo scrittore” viene vista come illuminante, lei ride dell’immagine di Milena che legge nelle pagine sparse sulla scrivania, “fino a che non si rende conto che forse questo personaggio non è del tutto inventato, anzi è proprio lei”. Ed è significativo che nella lettura si individua “il primo momento del film in cui Adriana inizia a prendere coscienza del fatto che sta sprecando la sua vita”; e si giustificano incertezze e superficialità, deve affrontare un mutamento epocale e nessuno la aiuta, la risposta che trova è “chissà, forse fai bene tu a vivere così”.

Come? Con le “mani bucate”, lo dice la canzone di Sergio Endrigo che è nel sottofondo della terza sequenza analizzata. Affidandosi, cioè, a chi si approfitta di lei che va “cercando tenerezza e compassione, per colmare il vuoto che sente dentro e che la rende profondamente sola e spaesata in un mondo troppo complesso per lei”; e perciò “incassa una delusione dopo l’altra con leggerezza, lasciandosela scivolare addosso”. Crede “di potersi destreggiare tra tanta spietatezza”, ma quando è sola come nella scena, “percepisce la solitudine e cerca di affogare il silenzio che la attanaglia”.

Un’altra canzone è anch’essa alla base dell’analisi, si tratta di “E se domani”, parla di perdita incolmabile. Adriana ripensa alla morte della sorella che aveva vissuto con superficialità, ora invece “la maschera che normalmente indossa crolla e lascia intravedere una sensibilità ingenua, innocente, schietta”. Con la voce di Mina, osservano i ragazzi, “sembra quasi di sentire l’anima di Adriana, lei che non fa mai programmi per il futuro, che vive minuto per minuto, che cerca di afferrare un pezzo del suo passato a cui ancorarsi per non lasciarsi trasportare giù”.

Tutto questo lo ricavano dalla “scena degli specchi”, sembra che i ragazzi siano alla moviola: “Pochi secondi, lentamente la camera segue il suo sguardo in movimento, si sposta verso sinistra fino ad abbracciare un’altra immagine del volto piangente”. E’ l’immagine “della protagonista, la vera Adriana, che osserva se stessa”.

La trilogia musicale si completa con “Toi” di Gilbert Becaud, anche qui i ragazzi sentono la musica ma guardano i movimenti della camera: “La macchina da presa è posizionata di fronte all’automobile, la accompagna nel suo percorso. Le inquadrature si giocano su due piani”, la parte anteriore con la città r i riflessi sul parabrezza con un “bell’effetto, piacevole. Ma inquietante, anche” . Perché passano le ombre, scivolano, come la vita è scivolata via dalle mani di Adriana, quando era ancora inconsapevole. Ora è diversa, però. Qualcosa è cambiato in lei”.

Di qui parte l’analisi finale, le sequenze si ricompongono, emerge la figura di “Adriana”: “Il prototipo della nuova Italia: attraente e convinta di poter usare il proprio fascino per farsi strada nell’ambiente dello spettacolo”. Mentre cade presto l’illusione che “tutto, anche le esperienze negative, sembra scivolare via senza lasciare alcuna traccia”: il dramma psicologico si tramuta in tragedia, come per “Un borghese piccolo piccolo”, come per il gettonatissimo “I pugni in tasca”.

Eloquente l’osservazione dei ragazzi: “Storia, diremmo oggi, attualissima: quante ragazze, infatti, sognano di entrare a far parte di quel mondo spregiudicato dello spettacolo a cui Adriana tanto aspirava? Quante alla fine ce la fanno? Ma soprattutto quante di queste ragazze sono costrette a cedere a vergognosi ricatti?”. Domande retoriche, questi giovani la loro risposta l’hanno data.

Che non si tratti di osservazioni superficiali lo dimostra l’ultima carrellata riassuntiva intitolata “L’Idiota”. Per Adriana come per il principe Myskin di Dostoevskij esplode il contrasto tra la natura buona e ingenua, presa per “deficienza”, e una società che si oppone a questi suoi sentimenti e rivela la vera natura della realtà, così diversa dal mondo che lei ha lasciato nel trapasso epocale del boom economico; e tale da sopraffarla quando “la sporca fuliggine che la società deposita sul fondo della sua coscienza pian piano inibirà quel suo chiudere gli occhi che le permetteva di andare avanti dopo ogni amara sconfitta che le veniva inferta da spettatori impietosi della sua storia”.

Se il film è riuscito a far aprire gli occhi su un degrado che “non solo fa parte del mondo moderno, ma ne è anche l’elemento fondante” l’iniziativa ha raggiunto un ulteriore insperato risultato.

L’utilizzo della rete come “forum”: una proposta

Abbiamo lasciato per ultima la loro proposta, che hanno collocato all’inizio: “Perché non ipotizzare l’apertura di spazi, in rete o altrove, destinati all’espressione e al confronto di idee, commenti, critiche ed elaborazioni riguardanti i film proposti?”. Viene così precisata: “Lo sfruttamento di un mezzo come la rete, largamente utilizzato dai fruitori del progetto (studenti liceali) potrebbe rivelarsi strategico e assolutamente ‘proficuo’”. In pratica “la creazione di un blog, un forum, una pagina Facebook potrebbe attirare l’attenzione di molti e stimolare il confronto sui film visti”.

La proposta ha tutto il nostro appoggio, anzi facciamo di più: mettiamo a disposizione lo spazio per i commenti che fossero sollecitati sui film di cui abbiamo detto e anche sugli altri. Naturalmente ci aspettiamo che i primi a usufruirne siano proprio i ragazzi dei quali abbiamo riportato l’accurata ed intelligente analisi; e in particolare l’allegra brigata da noi fotografata mentre assapora con gusto l’ottima torta di “Cinema & Storia”. Non abbiamo potuto ascoltarli dopo la professoressa Teodori, mentre parlava con noi hanno salutato e si sono allontanati. Ci terremmo molto ad averne i commenti, del resto noi stessi ne abbiamo commentato il lavoro. Se l’Intranet virtuale della classe funziona ancora, non tarderanno a ricevere l’eco di questa nostra diretta e personale sollecitazione.

Russia e Italia, anno della cultura, la firma per il 2011

Bondi e Adveev siglano l’accordo per il 2011, anno della cultura Italia-Russia

di Romano Maria Levante

– 20 maggio 2010

Siglato il memorandum d’intenti tra i ministri della Cultura d’Italia e della Federazione russa, Sandro Bondi e Alexander Avdeev, per gli scambi culturali del 2011, anno della cultura italiana in Russia e della cultura russa in Italia: mostre e spettacoli, apertura di un istituto di cultura russo, scambi di stage per i giovani a livello regionale e provinciale.

I ministri Bondi e Avdeev presentano insieme l’anno della cultura Italia-Russia

Siamo ancora una volta al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in un ambiente diverso dal solito, non nel salone ma nella Biblioteca. Non è una biblioteca come le altre, pur monumentali presenti a Roma, al Collegio romano faceva capo la scuola di astronomi con un famoso osservatorio. I risultati del loro lavoro con i preziosi libri d’epoca sono esposti alla mostra “Visioni Celesti”, aperta fino al 28 maggio2010alla Biblioteca Nazionale Centrale Umberto I.

E’la Biblioteca o Sala della “Crociera”, per la sua forma inconsueta a croce, come nelle chiese a croce greca o latina. Un fascino speciale, accresciuto da una mostra dal titolo stimolante “Per filo e per segno: lavori femminili fra arte e letteratura”: esposti libri antichi sul tema e ricami preziosi su paramenti sacri e teli, nonché interi abiti del laboratorio-scuola di ricamo di Palestrina, provenienti dal Museo diocesano della storica località, l’antica Praeneste in provincia di Roma.

Questa la cornice d’eccezione che il nostro ministro per i Beni e le Attività Culturali Bondi ha voluto per dare solennità all’accordo con il ministro della Cultura della Federazione russa Avdeev.

Sandro Bondi fa gli onori di casa nel modo più appropriato, sia nella scelta della cornice speciale dell’incontro, sia lasciando la ribalta all’illustre ospite. Si limita ad annunciare il principale risultato dell’accordo, l’apertura a Roma di un istituto culturale russo e la prossima venuta per la firma definitiva del Vice Presidente della Federazione russa. Poi passa la parola al collega ministro.

