Dada e surrealisti, 1. Il loro mondo, precursori e compagni, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

– 6 febbraio 2010

Quindici pittori italiani alla grande mostra aperta fino al 7 febbraio 2010, con quasi 700 opere di 200 autori. L’abruzzese (di Chieti) Marco Boschetti ha invece esposto – sempre a Roma – dal 24 al 29 gennaio 2010. Al Vittoriano gli artisti delle mostre di Breton fino al 1965, da Ernst a Ray, da Duchamp a Magritte, da Giacometti a Dalì, con i “precursori” da Kandinskij a Mirò, da Chagall a Klee, in una concezione libertaria di arte e vita nella pittura e in altre svariate forme..

La vendita record di “L’uomo che cammina”, un scultura di Giacometti acquistata all’asta londinese di Sotheby’s di inizio febbraio 2010, per 104 milioni di dollari, ha illuminato gli ultimi giorni della grande mostra del Vittoriano, nella quale sono esposte anche opere dell’artista. Non c’è il pittore surrealista abruzzese Marco Boschetti di Chieti che ha esposto, sempre a Roma, dal 24 al 29 gennaio: una pittura “tra sogno e realtà”, espressione di un pensiero inquieto del tutto libero.

Venivamo dalla scalinata con il tappeto rosso di Palazzo Venezia per “Il Potere e la Grazia”, ci troviamo a salire un’altra scalinata nel vicino Complesso del Vittoriano. Non è imponente e antica come l’altra, invece del tappeto rosso come guida centrale c’è una passatoia di plastica bianca con scritti dei nomi su ogni gradino, anche nell’alzata: è l’infinita teoria degli autori esposti, duecento, che accompagna dal corridoio di accesso lungo le due lunghe rampe di scale e nell’insolita collocazione già introduce alla mostra; sono anche duecento le pubblicazioni d’epoca dadaiste e surrealiste allineate nella vetrina che costeggia l’ultimo corridoio di accesso al piano superiore.

Là si celebrava una storia, la tradizione e l’identità, e lo si faceva nel modo più solenne, nel culto della bellezza, al Vittoriano si dà conto di una rivoluzione non solo pittorica ma anche culturale contro ogni tradizione, tutt’altro che espressione della bellezza. Non contano i temi e gli stili, conta l’autore, di qui la lunga teoria di nomi e l’assenza di qualsiasi percorso comune stilistico o tematico.

Il mondo del Dada e del Surrealismo

Si entra nel mondo del Dada e del Surrealismo, i due movimenti nati nel secondo decennio del ‘900, un secolo così prodigo di movimenti artistici anche sovrapposti e intersecati, se nel 1909 c’è stato il “Manifesto del Futurismo” di cui si è appena celebrato il centenario e poi sono seguiti altri movimenti, ciascuno con il suo messaggio di cambiamento: il Fauvismo nel colore, il cubismo nei volumi, e così via. Dadaismo e Surrealismo cambiamento in tutto, non in una componente, con uno spirito libertario che arriva alla pittura e all’arte dalla letteratura e dalla filosofia: in questo forse sulla scia del Futurismo che postulava anch’esso una palingenesi di vita contro il conformismo borghese, ma lì c’era un indirizzo ben preciso nell’energia, nel movimento, nel futuro, qui no.

In questi due movimenti l’unico indirizzo è l’assenza di un indirizzo, a parte la cancellazione dei lasciti del passato nell’arte come nella vita. Assenza che non va vista come vuoto assoluto, tutt’altro, le idee venivano espresse addirittura nei Manifesti, come aveva fatto il Futurismo.

Nel 1918 abbiamo il “Manifeste Dada” di Tristan Tzara, pubblicato nel terzo numero della rivista “Dada” che affermava: “L’opera d’arte non deve essere la bellezza in se stessa perchè la bellezza è morta”, seguendo dei fermenti manifestatisi già nel 1916 con l’apertura a Zurigo del “Cabaret Voltaire”; la rivista era uscita addirittura nel 1912 e l’anno dopo c’erano state in Russia e a Praga serate che precedettero quelle propriamente dadaiste di Zurigo, Parigi e Berlino. In questa fase iniziale partecipavano alle loro mostre collettive anche cubisti e futuristi, espressionisti e astrattisti. Il nome fu trovato da Tzara per caso nel vocabolario “Larousse”. Si chiamerebbero così la “coda della vacca santa” (per gli indigeni Kru), il cubo e la madre (per una non specificata zona italiana), il doppio sì (in russo o rumeno); quindi, secondo lui, è “una parola che non significa nulla”.

Successivo è il primo “Manifesto del Surrealismo” di André Breton, del 1924, ma già tra il 1914 e il 1918 si rivela determinante l’influsso di alcuni scrittori,. In Rimbaud, Breton coglie la visione trascendente della realtà come “regolamento dei sensi”, in Jarry vede “contestata, e finirà poi annullata nelle sue stesse basi, la distinzione fra arte e vita che a lungo si era ritenuta necessaria”; in Apollinaire trova la poesia e l’erotismo, il meraviglioso e la sorpresa; in Freud la poesia nelle associazioni verbali degli alienati mentali. Finché nello sconosciuto Lautréamont trova riuniti questi influssi in una “rivelazione totale”: intravede, dice Schwarz, “l’anticipazione dello spirito moderno in tutti i suoi aspetti più sovversivi… il rifiuto dell’aspetto utilitario-borghese delle attività intellettuali, il significato più profondo della crisi di tutti i valori”.

Citiamo ancora parole del curatore della mostra Arturo Schwarz di cui parleremo alla fine: “Dada e il Surrealismo sono stati gli unici due movimenti dell’avanguardia storica a non limitarsi a una rivoluzione visiva, ma a propugnare invece una rivoluzione culturale, nel senso maoista di ‘rivoluzione ininterrotta’ e di abolizione dell’antinomia tra teoria e pratica… Dada e il Surrealismo suggerivano una nuova filosofia di vita”: rivoluzionaria perché basata sul superamento dei modelli in essere. E qui finiscono le analogie, anzi la contiguità finché non rimase solo il surrealismo, presente e attivo tuttora in una ventina di gruppi sparsi nel mondo in tutti i continenti.

Le differenze sono notevoli, nell’impostazione e nello spirito interiore più che nella manifestazione esteriore, e abbiamo già detto che furono filosofie di vita prima che correnti artistiche.

Rivoluzione e palingenesi per entrambe. Il Dada aveva una concezione nichilista, con l’imperativo di fare “tabula rasa” del passato, negando in modo radicale tutti i valori e rifiutando qualsiasi convenzione borghese;. Ma non per finalità etiche, estetiche o di altra natura, la “rivoluzione” veniva perseguita per se stessa, come liberazione da qualsiasi vincolo, fosse anche quello della logica. Tanto che per la poesia Tzara suggeriva di tagliare le singole parole da un giornale, metterle in un sacchetto, estrarle e allinearle a caso: “La poesia vi rassomiglierà. Eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e fornito di sensibilità incantevole”. E’ un esempio, il tipico gesto dada di provocazione contro il buon senso e il costume, la morale e le regole.

Il surrealismo invece vedeva la palingenesi come strumento di rinnovamento altrettanto radicale nel campo etico-politico prima che in quello artistico. Breton, che si ispira anche ad altri personaggi oltre quelli già citati, scrive nel 1935: “Trasformare il mondo’ ha detto Marx; ‘Cambiare la vita’ ha detto Ribaud; queste due parole d’ordine sono per noi una sola. ‘Bisogna sognare’ ha detto Lenin: ‘Bisogna agire’ ha detto Goethe”. E conclude: “Il surrealismo non ha mai voluto altra cosa, il suo sforzo è teso a risolvere dialetticamente questa opposizione”. E’ un “automatismo psichico” per esprimere in ogni forma “il funzionamento reale del pensiero”. Cioè “è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo dettato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale”.

Di questi due movimenti sono esposte quasi 700 opere, considerando le pitture e le sculture, i collage e gli oggetti, i disegni e i video. Schwarz ha voluto che fossero rappresentati tutti coloro che hanno partecipato ad una almeno delle sei mostre di Breton, quindi hanno avuto un contatto diretto con lui. Da un lato non ha ammesso i successivi, dall’altro ha curato che ci fossero tutti quelli di Breton, non solo i più noti, per la prima volta, cosa che accresce il valore della mostra. Di qui il numero di duecento artisti i cui nomi si leggono sugli scalini salendo ai due piani superiori del Vittoriano, in un intrico di sale dalle pareti bianche e luminose l’una dentro e dietro l’altra: un’ambientazione opposta rispetto alla scenografia da Kolossal dell’altra mostra citata all’inizio.

E’ il momento di vedere le opere esposte dopo averne inquadrato motivazioni e contenuti, o meglio, assenza di contenuti. E mancanza anche di una linea stilistica o di un collegamento di qualsivoglia natura tra gli artisti. Li unisce solo la libertà assoluta di espressione, eliminato ogni riferimento a determinati canoni stilistici come alle apparenze della realtà, con le due motivazioni di fondo radicalmente dissimili: il nichilismo distruttivo nel Dada, il rinnovamento utopico nel surrealismo.

Precursori e compagni di strada, “cadaveri squisiti” e “readymade”

L’inizio della mostra è di grande livello, perché i “precursori” sono artisti di fama che in qualche misura sono stati anche “compagni” di strada dei due movimenti, abbiamo detto come inizialmente ci fossero commistioni e partecipassero alle stesse mostre collettive.

Di Chagall non abbiamo le figure fortemente colorate nel volo onirico, ma delle “acqueforti e punta secca”, disegni molto composti di una “Casa”, e Davanti alla porta”.

Così de Chirico è presente con quattro opere, ciascuna espressiva di un periodo: c’è lo splendido olio metafisico “Enigma di una partenza”, poi il disegno michelangiolesco dei “Bagni”, quello con i punti e linee dell’ “Apocalisse”, dal titolo “Nel paese della gatta fata”, e un disegno del 1915 intitolato “Piazza surrealista e paesaggio”, proprio così, surrealista e non metafisica, con le arcate misteriose, il monumento al centro, il treno sbuffante nello sfondo, un ciuffo di alberi.

Incalza Duchamp con “Giovane e fanciulla” e “Sposa” seguito da Kandinskij con le intelaiature di “Anche di più” e la voluta oblunga colorata di “Fisso” .

Ben cinque sono le opere esposte di Klee, due disegni a matita, due acquerelli e un piccolo “penna su carta” con una gustosa “Gioia animale”, due ironici gatti quasi in parata.

Arrivano i colori negli otto oli di Alberto (Giacomo Spiridione) Martini, forti figure femminili ovviamente reinterpretate in modo surreale e un forte autoritratto dal titolo “Il veggente”.

Questo “parterre de roi” si conclude con dei grossi calibri: due piccoli quadri di Munch, una litografia a colori e una xilografia, e due grandi oli su tela di Klinger, “Nereidi” e “Sirena”, che con le figure distese in dissolvenza rappresentano il mondo che sta per essere travolto dalla rivoluzione nelle motivazioni, nei contenuti e nelle forme dei due movimenti di avanguardia.

Ci siamo soffermati su questi grandi, ma percorreremo rapidamente il mondo rivoluzionato dei Dada e dei Surrealisti, il numero di opere è così elevato da non consentire una compiuta rassegna. Pescheremo fior da fiore per dare un’impressione complessiva di una mostra che può essere “raccontata” ricorrendo a fuggevoli immagini, dopo aver provato lo “shock” della visione diretta.

Una spiegazione è doverosa, e riguarda i “Readymade”, le opere realizzate presto. Sono forse quelle maggiormente “shockanti”, la più trasgressiva delle quali, “Fontana”, di Duchamp che è un orinatoio preso dalla realtà, è posta nel logo della mostra insieme alle altrettanto famose grandi labbra rosse di Ray. che evocano “Gli innamorati”. In questa scelta Schwarz si dimostra ancora una volta surrealista nell’anima, offrendo una provocazione nella provocazione mettendo in evidenza e accostando l’opera più irridente a quella più romantica.

Ecco come spiega i “Readymade”nelle “istruzioni per l’uso” della mostra: “La regola iniziale stabiliva che bisognava ‘spaesare’ l’oggetto, riproporlo con l’angolo di visuale cambiato al fine di ‘decontestualizzarlo’”, com’è con una ruota su uno sgabello invece che su un telaio di bicicletta, un attaccapanni al soffitto invece che alla parete. “Ma tale spaesamento di carattere fisico non bastò”.

Il precursore Duchamp “aggiunse un altro fattore di spaesamento, questa volta di carattere semantico, che potesse rafforzare l’effetto del primo, e cioè dare all’oggetto un titolo – che egli definì con me ‘un colore verbale’. Lo scopo era quello di trasportare la mente dello spettatore verso altre regioni, più mentali, e quindi il titolo non doveva essere descrittivo e tanto meno doveva avere un rapporto logico con l’oggetto stesso. Si trattava, infatti, di riscoprire la dimensione poetica dell’oggetto scelto”.

Non basta: “Sempre più esigente con se stesso, Duchamp stabilisce poi una terza regola dal carattere evanescente. Egli ritiene sia necessario pianificare un incontro con l’oggetto che diventerà un Readymade. Postula cioè che , tra l’artista e l’oggetto, vi sia ‘una specie d’appuntamento. Naturalmente bisognerà datarlo tale data, ora, minuto”. E, per concludere: “La quarta regola che Duchamp impose a se stesso, per non scadere nell’atto ripetitivo, fu quella di limitare il numero di Readymade scelti in un anno”.

Schwarz riporta le parole testuali di Duchamp: “Molto presto mi resi conto del pericolo di ripetere indiscriminatamente questa forma di espressione e decisi di limitare a un piccolo numero la produzione annuale di Readymade. A questo punto comprendevo che, più ancora per lo spettatore che per l’artista, l’arte è una droga che dà assuefazione, e volevo proteggere i miei Readymade da una simile contaminazione”.

E’ significativo come Schwarz voglia proteggerli lui stesso, preoccupandosi di “dissipare l’impressione che chiunque, nel tentativo di imitare Duchamp, sia in grado di prendere un oggetto di serie e di promuoverlo alla dignità d’un oggetto d’arte per il solo fato di averlo scelto e firmato”. E se non bastasse aggiunge: “Troppo facile. Si dimentica che non vi è opera di Duchamp che non sia il frutto di quello che ho definito altrove ‘il rigore dell’immaginazione’ “.

E con questo ossimoro del curatore della mostra – dato che a chi non è surrealista nulla sembra meno rigoroso e più libero dell’immaginazione – passiamo dalla lezione di Schwarz che è stata una sorta di laboratorio dada-surrealista alle opere espressamente riferibili ai due movimenti, iniziando con i dadaisti per passare poi ai surrealisti delle principali mostre organizzate da Breton.

Ma prima uno sguardo alle “opere collettive”, realizzano nella pittura ciò che abbiamo riferito sulla poesia dadaista formata prendendo a caso le parole da un sacchetto, cioè al buio. Qui al buio nascono dei dipinti in una sequenza detta dei “Cadaveri squisiti”: cinque artisti uno dopo l’altro aggiungono le loro pennellate a un quadro senza vedere quelle precedenti. Ne sono esposti dieci, c’è sempre André Breton nel gruppo, in due Tristan Tzara: cinque “matite colorate su carta” sono a composizione unica, e si deve dire che sia pure “al buio” c’è un’unitarietà interessante, gli altri disegni sono a comparti affiancati, anzi diremmo che sono “squisiti” e tutt’altro che”cadaveri”.

I dadaisti

Ed ora, dopo i grandi “precursori” e “compagni di strada” entriamo nel mondo dei Dada, nella provocazione contro la morale e il buon senso, le regole e anche la logica. Qui il riferimento è alla “Prima Fiera internazionale Dada” del 1920 a Berlino, che per due mesi e mezzo espose soprattutto autori tedeschi con innesti prestigiosi. Scorriamo le opere, citando solo alcune di esse.

Di nuovo Duchamp, non più come “compagno di strada” ma protagonista con dodici opere, tra le quali i due primi “readymade” mai realizzati: la “Ruota di bicicletta” su uno sgabello, seguita dal “Portabottiglie” appeso al soffitto.. Qui la provocazione consiste nello “spaesamento”, mentre in altre troviamo il “colore verbale”: il badile per spalare la neve è intitolato “In anticipo del braccio rotto”, l’attaccapanni è chiamato “Trappola”, fino al vero orinatoio in porcellana intitolato “Fontana”. La trasgressione nelle opere pittoriche si esprime anche nel cosiddetto “readymade rettificato”, la riproduzione della “Gioconda” leonardesca con dei sottilissimi baffetti e pizzetto, dal titolo “L.H. O.O.Q”, la “rettifica” è appena accennata, non si pensa alla profanazione. Ci sono altre “rettifiche”e un “Apolinère smaltato” su latta dipinta.

Anche il padre del surrealismo Breton figura in questa sezione con un “Assemblaggio Dada”, collage di lettere; collage pure per Blumefeld, uno dei quali dal titolo “Dada” reca in grande questa scritta sopra immagini di persone prese in parte da fotografie.

Passiamo subito a un altro grande, Max Ernst, le litografie della serie “Viva le mode, a morte l’arte” esprimono il concetto tipicamente dadaista con un manichino disarticolato e una colonna spezzata, nello sfondo due cerchi con una sorta di cinghia di trasmissione.

Collages con figure umane in Fraenkel, come “Artistico e sentimentale” e in Grosz, l’interessante “Misura di un uono”, un busto femminile in miniatura tenuto tra due dita maschili, sembra la visualizzazione di “Eri piccola, piccola, piccola… così” di Fred Buscaglione. In Hoch troviamo quattro volti umani allucinati, un “Ritratto” e anche un “Pollo”, in Kassak il manifesto “Dadaco”.

Ancora collage per cinque composizioni di Schwitters, tre colorate intitolate “Merz” e due di Freytag-Loringhoven: un “Ritratto di Marcel Duchamp”, il viso scolpito con i colori e a lato un cerchio con raggi (la sua “ruota di bicicletta”?); e un assemblaggio-scultura “Desiderio nelle membra”, una sorta di spirale in ferro su una base con all’interno un pendaglio, forse il desiderio

Su carta Hausmann, negli “Ingegneri”, figure in acquerello e inchiostro ben definite con teste a uovo e ambiente metafisico, è del 1920, si sente de Chirico; molto diversi la “Testa di contadino” e “391 Berlino-Dresda”, che hanno comunque evidenti riferimenti al titolo.

C’è poi Joostens, che con il titolo “Rotazione mista della libido” presenta una testa a falce di luna e un alambicco che versa in un bicchiere; oltre che su carta normale li fa con dei materiali, finché nella “Costruzione” passa all’oggetto in legno e metallo, una colonna lignea con un imbuto in cima.

Dai collage su carta a quelli su tela di Janco,completati da brillanti colori ad olio, nel “Trofeo” e nel “Soldato della Grande guerra”; è un artista molto versatile, sono esposti anche due oli su tela, il “Funambolo su una fune tesa”, un dadaismo figurativo, e “Ballo a Zurigo”, in stile cubista; quattro “Rilievi”, in legno e metallo, stucco e gesso, fino alla “Maschera per Firdusi”, in legno e cartone, rafia e vernice.

Collage e assemblaggi, acqueforti e fotogrammi si trovano nelle undici opere di Moholy-Nagy ”Senza titolo”, immagini in movimento o schematiche, mentre “Madhouse” è una sorta di intelaiatura di acciaio a campana su un fondo variegato a colori.

Figurazioni quasi astratte nelle quattro “Composizioni” geometriche a colori di Taeuber-Arp.

Il finale dadaista è di due grossi calibri. Ritroviamo Picabia della mostra “Futurismo” con dodici opere, là quadri a olio, qui acquerelli e tempera, inchiostro e carboncino, collage e decoupage. Assortimento di soggetti e stili, dalle tre figure umane quasi figurative a disegni puramente dadaisti, da titolazioni poetiche come “La musica è come la pittura” e “La fanciulla nata senza madre” al più prosaico “I centimetri”. Versatile ed efficace nelle diversissime espressioni artistiche.

Anche di Man Ray quasi una personale con nove opere, l’olio su tela “Il villaggio”, due collage della serie “Porte girevoli”, altri che sembrano “readymade” anche se sono chiamati “assemblaggi” perché all’oggetto principale ne sono uniti altri: così “L’enigma di Isidore Ducasse”, una coperta legata su un’invisibile macchina da cucire di cui si vede la sagoma, un “Dono” cioè ferro da stiro a incandescenza con sotto fissati 14 chiodi, un “Oggetto indistruttibile”, metronomo con aggiunto un occhio sulla lancetta segnatempo, Indubbiamente creativo e sottilmente allusivo e ironico; fino a “Ostruzione”, una sorta di lampadario sospeso fatto di grucce, l’effetto ha la leggerezza di Calder.

Il botto finale spetta a Tristan Tzara, in un certo senso il teorico e iniziatore, anche se con quattro opere molto discrete, “Npala Dada” una sorta di decalogo, un “Calligramma” e “Jamais”, delicati e sottili piantine delimitate dalle scritte poetiche.