Si vede che Alexander Avdeev si trova a sua agio, per l’ambiente e per l’accoglienza. Inquadra l’accordo nei rapporti molto stretti tra le due culture segnati dalla storia, cita in particolare il ruolo degli architetti italiani negli edifici di prestigio delle principali città russe, il nostro pensiero va alle splendide architetture dalle cornici colorate di Rastrelli viste a San Pietroburgo. L’intento non è di creare ma di “allargare i rapporti, tutta la Russia può essere interessata dall’anno della cultura”.

In particolare si cercherà di “rafforzare e sviluppare i legami diretti interregionali”, dieci regioni russe “da Mosca aVladivostok” saranno coinvolte negli scambi culturali con altrettante regioni italiane. Con questi scambi, che si tradurranno in “stage” in provincia, verrà incentivata l’attività creativa di giovani attori e pittori, poeti e scrittori, “il nostro obiettivo” ha detto il ministro. Gli italiani saranno accolti nella residenza di Tolstoi, ha aggiunto evocando il grande romanziere.

Sarà dato ampio risalto a queste manifestazioni con un’appropriata copertura mediatica in televisione, stampa e altri mezzi, con particolari riguardo a Internet.

In Russia l’anno della cultura italiana è visto come un grande evento, “saremo felici di accogliere i rappresentanti della grande cultura italiana”.

Alcuni aspetti già definiti del programma di gemellaggio culturale

Parlano poi i Coordinatori incaricati dai due governi, con il prestigio di essere stati entrambi Ministri della Cultura e la particolarità positiva di conoscersi da allora.

Per l’Italia Giuliano Urbani dice che si sta lavorando a un programma che assicuri la presenza culturale italiana in Russia al massimo livello. E mette in campo Caravaggio e Botticelli, Giotto e Antonello da Messina più i grandi maestri del ‘900, verranno presentati in importanti mostre, i primi due al museo Pushkin . Poi il grande cinema in una rassegna itinerante, teatro e musica, classica e popolare. Il Piccolo di Milano a Mosca e San Pietroburgo, il Taganka di Mosca in Italia.

Per la lingua e la letteratura italiana le iniziative riguarderanno il libro e le traduzioni tra le due lingue, essenziali per la diffusione. Una sezione concerne la “cultura spirituale contemporanea”.

Ma non sarà soltanto il nostro fulgido passato artistico, e culturale in genere, ad illuminare l’anno dello scambio italo-russo. Verranno presentate anche le eccellenze italiane attuali in una proiezione verso il futuro, nell’arte e nella scienza, nel design e nella tecnologia. Non ci si limita a trasmettere arte e cultura del passato, si comunica anche quella del presente.

Una novità assoluta sarà il dialogo tra i cittadini di ciascun paese e i governanti dell’altro paese, Urbani precisa che sono allo studio le modalità, comunque si svolgerà attraverso Internet. Conclude sottolineando che, a parte queste prime indicazioni, ci saranno molti scambi culturali a livello regionale e provinciale, con iniziative di gemellaggio: cita quella tra una repubblica caucasica sul mar Caspio della nazione scacchistica per eccellenza e la nostra Marostica dove ogni anno viene rinnovata l’antica tradizione della partita a scacchi vivente nella piazza della cittadina.

Il coordinatore incaricato per la Federazione russa  Mikhail Shvidkoy è immaginifico, inizia dicendo che “dobbiamo cercare di stupire e di stupirci a vicenda”.

L’anno della cultura si aprirà a Roma con l’inaugurazione della mostra dedicata ad Alexander Deineka, un esponente della pittura realista russa, celebrato di recente nella Galleria Tetriakova della loro capitale, fu amico di Renato Guttuso; verrà chiuso a Mosca dalla riapertura del Bolshoi dopo cinque anni con un balletto e il “Requiem di Verdi” dell’orchestra del Teatro alla Scala.

E’ all’esame la mostra incrociata degli argenti della famiglia Medici, i capolavori conservati al Cremlino portati in varie città italiane, quelli di palazzo Pitti al museo del Cremlino, con esemplari delle uova Fabergé: un interessante scambio itinerante di una collezione ripartita tra i due paesi.

Poi ribadisce l’interesse a promuovere con gli scambi culturali i giovani talenti: artisti del cinema, teatro, arte in genere, e delle nuove arti visive. Anche il balletto del Bolshoi tornerà in Italia

“Amarci è stupirci”, ribadisce, “l’amore viene dalla sorpresa”. Ce ne saranno di piccole e grandi, tra cui uno spettacolo con un regista russo di 92 anni che metterà in scena un testo del coetaneo italiano Tonino Guerra. “Si può amare e sorprendere anche dopo i novant’anni” conclude, “saranno messe in comunicazione due società civili”. Non lo ha detto, ma Tonino Guerra ha avuto la laurea honoris causa a San Pietroburgo, dunque in Russia è di casa e lo si è capito dal tono che ha usato.

La cultura alla base di tutto, più che l’economia, dice Avdeev

Verrà poi chiesto al ministro russo Avdeev come vede la relazione tra questi scambi culturali e gli intensi rapporti economici che si svolgono da molti anni tra i due paesi. Risponde che i secondi possono anche venir meno – e si riferisce ad un lontano futuro in cui nuove fonti di energia potrebbero sostituire il gas venduto all’Italia dalla Russia – mentre “gli scambi culturali formano la coscienza civile e quindi i loro effetti non potranno mai venire meno, perciò sono alla base di tutto”.

Rispondendo a un’altra domanda sulle analoghe manifestazioni dell’anno franco-russo e del futuro anno russo-spagnolo, dice che “la cultura italiana è arrivata prima di quella francese” e che con la Spagna non si tratterà solo di rapporti culturali ma “anche in campo economico, tecnico e scientifico, perché occorre promuovere questi ultimi”. Per l’Italia ci si concentra sulla cultura perché negli altri campi i rapporti sono molto intensi e non c’è nulla da approfondire, si sa tutto.

La conferenza stampa termina con questi riconoscimenti all’Italia nella triade latina che è stata evocata. L’occhio ci torna sui paramenti sacri, le mitrie, le stole finemente ricamate in oro. Ripensiamo alle solenni cerimonie liturgiche della chiesa ortodossa, con le spettacolari iconostasi che sottolineano il mistero della fede e la sua presa popolare. Certamente non poteva esserci mostra più appropriata dei paramenti liturgici di Palestrina per fare da cornice a questo solenne incontro.

(ph. Romano Maria Levante)

Tag: Russia, Sandro Bondi

Russia e Italia, Bondi e Adveev siglano l’accordo per il 2011 anno della cultura

di Romano Maria Levante

Siglato il memorandum d’intenti tra i ministri della Cultura d’Italia e della Federazione russa, Sandro Bondi e Alexander Avdeev, per gli scambi culturali del 2011, anno della cultura italiana in Russia e della cultura russa in Italia: mostre e spettacoli, apertura di un istituto di cultura russo, scambi di stage per i giovani a livello regionale e provinciale.

I ministri Bondi e Avdeev presentano insieme l’anno della cultura Italia-Russia

Siamo ancora una volta al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in un ambiente diverso dal solito, non nel salone ma nella Biblioteca. Non è una biblioteca come le altre, pur monumentali presenti a Roma, al Collegio romano faceva capo la scuola di astronomi con un famoso osservatorio. I risultati del loro lavoro con i preziosi libri d’epoca sono esposti alla mostra “Visioni Celesti”, aperta fino al 28 maggio2010alla Biblioteca Nazionale Centrale Umberto I.

E’la Biblioteca o Sala della “Crociera”, per la sua forma inconsueta a croce, come nelle chiese a croce greca o latina. Un fascino speciale, accresciuto da una mostra dal titolo stimolante “Per filo e per segno: lavori femminili fra arte e letteratura”: esposti libri antichi sul tema e ricami preziosi su paramenti sacri e teli, nonché interi abiti del laboratorio-scuola di ricamo di Palestrina, provenienti dal Museo diocesano della storica località, l’antica Praeneste in provincia di Roma.

Questa la cornice d’eccezione che il nostro ministro per i Beni e le Attività Culturali Bondi ha voluto per dare solennità all’accordo con il ministro della Cultura della Federazione russa Avdeev.

Sandro Bondi fa gli onori di casa nel modo più appropriato, sia nella scelta della cornice speciale dell’incontro, sia lasciando la ribalta all’illustre ospite. Si limita ad annunciare il principale risultato dell’accordo, l’apertura a Roma di un istituto culturale russo e la prossima venuta per la firma definitiva del Vice Presidente della Federazione russa. Poi passa la parola al collega ministro.

Si vede che Alexander Avdeev si trova a sua agio, per l’ambiente e per l’accoglienza. Inquadra l’accordo nei rapporti molto stretti tra le due culture segnati dalla storia, cita in particolare il ruolo degli architetti italiani negli edifici di prestigio delle principali città russe, il nostro pensiero va alle splendide architetture dalle cornici colorate di Rastrelli viste a San Pietroburgo. L’intento non è di creare ma di “allargare i rapporti, tutta la Russia può essere interessata dall’anno della cultura”.

In particolare si cercherà di “rafforzare e sviluppare i legami diretti interregionali”, dieci regioni russe “da Mosca aVladivostok” saranno coinvolte negli scambi culturali con altrettante regioni italiane. Con questi scambi, che si tradurranno in “stage” in provincia, verrà incentivata l’attività creativa di giovani attori e pittori, poeti e scrittori, “il nostro obiettivo” ha detto il ministro. Gli italiani saranno accolti nella residenza di Tolstoi, ha aggiunto evocando il grande romanziere.

Sarà dato ampio risalto a queste manifestazioni con un’appropriata copertura mediatica in televisione, stampa e altri mezzi, con particolari riguardo a Internet.

In Russia l’anno della cultura italiana è visto come un grande evento, “saremo felici di accogliere i rappresentanti della grande cultura italiana”.

Alcuni aspetti già definiti del programma di gemellaggio culturale

Parlano poi i Coordinatori incaricati dai due governi, con il prestigio di essere stati entrambi Ministri della Cultura e la particolarità positiva di conoscersi da allora.

Per l’Italia Giuliano Urbani dice che si sta lavorando a un programma che assicuri la presenza culturale italiana in Russia al massimo livello. E mette in campo Caravaggio e Botticelli, Giotto e Antonello da Messina più i grandi maestri del ‘900, verranno presentati in importanti mostre, i primi due al museo Pushkin . Poi il grande cinema in una rassegna itinerante, teatro e musica, classica e popolare. Il Piccolo di Milano a Mosca e San Pietroburgo, il Taganka di Mosca in Italia.

Per la lingua e la letteratura italiana le iniziative riguarderanno il libro e le traduzioni tra le due lingue, essenziali per la diffusione. Una sezione concerne la “cultura spirituale contemporanea”.

Ma non sarà soltanto il nostro fulgido passato artistico, e culturale in genere, ad illuminare l’anno dello scambio italo-russo. Verranno presentate anche le eccellenze italiane attuali in una proiezione verso il futuro, nell’arte e nella scienza, nel design e nella tecnologia. Non ci si limita a trasmettere arte e cultura del passato, si comunica anche quella del presente.

Una novità assoluta sarà il dialogo tra i cittadini di ciascun paese e i governanti dell’altro paese, Urbani precisa che sono allo studio le modalità, comunque si svolgerà attraverso Internet. Conclude sottolineando che, a parte queste prime indicazioni, ci saranno molti scambi culturali a livello regionale e provinciale, con iniziative di gemellaggio: cita quella tra una repubblica caucasica sul mar Caspio della nazione scacchistica per eccellenza e la nostra Marostica dove ogni anno viene rinnovata l’antica tradizione della partita a scacchi vivente nella piazza della cittadina.

Il coordinatore incaricato per la Federazione russa  Mikhail Shvidkoy è immaginifico, inizia dicendo che “dobbiamo cercare di stupire e di stupirci a vicenda”.

L’anno della cultura si aprirà a Roma con l’inaugurazione della mostra dedicata ad Alexander Deineka, un esponente della pittura realista russa, celebrato di recente nella Galleria Tetriakova della loro capitale, fu amico di Renato Guttuso; verrà chiuso a Mosca dalla riapertura del Bolshoi dopo cinque anni con un balletto e il “Requiem di Verdi” dell’orchestra del Teatro alla Scala.

E’ all’esame la mostra incrociata degli argenti della famiglia Medici, i capolavori conservati al Cremlino portati in varie città italiane, quelli di palazzo Pitti al museo del Cremlino, con esemplari delle uova Fabergé: un interessante scambio itinerante di una collezione ripartita tra i due paesi.

Poi ribadisce l’interesse a promuovere con gli scambi culturali i giovani talenti: artisti del cinema, teatro, arte in genere, e delle nuove arti visive. Anche il balletto del Bolshoi tornerà in Italia

“Amarci è stupirci”, ribadisce, “l’amore viene dalla sorpresa”. Ce ne saranno di piccole e grandi, tra cui uno spettacolo con un regista russo di 92 anni che metterà in scena un testo del coetaneo italiano Tonino Guerra. “Si può amare e sorprendere anche dopo i novant’anni” conclude, “saranno messe in comunicazione due società civili”. Non lo ha detto, ma Tonino Guerra ha avuto la laurea honoris causa a San Pietroburgo, dunque in Russia è di casa e lo si è capito dal tono che ha usato.

La cultura alla base di tutto, più che l’economia, dice Avdeev

Verrà poi chiesto al ministro russo Avdeev come vede la relazione tra questi scambi culturali e gli intensi rapporti economici che si svolgono da molti anni tra i due paesi. Risponde che i secondi possono anche venir meno – e si riferisce ad un lontano futuro in cui nuove fonti di energia potrebbero sostituire il gas venduto all’Italia dalla Russia – mentre “gli scambi culturali formano la coscienza civile e quindi i loro effetti non potranno mai venire meno, perciò sono alla base di tutto”.

Rispondendo a un’altra domanda sulle analoghe manifestazioni dell’anno franco-russo e del futuro anno russo-spagnolo, dice che “la cultura italiana è arrivata prima di quella francese” e che con la Spagna non si tratterà solo di rapporti culturali ma “anche in campo economico, tecnico e scientifico, perché occorre promuovere questi ultimi”. Per l’Italia ci si concentra sulla cultura perché negli altri campi i rapporti sono molto intensi e non c’è nulla da approfondire, si sa tutto.

La conferenza stampa termina con questi riconoscimenti all’Italia nella triade latina che è stata evocata. L’occhio ci torna sui paramenti sacri, le mitrie, le stole finemente ricamate in oro. Ripensiamo alle solenni cerimonie liturgiche della chiesa ortodossa, con le spettacolari iconostasi che sottolineano il mistero della fede e la sua presa popolare. Certamente non poteva esserci mostra più appropriata dei paramenti liturgici di Palestrina per fare da cornice a questo solenne incontro.

(ph. Romano Maria Levante)

Tag: Russia, Sandro Bondi

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi (prima parte)

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I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

I “venerdì di Archeorivista”, dopo il “cinemascope” dell’“Opus Sectile di Porta Marina”, approdano ad Assisi alla Basilica di San Francesco, un vero “planetario” di meraviglie pittoriche e di immagini celesti. Una mostra eccezionale sui “Colori di Giotto”, dall’11 aprile al 5 settembre 2010, regista Giuseppe Basile: un restauro reale nella Cappella San Nicola e la “restituzione virtuale” al Palazzo di Monte Frumentario. La spiritualità che emana dal ciclo delle Storie di San Francesco e dalle immagini sacre che popolano le volte e le cappelle della Basilica Inferiore, è illuminata dal cielo dipinto con un azzurro che nella Basilica Superiore appare tenue e offuscato.

Non solo il cielo, ma anche gli abiti e il panneggio, gli ambienti e la natura hanno assunto con il tempo colori sfumati, spesso macchiati dalle immissioni delle candele poi sostituite da luci anch’esse dannose, non solo potenzialmente, sui delicati pigmenti degli affreschi giotteschi.

Affrontare questo problema fa tremare le vene ai polsi, è un vaso di Pandora del quale non si conoscono gli esiti finali, sarebbe come rivedere, se non riscrivere, la Divina Commedia. Ebbene, è stato trovato il coraggio di farlo, e nel momento più simbolico ed evocativo, nell’VIII Centenario dell’approvazione della regola francescana; e farlo considerando “i colori di Giotto” come un sito archeologico da studiare ed esplorare per portare alla luce per quanto possibile la preesistenza.

A questa celebrazione si unisce il VII Centenario della presenza accertata di Giotto ad Assisi e del suo grandioso lavoro pittorico nelle Basiliche francescane, una congiunzione di astri celesti.