A questo punto si impone una sosta. Nella nostra visita per le emozioni forti che abbiamo provato, anche per lo “spaesamento” dinanzi a certe trasgressioni; nella lettura per riprendersi da quelle che siamo riusciti a trasmettere. Passeremo presto alla parte più folta, quella dedicata al Surrealismo.

Tag: Marco Boschetti, surrealismo

2 Comments

  1. Fabrizio Iacovoni

Postato febbraio 7, 2010 alle 11:43 AM

il commento di sopra e’ di mia
moglie Possenti Michelina a cui mi
associo. Bravo Romano Levante

  • Fabrizio Iacovoni

Postato febbraio 7, 2010 alle 11:39 AM

R. Levante in una mostra così i’”tanta” a
livello espositivo e così ’irrazionale
nei contenuti delle opere,e’riuscito a
scrivere il suo saggio con molta chiarez-
za e soprattutto con razionalità, così’ da
rendere il “magma” fruibile. E’proprio un
risultato “tanto”.E poi:saggia la sosta
prima di presentare il Simbolismo.
Grazie ancora. Possenti Michelina-Teramo

Auschwitz-Birkenau, “la morte dell’uomo”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Il giorno della memoria nel 65° anniversario della liberazione di Auschwitz del 27 gennaio 1945 si inaugura al Complesso del Vittoriano a Roma la grande mostra , aperta fino al 21 marzo 2010, su “AuschwitzBirkenau”, i campi di sterminio per la “soluzione finale” con il genocidio degli ebrei, nell’orrore degli eccidi e nel degrado umano, in base a documenti, reperti, fotografie e video.

“La morte dell’uomo” è la risposta che ci ha dato Bruno Vespa, in esclusiva per Abruzzo Cultura, alla nostra richiesta di fornire, lui curatore della mostra insieme a Marcello Pezzetti, una definizione che la riassumesse, quasi dovesse fare il titolo di “Porta a Porta”. Conosciuta la nostra provenienza ce l’ha data con molta cortesia, dopo un attimo di riflessione, con espressione pensosa.

Abbiamo cominciato dalla fine, l’incontro con Vespa è stato nell’intrattenimento dopo la visita alla mostra su Auschwitz-Birkenau e la presentazione con le autorità, una celebrazione sobria e toccante. Ospiti d’onore, anzi veri protagonisti circondati di attenzioni e di affetto, tre sopravvissuti, tra cui il premio Nobel Elie Wiesel.

Un aggettivo e un sostantivo simboli della memoria

Due parole si ritrovano nel messaggio del Presidente della Camera Gianfranco Fini e in quello del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, che da un anno presiede il Comitato di Coordinamento per le Celebrazioni in ricordo della Shoah. Le parole sono: un aggettivo, “vivido”, un sostantivo, “monito”. Il primo si riferisce al ricordo e alle testimonianze, è vivo e livido insieme; il secondo è per il presente e il futuro, non dimenticare perché l’orrore non si ripeta.

Vivida è la testimonianza piena di sgomento per “tutti gli atti disumani” il cui ricordo, è sempre Fini, “non cesserà mai di indignarci e di turbare le nostre anime”. Atti consegnati alla cronaca prima, tanto erano visibili, alla storia poi, tanto sono laceranti, dinanzi alla vista, ha ricordato Letta, di “milioni di oggetti personali quando non di frammenti di corpi umani accatastati; volti e corpi di uomini, donne e bambini, deturpati e annientati solo perché ebrei, sinti o rom o politicamente non omologati”.

Il monito per Fini viene dalla coscienza del passato per garantire il futuro contro simili barbarie: “Considero, infatti, la memoria collettiva una conquista morale e civile per ogni Paese autenticamente democratico”. Gianni Letta si è posto in una dimensione problematica e sofferta: “Tutto ciò ad opera di persone considerate normali, comuni, e sotto gli occhi di un’umanità che non vedeva , non capiva”. In questa agghiacciante “normalità” il monito viene dalla “banalità del male” che “individua nella sospensione :della facoltà di pensare la causa del progressivo cedimento da parte di persone, del tutto normali, a compiere atti altrimenti inconfessabili, visti esclusivamente in funzione di un progetto criminale di cui non si è stati capaci di percepire la gravità”.

L’inferno e il buco nero, il monito per l’umanità intera

Evocare il “sonno della ragione” sarebbe troppo poco, viene evocato l’ “inferno”, lo fanno Gianni Alemanno e Sandro Bondi, le autorità che hanno parlato nell’inaugurazione, gli altri sono stati presenti e i loro interventi all’apertura sono messaggi scritti. Il Sindaco di Roma lo annuncia agli studenti romani che vanno a visitare quei campi di sterminio: “Ragazzi, sappiate che sarà un viaggio verso l’inferno. Andrete nel punto più buio dell’animo umano, un sorta di viaggio dantesco”.

Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali , ricordando i 1.022 ebrei romani deportati ad Auschwitz il 18 ottobre 1943, di cui solo 17 fecero ritorno, dice: che “persero la vita in quell’inferno al quale tutti noi dobbiamo avere il coraggio di volgere lo sguardo per non doverci un giorno ritrovare a riviverlo.

Il “buco nero nella storia del XX secolo” per Alemanno è “una discesa nel lato oscuro dell’umanità”, per Vespa è la rimozione fatta da una generazione per difetto di conoscenza, la mostra colmerà il vuoto. Dinanzi alle omissioni di allora l’umanità, per Bondi, “si interroga su quel silenzio, sull’impotenza di Dio” e conclude che “la risposta alle ideologie del male risiede in noi, nell’essere capaci di una conversione, un rinnovamento interno per costruire una società più umana”.

Marcello Pezzetti, curatore con Vespa della mostra, dà all’esposizione una funzione pratica: “Comprendendo i processi che dalle prime persecuzioni hanno condotto poi alla sopraffazione violenta e allo sterminio, si imparerà a riconoscere i germi dell’intolleranza al loro primo manifestarsi, onde combatterli e impedirne lo sviluppo prima che sia troppo tardi”.

Il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna sottolinea che “tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e le altre categorie giudicate ‘inferiori’, ma contro tutta l’umanità”. E conclude dicendo che Auschwitz è stato “uno spartiacque della storia. Dopo Auschwitz l’Europa è completamente cambiata, ora è retta da quei principi e quel valori che Auschwitz cercò di annientare. Il monito è per l’umanità intera”.

Uno sguardo d’insieme alla mostra

Tutto questo si è svolto nella sala monumentale del Vittoriano, anche le parole scritte sembrano riecheggiare tra quelle colonne con i capitelli dalle volute ioniche, la platea per gli invitati e la piccola galleria per la stampa, la solenne scalinata e la quadriga con la vittoria alata dietro agli oratori che si sono succeduti a un microfono isolato, una presenza sobria e spartana come dovuto.

Parole, quelle scritte e quelle dette, che si sostanziano nelle testimonianze quanto mai vivide esposte in mostra, nelle immagini agghiaccianti che rappresentano quel monito che più di uno ha evocato. Negli ambienti dell’esposizione il monito viene dai documenti, spesso di fonte tedesca, dagli oggetti, come le lugubri divise rigate del lager, dalle lettere ricolme di tenerezza e dai tremendi elenchi di internati di una burocrazia dell’orrore; c’è anche un frammento del ghetto di Varsavia.

Si visita la mostra in un’atmosfera tesa, tra video e filmati, si guardano le immagini, fotografie e disegni, agghiaccianti nella loro spaventosa evidenza. Ci colpiscono i disegni sulla “selezione”, fatta separatamente per donne e uomini, all’aperto, quei corpi nudi appena abbozzati sembrano ancora più inermi e indifesi nei pochi tratti che li delineano, torna subito alla memoria “se questo è un uomo”; e il tarlo dell’anima che ha fatto soccombere il sopravvissuto Primo Levi schiacciato molti anni dopo da un peso, rinnovatosi con la visita al lager, che il tempo non aveva alleggerito.

Ripensavamo al suo dramma perché, anche se in forme e con esiti diversi lo hanno vissuto tanti, forse tutti i sopravvissuti venendone fuori. Si sono rinchiusi in se stessi perché troppo grande era l’orrore per essere comunicato; c’era addirittura il timore di non essere creduti. E questo silenzio ha reso temerari i revisionisti, fino a cercare di accreditare il negazionismo, ne ha parlato Bruno Vespa.

Fino a quando si è aperta la fontana dei ricordi, il tabù è stato superato, il revisionismo-negazionismo schiacciato dall’evidenza della realtà provata e testimoniata direttamente.

La rapida visita alla mostra

L’ultima sezione della mostra è dedicata ai processi per Auschwitz, svoltisi dopo il processo di Norimberga ai più alti gerarchi per i crimini di guerra insiti nella loro responsabilità complessiva. E’ l’approdo, la dolente nemesi che giunge purtroppo tardi, quando milioni di vite sono state schiacciate, un milione nel solo campo di Auschwitz, con duecentomila bambini la cui vita è stata spenta il giorno del loro arrivo al lager. Sono sconvolgenti quegli occhi che sembrano guardarci dalla fotografie esposte alle pareti, la “vita è bella” in un cupo bianco e nero senza finzione cinematografica è davanti a noi. Alla bestialità della guerra si aggiunge l’infamia inenarrabile dell’olocausto, il genocidio di un popolo da eliminare nell’aberrazione dell’inferiorità o superiorità razziale.

La mostra non fa salti, Ci fa ripercorrere le tappe di un itinerario allucinante per la lucida follia che lo pervade in quella “sospensione della facoltà di pensare” di cui ha parlato Gianni Letta. Birkenau, oltre Auschwitz, viene preso come espressione criminale di un disegno consapevole definito nei suoi particolari non come obnubilazione temporanea e folle. Aveva un ruolo ben preciso nel meccanismo perverso della “Shoah” nazista.

In sette sezioni, ulteriormente ripartite al loro interno, si attraversa il museo degli orrori dell’Europa prima metà del novecento. C’è il cosiddetto “sistema concentrazionario” con i suoi campi da lavoro e le sue regole, viene descritta la nascita di Auschwitz.

Dalla persecuzione degli ebrei nella Germania nazista ai ghetti polacchi, inizia lo sterminio prima in Unione Sovietica, poi in Polonia; oltre a quello degli ebrei il “destino parallelo dei sinti e dei rom”. Il piano Auschwitz-Birkenau è lo strumento perverso per realizzare l’obiettivo aberrante. A seguito del piano tali campi diventano i terminali delle deportazioni di ebrei dall’Europa e anche dall’Italia.

Nella mostra si vede come fosse pianificato lo sterminio: dalla selezione al massacro nelle camere a gas, fino al trasporto dei corpi e al saccheggio dei beni delle vittime.

La vita nel lager e le condizioni di lavoro sono ben documentate con scritti e immagini: dopo l’immatricolazione la quarantena e l’inserimento nella vita del campo, con il lavoro; poi le selezioni interne e i criminali esperimenti medici. Particolare attenzione va ai bambini e ai giovani presenti nel campo, dove ci sono anche le altre categorie perseguitate. E poi l’“arrivano i nostri”: evacuazione, liquidazione e liberazione del campo, fino alla scoperta dei crimini contro i tentativi di occultarli, infine i processi di Auschwitz. Siamo tornati al punto dal quale avevamo iniziato il giro.

Una ricorrenza per la memoria di tutti noi e dell’umanità intera

Abbiamo raccontato la cerimonia ma non la mostra, della quale abbiamo indicato soltanto i contenuti per fugaci accenni. Lo faremo in modo più meditato di quanto consentito in una serata d’inaugurazione, ripercorrendo il museo degli orrori che rappresenta e cercando di leggere nella lucida follia che lo ha architettato le tracce del disegno delirante e del meccanismo infernale.

Oggi la cerimonia è stata un’intensa immersione in una tragedia epocale resa insostenibile dai visi dei bambini che sgranano gli occhi nelle immagini esposte. Erano così, pensiamo, i visi dei tre sopravvissuti presenti,quegli occhi potrebbero essere del Premio Nobel Elie Wiesel che tutti riveriscono. Si sente un tuffo al cuore, i morsi della memoria sono laceranti, scavano dentro.

Però per questa sera l’ingresso dell’inferno può bastare, il viaggio dantesco nella mostra lo faremo un’altra volta e lo racconteremo come sempre. Possiamo uscire a riveder le stelle. E certo, la terrazza del Vittoriano ce le presenta con la vista mozzafiato unica al mondo . Sono le ore 20, ha smesso di piovere, attraversiamo la grande terrazza, possiamo dinanzi all’ascensore trasparente che porta in vetta al Vittoriano. Scendiamo a Piazza Venezia, non c’è più la fila davanti al palazzo per “Il Potere e la Grazia”, la grande mostra ha chiuso i battenti per questa sera.

Ci affrettiamo a tornare a casa per scrivere il servizio. Vogliamo essere sulla rivista quando sorgerà il sole del sessantacinquesimo anniversario della “liberazione” di Auschwitz, il 27 gennaio 2010. Sentiamo il dovere di celebrare, con la solennità che merita, una ricorrenza così importante per la memoria di tutti noi e dell’umanità intera.

Tag: Bruno Vespa, Gianni Letta, Roma

4 Comments

  1. Claudio Vespa

Postato marzo 22, 2010 alle 3:23 PM

Ogni volta che si ricordano questi eventi della Storia dell’Uomo mi tornano alla mente alcune parole scritte da un ragazzo ebreo fatto prigioniero nei campi di sterminio, rivolgendosi alla madre :
anche se il mare fosse d’inchiostro ed il cielo di carta non basterebbero a descrivere l’angoscia ed il dolore che sto provando…….

  • laformiotodidac

Postato gennaio 27, 2010 alle 8:30 PM

Ricci :

I ricci/
Del giorno/
Cadute a vostro piedi/
Carezzano/
Le notti/
Delle nostre memorie bruciate./

Auschwitz 3 settembre 1941, Polonia.
Di Anick Roschi

  • Francesca

Postato gennaio 27, 2010 alle 7:48 PM

la guerra e stata terribile io ho sentito le storie di Luigi Bozzato e sono terribili perfino lui piangeva a forza di parlare di quella ssua bruttissima esperienza nei campi di concentramento. ora luigi bozzato e morto a Ponte Longo il luogo in cui abitava e è morto l anno scorso 2009 . mi dispiace per tutto questo e anche luigi e spero che non si ripeta mai più questa guerra. bruttissima e stata … ciao

  • Nemo profeta

Postato gennaio 27, 2010 alle 3:42 PM

Cerchiamo di non dimenticare:
Il genocidio del popolo Palestinese ad opera dei Nazi-Israeliani;
I milioni di anticomunisti massacrati dall’Unione Sovietica;
I 70 milioni di europei morti nella seconda guerra mondiale;
I cittadini di Dresda bruciati vivi dalle bombe al fosforo;
I milioni di Giapponesi arsi dalle radiazioni atomiche;
Lo sterminio dei Kurdi;
I bambini Iracheni e Afghani vittime innocenti delle guerre democratiche;
Le migliaia di Storici imprigionati nelle galere di tutta Europa, a causa della loro ricerca sulla verità Olocaustica.
Io non dimentico!

Caravaggio e Bacon, 3. Bacon, alla Galleria Borghese

di Romano Maria Levante  

Si conclude la visita alla galleria Borghese ai dipinti di Caravaggio e di Bacon esposti fino al 24 gennaio 2010 con le loro concezioni, così diverse ma anche parallele, lontane quattro secoli, di spazio, luci e ombre, corporeità. Il finale con i dipinti di Bacon: teste, corpi, e omaggi agli amici.

Un salto di quattro secoli, che si riducono a pochi metri nelle splendide sale della Galleria Borghese e dal mondo caravaggesco si passa al mondo baconiano. Un profondo tormento esistenziale anche in questo autore così lontano nel tempo e diverso nello stile, ma vicino nella condizione umana. Abbiamo visto nella preparazione alla mostra i profili paralleli attraverso i quali si possono leggere le loro opere radicalmente dissimili, che più diverse non potrebbero essere, e apprezzarne gli aspetti peculiari: è la magia dell’arte che fa cogliere in siderali lontananze un denominatore comune.

La testa e il corpo negli studi di ritratto di Bacon

La corporeità esasperata di Bacon può essere analizzata, nelle opere esposte, partendo dalle teste. E non si può non iniziare dallo “Studio per ritratto III”, viene da una Collezione privata, alla singolarità del titolo, peraltro a lui consueto, unisce la genesi tutta particolare. Siamo nel 1955, l’anno prima è stato in Italia, a Ostia e a Roma, non a Venezia nonostante sia in mostra alla Biennale con Lucian Freud; l’anno successivo andrà a Tangeri per visitare il compagno Peter Lacy. Il musicista Gerard Schurmann gli chiede di ispirarsi al calco del poeta Blake realizzato nel 1823 mentre era in vita, per la copertina della raccolta di musiche ispirate alle sue poesie; e Bacon, che le apprezzava, esegue lo studio dopo avere visto il calco e soprattutto le fotografie, che preferiva all’immagine reale nel suo lavoro. Quello esposto è il terzo di sette studi, una figura spettrale realizzata sulla tela grezza con pochi tratti, occhi chiusi, naso definito dall’ombra, espressione ieratica, il genio nell’eternità; gli altri, non in mostra, hanno altre particolarità, ad esempio lo “Studio per ritratto II” ha il lato sinistro, quello più in vista, segnato con un taglio nella guancia e l’occhio ancora più chiuso.

Molto diversa la “Testa VI”, realizzata a quarant’anni, nel 1949, viene da Londra, Southbank Centre, Art Council Collection. L’anno prima Bacon aveva venduto una sua opera al Museo d’arte moderna di New York, non ha ancora incontrato il critico Sylvester, che lo intervisterà molte volte facendolo aprire quasi come in sedute psicanalitiche. Non è solo una testa, sebbene si intitoli così, c’è anche il busto con la mantellina violetta di papa Innocenzo X. Ha messo il busto per dare una base importante alla testa, perché questa era ritenuta fondamentale: l’urlo della balia ferita nella “Corazzata Potemkin” il celeberrimo film di Ejzenstejn che lo colpì molto, riteneva l’urlo della balia insuperabile e insuperato anche da lui stesso; a quell’immagine si ispira, il viso è tutto bocca, un forno nero che inghiotte i lineamenti. Ancora otto anni dopo, nel 1957, farà un dipinto intitolato “Studio della balia della Corazzata Potemkin”, un’immagine agghiacciante, se l’avesse vista Paolo Villaggio non si sarebbe sentito di dare al film cult l’esilarante definizione di “boiata pazzesca”, satira ben indovinata la sua di certi intellettuali intrisi di ideologia che ostentavano i loro osanna.

Ci sono poi “Tre studi per un autoritratto”, da una Collezione privata, del 1980: lui ha compiuto settant’anni, la sua mostra parigina di tre anni prima ha avuto successo. E’ un soggetto che da vent’anni gli è consueto, la testa anche in trittico e la propria immagine. Diceva “la mia faccia la detesto, ma continuo a dipingerla solo perché non ho altre persone da ritrarre”, i suoi amici non c’erano più; poi, anche se usava le fotografie, “talvolta, mentre si dipinge, si ha anche bisogno di vedere la persona”, e nulla di più facile della propria persona anche se definiva il suo viso “un vecchio faccione grasso”. Gli dava la resa migliore perché lo conosceva, eccome, per averlo analizzato allo specchio e rivisto infinite volte nelle fotografie che, perfino nell’autoritratto, restavano la fonte primaria; perciò riusciva a scomporre e ricomporre il proprio volto con facilità. Di certo i tre esposti sono veri studi di scomposizione e ricomposizione quasi anatomica fatta di luce e colore, con una lente deformante che in realtà era per lui la rappresentazione vera della realtà nascosta. Ce ne sono altri, ma riguardano persone amate o stimate, ne parleremo più avanti.

Adesso è il momento di passare dalla testa al corpo, la corporeità sentita da Bacon parte da lontano, addirittura da Michelangelo. Torniamo al 1949, realizza “Studio del corpo umano”, e l’anno successivo il “Dipinto” esposto in mostra proveniente da Leeds, Museums & Galleries: rappresenta in un certo senso il movimento della figura rappresentata l’anno precedente. Il moto risulta anche in uno sdoppiamento, quasi che un’altra figura maschile si affiancasse alla prima femminile; qualcuno ha potuto vederci un’allusione all’ambiguità sessuale tanto è indefinita e nel contempo percepibile immediatamente. La figura è michelangiolesca, e lo è in modo ancora più evidente quella dello studio precedente, con muscolatura potente e forme esuberanti.

Qui il discorso si fa più complesso, perché tali caratteristiche erano anche negli scatti del fotografo Muybridge a cui si ispirava più che alla realtà. Anche Bacon sembra incerto nell’individuare l’influenza prevalente, nel parlarne con Sylvester nel 2003: “E’ possibile che abbia imparato da Muybridge riguardo alle posizioni e da Michelangelo riguardo all’ampiezza e alla grandezza delle forme, e sarebbe per me molto difficile separare l’influenza di Muybridge da quella di Michelangelo”. Poi dà un’indicazione precisa: “Ma naturalmente, siccome la maggioranza delle mie figure hanno a che vedere con il nudo maschile, sono certo di essere stato influenzato dal fatto che Michelangelo ha realizzato i più voluttuosi nudi maschili che ci siano nelle arti plastiche”. E non a caso usa un simile aggettivo per i nudi maschili.

Ci interessa meno, a questo punto, lo sfondo inconsueto a strisce, come in un bagno pubblico, e lo stesso dicasi per le due fasce nere verticali che delimitano il campo e i violenti colori, altrettanto inconsueti, di quelle superiore e inferiore. Perché in altri dipinti questo corpo così compatto ed eretto si scompone. Ecco la “Figura sdraiata” del 1969, non ha avuto ancora i gravi lutti che lo colpiranno due anni dopo con la morte della madre e del compagno, ma l’immagine che ne viene è quanto mai tormentata. Si sarebbe ispirato a fotografie di una spregiudicata frequentatrice dei locali di Soho, sembra fosse Henrietta Moraes, da lui chieste all’amico fotografo Deakin per studi di nudo femminili a figura intera. Venti anni sono trascorsi dal nudo maschile michelangiolesco sulle pose statuarie di Muybridge; Deakin ha altre predilezioni, sembra abbia fatto scatti intimi molto spinti, per poi venderli a Soho. Il dipinto che ne deriva mostra una figura vista dalla testa, quasi venisse offerta su un grande vassoio, sovrastata da una lampadina con una luce gialla. Esprime l’abbandono della carne, è sdraiata su uno strano sofà rotondo, che evoca il vassoio, con intorno mozziconi di sigarette intorno e una siringa piantata nel braccio destro. Le gambe sono aperte, le braccia divaricate con le mani dietro la testa, posizione inequivocabile che dà il senso dell’offrirsi.. L’insieme mostra i segni evidenti del degrado della vita e la sofferenza della condizione umana.

L’intimità è ancora maggiore in “Due figure” del 1975, da una Collezione privata: sono all’interno del contenitore trasparente che le rinchiude in uno spazio limitato, si avvitano in un amplesso che ne fa un unico corpo; il desiderio, evidentemente tutto maschile, le proietta con violenza ma anche con intensità emotiva. Inizialmente c’era una figura seduta sulla destra, che non contrastava con l’intimità della scena data la concezione di Bacon al quale non dispiaceva assistere né che altri lo facessero; poi la staccò forse pensando di farne un trittico finché non lasciò isolate le “due figure”.

Ricompare il genere femminile negli “Studi dal corpo umano” dello stesso 1975, da una Collezione privata, ma solo nel corpo perché la testa è maschile. .Si tratta della figura laterale, sullo sgabello, dov’era seduta anche la figura tagliata nel dipinto precedente. Ha parvenze femminili con un seno nudo prosperoso ma volto maschile, un’espressione androgina inquietante, sembra preludere a qualcosa di violento; presumibile che ne sarebbe oggetto la diversissima figura del nudo disteso, a gambe divaricate e braccia aperte con le mani dietro la testa come nella “Figura sdraiata”: corpo e viso in atteggiamento altrettanto inequivocabile, in parte riflesso da uno specchio. Si è parlato di “licenziosità”; vi si può vedere il contrasto netto tra godimento e incombente repressione.

L’ultima immagine corporale non riferita ai compagni è un “Trittico ispirato all’Orestea di Eschilo”, del 1981, proveniente da Oslo, Astrup Fearnley Collection, tre figure disgiunte che non hanno rapporti né cronologici né di altro tipo, unite solo dall’ispirazione del momento: non ha più i suoi diletti Lacy e Dyer, perduti nel momento del successo, può entrare in lui una filosofia esistenziale di rassegnazione, si rifugia nel lontano passato: “In quello che faccio, ebbe a dire, sento di rispondere a un lungo richiamo che viene dall’antichità”. Ma soprattutto sente di espiare dei sensi di colpa per la morte degli amici, e nulla più di Eschilo gli si addice. Immagini allucinate, forse di Erinni, la figura centrale è deforme e senza testa con una coppa di sangue sacrificale in un fondo rosso che forse lo evoca; le due laterali, ulteriormente deformate, diventano quasi ectoplasmi con parvenze umane, il contenitore geometrico trasparente, assente in quella centrale, sembra imprigionarle.

L’omaggio baconiano alle figure amate e rispettate

Fin qui le opere esposte nelle quali dipinge soggetti senza personificarli, salvo lo “Studio per ritratto III” riferito al calco della testa di Blake e la “Figura sdraiata” ispirata alle foto di Henrietta; a parte i “Tre studi per l’autoritratto” che fanno parte di una serie sterminata di simili esercizi.

L’omaggio con cui inizia questa carrellata è del 1957, l’anno del primo autoritratto. Si tratta dello “Studio per un ritratto di Van Gogh VI”, proveniente da Londra, South Bank Center, Arts Council Collection: fa parte di una serie di otto dipinti sul grande artista del quale lo attirava l’arte ma anche la vita allucinata. In quel periodo Bacon aveva una relazione molto tormentata con Lacy, che era stato pilota, era violento e gli distruggeva anche i quadri; l’anno prima era andato a trovarlo a Tangeri. Nell’inquietudine estrema del grande olandese, che si era mozzata una parte dell’orecchio in preda alla furia autodistruttiva, vedeva rispecchiarsi le proprie inquietudini. Il quadro si ispira, riprendendone il soggetto, a un dipinto di Van Gogh distrutto durante la guerra di cui c’erano riproduzioni; “Autoritratto del pittore sulla strada di Tarascona” del 1888. Tra gli otto dipinti, nello “Studio per un ritratto di Van Gogh V” aveva raffigurato il pittore su una strada nelle sue linee rette con tinte accese; in quello esposto ricorre a una composizione molto elaborata, con linee oblique e tinte forti, dove però la figura del pittore quasi non si distingue essendo l’unica forma scura con una tavolozza variopinta, quasi albero tra gli alberi. Sono di Van Gogh i colori puri e gli scorci della campagna. E’ veramente suggestivo.

Alcuni anni dopo abbiamo due ritratti molto diversi, entrambi di grandi dimensioni, apparentemente anomali per Bacon: il ritratto del Papa, per lui non credente, e quello di una donna, per lui misogino.

Il primo può sembrare inatteso fino a quando non se ne conosce la storia, è lo “Studio del ritratto di papa Innocenzo X”, del 1965, da una Collezione privata. E’ stata una sorta di “magnifica ossessione” per il ritratto di Velasquez allo stesso Papa, da Bacon definito ineguagliabile; ne aveva molte riproduzioni ma non volle andarlo a vedere a Roma a Doria Panphili, anche per la soggezione che gli incuteva. Abbiamo osservato come si serva del suo busto per sostenere una testa a cui teneva molto deformata dall’urlo della balia di Ejzenstejn. Michael Peppiatt sembra vedere tale immagine immanente: “Chiaramente, per Bacon, questa serie di parafrasi estreme, quasi isteriche, cui ritornò molte volte, presentava profonde implicazioni personali. Il vero soggetto dei suoi papi era il suo stesso irascibile e autoritario padre? E la balia urlante di Ejzenstein richiamava forse l’amata nanny, che aveva vissuto con l’artista durante i primi ani della sua carriera?” Ora vediamo come la soggezione si esprime nella maestosa struttura dell’immagine, nei grandi tendaggi cremisi e nel pavimento marmorizzato, solo la testa reca il sigillo inconfondibile del nostro artista, scolpita nei colori ma non deformata. Per lui era l’altro motivo della pittura, oltre alla figura maschile libera o nei contenitori, a voler spaziare dalle persone comuni ai potenti, in mezzo c’erano i suoi amici.

Il “Ritratto di Isabel Rawsthorne”, del 1966, viene da Londra, il Tate lo ha acquistato nel 1966: è un’immagine frontale del busto di una bella donna, dalle fattezze esotiche, modella e amante di diversi artisti, frequentò anche Picasso. A parte il dubbio se fosse stata l’unica donna anche di Bacon, che aveva nel proprio studio molte foto di lei scattate da Deakin, tra loro nacque un rapporto di amicizia molto stretto; lui era colpito dalla variabilità delle sue espressioni, ilari o altezzose, furibonde o pensose, e dal suo carisma e fascino nel mondo degli artisti, Giacometti aveva perso la testa per lei che riuscì a fare tre matrimoni prestigiosi. Il quadro in mostra ne rivela la forza espressiva e l’imponenza, un viso scolpito da colpi di luce sul nero del resto della figura e dello sfondo: un’immagine, diremmo con un ardito riferimento, dalle luci e ombre caravaggesche.

Dall’omaggio ai personaggi a quello agli amici più stretti; più che omaggio si tratta di ispirazione costante e bisogno di manifestare il suo rapporto con loro anche nella pittura. Iniziamo con il grande trittico, razionale e geometrico, dei “Tre studi di Lucian Freud”, da una Collezione privata: è del 1969, precede di due anni quelli di Dyer di cui parleremo. Freud era un artista con cui ebbe un lungo sodalizio, si frequentarono nella capitale inglese dove animarono la “Scuola di Londra”, un gruppo molto attivo. Pensare che il primo ritratto all’amico lo aveva fatto nel 1951, poi tanti altri avvalendosi delle fotografie del solito Deakin, al quale chiese di farne una serie che chiamava il “dizionario” per servirsene in assenza dell’amico. Di Freud apprezzava la vitalità e il sapersi sbrogliare in qualunque situazione, e questo lo esprime nelle inquadrature razionali, comprese in tre contenitori geometrici dalle proiezioni triangolari, mentre la sua figura contiene un’energia repressa pronta ad esplodere declinata nelle tre posizioni, non unite in trittico, che differiscono di poco.

Ora arriva il pezzo forte della serie, si tratta dell’omaggio a George Dyer, il più amato. Era un ladruncolo dell’East End, conosciuto casualmente e divenuto suo compagno per l’attrazione che suscitava in lui la figura muscolosa. Moltissimi quadri lo ritraggono nelle situazioni più diverse, anche scene familiari come in bicicletta o seduto a fianco alla propria immagine. I “Tre studi per ritratto”, del 1968, da una Collezione privata, sono tre teste quasi in posizione segnaletica, ne esplora fattezze e lineamenti. Qui si va dall’immagine quasi dormiente di sinistra e quella sfuggente di destra alla temibile figura centrale, dura e determinata.

Lo “Studio per ritratto”, del luglio 1971, viene da una Collezione privata londinese: è un grande dipinto di due metri per uno e mezzo: ci mostra Dyer seduto con la gamba destra accavallata e la struttura geometrica che ne delimita lo spazio; pur se un’ombra verde ne fuoriesce con uno schizzo bianco; la sua posizione molto composta ha fatto dubitare che fosse proprio lui, trattandosi di un periodo tormentato della loro vita in comune, un paio di mesi dopo morì in circostanze che fecero pensare al suicidio, in albergo a Parigi mentre Bacon era impegnato nella mostra al Grand Palais.

Ma crediamo che, se è questa la ragione del dubbio, c’è la prova che è infondato. Infatti l’altro dipinto delle stesse dimensioni esposto, intitolato “Studio di George Dyer”, dello stesso 1971, da una Collezione privata, esprime la stessa compostezza, pur se in uno spazio delimitato diversamente: là con la geometria del contenitore trasparente, qui con il rosso cupo del cerchio sul pavimento dove i piedi poggiano su giornali spesso presenti nei suoi dipinti, colore insolitamente forte che si ripete nello sfondo, con due strisce celesti e dei riflessi di specchio ai lati quasi in un bagno. Ebbene, la stessa compostezza e solidità, anzi vigore e salute ancora maggiore con la solita gamba destra accavallata e la figura compatta, quasi per nulla scomposta.

Il quadro venne esposto alla mostra dell’ottobre 1971 la cui inaugurazione, alla quale Bacon partecipò stoicamente, fu funestata appunto dalla morte del compagno trovato esanime per una miscela micidiale di sonniferi e alcool. In effetti Dyer, pur nell’apparenza rude e violenta, aveva mostrato sensibilità e invece di dominare Bacon, come l’artista forse avrebbe desiderato, si sentiva schiacciato dal suo ambiente e cercava di annegare nell’alcool il suo disagio. Forse da qui nacquero i sensi di colpa dell’artista che si tradussero in una copiosa produzione di opere in memoria di Dyer, dove la compostezza delle immagini in vita lascia il posto a figure che si tramutano in larve.

L’altra opera esposta, il “Trittico – Agosto 1972”, proveniente dal Tate di Londra che lo ha acquistato nel 1980, costituita di tre dipinti delle stesse grandi dimensioni, mostra ancora compostezza, sono trascorsi pochi mesi, la figura di sinistra è molto simile allo “Studio di George Dyer” anche nella gamba accavallata; e pure quella di destra, nella quale, però, viene vista l’immagine di Bacon stordito, mentre al centro c’è un viluppo di forme muscolose nel quale potrebbe esserci un amplesso amoroso. La tragedia viene in qualche modo evocata in tutti e tre i dipinti del trittico con un’ombra color carne che sembra portar via la vita.

Così si conclude la nostra carrellata nel mondo di Bacon, tra le figure singole e i trittici, anch’essi però con tre immagini isolate. Non ha mai voluto fare “narrazioni” con immagini in sequenza, tanto che si oppose a che mettessero una cornice comune a un suo trittico in mostra. Le stesse tre tele possono cambiare posizione perché non legate fra loro; teneva molto a che non si equivocasse.

Lascia una produzione che dà uno shock all’osservatore con delle deformazioni dei corpi e dei volti forti e violente, ma espressive del tumulto interiore che difficilmente il figurativo puro riesce a esprimere con altrettanta efficacia e verità. Diceva che cambiava radicalmente le fattezze perché i soggetti rappresentati potessero essere meglio se stessi, per arrivare alla loro essenza più genuina.

E lascia un insegnamento che riportiamo testualmente come lo espresse a David Sylvester, riteniamo sia la migliore conclusione: “Se stai per decidere di fare il pittore, tu devi metterti in mente che non dovrai aver paura di renderti ridicolo. Un’altra cosa, penso, è essere capaci di trovare soggetti che tu senta fortemente di voler tentare di dipingere. Sento che senza un soggetto si ricade automaticamente nella decorazione, perché non hai il soggetto che sta sempre a roderti dentro per uscire fuori… e la più grande arte ti riporta sempre alla vulnerabilità della situazione umana”. C’è qui tutta la sua inquietudine, ma prosegue con indicazioni pratiche: “E poi penso che oggi, per fare il pittore, si debba conoscere, anche solo in forma rudimentale, la storia dell’arte dall’età preistorica ai giorni nostri. E anche molti tipi diversi di libri documentari… E ho attinto moltissimo anche dal cinema”. Citando Bunuel oltre a Ejzenstejn può precisare meglio il suo senso della vita: “E’ vera crudeltà quella di Bunuel? Qualsiasi cosa in arte sembra crudele, perché la realtà è crudele. Forse è questa la ragione per cui così tanti amano l’arte astratta, perché nell’astrazione non si può essere crudeli”.

Conclusione

Abbiamo cercato il testamento spirituale di Caravaggio nell’iscrizione sulla spada “Humiltas occidit superbiam”. Forse nelle parole di Bacon appena citate abbiamo trovato il suo testamento spirituale.

Finisce così la nostra visita all’esposizione della Galleria Borghese. Tra poco si separerà la “strana coppia” di due maestri di epoche diverse, così differenti tra loro. Bacon non fece mai riferimento a Caravaggio, anzi teneva in bella vista proprio la sua biografia che sottolineava questo aspetto. Abbiamo visto all’inizio come risolvessero le rispettive problematiche di luce-ombra, spazio e corporeità; i motivi interiori, ben diversi, ma accomunati da una lacerante inquietudine, possono avvicinarli al di sopra delle tante diversità. E li hanno avvicinati in questa mostra, perciò nel descrivere i singoli quadri abbiamo ricordato episodi della loro vita. Con tanti aspetti contraddittori, come contraddittoria può apparire la mostra che li ha associati in un’esposizione nelle stesse sale ma nelle pareti opposte, quasi ne temesse la vicinanza nel momento in cui la promuoveva.

C’è la medesima contraddizione nei trittici di Bacon fatti di immagini indipendenti e isolate, senza alcun nesso narrativo. Un altro motivo perché quella visitata sia una mostra che lascia il segno.

Si può dire che mai come in questo caso genio e sregolatezza hanno fatto la differenza.

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Caravaggio e Bacon, 2. Caravaggio, alla Galleria Borghese

di Romano Maria Levante

A Roma, Galleria Borghese, fino al 24 gennaio 2010 visita ai dipinti di Caravaggio e Bacon esposti negli splendidi saloni in un contrappunto ideale tra le geometrie dello spazio, le luci con le ombre e le corporeità distanti quattro secoli. Proseguiamo con i dipinti di Caravaggio: figure e composizioni.

Visitiamo la mostra dopo aver ripercorso i capisaldi della vita e dell’arte dei due protagonisti ed esserci fatta una visione personale di cui abbiamo dato conto di recente. La verificheremo di volta in volta dinanzi alle opere esposte intendendo riferirci, senza ripeterle, alle considerazioni già avanzate. Non abbiamo preoccupazioni di ortodossia critica, tanto più che dichiaratamente la mostra “non è un’esposizione sulla storia dell’arte, ma l’invito a compiere un’esperienza estetica”. E’questo, in fondo, il percorso che preferiamo, ci piace osservare e narrare ciò che abbiamo visto senza preconcetti, pronti a mutare convincimenti pregressi, secondo la grande lezione di Montanelli.

Gli accostamenti evitati in sede di presentazione e di guida alla mostra non sarebbe possibile farli direttamente, anche se lo si volesse: non a caso ma per una scelta coerente, i due Maestri sono su pareti diverse e lontane, i quadri non spiccano dato che sono inseriti nel fondale istoriato e lavorato delle sale della Galleria Borghese. Le rispettive opere vengono viste e considerate a sé stanti, senza comparazioni più o meno ravvicinate che sarebbero impossibile fare anche se fossero accostate.

Procediamo quindi nella continuità di ognuno dei due Maestri mettendo in rilievo, nelle tre caratteristiche salienti che abbiamo individuato nel precedente resoconto, quella che spicca nella linea pittorica dell’artista, declinandone i particolari salienti dinanzi a ogni specifica opera.

Nel raccontare la visita, per Caravaggio preferiamo considerare separatamente le opere imperniate su una figura e quelle dove invece sono in scena dei gruppi; per Bacon la distinzione sarà un’altra.

Le figure e i ritratti di Caravaggio

Cominciamo la galleria di figure e ritratti dal “Ragazzo con il canestro di frutta” e dall’“Autoritratto come Bacco”, entrambi della Galleria Borghese. Sono tra le prime sue opere, si collocano intorno al 1593-94: aveva ventidue anni o poco più, si era da poco trasferito a Roma, per qualche mese era stato nella bottega del Cavalier d’Arpino. Viveva nell’indigenza e per di più questi quadri furono tra quelli sequestrati per motivi fiscali alla bottega dal papa Paolo V Borghese. C’è la cura dei particolari in un naturalismo leonardesco, un altro elemento comune è la sottile malinconia che pervade i volti adolescenti mentre cercano di sorridere.

Si può notare una contraddizione tra questi aspetti, nel “Ragazzo con il canestro” la frutta assiepata nel recipiente tenuto stretto al petto contrasta con il volto assorto; che non evoca affatto l’allegoria dei cinque sensi o delle quattro stagioni, ipotizzata da qualcuno, ma piuttosto una donazione simbolica: forse anche di sé come traspare dall’espressione, nella coscienza che è un dono inutile per un’umanità condannata. E anche se i frutti sono ben delineati, con il fico aperto e la foglia gialla appesa, l’espressione del viso nella testa reclinata all’indietro non rientra nel naturalismo e trascende il lato psicologico. L’intera figura è rischiarata da un soffuso chiarore che viene dall’alto.

Analoghe considerazioni per l’“Autoritratto come Bacco”, nel quale la luce fa rilevare dal fondo nero la figura oltre alla quale schiarisce soltanto il piano dove sono poggiate le due pesche e il grappolo d’uva; un altro grappolo è tenuto nella mano destra, a differenza della ricca cornucopia del dipinto con il canestro. Con il serto in testa, il viso si sforza di sorridere quasi fosse una posa obbligata, mentre esprime tristezza, o almeno intensa malinconia. Forse è la sofferenza per la malattia che si aggiungeva alla miseria, fu ricoverato all’Ospedale dei poveri, per questo motivo è chiamato anche il “Bacchino malato”. Ma nel significato simbolico si può vedere sia la condizione umana senza redenzione; sia, secondo Rottgen, l’aspetto negativo e triste dell’ebbrezza bacchica.

In entrambi i dipinti restano elementi bucolici e arcadici legati alla natura che fanno pensare alla vana ricerca di un’oasi di quiete: il destino aggiunse ben più gravi traversie a quelle giovanili.