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

Le celebrazioni dell’anniversario della Regola francescana e della presenza di Giotto ad Assisi

Le manifestazioni si sviluppano lungo un triennio, il 2010 ne è l’anno centrale, metterne la figura di Giotto al centro potrà favorire la candidatura di Assisi a Capitale Europea della Cultura nel 2019: non siamo “sub specie aeternitatis” ma la prospettiva ha l’orizzonte lungo della Chiesa e l’ala del “Serafico” è protettrice. Gli si affidò anche D’Annunzio, che ne parla nei “Taccuini”, prima del volo periglioso alle Bocche di Cattaro, la sua venerazione per il Santo è documentata dal libro “D’Annunzio e il francescanesimo” che Arnaldo Fortini, allora sindaco di Assisi, pubblicò nel 1963 per le “Edizioni di Assisi”, 263 pagine di episodi, incontri e riscontri di fede dannunziani.

Quest’anno sono i “Colori di Giotto” al centro della celebrazione, nel 2011 ci sarà una grande mostra con prestiti internazionali su “Giotto e Assisi. Il cantiere della Basilica e l’arte in Umbria tra Duecento e Trecento”, che proporrà ulteriori iniziative innovative del tipo di quelle presentate quest’anno e di cui parleremo. Non prima di aver precisato che il programma si avvale di un Comitato scientifico il cui presidente è Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, tra i membri spicca Giuseppe Basile, direttore delle attività di restauro reale e virtuale.

L’organizzazione è curata dall’associazione “Civita”, presieduta da Antonio Meccanico, benemerita nella promozione dell’arte e della cultura con la moltitudine di organismi che vi fanno capo, che vede messa alla prova la sua intensa attività e la comprovata efficienza in una sfida molto impegnativa sotto il profilo organizzativo per la novità e la complessità della realizzazione.

Il sindaco Claudio Ricci ha fatto un excursus sul grande lavoro compiuto nel territorio comunale per guarire le ferite del terremoto del 1997 con ben 2600 fra restauri, opere, infrastrutture: “Abbiamo ridato luce alle ‘pietre vive’ della città serafica da cui, otto secoli fa, è nato il francescanesimo – ha detto – Ma dal francescanesimo, sette secoli fa, nasceva anche l’arte pittorica europea”. Ha parlato degli oltre 20.000 mq di affreschi, “in cui si possono ammirare le prove dei maggiori tra i pittori del Duecento e del Trecento, dallo stupore della tridimensionalità in pittura di Giotto, a Cimabue, a Simone Martini, a Pietro Lorenzetti fino all’assisiate Puccio Capanna”.

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

E’ arrivato così alla manifestazione attuale: “Quasi 100 artisti e artigiani che fecero di Assisi il cantiere più importante della cultura europea. Con le mostre dedicate a Giotto nell’anno 2010 e 2011 vorremmo riaprire questo cantiere”. In che modo? “Non sarà solo un evento espositivo, ma un vero e proprio ‘progetto culturale’ volto a dare emozioni ai tanti visitatori di Assisi”. E ha concluso dicendo che “si è voluta coniugare la tradizione con la modernità per valorizzare l’identità culturale del territorio e suscitare stupore insieme ad emozione”.

Ne parla, con riferimento alle celebrazioni dei centenari assisiati, il Custode del Sacro Convento padre Giuseppe Piemontese con tono ispirato, ricordando la saldatura della spiritualità di San Francesco con l’arte di Giotto: “L’intento celebrativo ed evangelizzatore dei frati francescani, verso la fine del XIII secolo, si incontrò e si sposò in maniera egregia con Giotto e la sua scuola perché, attraverso una coralità di riflessioni e di interazioni, fossero rappresentati la vita, la santità, la teologia e il messaggio di Francesco”. E ha ricordato che nell’VIII centenario dell’approvazione della Regola ad Assisi, nell’aprile 2009, per una settimana 2000 frati osservanti di ogni provenienza hanno celebrato il Capitolo delle stuoie, culminato nel rinnovo della professione della Regola da parte dei ministri delle tre grandi famiglie francescane davanti a papa Benedetto XVI, in una cerimonia “speculare a quella che, sette secoli fa – hanno scritto le cronache – è stata magistralmente affrescata da Giotto nelle storie francescane della Basilica Superiore di San Francesco di Assisi”.

La presentazione da parte di Giuseppe Basile, direttore e regista dell’iniziativa – è riduttivo definirlo curatore della mostra – ha messo in luce la vastità del lavoro di ricerca che ha permesso di proporre al pubblico un’esperienza straordinaria e senza precedenti. Dove lo studio approfondito si è avvalso di tecnologie avanzate e di metodi innovativi – “grazie a Sorella tecnologia” aveva introdotto francescanamente il rappresentante dei frati conventuali – per un compito titanico: mettere le mani sui dipinti del sommo maestro Giotto sembra un sacrilegio, invece serve a riportarli nella loro sacralità originaria, primigenia diremmo; e anche se questo è possibile farlo solo in modo parziale, si è inteso dare un’idea molto spettacolare di tutto l’insieme con un intervento virtuale.

L’archeologia del restauro è stata già sperimentata nella Basilica con gli interventi conservativi e ricostruttivi a seguito del terremoto del 1997, che fece crollare le due vele centrali, ricollocate con un intervento che, per quanto possibile, rivela visivamente il materiale originario recuperato in centinaia di migliaia di frammenti e ricomposto. Si è ricavata da una minaccia un’opportunità, come sia stata grave lo ricorda la nuvola distruttiva di polvere e calcinacci che al crollo sconvolse l’intera Basilica come fosse una tromba d’aria: è stato possibile “‘vedere da vicino’ uno dei più avvincenti capitoli della storia dell’arte dell’Occidente, dove hanno lavorato i maggiori pittori del Medioevo”.

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

Le storie di San Nicola nella Cappella della Basilica Inferiore

Tra poco anche noi vedremo “da vicino”, nel “venerdì di Archeorivista”, i dipinti della Cappella di San Nicola dove c’è innanzitutto il mistero intrigante dell’intervento di Giotto e dei suoi allievi.

Vittoria Garibaldi, soprintendente dei beni storici e artistici dell’Umbria, direttore del restauro della Cappella, i cui lavori sono coordinati da Sergio Fusetti, descrive la vasta composizione pittorica. Vale la pena prenderne nota per apprezzarne la qualità artistica e valutarne i problemi.

C’è anche il monumento funerario di Gian Gaetano Orsini, della famiglia committente di questa Cappella e dell’altra simmetrica dedicata a San Giovanni Battista. E’ sovrastato da un trittico pittorico che crea con la scultura una composizione di elevato valore artistico tutto da decifrare “durante il restauro in corso, che in questo senso diventa ancora più importante”.

Le pitture, che coprono i 240 metri quadrati della Cappella, iniziano già all’esterno con l’”Annunciazione”, poi ci sono sei coppie di santi compreso San Nicola, quattro martiri circondati da quattro sante tra cui Santa Chiara, ricollegando questa parte di cappella alle storie francescane.

Dopo le pitture iconiche si sviluppano le storie del Santo, dall’apparizione in sogno di Nicola a Costantino, al Dono dell’oro alle fanciulle, dai Salvataggi miracolosi degli innocenti condannati alla decapitazione e della Nave nella tempesta, fino ai Tre principi che gli rendono grazie.

L’attenzione è richiamata su altre vicende miracolose nel vano di fondo della Cappella con Il Santo che risuscita un giovane strangolato da un demone, Libera il giovane Adeodato e lo restituisce ai genitori; fino al Vecchio ebreo che colpisce la sua immagine tra casse svuotate per un furto. La Garibaldi cita le tavole apparecchiate e San Nicola che “vola” a salvare il giovane: “Sono tutte invenzioni che presuppongono uno studio articolato degli spazi e delle storie e che indicano la presenza in questo cantiere di un grande maestro. La qualità di alcune vedute, come ad esempio la prospettiva esplosa del palazzo alle spalle dei tre giovani salvati dalla decapitazione, può avere dei confronti solo con le architetture della cappella degli Scrovegni di Padova”. E aggiunge: “Tutte idee che porterebbero a riconoscere Giotto nell’ideatore di questi affreschi. Che l’esecuzione sia stata affidata o meno alle cure della bottega è un nodo che il restauro in corso dovrebbe aiutare a sciogliere”.