Ed ecco un altro capolavoro, “Maddalena penitente”, dipinto del 1595, poco dopo l’uscita dalla bottega del Cavalier D’Arpino; viene dalla galleria romana Doria Pamphili. E’ un periodo più tranquillo, è stato accolto in casa del cardinale Del Monte, suo protettore. Il taglio obliquo della luce e la collocazione della Maddalena, anche con l’ausilio di forti contrasti cromatici, ne fanno spiccare la figura il cui carattere penitenziale emerge sia dal capo reclinato sia dall’essersi spogliata del vasetto di unguenti, monili e collane di una vita da dimenticare. Questi elementi sono un segno della visione realistica che si esprime in un primo piano nello stesso tempo reale, quindi con il senso di profondità, e simbolico, evocando la presenza divina; lo spazio intorno alla figura è completamente vuoto, la percezione viene data dalle mattonelle che sfumano verso lo sfondo, la sensazione non è di solitudine ma di riposante quiete. La fedeltà al vero porta all’esibizione di quegli oggetti molto terreni che allontanano le astrazioni dinanzi a temi religiosi; e alla riproduzione della quotidianità, con una giovane che conosceva a fare da modella, ripresa in atteggiamento familiare. Nessun dramma nella scena, un ripiegamento dolce e tranquillo, non si sente l’angoscia del peccato.

Mentre la Maddalena penitente è raccolta in se stessa e dolcemente abbandonata, tutt’altro atteggiamento ha “San Girolamo scrivente”, opera della Galleria Borghese realizzata intorno al 1605, sembra su commissione del cardinale Scipione Borghese. Periodo tormentato, due anni prima era stato processato con altri artisti per avere diffamato il pittore Baglione, ora è arrestato per ingiurie e porto d’armi abusivo. Il santo è in posa innaturale con il braccio allungato per intingere la penna; l’espressione tesa, al posto dei monili dell’altro dipinto c’è il teschio poggiato sul libro aperto che nell’assetto ed equilibrio compositivo corrisponde al suo viso dalla parte opposta. L’insieme è stato associato alla natura morta, dando ai diversi elementi lo stesso valore nella figurazione simbolica; va ricordato che il santo aveva tradotto la Bibbia dall’ebraico al latino, di qui la penna. L’ambiente è spoglio, indossa solo un mantello che gli copre parzialmente il busto, quasi a rimarcare il pauperismo dell’ordine; il volto teso ne esprime il rigore. In questa fase della sua vita incontrava seri incidenti in un ambiente ostile, e aveva subito degli insuccessi: tutto ciò si legge nel volto chiuso del santo, quasi volesse scavare dentro di sé, nel fiotto di luce sul buio cupo dello sfondo, nel teschio per contrapporre la morte alla vita. Tutto dà drammaticità e pathos alla scena.

Ancora diverso il “Ritratto del cavaliere di Malta (Fra Antonio Martelli)” dello stesso periodo, 1607-09, viene da Firenze, Palazzo Pitti. Il Gran Maestro dell’Ordine è raffigurato con la croce bianca al petto e le mani poggiate una sulla spada e l’altra sul rosario, simbolo della doppia natura dei Cavalieri, cattolici osservanti e guerrieri. Dovrebbe essere stato realizzato nel soggiorno a Malta che coincise con quello nell’isola del personaggio ritratto nel 1607-08, oppure a Messina l’anno dopo; c’è l’evasione dal carcere, la fuga tra la Sicilia e Napoli dove è ferito in una aggressione; lo stile è quello rapido del periodo, il tratto è veloce. E’ ripreso di tre quarti, l’espressione calma quasi assorta, con la particolarità che guarda da un’altra parte immerso nei suoi pensieri: ci viene in mente la “Donna dell’ermellino”, allontaniamo l’associazione tanto ci sembra anomala. Il viso è scolpito dalle rughe, è stanco, ma la positura del corpo esprime energia, è a mezzo busto mentre il Gram Maestro dell’ordine sarà a figura intera. Ha sfumature rossastre, solo la luce fa stagliare il volto sullo sfondo scuro, l’abito è evidenziato dalla croce bianca sul petto. C’è anche il mistero del perché il Cavaliere si sia fatto ritrarre da lui in un periodo in cui il pittore era stato espulso dall’Ordine.

Con “San Giovanni Battista” del 1610, della Galleria Borghese, siamo a Napoli, è l’ultima fase del soggiorno partenopeo prima di rientrare a Roma dove spera di avere la grazia dal Pontefice, su intercessione del cardinale Scipione Borghese; morirà poco prima, nel luglio dello stesso anno. Anche qui un mistero ancora più intrigante di quello del Cavaliere; il quadro lo portò, con altri due, per donarlo al cardinale come segno di riconoscenza, rientrando clandestinamente a Roma, ma fu sorpreso a Palo dalle guardie pontificie che lo separarono dai quadri. Sembra che la morte lo colse mentre cercava di recuperarli a Porto Ercole; Scipione Borghese recuperò questo e lo fece restaurare dai danni della salsedine. Di qui forse nasce l’anomalia del mantello rosso, un panneggio morbido a volute a lui inconsueto; nel recente restauro si è riscontrato che nella parte sottostante ci sono i suoi tratti secchi e veloci. La luce della figura spicca sul consueto sfondo nero, la figura del santo nuda, con un panno sulla gamba, le mani intrecciate sopra al mantello che ricopre la sedia, la sinistra tocca il lungo bastone. Non c’è drammaticità, la luce è avvolgente e le parti oscure presentano come una velatura, i contrasti non sono marcati anche se il gioco luce-ombra è sempre presente.

Le composizioni caravaggesche

Con la prima composizione entriamo nel mondo delle commissioni importanti, per le quali occorreva cimentarsi con le “historiae”, temi leggendari e soprattutto legati alla fede anche per committenti non ecclesiastici per le loro cappelle. Quando erano temi religiosi nasceva il problema dell’ortodossia, perché le raffigurazioni che se ne allontanavano spesso venivano rifiutate.

Si ratta di “Giuditta che taglia la testa a Oloferne”, del 1599, è nella Galleria nazionale d’Arte antica del romano Palazzo Barberini. C’è il netto contrasto tra l’espressione serena della fanciulla pur concentrata nel gesto tremendo della decapitazione e la testa stravolta nell’urlo del soccombente, accentuate dalla luce che piove sulla prima, forse la Grazia, mentre l’ombra sembra inghiottire il secondo; e anche la vecchia in primo piano che osserva, in contrasto con la gioventù di Giuditta.

La galleria caravaggesca della mostra ci dà poi i temi strettamente religiosi, cominciando con la “Conversione di San Paolo”, del 1601-03. C’è un particolare gioco di prospettiva e luminosità, dovendo decorare una parete laterale della cappella; ma l’effetto principale è la luce che piove dall’alto rischiarando le figure fondamentali: il corpo del cavallo dal quale San Paolo è caduto, in una insolita inquadratura posteriore, poi il corpo del santo con le braccia larghe protese verso l’alto e il suo viso abbagliato dalla Grazia che scende dal cielo; e rischiara anche il viso dello stalliere che tiene il morso del cavallo per calmarlo. Guttuso scrive: “San Paolo, a terra, alza le mani: folgorato, si direbbe, dall’enorme massa luminosa del corpo del cavallo”. Atmosfera comunque estatica, forse era troppo drammatica quella del precedente quadro sul tema rifiutato dal committente Ospedale della Consolazione. Viene dalla romana Chiesa di Santa Maria del Popolo, nella famosa piazza del Popolo, cappella Cerasi, che contiene anche la “Crocifissione di San Pietro”, degli stessi anni.

Proseguendo nel tempo, troviamo in rapida successione due Madonne: la “Madonna di Loreto (Madonna dei pellegrini)” del 1604-05 e la “Madonna dei Palafrenieri” del 1605-06: la prima della chiesa romana di Sant’Agostino, la seconda della Galleria Borghese. Sono immagini molto diverse, unite dalla figura della Vergine, per la quale aveva posato una cortigiana del tempo, Maddalena Agnolotti, detta Lena, la cui riconoscibilità comportò quello che è stato chiamato lo “schiamazzo” popolare. Nel primo dipinto sono state trovate reminiscenze tizianesche nella particolare composizione e nel corpetto di velluto rosso della Madonna; c’è il realismo caravaggesco nella figura dei pellegrini prostrati in ginocchio con i piedi scalzi e sudici per il cammino. L’effetto di luci e ombre accomuna i due quadri come tutte le opere del Maestro, qui è la figura e il volto della Vergine sotto il fiotto di luce. La sua posa è languida, i precedenti della modella creavano problemi.

Ma se in questo poteva essere riferita alla classicità della figura, che si ispirava alla statuaria greca, era più difficile farlo per il secondo dipinto dove la classicità è soprattutto nella figura statuaria di Sant’Anna, pur se in penombra, ma fondamentale anche per la committenza. La luce cala impetuosa sulla Madonna e il Bambino nudo che schiacciano il serpente della tentazione. Il dipinto fu accolto entusiasticamente dagli amici di Caravaggio, ma fu molto contestato: ci fu anche il rifiuto con la rimozione da San Pietro per la fisicità attraverso la quale l’artista intendeva riferire il dogma calato nel dramma dell’esistenza. Così Maurizio Calvesi: “L’integrale classicità della testa e del busto della Vergine, la plasticità raffaellesca dei contorni, l’emergere delle figure dal fondo attraverso un procedimento tecnico che conferisce profondità ai volumi, sono accompagnati da una resa realisticamente conturbante della carnalità”. Ma non è fine a se stessa: “Il turgore delle carni riveste le figure di una incombente nudità che, piuttosto che trasporre in loro concetti di classicità e di antico, vi conferisce l’immanenza dolente e insostenibile dell’umana verità”.

Altri caratteristici temi cristiani nei dipinti esposti: vita di Cristo, il suo primo apostolo, una santa. Tutti e tre negli ultimi due anni della vita del Maestro, il periodo siciliano-napoletano. Della fase siciliana la “Resurrezione di Lazzaro”del 1609, dal Museo di Messina, fu una committenza ricevuta in questa città da un genovese che vi risiedeva e si chiamava Lazzari, l’idea del tema fu di Caravaggio. C’è tutta l’essenzialità della fase siciliana, ma ha caratteri diversi dalle altre composizioni, è concepito come un fregio classico per la cappella alla quale era destinato. La luce sfiora i corpi nel buio cupo dello sfondo, sembra un bassorilievo del quale emergono le parti ossute del corpo scheletrito e insieme quelle flaccide della carne in disfacimento. La classicità del fregio appare anche nei panneggi scultorei. La diagonale luminosa del corpo di Lazzaro prosegue una composizione che inizia con una figura nell’ombra ma potente: il Cristo con il dito puntato.

Del primo apostolo è in mostra, proveniente da New York, “La negazione di Pietro”, dal Metropolitan Museum of Art, dipinto nel 1609-10: è raffigurato in un momento del “mi rinnegherai tre volte”, con una donna e un soldato al quale nega di conoscere Cristo; non fa un torto all’apostolo, come abbiamo accennato aveva dipinto quasi dieci anni prima la sua crocifissione. La “negazione” è dell’ultimo anno, fase napoletana, con tratti brevi ed essenziali, toni rossastri, luce che ancora di più scolpisce i particolari da evidenziare: la figura del santo, rischiarata con evidenziati il volto imbarazzato e le mani raccolte, e soprattutto il viso della donna, testimone della scena, percosso dalla luce solo nella parte superiore lasciando in ombra il soldato segnato solo da un riflesso di luce sull’armatura. Attraverso le illuminazioni vanno in primo piano i moti dell’animo.

Terza opera sacra il “Martirio di Sant’Orsola” del 1610, dal palazzo Zevallos Stigliano di Napoli, una delle sue ultime opere. C’è la piena maturità artistica per come lo spazio è costruito con le ombre e come la luce costruisca le figure, mentre i protagonisti della scena rappresentata, la santa e il soldato, sono evidenziati anche con le vesti rosse. Lo spettro luminoso è molto ampio, ma sono il viso della santa e il suo busto ad imbiancarsi per la luce e la sofferenza, espressa nelle mani raccolte sulla ferita per il colpo infertole e nel viso rassegnato nell’accettazione del martirio, mentre il soldato aguzzino sembra quasi paralizzato a bocca spalancata con il braccio ritratto; c’è un altro viso accorato che guarda il soldato con rassegnazione mista a pietà.

Il dramma raggiunge il “diapason” con l’ultima opera esposta, tra le più significative anche sotto il profilo psicologico e autobiografico. Si tratta di “Davide con la testa di Golia”, della Galleria Borghese, tema che aveva già affrontato nel 1597-98, a ventisei anni, nel dipinto di Madrid con un Davide quasi bambino, in una visione astratta e naturalistica; e affronterà ancora, nella tavola di Vienna del 1607, intermedia tra i due dipinti nella tensione emotiva oltre che nella datazione.

Del dipinto esposto viene indicata la data del 1610, ci sono altre attribuzioni che lo fanno risalire al 1607 come quello di Vienna sulla base di considerazioni che non tengono conto dei significati simbolici i quali portano alla fase finale della sua vita. Tra questi il viso della testa recisa di Golia, un suo autoritratto disperato come a voler raffigurare la propria condanna a morte eseguita; la personificazione del male dove il bene è nel giovane Davide. Che ha la camicia lacera e lo sguardo intenso dove la determinazione è unita alla pietà, come in Giuditta che taglia la testa ad Oloferne, Qui la decapitazione è già avvenuta, Davide è come se emergesse dal buio, sembra che entri nella tenda di Saul con il macabro trofeo. Nel suo sguardo è stata vista, pure ai fini della datazione, anche la rassegnazione mista a pietà con cui il protettore di Sant’Orsola rivolge gli occhi sull’aguzzino. Così Anna Coliva, che dirige la Galleria Borghese “E’ anche quella profonda malinconia che velava precocemente lo sguardo del ‘Ragazzo col canestro di frutta’. E’ un’espressività di forza irripetibile che racchiude in sé l’intera poetica di Caravaggio, secondo il quale la coscienza contemplativa, dolorosa e piena di infinita commiserazione, compiange una umanità colpevole, impossibile da salvare”; come forse sentiva di essere lui stesso in quest’ultima fase così tormentata della sua vita.

Un mistero è stato risolto da Marini nel 1987, l’iscrizione sulla spada di Davide, con il motto agostiniano “H.AS OS”, cioè “Humiltas occidit superbiam”. Che sia il testamento spirituale lasciato volutamente da Caravaggio?

Con questo interrogativo, che aggiunge un altro mistero ai tanti sottesi alle sue opere si conclude l’excursus attraverso dipinti particolarmente significativi nella sua produzione, dove si ritrovano le espressioni salienti della sua arte nei diversi periodi della vita che abbiamo voluto ricordare per i loro riflessi sia sullo stile pittorico sia soprattutto sull’elemento psicologico. Aspetto fondamentale quest’ultimo considerando come la sua pittura renda in modo suggestivo i moti dell’animo.

Possiamo provare a immaginare i moti dell’animo nella vita travagliata che ha dato a Michelangelo Merisi l’appellativo di “pittore maledetto” oltre a quello di Caravaggio. Una vita tormentata non solo a livello esistenziale ma anche artistico, a stare ai rifiuti da parte delle Confraternite committenti delle sue opere non “ortodosse”. Ma non per questo veniva meno alle proprie scelte stilistiche così personali e di contenuto così drammatico reso senza forme teatrali ma con un gesto, una pennellata di luce; e marcando la sua distanza dalle rappresentazioni edificanti facendo diventare protagonisti i popolani, presi come modelli, che impersonavano le figure dei protagonisti, lo abbiamo visto per le immagini “schiamazzate” della Madonna.

Forse il migliore omaggio che possiamo rendergli dopo l’emozione che ci ha procurato, è concludere con le parole di Guttuso, anch’esse fonte di emozione. Ecco come ne ricorda gli ultimi momenti: “Dopo Siracusa: Messina e Palermo; sempre lasciando tracce operative del suo passaggio. Fino alla morte sul tragico litorale tirreno che rotolò anche le ossa di Palinuro, di Shelley, di Nievo.” Ecco, infine, come evidenzia il segno profondo che ha lasciato: “Ma Roma non seppe prendere coscienza di quella morte, né di quella vita. Per secoli lasciò in ombra la straordinaria occasione rivoluzionaria che l’opera di Caravaggio offriva. E toccò, da allora in poi, a rari uomini nuovi, a creatori solitari e convinti, riprendere in mano i fili di quell’occasione e perseguire l’dea della pittura come affermazione della verità delle cose, coscienza della vita e della morte”.

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1 Commento

  1. Giulietta

Postato giugno 20, 2010 alle 2:16 PM

non ho potuto visitare la mostra di caravaggio….l’hai fatto tu per me molto meglio di me…soltanto i miei occhi non hanno goduto quanto i tuoi. Grazie

Africa? 2. Le opere non pittoriche, e non solo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Si conclude la descrizione della mostra al Complesso del Vittoriano a Roma, fino al 17 gennaio 2010, con le forme espressive diverse dalla pittura della Collezione Pigozzi; e con le 15 opere pittoriche di 9 artisti selezionati dai Ministri della cultura delle singole nazioni africane in un rapporto proficuo, da coltivare ancora, con il nostro Ministero per i beni e le attività culturali.

Continua la nostra visita alla bella mostra sull’arte contemporanea africana, dopo aver descritto le opere pittoriche in senso stretto della Collezione Pigozzi. Questa volta, sempre provenienti dalla collezione, abbiamo video e fumetti, progetti di macchine fantastiche e soprattutto sculture di diversi materiali, da quelli metallici di risulta al legno variopinto, ad altro ancora.

Opere non pittoriche e sculture con materiali di varia natura

Passando alle opere non pittoriche troviamo molti tipi di materiali, spesso di recupero: la carta-cartone e il polistirene, il ferro e la plastica, la ceramica e il rame; ma soprattutto il legno dipinto. Sono di carta-cartone, polistirene e plastica i “plastici architettonici”, come lui li definisce, di Bodys Isek Kingelez, nato nella Repubblica democratica del Congo nel 1948, dove vive e lavora a Kinshasa. Ha prodotto anche opere monumentali, come il “plastico” del villaggio natale di Kimbembele Ihunga, la “Città fantasma” e la “Città del futuro”; in mostra ci sono tre altre opere tra il 1985 e il 1992: “L’Onu”, “Papiteca, progetto per una Biblioteca nazionale”, “Aeromoda”, più che i plastici di edifici ci ricordano nella forma particolare le prime macchine calcolatrici a manovella.

Ha invece la forma e il nome della macchina che riproduce perfettamente nei suoi due metri di lunghezza, la “Mercedes” del 1993 di Samuel Kané Kwei, nato nel Ghana nel 1922 a Teshie dov’è deceduto nel 1991. C’è una storia molto singolare dietro quest’opera, in legno e vetro, metallo e tessuto: ha tutto l’aspetto del veicolo, ma è una bara, produzione in cui l’autore si era specializzato secondo l’usanza di dare una forma particolare a seconda della professione e gruppo sociale; sono sculture funerarie molto ricercate prodotte ora dai figli proseguendo nella sua tradizione.

Si cambia totalmente genere e forma nonché materiale con Caliate Dakpogan, conterraneo di Hazoumé, anche lui del Benin, nato nel 1958 a Porto Novo dove vive e lavora. Discendente dal fabbro all’antica Corte reale di Porto Novo, non lavora più su commissione ma crea sculture artistiche assemblando materiali metallici recuperati “per dare forma a figure antropomorfe” con teste e corpi. I materiali di recupero hanno un invecchiamento naturale per lui necessario, poi ci associa oggetti di uso comune e monili. “Grazie all’intelligente mix di cultura africana ed occidentale, commenta Magnin, le sue creazioni piene di talento, umorismo e di storie, esprimono una creatività contemporanea e una stupefacente inventiva”. Di queste figure, in mostra ce ne sono cinque, che partono dal 2002: hanno la stessa forma, si direbbe una testa di cavallo, con titoli ai quali si associano accessori in carattere assemblati alla testa, come squadre e righelli in una “Geometria” quasi metafisica, e siringhe in “Operatrice sanitaria”, entrambi del 2007.

Tornano i colori squillanti della pittura in George Lilanga, nato in Tanzania nel 1934 e deceduto a Dar es Salaam nel 2005 del quale sono esposte sette opere. Due di queste, realizzate nel 2000, sono dipinti di vernice industriale su compensato dai titoli molto particolari: “Il compleanno e il giorno del bagno del loro padre” e “Non ridere, ti sto dicendo la verità”, grandi composizioni con lo sfondo in tinta unita, blu l’uno, rosso l’altro, dove si stagliano figure grottesche in disegni surreali. Le altre cinque sono sculture in legno dipinto a colori brillanti con soggetti diversi, da “Domenica in chiesa” a “Lavori urbani”, da “Esercizi muscolari” a due “Senza titolo”. I volti sono maschere quasi disneyane o dall’espressione allucinata, si ispirano alla cultura Makonde riferendosi a storie ancestrali, ma hanno il gusto della caricatura.

Avviciniamo idealmente a queste figure le cinque sculture de Demba Camara, nato in Costa d’Avorio nel 1970, vive e lavora ad Abidjan. Sono opere su commissione di un artista dalla produzione eterogenea che, tuttavia, con i “Feticci contemporanei” riesce a proporre motivi moderni del mondo tecnologico, come i robot della fantascienza e della televisione, in chiave antica; quasi fossero i feticci statuari della tradizione, e in questo c’è anche un gusto umoristico della caricatura. Tali sono le cinque sculture “Senza titolo”, con colorazioni uniformi e diverse, molto decise, c’è anche il robot con il figlio e quello automobilistico, come la grande bomba d’aereo verde e rossa.

Siamo sempre più addentro alle forme tradizionali con i cinque totem di legno dipinto alti quasi due metri di Efiaimbelo, nato nel 1925 nel Madagascar ad Androca dove è vissuto e ha lavorato fino al decesso avvenuto nel 2001. Si tratta di sculture tradizionali funerarie dette “Alouals”, disposte a quadrato intorno alla tomba, ciascuna con un fusto fatto di otto elementi geometrici e astratti, l’ultimo una luna piena, sovrastato da una scena scolpita in pieno rilievo, in cui il nostro artista faceva valere la sua fantasia. Nelle opere esposte realizzate dal 1993 al 2000, le scene richiedono una vasta piattaforma con molte figure scolpite in legno. Nei titoli che le descrivono si va dal “Cuore di pietra, cuore di catena”, alla “Circoncisione”, dalla “Sfida tra Dio e Andrianopolisy” a “L’uomo solitario” e allo “Spirito della foresta cura le malattie”.

Un posto a sé, nel nostro viaggio a ritroso verso le forme della tradizione, occupano le sculture modellate in terracotta da Seni Awa Camara, nata in Senegal nel 1945 a Bignona dove vive e lavora. Hanno un aspetto arcaico, ancestrale, forse per influsso della misteriosa iniziazione che ebbe l’artista sparita da piccola nella foresta della Casamance con i due fratelli gemelli; i volti sono deformi, così i piccoli che si aggrappano alla madre, un segno dell’antico trauma, c’è un popolo di queste figure nel cortile della sua casa. In mostra sono tre, dal 1980/90 al 1999, tutte “Senza titolo”, inquietanti con i piccoli mostruosi in grembo nella prima, che diventano rettili nella terza, per non parlare della presumibile mamma, alta quasi un metro e mezzo, letteralmente coperta da piccolissime figure con volti mostruosi e mani che si attaccano al suo corpo. Forme ancestrali. “La sua riflessione, commenta Magnin, prende spunto da verità rivelate, da storie fuori dal tempo e dalla realtà, dall’osservazione del mondo degli umani e dalla sua condizione di donna Wolof”, l’idioma speciale in cui risponde. “La sua idea è che tutto questo è più grande di lei e la inquieta, e la sua missione è quella di conciliare passato e presente”.

Gli altri artisti africani selezionati dai Ministeri della cultura di nove nazioni

Fin qui le 75 opere dei 20 espositori della Collezione Pigozzi”, ne abbiamo apprezzato l’estrema varietà di stili e motivi, come di personalità e ispirazione artistica. Jean Pigozzi dà atto a chi ha avuto l’idea risolutiva nel realizzare il proposito del Ministro per i Beni culturali Bondi: “Sono profondamente grato ad Alain Elkann che ha avuto l’idea di portare a Roma la mia collezione”. Ora è il momento dei nove artisti, selezionati in base alle segnalazioni dei Ministri della cultura dei singoli paesi, interessati direttamente dal nostro Ministro per i beni e le attività culturali. Facciamo lo stesso processo a ritroso dal figurativo verso stili che se ne allontanano sempre più, con una eccezione, lasciamo per ultime le opere che per noi sono il “clou” di questa sezione.

Riprendiamo con “Il cavallo bianco” di Idrissa Diarra, nato in Costa d’Avorio nel 1969, dove vive e lavora ad Abidjan, autodidatta comincia dipingendo insegne. Un pittore dallo stile “naif” che già venti anni fa partecipò alla mostra “Peinture naif africane” al Museo d’Art Naif di Parigi. Un’arte popolare in affreschi e dipinti, tratta temi attuali come il contrasto tra la natura pacifica e ubertosa e la violenza e i mali della sua terra. Il grande cavallo bianco del 2001 in un ridente ambiente, verde la vegetazione, candidi i muri, scalpita per l’assedio di soldati lillipuziani che spianano i loro fucili.

Un figurativo dove le immagini si sovrappongono in un magma pittorico lo vediamo in Shine Tani, anch’egli impegnato su temi ispirati alla vita della sua città. Nato nel Kenua nel 1967, dove vive e lavora a Nairobi, una storia di povertà che lo vede acrobata e vagabondo fino alla consacrazione artistica. Non dimentica le origini, fonda il “Banana Hill Group” per aiutare gli artisti in difficoltà, oggi ne ospita oltre cinquanta. Nei due quadri esposti, entrambi del 2009, gli “Abitanti delle baracche” sono volti che spuntano in un magma di oggetti, nel “Concerto annullato”, di grandi dimensioni, il volto e le mani emergono da un magma più indistinto fatto di macchie che evoca confusione e sconcerto.

Rarefatto anche il figurativo di un altro autore, è quello che teniamo per la conclusione. Ora incontriamo gli indumenti stesi sul filo di Abdul Naguib, sono ben distinti come i disegni che adornano T shirt e pantaloni, sottovesti femminili. L’autore è nato nel 1955 in Mozambico, dove vive e lavora a Maputo; ha studiato pittura anche in Europa, più di cento mostre al suo attivo. Ha dipinto edifici istituzionali, l’Assemblea nazionale e il palazzo presidenziale; l’opera esposta, “Karingana”, del 2005, di grandi dimensioni, è dipinta in acrilico, vinile e olio su tessuto.

Unisce figurativo ad altre forme espressive nello stesso dipinto Chikonzero Chazunguza, nato nel 1967 in Zimbabwe, vive e lavora in Canada, ad Ottawa, diplomato all’Accademia belle arti di Budapest, docente di discipline artistiche all’Università del suo paese. Ha fatto mostre ed avuto riconoscimenti, le sue opere scavano nell’identità nazionale e trattano i mali e i problemi che affliggono il suo paese. “Determinazione” presenta un’auto scoperta carica di persone in tre riquadri nei quali cambia il colore di fondo, sotto disegni infantili o istantanee lontane; “Virtualità” ripete in forma molto diversa la stessa auto con persone, in un collage affollato di immagini trasversali immerse nel rosso e nel nero.

Soly Cissé, nato nel 1969 nel Senegal, dove vive e lavora a Dakar, artista noto a livello internazionale per aver rappresentato il suo paese in Biennali e aver fatto mostre personali all’estero, a Parigi e in Italia a Prato. Si sentono influssi occidentali, da Bacon a Basquiat, la tradizione africana si fonde con elementi occidentali, anche la tecnica adotta forme come i graffiti. Temi catastrofici si esprimono attraverso ambienti foschi e torbidi, il personale si fonde con il collettivo. Due opere del 2008 di grandi dimensioni in mostra: “Montagne 1”, una sorta di palizzata che evoca una barriera invalicabile; “La stagione delle piogge”, una tavolozza dove emergono ringhiere e confuse figure di animali.

Ancora più ampia la prospettiva in cui si colloca Abdoulaye Konaté, nato nel 1953 nel Mali, dove vive e lavora a Barnako, studi di pittura anche a Cuba, dirige il “Conservatoire des Arts et Métiers Multimédia” del Mali. Le sue opere, spesso installazioni, affrontano i temi del suo paese, come guerre e siccità. Quella in mostra del 2008, “Generazione biometria n. 1”, è un grandissimo pannello di sei metri per tre con figure che sembrano mummie distese tutte uguali su molti piani paralleli, diverse soltanto nella tinta, unita o variopinta. Esprimono l’immigrazione africana dominata dalla politica con relativo controllo dall’alto, nell’angolo superiore sinistro il busto della Statua della Libertà con il braccio alzato sembra evocarlo.

Con tecnica mista su tela sono realizzate le due grandi composizioni di Herman Mbamba, nato in Namibia nel 1980, vive e lavora in Norvegia, a Oslo dove ha studiato all’Accademia delle Belle arti. Nelle sue opere si sentono gli strascichi dell’“apartheid” vissuta sulla pelle del suo paese all’epoca della dipendenza dal Sudafrica razzista. Tratta temi scottanti, ricerca un’identità personale e nazionale. “Il Circo, atto I” e “Il ritorno del Circo, atto II”, del 2008, mostrano un viluppo sottile di linee e di colori, con cerchi, volute, forme minute per esprimere il magico intreccio circense.

Siamo giunti così agli ultimi due artisti, dalla forma espressiva diversissima pur se entrambi uniscono alla formazione africana una vita artistica internazionale che si svolge anche in Europa. Lilion Mary Nabulime è nata nel 1963 in Uganda, dove vive e lavora a Kampala. Dottorato in arte contemporanea alla Newcastle University, mostre e workshop in Inghilterra, impegno sulle problematiche femminili. L’opera del 2002-03, “Vagliatura”, si impone all’attenzione per essere fatta di una serie di elementi, dodici cestini come guantiere che recano chiodi o conchiglie, semi o altro, poi una statua di donna che solleva con le braccia in alto un altro cestino ricolmo: è la denuncia della “spulatura”, che affatica e danneggia la salute delle donne ugandesi affette da Aids.

Ed ora quello che per noi è il “clou” di questa sezione, i tre acquarelli su carta di Rashid Diab, che abbiamo tenuto appositamente per ultimi. L’autore è nato nel 1957 nel Sudan, vive e lavora a Khartoum, studi di pittura nel suo paese e a Madrid, espone in Europa. Gli acquerelli su carta sono la sua forma espressiva, con squillanti accostamenti cromatici; i soggetti sono presi dalla vita, come animali e beduini, donne al mercato, oppure da motivi di decorazioni popolari della tradizione araba. Le tre opere esposte, tutte del 2009, intitolate “Donne”, sono di un figurativo quasi impressionista, di grande effetto pittorico e forza nel contenuto. Le figure femminili che si assiepano sono macchie di colori contrastanti, dai volti neri, ma che colori, che linee! C’è da sognarle, sono dei capolavori.

Le scoperte e il valore della mostra fino alle due immagini simbolo

Dopo l’escalation di emozioni vissuta nel vedere le opere in mostra basta sottolineare alcuni aspetti peraltro già evidenti. “Dove vive e lavora” è la notazione ricorrente: ebbene, salvo due eccezioni che confermano la regola, si tratta sempre del proprio paese. E’ un aspetto importantissimo, diremmo fondamentale, significa che restano ancorati alla loro terra, al proprio territorio e alla rispettiva cultura, per questo è un’arte che continua ad essere alimentata e aggiornata; e la Collezione Pigozzi che si accresce annualmente ne rende conto con la sua raccolta sempre più vasta. L’altra notazione, che viene sempre dalla loro biografia, è il campionario completo di provenienze, non solo dai diversi paesi, ma anche da località urbane o isolate, come anche di età per lo più giovanili ma con presenze di artisti in età avanzata o scomparsi. Un campionario di stili e forme espressive, le più varie sempre nel segno dell’arte; è lontano il folklore tribale cui eravamo abituati.

In questo contesto, il giudizio artistico finale è giusto sia quello di André Magnin, il citato mattatore della valorizzazione dell’arte africana, artefice anche delle tante mostre che abbiamo richiamato. Conosce così bene i singoli autori da aver fatto per ciascuno ampie ed approfondite note biografiche e critiche nel bel Catalogo di Gangemi Editore.
Ecco le sue parole: “Le scelte estetiche di ciascun artista sono altrettanti manifesti di una creatività, di una potenza e di una bellezza straordinarie. Essi sono riusciti a fondere sapientemente, ciascuno nel proprio ambito, il carattere individuale delle creazioni e quello collettivo della percezione delle loro opere”. Così prosegue: “L’arte africana si rivela un mezzo espressivo universale, condiviso da individui di origini diverse, le cui sensibilità si manifestano tuttavia attraverso gli stessi stratagemmi, lo stesso sistema di rappresentazione da un capo all’altro del pianeta”.

E’ vero anche ciò che dice sulle opere in mostra: “Al primo impatto si prova uno shock visivo e solo in un secondo tempo se ne percepisce il senso”. Ma quando questo avviene torna alla mente la galleria colorata nelle sue diverse espressioni e si ripete l’emozione del primo impatto, mentre la consapevolezza dei contenuti e dell’itinerario personale e collettivo si fa più completa e matura. Nel lasciare la mostra abbiamo negli occhi le due immagini simbolo. Quella ufficiale, lo abbiamo detto, vede il mondo amorevolmente racchiuso tra due mani delicate attente a non stringerlo troppo, che lo prendono come in un’offerta votiva. Ci guardiamo intorno, ci sono manifesti con scritto “Giù le mani dall’acqua”, lo stesso mondo è strattonato e strizzato da due mani che se lo contendono, è una polemica politica nei confini del Lazio, niente a che fare con la mostra. Però che coincidenza!

L’altra immagine, lo ricordiamo, per noi quella delle taniche di benzina affastellate su un’esile motociclo, ci riporta al nostro dopoguerra, allorché equilibri impossibili di un popolo che cercava di arrangiarsi per sopperire alle carenze consentivano trasporti e produzione; furono insomma gli strumenti della ripresa, che poi divenne miracolo economico. Ci sentiamo di fare l’augurio che lo siano anche per il continente africano: per i suoi talenti, le sue iniziative, la sua volontà di crescita che la mostra ha avuto il grande merito di far conoscere e valorizzare.

1 Commento

  1. Francesco Ascani

Postato gennaio 20, 2010 alle 10:32 PM

Il dott. Levante porta a compimento la sua esposizione della mostra d’arte africana trattando video, fumetti e sculture, sempre “alla Romano Maria Levante”, con assoluta originalità e con “il valore aggiunto dell’approfondimento e possibilità di integrare con il proprio commento”.
Fornisce ampie notizie su materiali utilizzati e descrizioni e citazioni di vario genere su alcuni autori, con richiami di personalità e ispirazione artistica, e dopo l’escalation di emozioni vissute nel vedere le opere in mostra, conclude rilevandone il duplice aspetto creativo: l’essere ancorati alla loro terra, quale arte che continua a crescere, e le provenienze da diversi paesi, da varie località urbane o isolate, e di età per lo più giovanile.
Nel ritenere giusto il giudizio artistico finale di “André Magnin”, che riporta anche nei concetti più interessanti, l’autore rivolge un augurio al continente africano, affinché trovi gli strumenti della ripresa “per i suoi talenti, le sue iniziative, la sua volontà di crescita che la mostra ha avuto il grande merito di far conoscere e valorizzare”.
Annotato quanto sopra, al solo fine di focalizzare i vari concetti sviluppati e ritenendo che la possibilità di commento, per singolarità del dott. Levante, non possa essere utilizzata, come già evidenziato per la parte prima, manifesto ancora qualche considerazione personale, sempre per le sensazioni avute ed i sentimenti sviluppati dalla lettura dello scritto.
Convinzione mia è, comunque, che i suoi scritti, tutti abbastanza estesi, non stancano assolutamente, ricchi come sono di notizie culturali, artistiche, storiche e letterarie, ma offrono “conoscenza” e quindi creano cultura.
Del suo metodo capillare ed efficace ho pure già detto, o forse tentato di dire, ma voglio aggiungere che i suoi testi forniscono notizie specifiche d’argomentazione, con approfondimenti su tanti temi e tutti pertinenti e sono un esempio, un modello ed una guida per tutti.
Non avrei mai pensato di trovare in una Rivista, simili trattati che più li leggi e più accrescono le tue conoscenze, la stima per chi li scrive e la gratitudine per “Abruzzo Cultura”.

Africa? 1. Una nuova storia, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra al Complesso del Vittoriano a Roma, dal 19 novembre al 17 gennaio 2010, rivela l’arte e la cultura africane, con 90 opere di 29 artisti di 20 nazioni (75 opere della Collezione Pigozzi e 15 di autori indicati dai Ministri della cultura di 9 paesi), che esprimono energia, talento e creatività artistica con grande varietà di linguaggi, da quello contemporaneo al tradizionale fino all’arcaico.

“Siamo poveri perché non abbiamo denaro, ma siamo artisti e vi assicuro che ci sentiamo estremamente ricchi, abbiamo la nostra dignità. Vogliamo uno sguardo nuovo, quello autentico che è stato perduto, speriamo che la mostra aiuti a ritrovarlo”. Così un artista africano in rappresentanza di tutti gli altri, dignitoso e severo, nell’abito tradizionale del suo Paese: un pesante mantello di velluto nero bordato d’oro, con un austero copricapo, una figura imponente. Era il 18 novembre 2009, presentazione della mostra “Africa? Una nuova storia”, promossa dal Ministero per i beni e le attività culturali, fino al 17 gennaio 2010 a Roma, al Complesso del Vittoriano, realizzata da “Comunicare Organizzando” con la Collezione Pigozzi di arte contemporanea africana.

Al termine siamo riusciti ad avvicinarlo, è Romuald Hazoumè, del Benin, gli abbiamo detto che nel nostro servizio sul vertice della Fao uscito un’ora prima, lamentavamo la tendenza a ridurre l’immagine dell’Africa alla miseria, ingenerosa verso un continente di antica civiltà ricco di talenti. Ha ribadito: “Invito tutti a ritrovare la nostra dignità anche attraverso la mostra, rivendichiamo il diritto a educazione e salute, chiediamo il riconoscimento di ciò che siamo, non abbiamo bisogno di altro”.

Il valore della mostra d’arte africana

Per noi è stato questo il “clou” della presentazione di una mostra che è molto di più di una esposizione di opere artistiche, ne va dato atto al ministro Bondi che l’ha voluta fortemente. Nell’intervento alla presentazione nel salone del Ministero al Collegio romano, l’ha definita “un grande avvenimento” e ha ricordato che nel continente africano vi sono “le radici stesse della civiltà europea e anche di molti momenti importanti della storia artistica del nostro continente”. Non solo, perché “oggi è anche una sorgente di spiritualità e di amore per la vita nonostante le sofferenze. In un’epoca che vede l’Europa povera di spiritualità, l’Africa ci dà un esempio molto positivo”. Sul significato della mostra ha aggiunto che per i suoi valori “è un continente che merita di essere conosciuto di più e la mostra può essere un ponte con l’Europa nel segno della civiltà in nome dell’arte e della cultura”. Anche perché “la cultura può essere la chiave fondamentale della nostra politica estera”.

Il consigliere Morabito degli affari esteri ha ricordato che l’Africa “è un continente giovane in una fase di profondo cambiamento. Offre opportunità straordinarie nei rapporti commerciali e anche culturali. E la cultura è la migliore base per l’incontro tra i popoli, la mostra è anche un mezzo per consolidare i rapporti culturali. A tal fine si sono interessati i Ministri della cultura delle diverse nazioni africane perché segnalassero artisti significativi del proprio paese, e questo è avvenuto.

Ma sentiamo il curatore della mostra, André Magnin, il massimo esperto di arte africana e non solo, cura da 22 anni, dalla fondazione, la Collezione Pigozzi, quindi è anche un operatore culturale di arte africana. Con lui il nucleo iniziale nato da una felice intuizione si è moltiplicato fino a costituire una raccolta di migliaia di opere di trenta paesi che si rinnova annualmente con aggiunte a livello dei linguaggi più nuovi portati dal talento e dalla creatività personali: “L’Africa, ha detto, partecipa allo sviluppo culturale del mondo, non deve essere più sinonimo di guerre e fame, malattie e sottosviluppo; le opere dei suoi artisti costituiscono una collezione unica di stili e provenienze diverse, che ha un impatto di bellezza, di forza, di verità”. Un aspetto importante :“Vogliono continuare a vivere in Africa, la loro arte esprime la bellezza di un continente straordinario”.

Jean Pigozzi li ha definiti “persone di una creatività straordinaria, che riescono sempre ad aprirti la mente”, e a invitato a non pensare all’arte tribale, “la nuova arte africana è tanto interessante e complessa, tanto bella e sofisticata quanto quella esposta nelle gallerie e nei musei di Berlino, Londra o New York”. Concetto precisato da Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando”, la società realizzatrice della mostra, secondo cui gli artisti della Collezione Pigozzi “sono stati in grado di testimoniare la ricchezza della creazione artistica contemporanea africana, superando lo stereotipo di arte folkloristica e decorativa post coloniale per entrare in relazione con l’arte occidentale e sviluppare così una propria autonomia di linguaggio”.

Si deve dare atto alla Collezione Pigozzi, diamo l’acronimo Caac (Contemporary African Art Collection), di aver fatto tanto per la loro valorizzazione. Nata dopo l’esposizione “Magiciens de la Terre”, ha tenuto mostre di arte africana a New York e a Londra, poi in diverse città europee e a Johannesburg, anche a Torino e a due Biennali di Venezia nel 2007 e 2009, fino alla recente alla Biennale di Mosca. I titoli sono tutto un programma, da “Africa Explores” ad “Out of Africa”, da “Africa Art Now” ad “Africa Remix”, da “Why Africa?” ad “Against Exclusion” a Mosca.