Di grande valore pittorico la Maddalena, “forse la scena più bella dell’intera Cappella”, poi San Giovanni Battista e Cristo benedicente con a lato, finalmente diciamo, San Francesco che presenta Napoleone Orsini e tre cardinali e San Nicola che presenta Gian Gaetano Orsini e altri tre cardinali”: “Anche in questo caso la qualità della pittura è piuttosto alta, ma resta da chiarire per quale motivo le figure di Napoleone e di suo fratello sono state dipinte su pezze di intonaco che evidentemente sono sovrapposte al resto del velo pittorico. Che coprano qualcosa?”. Un altro interrogativo che Vittoria Garibaldi pone con chiarezza, per concludere: “Come si è detto più volte, molti sono i problemi aperti intorno a questa Cappella, tutti importanti e tutti concatenati tra loro, dal nome dell’autore alla data, nodi che si intrecciano con la presenza di Giotto ad Assisi, con lo studio della sua bottega, col passaggio dallo stile di Assisi a quello di Padova. E’ giusto sospendere il giudizio fino alla fine dei restauri in corso”.

Così è giusto sospenderlo nelle ricerche archeologiche fino al termine degli scavi, in questo senso abbiamo quella che abbiamo definito “archeologia del colore”, con annessi gli altri elementi: autore, datazione. E la complessità del restauro diventa ancora maggiore perché deve dare delle risposte chiare, oltre ad eliminare per quanto possibile o comunque ridurre i segni del degrado.

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

La delicatezza del lavoro di restauro

Si apprezza maggiormente l’eccezionalità di questo lavoro avendo a mente che non vi è altra possibilità di vedere le opere come potevano apparire allorché furono realizzate. Ciò vale in particolare per il ciclo delle Storie di San Francesco, secondo Giuseppe Basile “definite in tutti i manuali e studi di storia dell’arte in ottimo stato di conservazione e invece impoverite in maniera seria rispetto all’aspetto originario, come testimoniano in negativo le piccole, a volte microscopiche tracce rivenute sulla superficie dipinta”.

Né con il restauro, pur se accurato, si possono eliminare i segni irreversibili del tempo, a meno di fare come in epoche passate quando non si andava per il sottile e si adottavano tecniche invasive soprattutto per le parti molto deteriorate. Ne parla Basile ricordando “l’intervento ‘creativo’ mediante completamento mimetico delle parti mancanti”; e la tecnica opposta dell’“‘approccio ‘filologico’ cioè il mantenimento della situazione di non completezza, tutt’al più mitigata dal ‘trattamento a neutro’, un tipo di intervento che ha avuto larghissima diffusione in Italia”.

Mentre per il “restauro virtuale” delle storie di San Francesco non vi sono questi problemi e limiti, l’approccio è quanto mai creativo aiutato dalla tecnologia, nell’altro evento, il “restauro reale” della Cappella di San Nicola, il lavoro sarà conservativo e di ripristino, ma vi sono situazioni che possono richiedere la ricostituzione di parti perdute, e allora Basile è esplicito, si seguirà la linea indicata da Cesare Brandi: “Se integrità materica e interezza formale possono non coincidere, allora il restauro di un’opera può dirsi cosa fatta anche se non si è riusciti a ripristinare l’integrità materica, purché però sia ricostituita l’unità formale dell’opera, cioè la capacità di tornare a produrre nel fruitore effetti il più possibile analoghi a quelli anteriori alla perdita dell’integrità materica”.

Si procede operando con i due modi suggeriti dalla “Teoria del restauro” di Brandi, il “tratteggio” e “l’abbassamento ottico-tonale”. Il primo – spiega Basile -“consiste in una serie di tratti sottili, paralleli, verticali, che da lontano ricompongono percettivamente il tessuto pittorico, mentre a distanza ravvicinata esso si rivela senza possibilità di equivoci per quello che è, cioè un intervento strumentale alla restituzione dell’unità potenziale dell’opera”. L’altro modo “persegue , ovviamente, lo stesso scopo ma in maniera profondamente diversa, forse anche più innovativa, certamente più complessa e difficile, dato che rinuncia al ‘supporto’ percettivo derivante dalla ‘ricucitura’ del tessuto pittorico”.

E’ bene che i visitatori conoscano questi problemi e questa tecnica per apprezzare meglio l’opera di restauro alla quale potranno assistere da una posizione ravvicinata: “Schematicamente, essa consiste nello ‘abbassare’ in maniera uniforme tonalmente, facendolo diventare più scuro, il fondo delle lacune in modo da farlo retrocedere (appunto ‘abbassare’) otticamente fino a farlo coincidere – nei casi più felici – con il fondo e, in ogni caso, ottenendo che il tessuto pittorico ‘riemerga’ e torni così ad assumere la funzione sua propria di figura rispetto al fondo che, a questo punto, risulterà costituito dall’insieme delle lacune”.

Quando le “lacune” non sono “risarcibili”, il “tratteggio” è la via obbligata del restauro, le due tecniche “non sono fungibili”. Sono le regole dell’Istituto Italiano per il Restauro, impegnato nei restauri reali e virtuali di Assisi.

A questo punto ci sembra di essere preparati alla visita, e così ci auguriamo possano sentirsi i nostri lettori. Non ci resta che visitare la Cappella di San Nicola nella Basilica Inferiore per renderci conto dei lavori di restauro testé iniziati; e poi andare nel vicino Palazzo del Monte Frumentario per la “restituzione virtuale” delle Storie di San Francesco nella Basilica Superiore, “un ciclo pittorico ritrovato”, come dice il realizzatore Fabio Fernetti, con gli autentici “colori di Giotto”.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 23 aprile 2010 – Email levante@archart.it

Dada e surrealisti, 2. Le opere delle grandi mostre dal 1936, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

– 7 febbraio 2010

Prosegue il racconto della splendida mostra (rimasta aperta sino a oggi) che, al Vittoriano di Roma, ha permesso di ammirare quasi 700 opere di oltre 200 autori collocabili nell’ambito della corrente artistica del surrealismo. Tra essi va citato indubbiamente anche l’abruzzese Marco Boschetti, nativo di Chieti, che pur non essendo stato presente in questa mostra ha comunque esposto le sue opere a Roma lo scorso gennaio, sul filo di un rinnovato interesse della Capitale per questa temperie artistica.

Una breve introduzione alla visita delle opere per richiamare la caratteristica principale del surrealismo già illustrata nel servizio precedente. Nel superamento totale del passato, comune ai dadaisti, ne rifiutava il nichilismo per un “engagement” altrettanto radicale rivolto, però, non alla cancellazione fine a se stessa, bensì al rinnovamento non solo artistico ma anche etico e politico.

La forma stilistica era assolutamente libera, basata sul rifiuto della “funzione mimetica” dell’arte che ne avrebbe svuotato il significato e travisato la natura: “Un’idea molto limitata dell’imitazione – sono parole del fondatore e anima del movimento André Breton – indicata all’arte come fine, è all’origine di un grave equivoco che vediamo prolungarsi sino ai nostri giorni. Partiti dal presupposto che l’uomo sia capace soltanto di riprodurre, più o meno felicemente, l’immagine che lo tocca, i pittori si sono mostrati sin troppo concilianti nella scelta dei loro modelli”.

Il curatore della mostra Arturo Schwarz spiega cosìil superamento di tale limite: “Nell’arte dei surrealisti predomina l’esigenza della fedeltà al ‘modello interiore’, non vi è posto per una ricetta estetica o un cliché figurativo”. E lo esemplifica: “Niente accomuna la pittura dei surrealisti; niente salvo, appunto, una comune esigenza ideale, la preoccupazione di fare una ‘bella pittura’. Le esigenze estetiche passano quindi in second’ordine dal momento che primeggia la volontà di esprimere, con la maggiore autenticità possibile, i propri sogni e desideri, la propria visione del mondo”. E perché non ci siano dubbi sui risultati conclude: “E’ un fatto occasionale anche se non irrilevante che questa esigenza abbia prodotto alcuni tra i maggiori capolavori dell’arte moderna e contemporanea”. La quotazione record data a Giacometti nell’asta di Sotheby’s dei giorni scorsi, citata in apertura del primo servizio, è un’ulteriore conferma delle affermazioni di Schwarz.