La “nuova storia” auspicata nel titolo della mostra di Roma è un invito a riscoprire le radici comuni, dove si incrociano le storie e le culture ricordate dal ministro Bondi. E’ un terreno di incontro nel quale l’arte può migliorare la conoscenza reciproca e avvicinare i popoli nel segno della pace. Andiamo a verificare quanto è stato detto e quanto promette la mostra visitandola. Ci colpisce subito per la vivacità dei colori e la varietà degli stili, un vero campionario d’arte e di costume, di vita e di civiltà. La parte del leone la fanno le opere della Collezione Pigozzi, in esposizione ben 75.

I due pilastri della mostra, i “bidoni”di Hazoumè e “il mondo tra le mani” di Bodo

Iniziamo con l’opera di Romuald Hazoumé, nato nel 1962 nel Benin, a Porto Novo dove vive e lavora: non solo perché il suo intervento alla presentazione ci ha molto colpito, ma soprattutto perché ci hanno colpito le sue opere esposte, e in particolare il “Carretto del Benin”, la sua patria, del 2003-04. Si tratta di una vera motocicletta, piccola e vecchia, quasi sommersa da un numero spropositato di taniche-bidoni di plastica che si reggono in un equilibrio portentoso, contro ogni legge fisica. La motocicletta che non potrebbe trasportarli, tanto le sue ruote sono esili rispetto alla loro massa, ma li trasporta è come il calabrone che non potrebbe volare tanto le sue ali sono esili rispetto al corpo ma vola. Abbiamo rievocato anche di recente il “calabrone Italia”, questa volta abbiamo il “carretto Benin” che diventa il “carretto Africa”, come l’auto-motociclo di Zampanò nel felliniano “La Strada”: un veicolo che conteneva un mondo. Il mondo del “carretto del Benin” è l’Africa con i suoi talenti e le sue zavorre che vorrebbero farla affondare, ma reagisce caricandosi fino all’inverosimile di ciò che può farla decollare, riassunta nell’energia contenuti in quei bidoni appesi al motociclo: e sono tanti perché tanta ne serve e tanta sono disposti ad utilizzarne.

I bidoni servono ad Hazoumè anche per farne delle maschere, lo fa dalla metà degli anni ’80, sin da giovanissimo, è nato da una famiglia cattolica che segue il culto degli antenati, lui è segnato dal Voodo. Questo duplice influsso crea le contraddizioni evocate dalle maschere in una personalità forte che si caricava di medaglie come gli spiritelli di Baj. Sono esposte tre maschere del 1992-94, “On/off” con scolpito un viso enigmatico, poi “Bob la conchiglia” sul giallo con una sorta di coppola nera e “Alì” sul verde con capelli alla “Presbitero” degli anni della nostra autarchia. Sempre materiale di recupero, si vede l’apertura per l’imbocco dei bidoni. Ma non sono maschere pirandelliane a coprire un volto, una realtà lontani dalla finzione: “Contrariamente alla maschere tradizionali il cui portatore può perdere la propria personalità – commenta Andrè Magnin – le maschere di Hazoumé esprimono l’esatta personalità del portatore che raffigurano”.

E siamo all’immagine ufficiale simbolo della mostra, un’opera recentissima, del 2008: il mondo tra le mani di Amani Bodo, il giovanissimo artista della Repubblica democratica del Congo nato nel 1988 a Kinshasa dove vive e lavora, che ha dato il titolo impegnativo “La riconciliazione è il bacio della morale” a un’opera esplicita ed enigmatica insieme. In un verde puntinato da vegetazione tropicale, l’albero della vita spunta da un globo planetario visibilmente abitato con l’Africa in primo piano, tenuto tra due mani con delle dita anch’esse abitate da facce di ogni età e tipologia umana. Qualcosa di più si capisce dall’opera che lo precede, “Bisogna ripensare il mondo”, dove il globo non è ancora tenuto tra le mani, ma è come se si immettesse al suo interno materia cerebrale per infondervi intelligenza e razionalità facendone uscire armi, ammazzamenti, guerre. Sempre l’Africa in primo piano con la sua grande dose di cervello. Colpiscono per la forza espressiva e il significato che riescono a dare, lo ripetiamo, esplicito ed enigmatico, come si presta ad una doppia lettura l’azione che viene compiuta sul mondo così inerme ed esposto. Ma l’albero con le larghe foglie che spunta dal globo è rassicurante quant’altri mai.

I linguaggi più figurativi ed espressivi

Da Amani Bodo a Pierre Bodo il passo è breve, si tratta del padre, classe 1953, che presenta un “Sisma mondiale” dello stesso 2008 nel quale non ci sono le mani né l’immissione del cervello, ma il globo sì, sempre con l’Africa in primo piano, dal quale partono cinque inquietanti missili verso il cielo trapunto di stelle, a sinistra alberi e una figura umana, a destra una figura bianca vicina e una città lontana, sotto due figure, maschile e femminile, i cui piedi si toccano, le cariatidi del mondo.

Le altre due opere dello stesso anno sono molto diverse, c’è “La donna africana, una opzione tra i frutti”, inserita nell’albero tra i suoi pomi appesi ai rami, c’è anche un cuore trafitto da un ramo, sembra l’albero della vita non quello di Adamo ed Eva. Dei visi si affacciano, piovono biglietti di banca, si avvicinano figure oniriche, un pesce e un aereo. Mentre il “Decollo dell’Africa” è reso da una atleta dalle forme prorompenti con il tronco e la testa soggetti a una trasformazione onirica. Nel suo programma, del resto, c’è “far condividere i miei sogni di un mondo migliore”.

Gli accostiamo in un certo senso, pur nelle differenze stilistiche, Chéri Chérin, suo conterraneo e quasi coetaneo, nato nel 1955, molto attivo nel contesto culturale di Kinshasa, dove vive e lavora, per il quale forma e contenuto sono un tutt’uno, e l’arte è milizia “il cui messaggio è veicolato attraverso i suoi dipinti”. Lo si vede dalle sue opere anch’esse del 2008: “I nuovi padroni del mondo” sembra un “murale”, con al centro un bieco prevaricatore e ai lati un mondo di lotte e di proteste, di figure e simboli; in “I partigiani” figure pensose di giovani, immerse nel verde strepitoso della vegetazione.

Gli stessi colori intensi, soltanto sull’azzurro, troviamo nell’altro conterraneo nato nel 1956, Chéri Samba, che vive e lavora a Kinshasa. Tali sono gli sfondi di “Adamo ed Eva” del 2007, grande quadro figurativo con qualche enigma nel ragazzo dallo strano copricapo che sembra voglia dipingere di scuro la Eva bianca per farla come Adamo, in un affollarsi di punti interrogativi; azzurro che torna negli altrettanto grandi “Amo i colori” del 2003 e “Attenti alla disobbedienza” del 2008, il primo con lo sfaldamento della forma dato dalle strisce di colore, il secondo con una qualche deformazione delle figure. Mentre “Il piccolo Kadogo” del 2004 sembra una denuncia con il soldato-bambino che si arrende.
Fa calare nella realtà più vicina, ben presente agli occhi del mondo, il keniano Richard Onyango, nato nel 1960 a Malindi dove vive e lavora, con il suo trittico sullo “Tsunami”, tre grandissime tele dipinte in acrilico, nel 2005, di 3,60 metri per 1,60, un vero proprio giudizio universale come drammaticità di un evento devastante, che tutto travolge sotto un’ondata di un verde intenso che si rovescia su persone e animali, villaggi e foreste, automobili e barche. C’è immediatezza e precisione nei particolari, al punto da poter sembrare a prima vista arte “naif”; le deformazioni non sono surrealismo, è una visione di impressionante intensità che resta negli occhi e nel cuore.

Vogliamo far seguire un artista dalla pittura radicalmente diversa, perché gli occhi stralunati che si moltiplicano ed escono dalle orbite sembrano esprimere la sgomento allucinato dinanzi allo tsunami. E’ il nostro accostamento del tutto personale e libero dei quattro recentissimi dipinti del 2009 di Pathy Tshindele, nato nella Repubblica democratica del Congo nel 1976 a Kinshasa dove vive e lavora; è impegnato con un gruppo di ribelli come lui contro le convenzioni dell’Accademia portandovi i relitti urbani e con dipinti così descritti da Magnin: “Riassumono al meglio la rivolta, la vita, la strada, la luce… la sua storia personale, quella del popolo e del mondo di cui egli si sente cittadino”. E non serve lo tzunami per ingrandire e moltiplicare a dismisura le orbite oculari, per creare immagini oniriche con carte da gioco, dadi, orbite doppie dilatate che esprimono terrore.

Le opere pittoriche seriali

Le forme di espressione pittorica seriale esposte si manifestano con modalità diverse. Abbiamo i video di Pascale Marthine Tayou, del Camerun, nato nel 1967 a Yaoundè dove vive e lavora. Si fa chiamare “viaggiatore” piuttosto che artista perché, a parte i suoi viaggi continui, crea un percorso nel quale vuole che lo spettatore lo segua, in un itinerario nel quale l’Africa sembra un’isola felice, con immagini ludiche e di bellezza, di luce e di sogno. Nella mostra ce ne sono sei prese da una serie di dieci video di “Snapshootafrica” del 2003-2004, con visioni panoramiche di città industriose e primi piani, in auto e motociclette affollate, tutte scene di vita gioiosa.

Diversissima la serialità dei fumetti, ma con immagini pur esse figurative. Particolarmente espressive quelle di Joshua Okoromodeke, nato nel 1977 in Nigeria a Lagos, dove vive e lavora. Disegna “comics” africani dalle forme esplosive e dai contenuti e valori vicini ai grandi eroi dei fumetti tradizionali, come l’ Uomo mascherato “giustiziere della giungla” prima e della “giungla delle metropoli” poi, impegnato nella lotta per la giustizia contro la delinquenza. Nella mostra ce ne sono sei del recentissimo album di fumetti di venti tavole del 2009, intitolato “Principi Kadija”.

Una serialità tutta particolare è quella di Frédéric Bruly Bouabré, nato in Costa d’Avorio “intorno al 1923”, dove vive e lavora ad Abidjan. E’ un personaggio singolare e straordinario, che nel 1948 ebbe un’illuminazione, da allora affronta gli sconfinati campi del sapere con un alfabeto di sua invenzione fatto di suoni che trascrivono tutte le lingue, e traducono il suo “pensiero universale”. Ne tiene traccia nella sua “Conoscenza del mondo”, migliaia di disegni che sono un’enciclopedia del sapere. A questi appartiene la serie di 204 disegni “Alta diplomazia”, esposti nella mostra, figurine con la mano protesa, dalla vita fasciata con la propria bandiera, realizzati nel 2005.

Le figure umane scompaiono completamente in due artisti molto diversi. Abu Bakarr Mansaray, nato in Sierra Leone nel 1970, dove vive e lavora a Freetown, è appassionato di macchinari automatici, meccanici ed elettrici che realizza pur nelle difficili condizioni del suo paese, lacerato dalla guerra civile, anche con forme strane e funzionamento altrettanto strano. Inoltre si impegna in disegni complicati con i quali progetta apparecchi avveniristici come l’ “Estintore di Inferno” e il “Telefono nucleare scoperto all’Inferno”. Tre di questi sono in mostra, “Uomo digitale”, “Al di là della creazione” e “Rivelatore del male” del 2004 e 2005, dove la meccanica è unita alla fantasia in un mix surreale”, che invita a seguirne percorsi e snodi meccanici così improbabili pur se precisi.

Verso l’astrazione più assoluta le due opere del 1991-92 “Senza titolo” di Esther Mahlangu, nata nel 1935 in Sudafrica dove vive e lavora a Mabhoko; realizza pitture murali che la tradizione affida solo a mani femminili, disegnando a mano libera figure geometriche come le due in mostra. E le tre opere a matita e penna di Gedewon, nato nel 1939 e vissuto in Etiopia, dove è deceduto nel 1995: sono figurazioni grafiche in cui trasferiva le sensazioni del malato per allontanare lo spirito maligno: si intitolano “L’amore” del 1990 e “Talismano” e “Dartahal” del 1995, l’anno della morte, sono sottilissimi ricavi a sfondo pastello, come arabeschi molto elaborati, quasi dei labirinti sottili.

Con queste immagini si conclude la prima parte della nostra visita, quella dedicata alle opere pittoriche della Collezione Pigozzi. Di pittura ce ne sarà ancora, con le opere selezionate nei singoli paesi appositamente per la mostra, ma prima ci saranno le altre espressioni artistiche della stessa Collezione, soprattutto le sculture e altre forme d’arte dove incontreremo i materiali più svariati. Diamo appuntamento ai lettori, torneremo prestissimo con la continuazione e fine di quella che va vista come una storia, culturale e umana: di artisti di talento, che operano in un continente vivo e vitale.

1 Commento

  1. Francesco Ascani

Postato gennaio 20, 2010 alle 10:28 PM

Mostra d’arte africana, quale “ponte con l’Europa nel segno della civiltà in nome dell’arte e della cultura”.
Dopo questa sintetizzazione, una serie di giudizi tecnici, fatti propri dall’autore, seguita dalla descrizione degli artisti e delle opere, ad iniziare dai due pilastri (Hozoumè e Bodo) e poi a seguire tanti altri: descrizione che io dico “alla Romano Maria Levante” perché credo non esista parola che possa racchiudere degnamente le sue capacità.
Dopo l’approfondimento sulle opere pittoriche seriali e su quelle di astrazione più assoluta, è dato l’appuntamento ai lettori “con la continuazione e fine di quella che va vista come una storia, culturale e umana: di artisti di talento, che operano in un continente vivo e vitale”.
Annotato quanto sopra, al solo fine di focalizzare i vari concetti sviluppati per poterli meglio condividere con amici e conoscenti, come la Redazione della Rivista consiglia, cosa che ho fatto, e ritenendo che la possibilità di commento, pure consentita dalla Redazione, per singolarità del dott. Levante non possa essere utilizzata, manifesto solo qualche considerazione personale.
Poiché la possibilità di commento è data a tutti e giustamente, senza cioè richiedere particolari titoli culturali, appare chiaro che il lettore deve evidenziare, se lo ritiene, le sensazioni avute ed i sentimenti generati dalla lettura dello scritto.
Continuo a ritenere il dott. Levante assolutamente originale, brillante negli approfondimenti, vivace nelle descrizioni e soprattutto instancabile, perché proprio non riesco a comprendere come faccia a scrivere tanto e nel modo che lo distingue.
Dal 5 gennaio ad oggi ha trattato di ben sei mostre, di cui una in due parti, evidentemente elabora anche di notte, preso da una passione crescente, che trasmette ai lettori che lo seguono come possono, senza avere la sua forza, ma gustando i suoi approfondimenti e commenti “vivi e vitali”.
Aggiungo solo un grazie personale e quello dei tanti che non lo manifestano, ma che, come me, lo apprezzano per il servizio culturale e sociale che rende nel diffondere “conoscenza”.

“Gente d’Abruzzo”, 1. Tricolore, identita’ e “verismo sociale” di Patini, alla Pinacoteca di Teramo

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 10 gennaio 2011 – Postato in: mostre, pittori

Ci occupiamo della mostra “Gente d’Abruzzo. Verismo sociale nella pittura abruzzese del XIX secolo” alla Pinacoteca Comunale di Teramo dal 30 ottobre 2010 al 10 gennaio 2011, alla quale la rivista consorella www.abruzzocultura.it ha dedicato un servizio di Manuela Valleriani subito dopo l’inaugurazione. L’abbiamo visitata senza pensare di raccontarla, questo era stato già fatto, non intendevamo aggiungere il nostro commento.

Cesare Averardi, “La preparazione della bandiera“, 1906-08, cm 95 x 120

Perché allora, proprio alla chiusura, interveniamo sul tema, che equivale ad andare in chiesa a “spegnere le candele”, per usare un detto abruzzese in carattere con la mostra? Non sapevamo che sarebbe stata prorogata al 31 marzo. La risposta risiede in una duplice prospettiva nella quale la consideriamo: nell’ottica “romana” delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia dove la vediamo inserita di diritto, e nell’ottica dannunziana del Cenacolo di Francavilla. Due punti di vista a noi congeniali, di qui l’impulso irresistibile.

Il gemellaggio artistico e patriottico con l’icona della mostra romana di Antonio Paolucci

Cominciamo con l’ottica delle celebrazioni del 150°, e per questo aspetto l’intervento in extremis si collega al fatto che il 7 gennaio 2011 sono state inaugurate ufficialmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella ricorrenza del primo tricolore sventolato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, una copia è stata consegnata solennemente ai sindaci delle tre capitali storiche, Torino fino al 1865, Firenze fino al 1871 e poi Roma, alla quale di recente è stato riconosciuto lo status – diverso da quello di un normale comune – di Roma Capitale. Il 1861 è comunque il simbolo della sospirata unità, sebbene si debbano aspettare altri dieci anni per completarla con Roma prima pontificia; anni tormentati, non va dimenticato il ferimento di Garibaldi ad Aspromonte nel 1863.

Su questi eventi la mostra in corso a Roma fino al 16 gennaio, “1861, I pittori del Risorgimento”, è stata galeotta con il vasto affresco del carattere militare e di quello popolare, l’abbiamo raccontata nelle sue componenti: l’epica, il popolo in armi e il popolo in ansia,un popolo che ha partecipato in vari modi, anche nell’attesa e nella sofferenza, per le sorti dei propri cari e della nazione. Nel descriverla abbiamo rivelato che tra i tanti dipinti smisurati, tra le scene epiche e le adunate popolari, il direttore dei Musei Vaticani e presidente del Comitato scientifico delle Scuderie del Quirinale, Antonio Paolucci, come simbolo, icona della mostra, ha scelto una quadretto semplice e compunto: una stanza dove una ragazza fiorentina cuce il tricolore, la luce spiove dalla finestra con vista sui tetti, “26 aprile 1848”, è un gesto di patriottismo raccolto e riservato, intimo e intenso.

Teofilo Patini, “La prima lezione di equitazione”, 1872-75, cm 49 x 83,5

Ebbene, visitando l’esposizione di Teramo senza l’intento di raccontarla – era stata già commentata, come abbiamo ricordato – il dipinto di Cesare Averardi, “La preparazione della bandiera”, ci ha richiamato quello ora citato di Odoardo Borrani, un interno anche il suo dove si cuce il tricolore. Diversi i soggetti, lì una giovane donna, qui le donne sono quattro e c’è anche un uomo, diverso l’ambiente, la luce non spiove ma invade la stanza da una grande vetrata, i colori sono vivaci e non discreti, la data è diversa ma le due celebrazioni sono in ugual modo retrospettive: Borrani nel 1861, data del suo dipinto, si riferisce al 1848, Averardi all’inizio del 1900 crediamo guardi al 1861.

Uguale appare l’intento e la motivazione, il senso patriottico riservato e operoso. Come riservata e operosa è la “gente d’Abruzzo” che risalta nella mostra con i suoi valori forti, radicati in una tradizione che ne ha fatto definire il carattere “forte e gentile”, e anche “forte e fiero”. Lo si vede nella perseveranza e nella pazienza, dove non c’è mai rassegnazione e neppure lassismo.

E’ un modo di essere che Benedetto Croce ebbe a manifestare nella natia Pescasseroli il 21 agosto del 1910, l’anno in cui fu divenne Senatore del Regno, in una breve visita dopo una vita trascorsa a Napoli che lo aveva portato ai più alti livelli nella fama e nella sapienza. Nel discorso di saluto ai “compaesani pescasserolesi” accorsi a salutarlo sotto il balcone della casa avita, nell’esprimere verso il capoluogo partenopeo la riconoscenza e l’affetto essendo la sua seconda patria, non si trattenne dal dire: “Io ho tenuto sempre viva la conoscenza di qualcosa che nel mio temperamento non è napoletana. Quando l’acuta chiaroveggenza di quella popolazione si cangia in scetticismo e in gaia indifferenza, quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi sono detto spesso a bassa voce tra me e me e qualche volta l’ho detto anche a voce alta: – Tu non sei napoletano, sei abruzzese! E in questo ricordo ho trovato un po’ d’orgoglio e molta forza”. Meglio di così non si potrebbe dire, questa è la “gente d’Abruzzo”, e nelle opere che esprimono la loro arte, dipinti e sculture, se ne sente l’anima.

Teofilo Patini, “Besrie da soma”, 1886, cm 213 x 414

Prima di raccontare come emerge dalla mostra teramana questa gente forte e gentile e anche fiera, completiamo il riferimento alla mostra romana che ci ha dato l’impulso per un gemellaggio ideale: mettiamo in apertura il dipinto su “La “preparazione della bandiera” cucita da mani abruzzesi come – in omaggio alla scelta di Antonio Paolucci – abbiamo messo in apertura al nostro commento della mostra risorgimentale alle Scuderie del Quirinale, il tricolore cucito il “26 aprile 1848” dalle mani della ragazza fiorentina: lo avevamo preannunciato al direttore dei Musei Vaticani e del Comitato scientifico delle Scuderie, all’insegna del profondo senso unitario di questo gemellaggio.

Il valore dell’identità popolare nell’arte per il “Padiglione Italia” di Vittorio Sgarbi

“L’appetito vien mangiando”, si dice dalle nostre parti – siamo gente d’Abruzzo – e forse anche altrove; e così visitando la mostra ci è venuta un’idea che sottoponiamo a Vittorio Sgarbi del cui sforzo creativo nell’ideare e realizzare un “Padiglione Italia” che celebri degnamente il 150° anniversario dell’Unità abbiamo dato conto di recente sulla rivista. Delle tante idee innovative che sono alla base della sua forma celebrativa ricordiamo la rassegna regionale di artisti per creare una partecipazione corale sul piano dell’arte a un evento considerato da tanti punti di vista. La mostra di Teramo “Gente d’Abruzzo” è un esempio concreto, già realizzato, di come l’affresco regionale può andare ben oltre singole personalità di artisti per penetrare nel vivo tessuto popolare.

E cos’è questo tessuto se non la vita della gente come è stata registrata nelle sue diverse espressioni dall’occhio dell’artista che ha una speciale capacità di introspezione e rappresentazione; soprattutto quando, come in questo caso, sono artisti della regione di cui raffigurano i caratteri più profondi e nascosti, e non semplici visitatori che spesso si fermano agli aspetti esteriori e più evidenti?

Teofilo Patini, “Vanga e latte”, 1884, cm 213 x 372

La mostra “Gente d’Abruzzo” ha una particolarità da ricordare: nella tappa teramana si è arricchita di ben venticinque opere di Della Monica, Celommi e Palizzi, non presenti neppure nel Catalogo, il merito va a Paola Di Felice, direttore dei Musei Civici, che l’ha curata nel capoluogo abruzzese.

Tornando al 150° dell’Unità d’Italia – per il quale il Padiglione Italia nell’impostazione di Sgarbi vuole giustamente dare una rappresentazione anche dell’arte regionale – pensiamo che la migliore celebrazione corale sarebbe con tante mostre sulle “genti” del nostro paese quante sono le regioni d’Italia presentate in ognuna di esse, come avvenuto per la mostra “gente d’Abruzzo”; e sarebbe il massimo se queste mostre fossero itineranti in modo da proporsi alle altre regioni e comporre così il mosaico di italianità fatto di tante tessere regionali, dopo averle esposte a rotazione in ogni regione per farle conoscere e farsi conoscere reciprocamente. Non sarebbe un modo alto di partire con il federalismo che proprio nel 2011 con l’approvazione dei decreti attuativi dovrà prendere il via?

Le identità regionali che sono radicate nella storia e vengono trasmesse dall’arte si confrontano e si assimilano in un quadro unitario, nell’anno in cui si celebra l’Unità d’Italia con la solennità e il fervore dei 150 anni; proseguendo anche dopo, naturalmente, in modo da marcare sempre di più le identità nella cornice unitaria rappresentata dai tricolori fiorentino e abruzzese prima evocati.

Teofilo Patini, “L’erede”,1880, cm 132 x 176

Il gemellaggio spirituale e umano tra L’Aquila e Assisi al battesimo della mostra

Nella mostra di Teramo, poi, c’è un ulteriore elemento che ne sottolinea l’aderenza allo spirito unitario: le opere esposte sono di artisti nati per lo più nel periodo risorgimentale: tra il 1810 e il 1820 Giuseppe e Filippo Palizzi; tra il 1835 e il 1860 Della Monica e Laccetti, Patini e Pagliaccetti, Michetti e Barbella, Celommi e Basilio Cascella; intorno al 1970 fino al 1890 Patrignani e Pellicciotti, Tarquini e Tommaso Cascella; Averardi è successivo, 1875-1939.

Ne dà ampie note biografiche il bel Catalogo a cura di Pierluigi Silvan, direttoredella mostra e curatore con Lucia Arbace e Cosimo Savastano dell’esposizione di Assisi, che ha preceduto quella di Teramo come anteprima simbolica del tour dei capolavori dell’’800 abruzzese in una scelta che, secondo il presidente della Regione Abruzzo Gianni Chiodi, “sottolinea la solidarietà che unisce le Città di Assisi e de L’Aquila, legate da un ideale gemellaggio spirituale e umano”. Chiodi, nel definire “i più importanti capolavori della nostra arte come ambasciatori della città de L’Aquila e dell’Abruzzo attraverso il mondo”, ha citato le parole del Custode del Sacro Convento di Assisi, padre Giuseppe Piemontese: le due città “hanno sperimentato non solo la sofferenza per la morte di propri figli, per la perdita di case e di beni, ma anche l’offesa arrecata alle memorie della propria storia ed ai simboli della propria identità religiosa, sociale e spirituale: le chiese”.

Teofilo Patini, “Tre orfani“, cm 89,5 x 119

Gemellaggio, quindi, tra le città martiri del terremoto, gemellaggio nel tour di opere d’arte per sostenere lo sforzo di ricostruzione e restauro; come quello che abbiamo raccontato, in occasione della mostra sui “Colori di Giotto” ad Assisi – nei “venerdì di Archeorivista” sulla rivista consorella – dando conto del complesso lavoro per il recupero delle vele nella Basilica Superiore e del restauro con accesso del pubblico alla Cappella di San Nicola nella Basilica Inferiore.

Era doverosa questa citazione perché la mostra si colloca nello spirito di orgogliosa ripresa dopo la tragedia del terremoto che confida anche nella solidarietà – le opere d’arte itineranti sono uno stimolo suggestivo – e non vorremmo svisarne il significato con il nostro gemellaggio artistico e patriottico tra la preparazione della bandiera di Averardi e quella di Borrani collegando la mostra della Pinacoteca di Teramo a quella romana delle Scuderie del Quirinale. Resta sempre il primario gemellaggio ideale con Assisi, il nostro è un gemellaggio diverso, anch’esso significativo.

Teofilo Patini, “Pulsazioni e palpiti”, cm 135 x 176

Gente d’Abruzzo”, gli spazi tematici, quasi teatrali, di uno spettacolo suggestivo

Ecco davanti a noi l’operosità della “Gente d’Abruzzo, verismo sociale nella pittura abruzzese del XIX secolo”, quello nel quale corre la celebrazione. Il fatto che sia espressa dal “verismo sociale” è una garanzia che non si tratta di evasioni in mondi astratti e lontani, spesso prediletti dall’arte, ma di una visione concreta molto terrena e altrettanto veritiera della vita nella regione.

Riconoscere i diversi aspetti e momenti è facilitato dal magistrale allestimento che si avvale della peculiare distribuzione degli spazi nella Pinacoteca Civica di Teramo: le sale sono raccolte e nettamente distinte, dall’Atrio alle sale A e B, dal ballatoio alle sale C e D, queste ultime su due piani: anelli collegati in un’unica catena, ciascuno con un proprio ambiente e un proprio rilievo. Il grande dipinto di Teofilo Patini, nell’Atrio, ne è l’“ouverture” suggestiva, le statue di Raffaello Pagliaccetti nel Ballatoio introducono al secondo atto nel piano superiore. Ai principali protagonisti sono dedicati singoli quadri teatrali, pardon, sale espositive: dalla sala su “Patini e il verismo sociale” a quella su “Michetti e il cenacolo di Francavilla”, dalla “quotidianità incantata di Celommi” all’“eclettismo di Gennaro della Monica” e poi tutti gli altri di livello comparabile nella sala con varie presenze, tra cui Cesare Averardi e il suo “La preparazione della bandiera”.

Nell’associazione di idee con la mostra romana, al motivo prevalente della bandiera, per il suo simbolismo, si aggiunge l’accostamento del dipinto “Aquila in festa a piazza del Duomo”, di un pittore aquilano di fine ‘800 identificato soltanto dalle iniziali B. S., a “Il Duomo illuminato al bengala”, di Luigi Medici. In entrambi i dipinti è una notte di giugno, e i palazzi sono addobbati a festa, per piazza Duomo a Milano siamo nel 1859, si festeggia, con l’ingresso di Vittorio Emanuele II e Napoleone III, la liberazione, qui la festa del patrono della città, San Massimo, il 10 giugno. Motivo comune la festa popolare, ragioni del tripudio e angoli di visuale della composizione pittorica diversi: qui una visione frontale da “cinemascope” con la piazza gremita all’inverosimile in penombra in un campo lungo e in fondo la facciata luminosa della chiesa, là uno scorcio da un oscuro abbaino con una piccola parte della folla che si intravede dinanzi a un duomo in piena luce.

Teofilo Patini, “Via Paradiso a Castel di Sangro”, 1883-84, cm 90,5 x 58

Alla scoperta di un mondo definito da Primo Levi “silvestre, selvaggio, inaccessibile”

La mostra è espressione di un territorio che Primo Levi nel 1882 e all’inizio del ‘900 ebbe a definire “tutto silvestre, selvaggio, inaccessibile, alla grande maggioranza degli italiani noto poco più che di nome”, come ricorda Cosimo Savastano;un territorio reso nei suoi aspetti più crudi dal “verismo sociale” delle opere esposte, rivelatrici dell’identità più genuina.

E opportunamente Paola Di Felice, nella veste di curatore e direttore della sede espositiva, sottolinea con forza l’occasione data di “ammirare, per la prima volta insieme, molti dei capolavori della nostra arte ottocentesca i cui personaggi oscillano tra il doloroso riserbo di dignitose figure, intonanti dolenti peana ad una natura spesso matrigna, e la rassegnata disperazione di solitari esseri umani abbrutiti dalla sofferenza; tra personaggi del vissuto, carichi di generosa forza vitale e squarci di natura in intimo colloquio con l’uomo”. Per concludere: “Un mondo vero, un mondo forte come le balze del Gran Sasso che il recente terremoto ha squassato ma non è riuscito a domare”. E l’arte, anche attraverso la mostra itinerante, è stato il crocevia tra la minaccia mortale della tragedia e l’opportunità da cogliere per una ripresa che recuperi i capolavori feriti attraverso altri capolavori da far conoscere nel mondo; anche alla mostra si accettano offerte mirate al restauro di un’opera ben identificata: la “Madonna con bambino” di Andrea de Litio, della Chiesa madre di Castelli danneggiata dal sisma, viene dal paese della ceramica che espone a Roma le sue opere di maiolica compendiaria nella mostra “Il bianco a tavola”, ai Musei Capitolini dal 20 ottobre al 16 gennaio 2011.

Teofilo Patini, ” Neve”, 1900 ca cm 64 x 90

E’ il momento di passare, dai contorni delineati dalla Di Felice, ai singoli “identikit” che emergono dai quadri in mostra, riferendoci a quelli più rappresentativi per la nostra particolare ottica. Non ci soffermiamo, dunque, sulla rilevante ritrattistica soprattutto di Giuseppe Bonolis e Gennaro Della Monica sebbene attraverso il ritratto, scrive Lucia Arbace – che con Silvan e Savastano ha curato la mostra di Assisi – “è possibile restituire una dimensione non stereotipata dell’identità abruzzese, che certo non può limitarsi a un’umanità dolente, costretta a forme di vita disumane” E questo tenendo conto della storia della regione con personaggi che hanno lasciato il segno nell’arte e nella cultura, nella storia del pensiero e nella vita civile, come documenta Raffaele Colapietra nel suo sintetico e illuminante “Profilo dell’ottocento abruzzese” che apre il Catalogo (“Scienze e Lettere”, 2010”).

Il verismo sociale di Patini: la durezza della vita

Ma è Teofilo Patini che monopolizza ora la nostra attenzione. Come per Gerolamo Induno nella mostra romana sui pittori del Risorgimento, si può parlare quasi di una personale nella collettiva della “gente d’Abruzzo”.

Inizia con “La prima lezione di equitazione”, tra il 1872 e il 1874, aperta alla speranza nel futuro, ma presto diventa il suo sigillo il crudo verismo sociale, espressione della durezza della vita. Si presenta subito nel dipinto monumentale dell’Atrio, “Bestie da soma”, 1886, quasi 2 metri e mezzo per oltre 4: alla ribalta la fatica delle donne, due giovani sono accasciate a terra con il pesante carico di fascine ancora legato alle spalle, la più anziana in piedi si appoggia stremata alla roccia.

E’ essenziale nella sua semplicità, pur nelle grandi dimensioni appena più ridotte del precedente, il dipinto “Vanga e latte”, 1884, più di 2 metri per quasi 4, con a destra il pesante lavoro della terra nell’uomo, sulla sinistra la cura del figlioletto nella madre seduta a terra che lo allatta appoggiata al basto. I protagonisti sono sulla scena, l’uomo, la donna e il futuro erede nei loro ruoli, la bestia che li ha aiutati è rappresentata dal basto, la terra arida e ingrata è il loro grigio palcoscenico.

La comune fatica avvicina agli animali chi condivide la loro vita di lavoro. Non è ingrato solo il lavoro, ma la vita stessa. Ne dà testimonianza “L’erede”, dove l’oppressione della fatica diventa incubo, angoscia esistenziale, in un “trittico pittorico” con gli altri due sul quale il direttore della mostra Pierluigi Silvan ricorda le parole del filosofo abruzzese Filippo Masci secondo cui Patini presentò alla “obliosa società” di allora, “la sorte serbata al lavoro di balda speranza della giovinezza in ‘Vanga e Latte’, lo scoramento della travagliata vita in ‘Bestie da soma’, l’epilogo tragico nell’’Erede’”: una sorta di natività del dolore, con il neonato tra la donna accasciata in lacrime e la lunga figura dell’uomo disteso in un letto di morte, nello squallore della miseria.

Teofilo Patini, “Un monaco e la sua cella”, fine anni ’80, cm 90 x 62

Come angoscia del vivere “I tre orfani” affianca “L’Erede”, che precede nel tempo, le loro figure smarrite, un viso infantile addirittura livido, in un ambiente povero e nudo, con il pagliericcio vuoto dov’era prima il corpo del defunto e un simulacro di altare su una seggiola in un’oscurità da incubo.

Pulsazioni e palpiti” è in un certo senso la premessa delle pietose dipartite, il medico stringe il polso esangue al morente, lo si vede dal corpo abbandonato sotto le coperte e soprattutto dal volto contratto dell’uomo in piedi, mentre sul viso dell’anziana compagna c’è un barlume di speranza.

Il verismo sociale di Patini: la durezza dell’ambiente

Oltre a far conoscere la gente, Patini mostra l’ambiente in due quadri molto più piccoli, “Via Paradiso a Castel di Sangro”, un tipico scorcio paesano disabitato con le rocce che si innalzano alle spalle, lo si vede ancora oggi nei paesi più remoti della montagna abruzzese; è il paese dell’autore che percorreva ogni giorno quella strada di casa e intitolò così il quadro, nota Savastano, cogliendo “l’ironico ed amaro contrasto insito fra l’intitolazione al Paradiso di quella via e lo squallore della miseria che vi allignava”. Il pensiero corre al “Nuovo Cinema Paradiso”, anche lì vita semplice e grama, ma tanto sentimento. Nell’altro dipinto, “Neve”, la bassa casa di montagna, questa volta isolata fuori dall’abitato, è perfettamente inserita in un declivio che dal primo piano si prolunga all’orizzonte, un’armoniosa compenetrazione nella solitudine senza contrasti apparenti. Entrambe esprimono in un certo senso la durezza dell’ambiente, isolato e inospitale.

Teofilo Patini, “L’aquila”,1882 ca, cm 108 x 59,5

Le figure umane, ma soltanto una ogni quadro, ricompaiono in due dipinti delle stesse dimensioni dei due precedenti, circa 90 per 60 cm: “Un monaco e la sua cella” non è l’interno della casa immersa nella neve, dalla finestrella aperta si vede il chiostro del convento di Sant’Angelo d’Ocre del ‘400, sulla rupe sopra Fossa, uno dei paesi terremotati vicini all’Aquila; è la cella di un religioso colto, con libri e incunaboli, dipinti e oggetti ricercati in una penombra di raccoglimento dominata dalla figura del frate con la barba bianca su cui si posa la luce. Rivela la parte d’Abruzzo colta e socialmente aperta, non emarginata e oppressa, mediante il giornale “La voce dell’operaio” che si intravede sulla scrivania, la dimensione religiosa e quella sociale in un foglio fondato da un frate dell’ordine di San Giuseppe patrono dei lavoratori. Le due dimensioni sono compenetrate nel bozzetto “San Carlo Borromeo tra gli appestati” nel quale c’è il contrappunto tra l’umanità dolente e l’eminenza religiosa che invoca l’aiuto divino. Il quadro si sviluppa in altezza, come quello raffigurante “L’Aquila ” , che si libra ad ali spiegate e semina lo scompiglio sulla tipica scena abruzzese dell’epoca, con il pastore che si agita e il gregge che si disperde in un ambiente grigio frastagliato dai cespugli ed aspro dalle rocce che incombono nel cammino.

Dall’anima colta del religioso intellettuale alle prese con le ingiustizie e le sofferenze, si torna all’anima semplice del pastore alle prese con la natura inclemente. Occorre forza per resistere, e la gente d’Abruzzo lo dimostra con i suoi artisti dell’’800. Teofilo Patini ci ha dato il verismo più duro, ma c’è dell’altro: forti e gentili e forti e fieri. Lo vedremo presto visitando gli altri autori dopo questa quasi personale che comprende anche altri dipinti. Meritava tanta attenzione, del resto lo incontreremo ancora.

Teofilo Patini, “San Carlo Borromeo
tra gli appestati”, 1900 ca, bozzetto

Info

Pinacoteca Comunale di Teramo, Viale Bovio. 3. Catalogo “Gente d’Abruzzo – Verismo sociale nella pittura abruzzese del XIX secolo”, a cura di Pierluigi Silvan, Scienze e lettere, 2010, pp. 216, formato 24 x 28. L’articolo conclusivo con gli altri artisti abruzzesi dell”800, uscirà il 12 gennaio 2011 sempre in cultura.inabruzzo.it . Per le mostre citate cfr. i nostri articoli usciti in tale sito: “1861, i pittori del Risorgimento”, 2 articoli l’ 8 gennaio 2011, “ll bianco a tavola” 15 e 16 gennaio 2011, e “Padiglione Italia” 26 maggio 2011; in archeorivista.it,“I colori di Giotto” 23, 30 aprile 2010 (i due siti non sono più raggiungibili, gli articoli vengono trasferiti su questo sito).

Foto

Le immagini sono state tratte dal Catalogo, tranne la prima e l’ultima – rispettivamente da da facebook.com e it. wikipedia.org – si ringraziano l’Editore del catalogo e i titolari dei due siti web citati, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, Cesare Averardi, “La preparazione della bandiera”; 1906-08, cm 95 x 120, Pinacoteca civica di Teramo; seguono, tutti di Teofilo Patini, “La prima lezione di equitazione” 1872-74, cm 49 x 83,5, Vercelli, Fondazione Museo Francesco Borgogna e “Bestie da soma” 1886, cm 213 x 414, L’Aquila, Collezioni d’Arte dell’Amministrazione Provinciale; ; poi, “Vanga e latte” 1884, cm 213 x 372, Roma, Ministero delle Politiche Agricole e “L’erede” 1880, cm 132 x 176, Calascio, Collezione d’Arte del Municipio; quindi, “I tre orfani” post 1883, cm 89,5 x 119, Castel di Sangro, Pinacoteca Patiniana, e Pulsazioni e palpiti” 1991-99, cm 135 x 176, L’Aquila, Collezioni d’Arte dell’Amministrazione Provinciale; inoltre, “Via Paradiso a Castel di Sangro” 1883-84, cm 90,5 x 58, Castel di Sangro, Pinacoteca Patinianae ” Neve” ca 1900, cm 64 x 90, L’Aquila, Collezioni d’Arte della Cassa di Risparmio della Provincia; ancora, “Un monaco e la sua cella” fine anni ’80, cm 90 x 62, Pescara, Collezione privata e “L’aquila” 1882 ca, cm 108 x 59,5, L’Aquila, Collezioni d’Arte della Cassa di Risparmio della Provincia; infine, “San Carlo Borormeo tra gli appestati” 1900 ca, bozzetto, L’Aquila, Collezione d’Arte del Municipio e, in chiusura, “Autoritratto”, Castel di Sangro, Pinacoteca Patiniana.

Teofilo Patini, “Autoritratto“, Castel di Sangro, Pinacoteca Patiniana.

1 Commento

  1. Giuseppe D’annunzio

Postato dicembre 26, 2011 alle 1:55 AM

ma “via Paradiso” non è ribaltato?