Questo ci rende desiderosi di scoprire i “sogni e i desideri” che stanno dietro a forme incomprensibili, ci fa essere rispettosi di scelte sorprendenti, spesso sconvolgenti, ci fa apprezzare di più l’arte surrealista. Visitiamo le opere riferite agli “artisti presenti o attorno” alle sei grandi mostre surrealiste, di cui si occupò Breton, organizzate nell’arco di quarant’anni, dal 1925 al 1965.

La mostra iniziale del 1925

La prima mostra collettiva surrealista si inaugura alla Galerie Pierre di Parigi il 14 novembre 1925, l’esposizione presenta i grandi nomi, cominciando da Arp, già visto tra i dadaisti, qui con 9 opere ben diverse dai collage colorati. Abbiamo china su carta e dei rilievi in legno dipinto, forme senza colore che si stagliano sullo sfondo al quale sono applicate.

Di Breton una grande varietà: un bronzo dal titolo e dalla forma “Anche guanto di donna”, un disegno e un fotomontaggio, un collage e un assemblaggio, una decalcomania e una “Pagina oggetto”, nella realtà una scatola di legno e vetro.

Ancora Ernst, quasi una personale con 16 opere le più varie, dal “Dattiloscritto-manifesto” ad alcuni oli su tela come “Il mare” e “Uccello in gabbia”, “La bella stagione” e “Muro avanti a sole”, fino al grandissimo “Un momento di calma”, una vegetazione verde molto frastagliata.

Un’altra personale di Man Ray dopo quella “dada” con 9 opere, le “surrealiste” sono addirittura 18. Si va da disegni molto eleganti a un’originale fotografia di Breton con sullo sfondo una piazza metafisica di de Chirico, da collage ad oggetti assemblati come la collana su un minuscolo bigliardo, un “Monumento al pittore ignoto”, poi delle squadre e una scopa, una calamita con una chiave. e una bottiglia fino alle tre più note e caratteristiche: “Il violino d’Ingres”, l’aggiunta di due chiavi di violino al nudo femminile del pittore francese; la “Venere restaurata”, un torso femminile legato da una corda, e il celebre “All’ora dell’osservatorio – Gli innamorati” con le enormi labbra rosse femminili che occupano un cielo cosiddetto a pecorelle. Fino alla “Vergine indomita”, figura femminile lignea in piedi, con le catene della cintura di castità, rinchiusa in un armadietto ligneo dagli sportelli spalancati che lascia vedere il manichino.

Nelle dieci opere di Masson troviamo piccoli disegni su carta, in china inchiostro e acquerello, e due grandi oli su tela: “Il pittore e i tempi”, una composizione allucinante e “Goethe e la metamorfosi delle piante”, dove lo scrittore sembra trapassare forme misteriose con lo sguardo.

Con Mirò e Picasso si va completando la sezione. Di Mirò quattro oli su tela molto colorati, diversissimi l’uno dall’altro, con forme collocate in ambienti e spazi particolari. Poi due dipinti “Donna circondata dal volo di un uccello” e ”Donne, uccelli e stelle” dove i riferimenti ai soggetti del titolo sono visivamente molto deboli, ma l’arte del pittore ne fa sentire la presenza. Più evidenti in ”Donna (Personaggio)”, un bronzo con una figura distinguibile nella sua imponenza.

Da un grande a un altro, di Picasso due opere di ambientazione marina, se ne sente l’atmosfera e la leggerezza: “Bagnante”, un piccolo olio su tela, e “Sulla spiaggia”, una china su carta con scorci fugaci di figure disegnate con tratto sottile ed elegante, un rudere e una gamba, un braccio e un vaso di fiori. L’olio su cartone “Testa” riporta al Picasso più caratteristico dei volti con occhi, naso e labbra asimmetricamente disposti, ma che si ricompongono in una superiore armonia.

Concludono la sezione quattro opere di Roy, antropomorfe, diremmo, pur senza figure umane, perché con spazi a dimensione d’uomo e oggetti quotidiani, una sedia al centro di una piccola stanza con quadri alle pareti, una ruota di carretto dritta su un pavimento, cavolfiore e cipolle, pestelli, cestini e vasi in un vano di finestra. La mostra del 1925 termina nell’ambiente domestico. 

Le mostre del 1936 e del 1947

In una successione ininterrotta, sfruttando tutti gli spazi nelle pareti di sale e salette, ecco le opere della mostra inaugurata l’11 giugno 1936 alle New Burlington Galleries di Londra., partecipano una sessantina di artisti, tutti presenti in mostra, alcuni dei maggiori visti già nella precedente.

Dobbiamo fare una drastica selezione, ci soffermeremo su alcuni tra i più noti ma, essendo la peculiarità della mostra di Roma la visibilità a tutti gli artisti delle esposizioni di Breton, nessuno escluso, citeremo tra gli altri quelli che colpiscono la nostra sensibilità o curiosità. Il primo è Armstrong con un “Nudo disteso” in una specie di alcova, le cui forme richiamano Botero. Quasi opposta una tempera di Bellmer “Senza Titolo”, la figura femminile sembra fatta con il filo di ferro come le opere iniziali “scolpite nell’aria” di Calder, presente in mostra con i suoi “Dischi bianchi nell’aria”, eterei e quasi incorporei. Quanto mai corposo è invece l’olio su tela “Il trionfo dell’amore” di Carlsson, un corpo femminile in un gambero gigantesco, nello sfondo un violoncellista suona; e anche “La famiglia Pino” di Colquhoun, a metà tra arti e tuberi affiancati, e “Cavalli” della Carrington, i due animali scalpitano in un ambiente tra il medioevale e il lunare.

Torna la delicatezza del tratto in Bucaille, i suoi collage sembrano xilografie, al pari di Castellon. Figurativi anche “Scheletri in un ufficio” di Delvaux, “Un mare celeste” e “L’onda” di Dominguez, i collage di Huguet e di Marièn, gli oli di Valentine Hugo. Il collage è la tecnica usata da Jennings per “Testa di leone in un comò” e il “Ritratto di lord Byron con un libro; mentre Maar ricorre alla “stampa alla gelatina d’argento”.

Delle 11 opere di Branner colpisce l’“Indicatore dello spazio”, una sorta di Pinocchio surreale, e “La sonnambula”, il tronco di un albero il corpo, un uccello sopra la testa; nei 2 oli su tavola e masonite di Mednikoff si notano i colori violenti e l’allucinazione delle forme; i 5 oli su tela di Lamba si ricordano per una certa vicinanza cromatica nella diversità estrema di stile e contenuto, Vicini anche i 5 di Ubac, senza colore, e i 9 di Toyen, invece coloratissimi, spicca il collage con una sorta di scacchiera rosa e nera con sopra dei cani accovacciati e riflessi a terra di teste di tigri..

Le ultime citazioni prima dei grandi riguardano i 9 collage di Styrsky, per lo più figure singole, come le 4 tempere e assemblaggi di. Oppenheim; e le 7 tempere di Tanguy, quasi dei bassorilievi.

Superati 12 Duchamp, mattatore della mostra – non senza aver notato il bozzetto del “Nudo che scende le scale” del quadro visto alla mostra sul “Futurismo” – ecco Dalì, Giacometti e Magritte.

Dalì non ha una considerazione nel mondo surrealista, in particolare da Schwarz, pari alla fama di cui gode per le sue stravaganze e la sua vita mondana: sono esposti il “Saggio surrealista”, la “Donna cassetto”, quest’ultimo è ricavato nel viso, la “Regina Salomè”, un busto nudo di donna che inquadra una testa maschile staccata.

Non c’è “L’uomo che cammina”, di Giacometti, venduto a Londra per 104 milioni di dollari, ma sono esposti tre suoi bronzi dai titoli importanti “Uomo”, “Donna” o suggestivi come “Donna distesa che sogna”. La figura femminile in chiave surrealista, quindi com’è pensata non com’è vista, è in due suoi gessi, ancora “Donna” e “Donna cucchiaio”.

Ed ora siamo ai 6 oli su tela di Magritte: tre inquietanti, ci sono delle fiamme e delle scarpe vuote con i piedi che vi hanno lasciato l’impronta, e due fantasiosi, “La Generazione spontanea” e “L’isola del tesoro”. Abbiamo lasciato per ultimo il più imponente nei suoi due metri per uno e mezzo dalla straordinaria forza espressiva: “Il castello sui Pirenei” , cisi sente portati in alto in quel maniero nella grande rupe sospesa miracolosamente sul mare, un rifugio e insieme una conquista, sembra di poter dominare la natura. Passano tutti gli incubi, si vola in cima al mondo.

Di qui dobbiamo ridiscendere per passare in rassegna le quasi 100 opere della mostra del giugno 1947, alla Galerie Maeght di Parigi. Sorprende la rapidità nell’organizzare una rassegna così nutrita quando era così vicina la tragedia epocale della seconda guerra mondiale. La volontà dei surrealisti di cancellare il passato per ricominciare ha trovato un potente alleato in un evento distruttivo al quale è seguita la volontà di ricostruire; di qui è scattata un’immediata sintonia.

La prima opera in cui ci si imbatte, in senso stretto, è il vero pianoforte rovesciato su un altro con fascia dai colori dell’iride di Cage e il titolo “Suona per favore o la madre, o il padre o la famiglia”.Tra le altre “sculture-oggetto”, evidentemente di minori dimensioni, troviamo le 3 di Henry, un violino, una pistola e un telefono, tutti fasciati , cui si aggiunge un olio su tela con una macchina da cucire sotto un ombrello, perfettamente figurativi.

Ma ecco il nostro Enrico Donati, morto a 99 anni il 27 aprile 2008, con due oli su tela e un inchiostro su carta dai titoli impegnativi come “La Pietra filosofale”, “Corte d’appello” e “Téte a Téte”; e si sa quanto siano importanti titoli che esplicitano la motivazione interiore, essendo spesso arduo decifrarla dalla forma.

Vogliamo liberarci subito delle immagini più ansiogene, per esplorare poi lidi più sereni e attraenti. Iniziamo con lo “Studio di gufi” di De Diego, ne abbiamo contato circa 20 i cui occhi sbarrati spiccano sul fondo scuro; un’ansia diversa nasce dagli “Occhi di Edipo”, di Gottlieb, qui sono 17 gli scomparti con sagome di teste molto diverse. Una certa ansia suscita la testa di donna con un bavaglio nero in bocca su una spiaggia, di Malet, ma il titolo è rassicurante, esprime “L’abolizione dei privilegi”. Mentre il fondo nero delle 4 composizioni fotografiche di Heisler può dare inquietudine nelle due in cui emerge un cappello su un manichino trasparente o una figura radiografata come San Sebastiano trafitto da ramoscelli. Due ansie diverse da due dipinti uno sul verde, l’altro sul marrone: il primo, di Frances, intitolato “Composizione con un uccello, un uomo e una ragazza”, è da incubo per le spine e la testa a uccello; il secondo, di Duvillier, può inquietare soltanto se pensiamo al titolo, “Abisso tanto bramato” o all’intrico di arbusti che può soffocare.

Più che in queste immagini le angosce della guerra si riflettono sulla “Morfologia psicologica” di Matta, e in modo traslato sulle tempeste turbinose di Vulliamy in “La liberazione di Andromeda” e “La mano di Dio”; di questo autore è anche il “Concerto fantastico” dove le volute non sono più tempestose ma chiare e armoniose, rispetto alla livida atmosfera delle altre due.

Maddox ci fa entrare nella psicologia con “Intenzioni segrete”,una grande foglia verde appoggiata a una colonnina, “Pied à terre”, un pesce verticale alto quanto i pantaloni di un uomo in piedi a lato, e “Poltergeist”, una donna dai lunghi capelli neri seduta con delle fiammate intorno. Un’altra immagine femminile ben evidente è nell’“Oracolo” di Henry, un bel viso con capelli al vento, bocca aperta e tre occhi che sarebbero piaciuti a Giovannino Guareschi, creatore dei “trinariciuti”, lui li vedeva come minorati, qui invece è un potenziamento della vista dell’oracolo. Immagine femminile ben diversa la “Sirena del Niger”, di Lam, una forma quasi picassiana.

La “Cosmografia del mondo interiore” e “La struttura della luce del cosmo interiore emanata dal sole della poesia erotica” di Henry, grafiche su carta con una serie di elementi che svolazzano su un fondo nero, ci portano in un mondo nel quale emerge il richiamo della donna, l’amore. Ecco “Amore nella foresta” di Hérold, quasi una dissolvenza, e l’allusivo quanto inquietante “Ginandrologia, di Serpan.

Ma la donna balza fuori nei due “Senza Titolo”di Teige, di cui c’è anche “Sulle rive di Baudelaire”, un seno nudo guardato da una severa testa di manichino. E nei due oli su tela di Trouille esplode l’erotismo: “La mummia sonnambula” scoperchia addirittura il sarcofago e si dimena attaccata a un obelisco in tutta la sua sensuale e procace nudità figurativa, mentre una grande testa bionda di giovane cerca di guardare lontano in un’altra direzione; dalla mummia egizia a “La religiosa”,tanto di crocifisso al collo, seduta su una cassapanca in abito rosso ma da suora, viso ammiccante, sigaretta accesa, scosciata, con le gambe invitanti inguainate nelle calze di seta.

Dopo quest’escursione nell’erotismo surrealista, prima di passare alle opere della mostra successiva è bene guardare il “Paesaggio surrealista”, ce ne sono due esposti: il primo, di Herold, il cui titolo specifica “in riva al mare”, ha le onde sullo sfondo e due figure arboree in primo piano; l’altro, di Bjerke-Petersen, senza ulteriori titolazioni, è una doppia immagine arborea con i tronchi e le chiome che si stagliano nel cielo e sono protese verso la vallata. Un paesaggio, sì, diremmo riecheggiando un’antica barzelletta del malizioso Pierino, ma le forme arboree sono in effetti umane e non sembrano in atteggiamento contemplativo. Come non lo sono i due bronzi della Waldberg dal titolo allusivo “Seguito da…”; un uomo e una donna si inseguono anche nel surrealismo. 

Le ultime tre mostre del 1959-60, 1960-61 e 1965 

Ed ora le opere della mostra del 1959-60, inaugurata a Parigi alla Gallerie Cordier il 15 dicembre 1959 che restò aperta fino al gennaio 1960. Il movimento surrealista ha fatto molta strada, le immagini sono colorate e colorite, le forme hanno un forte impatto emotivo, muovono l’inconscio: delle volte somigliano alle figure fatte decifrare nei test psicologici e psichiatrici, altre volte propongono immagini evocative di allucinazioni, rappresentano intrecci che coinvolgono chi le vede oppure riportano a una dimensione più serena, anche lontanamente figurativa.

Alla prima categoria appartengono “Cercatrice di agata gemella”, un fotomontaggio colorato di Benayoun e, in misura minore, i tre oli su tela di Elleouèt, nonché la “Colata rossa” di Loubchansky, “Delizioso” di Molinier e “Situazione rossa e arancio” di Morris.

Evocano allucinazioni alcuni “Senza titolo”:di Bona, un gatto nero con gli occhi sbarrati su un pavimento e un pennuto appeso per i piedi; Halpern, una piccola figura rinchiusa in una sorta di batiscafo con ectoplasmi filiformi ai lati; Hirtum, immagine totemica con in più tre enigmatici porcellini su un trespolo; e “Amore” di Eluard, un fotomontaggio di due nudi femminili in pose ed espressioni inquietanti. Anche “La veggente” e “L’arcivecchia” di Silbermann, con i loro colori violenti e le forme particolari possono muovere l’inconscio, così il “Ritratto analogico di Mimì Parent”, di Ivsic fa sentire il brivido di una folgorazione e il “Monumento ai viventi” di Legrand, con una mano tagliata che spicca in un ambiente dantesco.

Intrecci e viluppi nelle tre “Senza Titolo” di Dax, che sembrano aprirsi “Col cielo sereno” di Benoit; mentre torniamo alla dimensione più serena con i due assemblaggi di Parent (“La Vittoria di Samotracia” e “L’amore in visita”), il “Dittico dell’Atlantide riemersa” di Falzoni. Ci riporta ad una realtà urbana rielaborata in forma quasi onirica “L’occhio della città (magnetico)” di Le Marechal, suo anche “Il palazzo dell’angoscia n. 3”, un vero incubo.

La dimensione pittorica rasserena con l’astrazione delle due versioni di “Sguardo” di Rotsda e soprattutto del “Prometeo”di Seligmann, dove si ricompone un cavaliere figurativo.

Dal 28 novembre 1960 al 14 gennaio 1961 si espone alla D’Arcy Gallery di New York, 12 opere in mostra, prime tra esse due del nostro Baj: “Donna”, un collage che ripropone gli spiritelli filiformi e “Generale trombettiere”, l’altro tema dissacratorio prediletto dall’artista.

Cornell sorprende con una “Colombaia”, vera pulsantiera, e due “Senza Titolo” figurative, l’una un nudo femminile su spiaggia con nello sfondo un castello, l’altra con piccole sculture soprammobili in una stanza con tracce di costellazioni; torna nell’insolito l’autore con “Eclisse di terra”, un assemblaggio in legno e vetro, acciaio e gesso, sabbia blu e fotografia. Molto particolari le tre tempere su carta di Svanberg,, dalle “Donne Minotauro” agli “Uccelli”.

Per concludere la rassegna del 1960-61 vogliamo citare “L’amore di Venezia” di Copley. un quasi figurativo con un uomo dal volto e le braccia nere a maniche corte che bacia una donna la cui figura si mimetizza con il pavimento dalle mattonelle di un minuzioso disegno a quadretti.

Delle trentaquattro opere dell’ultima mostra, tenuta nel dicembre 1965i, alla Galerie L’Oeil di Parigi, citiamo innanzitutto le due in legno: “Antropomorfo I” di De Sanctis e Sterpini, e “La Regina Mariana” di Girondella. Mentre di De Sanctis è esposta anche “Le delizie di Kadali”, in ferro, materiale utilizzato pure da Duprey e Hiquily; e di Sterpini l’ammiccante “Non bisogna pensare alle preghiere” dove si vedono richiami che, se non siamo maniaci, ci sembrano sessuali.

Torna Elleouèt, incontrato nelle opere della mostra del 1959-60, ma qui nella pienezza espressiva con sei collage su carta coloratissimi e movimentati, figurazioni fantastiche o allucinate che emergono da uno sfondo nero caravaggesco; i titoli sono evocativi, da “Sotto la corteccia” a “Valle addormentata”, da “Il tagliafuoco” ad “Argonauti II”.

Evocativo anche l’olio “La lunga valle” di Dangelo, mentre Del Pezzo espone due assemblaggi di legno e metallo. Diversissimi i tre oli su tela ciascuno di Klapheck e di Lacomblez. Il primo riproduce con forti stacchi di colore e segni marcati degli oggetti veramente rivelatori di quanto indicano i titoli: “Lo spirito della notte”, “La rivolta”, “Terrorista”. Il secondo autore ci dà dipinti allusivi come “La cosa che viene” e “Rito di esorcismo: l’acqua” attraverso enigmatici labirinti.

Dopo tanta pressione sull’inconscio e sulla percezione visiva, quieta contemplazione con i due “Senza Titolo” di Zurn, ectoplasmi raffinatissimi, quasi di fattura giapponese, dove si è incantati dall’arabesco e non inquietano occhi e visi che fanno capolino tra le volute calligrafiche. 

Le sorprese surrealiste del curatore della mostra e il ricordo di Eva 

Un ulteriore giro della mostra in senso inverso ripropone il caleidoscopio di sorprese, in alcuni casi sconcertanti. Ma non è così la vita? E l’arte e la vita unite nell’anticonformismo libertario quando possono lasciare spazio all’estro creativo non hanno limiti né confini. Surrealismo è sorpresa dell’insolito, che può operare nelle due direzioni, perché può essere sorpresa positiva e negativa.

Il nostro percorso a ritroso ci ha riportati all’ingresso, in un vano si proietta ininterrottamente un brevissimo filmato, parla un signore con occhiali e barba bianca, è Arturo Schwarz, il curatore della mostra. Dice di essere “l’ultimo dei Mohicani avendo vissuto la cultura surrealista dal 1944” a stretto contato con il padre del movimento André Breton. Ne ha una tale venerazione da avere ammesso soltanto gli artisti che hanno esposto almeno una volta nelle sue grandi mostre collettive.

Ebbene, le domande che ci ponevamo hanno trovato risposta nelle dichiarazioni di Sandro Bondi sull’esposizione, promossa dal Ministero per i Beni e le Attività culturali:”La mostra non è curata da un semplice studioso, per quanto dei più illustri, ma da un vero protagonista di quel tempo e di quei movimenti, Arturo Schwarz, che nel corso di una vita lunga e intensa si è occupato di cultura in tante molteplici forme. Storico dell’arte, saggista, poeta, conferenziere, filosofo e gallerista, il professor Schwarz è stato compagno di strada di personalità come, tra i tanti, André Breton, Marcel Duchamp e Man Ray. E’ davvero una prospettiva unica la sua per descrivere Dada e Surrealismo”.

Cerchiamo la sua biografia e la bibliografia, sono impressionanti gli innumerevoli saggi sulla pittura surrealista, almeno venti i più importanti, i tanti cataloghi di mostre curate sullo stesso tema, le oltre cinquanta raccolte di poesie, l’attività didattica e di studio, fino agli incarichi e riconoscimenti accademici in America, Israele e anche in Italia. E’ autore unico del ricchissimo Catalogo della mostra, quasi cinquecento pagine con riprodotte in bei colori e adeguatamente commentate tutte le opere con monografie sui movimenti dadaista e surrealista ed accurate schede singole.

Ma le sorprese surrealiste del curatore non finiscono qui, ce le rivela ancora il ministro Bondi: “Arturo Schwarz non è, però, solo uomo di studi e questa mostra testimonia un altro aspetto eccezionale di questo personaggio. Due nuclei importanti di opere qui esposte, infatti, provengono dalle donazioni che il professor Schwarz ha fatto della sua collezione personale alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma e all’Israel Museum di Gerusalemme”. L’iceberg del personaggio, come impegno culturale diretto da protagonista, sta per svela tutta la sua profondità: “Oltre millecinquecento opere divise tra il suo paese e il suo popolo, donate con straordinario disinteresse a due istituzioni che ne potessero divulgare la conoscenza e l’apprezzamento, un modo per perpetuare in eterno la memoria di quegli artisti che sono stati i suoi compagni di viaggio”. Non possiamo che unirci all’elogio del Ministro “per il suo valore assoluto e la sua generosità”. Anche questa è una sorpresa surrealista, in un mondo dove si perdono i valori e manca la generosità.

Ci prepariamo a lasciare l’esposizione fortemente colpiti da questa scoperta, e ne facciamo un’altra singolare. L’addetto che ha per noi un prezioso gesto di gentilezza si chiama Gattuso, di nome Giorgio, di modi e di aspetto sembra l’opposto del calciatore soprannominato “Ringhio”; commentiamo la cronaca calcistica del giorno prima su Sky: “Pirlo in panchina, regista è Gattuso”: chi segue il calcio ne coglie come noi la vena surrealista, due sorprese surrealiste in un incontro.

Usciamo dalla mostra, finora le sorprese sono state gustose e positive. Abbiamo già confrontato l’affermazione riportata all’inizio del “Manifesto Dada” di Tzara secondo cui “l’opera d’arte non deve rappresentare la bellezza che è morta”, con la vista dalle vetrate del Vittoriano della Roma monumentale e antica. Concordiamo con il sindaco Gianni Alemanno: “Roma risponde con il suo fulgore eterno, con una serie di immagini di bellezza assoluta che sembrano voler contraddire il pensiero dadaista”.Il Colosseo è dinanzi a noi in fondo a via dei Fori imperiali nella sua maestosità.

Ma nel marciapiede destro dello stradone notiamo un insolito assembramento: oltre un centinaio di ciclisti pronti a salire in sella, c’è un cartello “con la scritta “In ricordo di Eva, uccisa da un’automobile a 28 anni”. Chiediamo conferma, dicono che l’incidente mortale c’è stato un paio di mesi fa. Comincia a piovere, inizia la mesta sfilata, è una sorpresa vedere il dolente corteo di bici occupare interamente la mezzeria verso il Colosseo, una sorpresa surrealista; come è surrealista morire a 28 anni nel centro di Roma per andare in bicicletta. Lo abbiamo premesso, le sorprese surrealiste possono essere positive o negative, nell’arte come nella vita, per loro strettamente unite.

E’ la sera del 29 gennaio 2010, una data che non dimenticheremo. A Eva dedichiamo questo nostro racconto dell’evento “unico” di Schwarz: la mostra “Dada e Surrealismo riscoperti” al Vittoriano.

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