La caricatura nella storia

di Romano Maria Levante

– 2 gennaio 2010

Anche nelle mostre, come in ogni attività o espressione umana, c’è un aspetto più profondo che va oltre l’apparenza; ed è l’attitudine a stimolare la curiosità di conoscere al di là di quanto esposto e rappresentato. La volontà di saperne di più porta a riflessioni e approfondimenti. Per questo torniamo sul tema delle vignette umoristiche dopo la mostra “In nome della legge” svoltasi alla Biblioteca nazionale centrale Umberto I di Roma, dal 6 ottobre al 14 novembre 2009, a cura dell’Ufficio storico della Polizia di Stato e del Centro studi Gabriele Galantara per la satira sociale e di costume. Ha aperto una finestra sul gran numero di giornali umoristici sorti nell’’800 e nella prima parte del ‘900 impegnati nella satira al poliziotto, bersagliato dagli strali dei disegnatori; e ci ha stimolato ad approfondire l’aspetto della caricatura, su cui di norma fa leva la vignetta satirica.

I prestigiosi maestri e teorici della caricatura

Potrà sorprendere che cominciamo con Gustave Dorè, di cui sono ben note le tavole drammatiche della “Divina Commedia” e quelle eroiche del “Paradiso Perduto”, nonché quelle apocalittiche della “Bibbia” e le visioni grottesche del “Don Chisciotte”, opera nelle cui illustrazioni si avvertono tratti caricaturali. E’ sua una produzione di caricature vere e proprie, espressione grafica in stile colto e raffinato sui personaggi di Dickens e Courteline, del “Circolo Pickwick” e della “Vie de Bohème”; e in stile popolare sui tipi umani, le figure reali che incontrava nella Parigi di Napoleone III.

Altrettanto può stupire che Baudelaire, evocando le “curiosità estetiche”, vi comprendesse i caricaturisti francesi e stranieri, tra i quali troviamo nomi inattesi come Goya e Brueghel, e persino “le caricature di Leonardo da Vinci”. E’ vero che premette di “non voler scrivere un trattato sulla caricatura”; ma fa riflessioni sull’“essenza del riso e degli elementi costitutivi della caricatura”, divenute per lui “una specie di ossessione”, così organiche da farne una vera e propria teoria.

Nella caricatura Baudelaire trova “un elemento misterioso, persistente, eterno, che si raccomanda all’attenzione degli artisti”; e sottolinea come “cosa curiosa e veramente degna di attenzione che questo elemento inafferrabile del bello sia introdotto persino nelle opere destinate a mettere l’uomo di fronte alla propria bruttura morale e fisica! E, cosa non meno misteriosa, questo spettacolo pietoso eccita in lui una ilarità immortale e incorreggibile”.

Per il grande scrittore il ridere “è essenzialmente umano ed essenzialmente contraddittorio, vale a dire che di volta in volta è segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita”. Nella comicità che suscita il riso ed è lo scopo della caricatura “l’elemento angelico e l’elemento diabolico funzionano parallelamente”. E lo spiega: “L’umanità si eleva e acquisisce per il male e l’intelligenza del male una forza proporzionale a quella che guadagna per il bene”.

Anche per questi illustri precedenti non deve sorprendere che si attribuisca alla caricatura un ruolo significativo nell’espressione artistica, di un’arte non minore o subalterna, se Leonardo è stato definito “il padre della caricatura moderna”. E si assegni ad essa un ruolo senza dubbio ancora più significativo per il manifestarsi della libertà di espressione nel senso più ampio del termine.

Ne fa fede la fioritura di caricature politiche fin dal ‘600, moltiplicatesi nell’800 e ‘900, che hanno preso a bersaglio personaggi e ideologie, soggetti e situazioni; la mostra ricordata ne ha dato uno spaccato italiano per il soggetto poliziotto e le situazioni estreme in cui è coinvolto, fissato nella storia della cultura con il Catalogo curato da Fabio Santilli, dove si analizza in modo compiuto il rapporto tra “satira e polizia tra otto e novecento” con i “complementi di ricerca” su “la figura del poliziotto nella letteratura e nel fumetto” e “origini e cambiamenti nella Polizia di Stato.

Satira alla polizia, satira al potere in generale

Una satira impersonale sul potere, viene di definirla, perché non prende di mira soggetti ben identificati, come potrebbero essere il Ministro di polizia e altri potenti; ma il poliziotto qualsiasi con un ulteriore paradosso: mentre “appare come un ottuso esecutore e mero strumento del potere” – così Antonio Laurito, direttore dell’Ufficio storico della Polizia di Stato – e, quindi, impersona il potente che lo gestisce, ne è lontano anni luce sotto il profilo antropologico e anche fisionomico.

Ecco i “giudizi autorevoli del tempo” riportati da Santilli: “Senza alcuna specializzazione tecnica, culturalmente rozzo, scelto a caso, privo di una consapevolezza sia pur rudimentale dei problemi sociali emergenti, svincolato di fatto dall’obbligo di rispettare la legge, insensibile al rispetto dei più elementari diritti di coloro che sono oggetto delle sue attenzioni, è considerato un nemico, inflessibile e spesso crudele, da cui bisogna guardarsi e così si impone, radicandosi questa immagine nella mentalità comune”. E’ un’immagine reale, dunque, quella che troviamo nella satira.

Maurizio Zinni la ripercorre attraverso le vignette pubblicate in settant’anni da una molteplicità di giornali umoristici che abbiamo già ricordato nel resoconto della mostra. Qui vogliamo approfondire una figura divenuta una maschera dalla quale dovrebbero trasparire, quasi in modo lombrosiano, i caratteri interni. I baffoni, anche se in linea con i costumi delle epoche attraversate, avevano un che di ridondante e quasi minaccioso, anche i particolari anatomici venivano ingigantiti, si parla delle braccia e delle mani, del naso e delle orecchie. Così il portamento e la positura statuaria, anche se per evidenziare di più gli sberleffi subiti: come il bimbo che fa pipì, già da noi accostato al simbolo bruxellese della trasgressione innocente ma comunque libertaria in positivo.

L’enfatizzazione dei particolari esteriori era ancora più evidente nelle cartoline satiriche, perché restavano a lungo negli scaffali e venivano conservate dai destinatari una volta spedite, per cui avevano una vita molto più lunga dei giornali. C’era una cura maggiore nell’evidenziare i segni dell’istituzione, laddove la caricatura giornalistica si soffermava essenzialmente sull’individuo.

I caratteri interni non sono monolitici, ma al poliziotto cattivo non si contrappone quello buono, il potere non lo tollererebbe. Piuttosto al poliziotto violento si affianca quello stupido e incapace, quindi si va dalla padella alla brace: l’uno è pericoloso come i delinquenti, l’altro non protegge.

Aspetto esteriore e caratteri interni attraverso la rappresentazione del loro modo di agire confluivano, perciò, nel senso di minaccia o perlomeno di sfiducia che ne derivava. In effetti era la reazione del pensiero liberale agli autoritarismi del potere, politico ed economico, che si vedeva contrapposto al semplice cittadino, oppresso ed inerme. La reazione era la satira graffiante contro chi era lo strumento di questo potere lontano e irraggiungibile, e alzava le mani sull’individuo.

Ciò che colpisce è il capovolgimento dei ruoli e dei caratteri: la satira sul poliziotto gli attribuisce tutti gli aspetti e i comportamenti che non dovrebbe avere, dato che si richiedono da lui onestà e correttezza, solerzia e sagacia perché sia all’altezza dei compiti affidatigli. Caratteri negativi evidenziati non come deviazioni occasionali, ma come radicati e diffusi, senza alcuna eccezione.

Non si limita all’oppressione e alla sbadataggine la satira sul poliziotto cattivo oppure sciocco. C’è anche la sferzante allusione ai due pesi e due misure, all’ossequio per i ricchi mentre vengono perseguitati i poveri; come all’interno della polizia l’agente corretto e moderato viene sacrificato a vantaggio di quello prevaricatore e violento. Spesso è più evidente la satira al potere che arma la mano al poliziotto, e comprime le libertà: allora si esprime senza il tramite di questa figura ma direttamente, oppure nel poliziotto visto come agente provocatore con mandanti ben precisi. C’è al riguardo una galleria di sovversivi veri o presunti ai quali si affiancano i poliziotti a loro assimilati.

Abbiamo già ricordato la satira che mette alla berlina i poliziotti senza il sorriso della caricatura ma con la forza della denuncia, così per le morti in carcere o per gli attentati terroristici, e ne abbiamo sottolineato le similitudini con episodi odierni che, però, non fanno scattare la satira quanto la mobilitazione di cittadini e politici, almeno quelli più sensibili ai diritti umani e alla sicurezza. Ma è bene che sia così, vuol dire che oggi i canali della democrazia sono agibili, e non ci si deve rifugiare nella satira per esercitare quel controllo impossibile per vie istituzionali nei sistemi autoritari.

Paradossalmente il poliziotto oggi è lasciato in pace perché la satira può puntare direttamente al potere, senza interposte persone. E anche, come hanno sottolineato le alte autorità della polizia – e lo abbiamo già ricordato – per l’evoluzione che ha avuto questo corpo, anch’essa in linea con il radicamento sempre più solido e stabile della democrazia: evoluzione nel ruolo e nel personale.

Come passaggio intermedio tra il poliziotto bersagliato e il poliziotto ignorato dalla satira c’è stata la sua assimilazione agli altri sfruttati e angariati dal potere. Figli del popolo anche loro, come del resto qualche decennio dopo constaterà Pasolini con la sua lungimirante lettura dei cambiamenti nella società italiana dove la polizia non era più espressione del potere; lo erano di più i giovani manifestanti ai quali doveva opporsi, in quanto rampolli viziati dei grandi potenti dell’economia e della finanza, e in generale della ricca borghesia, che sfogavano nelle piazze le loro allucinazioni.

In effetti ci fu anche una presa di coscienza dell’inadeguatezza delle forze di polizia ai propri compiti proprio per le carenze di preparazione e istruzione che la satira aveva preso a bersaglio ingigantendole ma che esistevano veramente. Fu migliorata l’integrazione nella realtà urbana del poliziotto proveniente dalla campagna, mediante corsi di formazione e di addestramento, si elaborarono disegni di legge di riordino del corpo di Polizia. Il Ministero dell’interno, per migliorare “la loro posizione specialmente morale”, prese una decisione: “Liberarli da tutti quei servizi che, pur essendo indispensabili, menomano la loro autorità in faccia alla pubblica opinione”.

Fu creato addirittura, per tali servizi, un nuovo corpo, “le guardie ausiliarie, con ferma di un anno”, così il Manuale del Funzionario di sicurezza pubblica di polizia giudiziaria” del 1887. La satira aveva vinto. .Non solo aveva mosso le coscienze, aveva prodotto anche effetti concreti. E positivi.

Siamo tornati sulla satira al poliziotto – della quale nel nostro recente commento alla mostra abbiamo percorso una ricca galleria di vignette e disegni satirici – per completezza e per dare il giusto merito a un’importante tessera nel mosaico della caricatura e della storia del costume.

Aggiungiamo un’altra piccola tessera, che riguarda il livello internazionale, accennando alla guerra di caricature tra disegnatori satirici inglesi e francesi sull’“Intesa cordiale”. Ci fu una vera e propria offensiva dei caricaturisti nei confronti di Napoleone, dileggiato in modo feroce quanto equanime da inglesi e francesi, nelle forme più disparate.

Nell’ultimo periodo, 1814-15, è ricorrente raffigurarlo nelle vesti del diavolo, o sulla sua groppa, o tra le sue braccia come infante oppure gettatovi dalla morte, fino alla discesa agli inferi con i propri seguaci; prima il dileggio era meno crudo, ma altrettanto sferzante, come le sculacciate a un Napoleone monello in una vignetta del 1803.

Anche Chamberlin fu bersagliato dalla caricatura fino ad essere raffigurato con la falce sterminatrice su un campo di cadaveri, e la stessa morte di Rodhes fu salutata ritraendolo nel “giacimento di teschi” dei boeri da lui fatti massacrare. Il nostro poliziotto era in buona compagnia.

Dalla caricatura al disegno satirico

Diego Buzzalino l’ha analizzata tecnicamente, selezionandola come sul tavolo anatomico, e nel suo “La caricatura meccanica: Teoria e pratica”, del 1948, ha scritto: “La caricatura non trema. Sfida i governi e ne mostra i tarli. Ascolta i popoli e ne formola i voti. Sempre e dovunque con il miracolo del riso. Riso amaro o beffardo, volgare o violento.

Sempre! Riso, cifrario del mistero umano; riso, erma bifronte del travaglio quotidiano; riso, singulto, arcano disprezzo, forma veneranda dell’ingiuria. Riso, riso, riso”. Per concludere così dopo l’elogio del riso: “Substrato della caricatura è l’umorismo. L’umorismo è la poesia del riso lievitata ai fermenti del ridicolo mordace. Parla al cuore ed al cervello, lenisce ed incenerisce”.

Della satira di costume scrive che “le piaghe del proprio tempo sono denudate. E si ride. Ma quel riso è detergente. Quel riso fa guardare intorno a sé, fa guardare in sé. E redime”. La dissacrazione è scherzosa e beffarda e assolve a un compito fondamentale: “castigat ridendo mores”. E’ anche un fatto di cultura, esprime libertà di pensiero e di critica, fruga nei ripostigli nascosti della società superando la coltre spesso soffocante di perbenismo.

Perciò l’associazione culturale “L’oleandro” di Brescia, nelle edizioni del “Festival dell’Umorismo Riviera del Garda”, con la direzione artistica del grande Osvaldo Cavandoli, oltre alla Sezione letteratura, ha dato speciale rilievo alla Sezione grafica, con la partecipazione di centinaia di disegnatori satirici italiani e stranieri e di migliaia di visitatori alla mostra delle opere presentate.

Ed è istruttivo leggere come “L’oleandro” interpreti i disegni umoristici nella presentazione del volume del 1994, primo anno della rassegna: “In essi traspare la coesistenza più o meno pacifica dei contrari insiti in quasi tutte le cose umane, per cui si viene a scoprire il comico nel tragico e nel solenne, e il tragico e il solenne nel comico, la saggezza nella follia e viceversa”. Riguardo alla resa grafica aggiunge: “In talune opere caricaturali i personaggi colti con l’enfatizzazione fisionomica sono restituito con tratti rapidi e secchi, nei loro atteggiamenti più espressivi, con grande ironia, con segno perentorio e icastico: risultato di tecniche raffinatissime, messe a servizio della straordinaria capacità di leggere fuori e dentro l’animo umano”. Per concludere: “Anche la semplicità di certi disegni è frutto di un complicato processo di segnali coordinatamente trasmessi che vuole risolversi in una coraggiosa sintesi formale, a tratti persino ardita viso il pubblico generalmente popolare”, Definizioni che, com’è naturale, sono applicabili all’intera produzione umoristica e satirica.

La caricatura in senso stretto risponde di fatto alla libertà di reinterpretare graficamente con tratti grotteschi le sembianze del personaggio; non per far leva sui suoi difetti fisici ma per esasperarne, deformandole, le peculiarità in modo da metterne a nudo l’essenza. Collegando sempre più queste particolarità al contesto, si è passati al disegno satirico e l’espressione caricaturale ha trovato nella vignetta politica il suo ideale terreno di coltura; un vero e proprio lievito che ne ha accresciuto l’impatto e il valore. Così la vignetta politica non va più ricercata nelle riviste umoristiche, rarefattesi fino a scomparire, ma si trova nelle prime pagine dei grandi quotidiani d’opinione.

Oggi si parla meno di caricatura e molto più di disegno satirico, di espressione caricaturale nella vignetta politica. Sono varianti grafiche della satira i cui confini spesso vengono superati per cui si passa facilmente dall’una all’altra, l’umorista puro diventa satirico soprattutto quando si indigna.

Scrive Fabio Santilli nel citato catalogo “In nome della legge”: “Il buon disegnatore satirico è certamente un raffinato artista della comunicazione che, al contrario di quanto si creda comunemente, non si pone l’obiettivo di far ridere. Quello è l’obiettivo del comico”. E lo precisa così: “Il satirico si pone innanzi tutto l’obiettivo di far riflettere mediante lo smascheramento delle contraddizioni.

Per questo fine il satirico usa sovente l’arma della caricatura (che non deve essere confusa col ‘ritratto caricaturale’) cioè una forma di rappresentazione che utilizza lo stravolgimento abnorme e grottesco di personaggi, azioni o situazioni attraverso la scientifica e premeditata alterazione delle loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche per far emergere le qualità morali dell’oggetto ‘caricato’ (sia esso personaggio, azione o situazione) sulla base del personale codice etico dell’artista”. Santilli fa anche una netta distinzione: “In questo senso si comprende perfettamente la differenza con il ritratto caricaturale che, infatti, generalmente non ha alcuno scopo derisorio o moralizzatore, consistendo essenzialmente nell’accentuazione di quegli elementi fisionomici che caratterizzano il soggetto ritratto e che solo il vero artista sa cogliere”.

Aggiunge Maurizio Zinni nel ricercare le radici dello stereotipo negativo del poliziotto: “La grafica satirica, per sua stessa natura, maschera, asciuga, esaspera i temi da essa affrontati. Non vuol essere obiettiva, tutt’altro: è sbilanciata in un senso o nell’altro, ferocemente di parte e per questo non indietreggia di fronte a nulla, si burla di situazioni estreme, nascondendo spesso le lacrime sotto un riso più di pancia che di testa”.

E spiega come avviene tutto questo: “Le vignette accentuano caricaturalmente e allegorizzano il soggetto dileggiato costringendo il lettore ad una doppia azione: da un lato prendere le distanze da quanto mostrato, dalla realtà descritta; dall’altro, obbligarlo a mantenere sul mondo circostante uno sguardo dritto e impietoso, capace di decrittare l’essenza del visibile e di decifrarne i diversi gradi della rappresentazione grafica.”. Così viene visto, in definitiva, il contenuto della satira: “Apparentemente, quindi, solo una rappresentazione faziosa dell’oggetto criticato, a ben guardare, invece, uno specchio di umori diffusi e speso repressi, distillati con sapiente abilità a diversi livelli di comprensione e lettura dai disegnatori satirici”.

Della caricatura c’è una definizione all’inizio del ‘900 di Luigi Rasi, attore, drammaturgo e storico del teatro la cui collezione di documenti e cimeli è stato il primo nucleo della grande biblioteca e raccolta teatrale del Burcardo a Roma, ne abbiamo parlato di recente: “E’ l’arte di dire le cose più atroci di questo mondo col mezzo della immagine a una persona, senza che questa se ne offenda, per modo anzi che se ne compiaccia; anzi: per modo che, più atroci sono le cose dette, più grande ne sia il compiacimento”. Rasi si era illuso o aveva sottovalutato la reazione che può suscitare la vera satira, quando non solletica la vanità dei protagonisti di apparire con mere deformazioni di facciata, ma “castiga” con essi un costume, soprattutto se si tratta di costume politico, anche ricorrendo nella rappresentazione esteriore a iperboli paradossali del tutto diverse dalla realtà che si intende evocare. E forse si era illuso anche Baudelaire quando scriveva: “Il riso causato dal grottesco ha in sé qualcosa di profondo, di assiomatico e di primitivo, che si riavvicina alla vita innocente e alla gioia assoluta molto di più del riso causato dalla comicità di maniera”.

Tutto questo porta a valorizzare quanto in passato era visto un “divertissement” fine a se stesso, per cui si parlava di caricatura piuttosto che di satira, come se fosse un gioco grafico volutamente deformante di una realtà invece ordinata e compiuta. Gli artisti di strada i quali fanno caricature dei passanti che si sottopongono ai loro schizzi non vogliono evocare realtà nascoste, ma esagerare quelle evidenti con un compiacimento dell’amplificazione che ha in sé la propria giustificazione.

La caricatura del personaggio, tanto più se politico, invece, fin dai tempi passati, cercava di rappresentare con la deformazione del tratto esteriore la vera essenza del carattere, del ruolo, dell’azione del soggetto. E quando ad essa si è aggiunto il contesto in cui si muove nel più ampio spazio della vignetta, questo intento è diventato esplicito e trasparente senza che la caricatura, rimasta alla base, cessasse di identificare nell’immediato i tratti del soggetto. Considerati, però, non come fattezze da riprodurre bensì come espressioni di una visione del tutto soggettiva dell’umorista.

Anche certi caratteri somatici e l’abbigliamento portati all’estremo hanno caricato di comicità il soggetto reso immediatamente riconoscibile nella sua essenza satirica. Il maestro è sempre Forattini, con il suo duce e la sua scimmia, il suo barone in pantofole fino al premier senza volto, segni identificativi folgoranti di noti personaggio e nel contempo dei loro caratteri. Deformati, sì, ma per portarli all’essenza vista dall’autore in estrema sintesi: del resto, non ebbe a dire Pablo Picasso che “l’umorismo è l’unico filo conduttore, immediato e irreversibile, verso la strada della verità”?

A questo punto non suscitano più il sorriso nel soggetto bersagliato e neppure il riso nei destinatari della comunicazione. Santilli è molto esplicito: “Credo che sia ormai chiaro che la satira non vuole divertire. Le caricature di Goya non fanno ridere per nulla, quelle di Daumier molto raramente, quelle del nostro Scalarini meno che mai. Anche le figure grottesche di Galantara difficilmente strappano un sorriso”. Però non finisce qui. Sempre secondo Santilli, “la volontà ribelle della satira può trovare anche canali alternativi di espressione e, prima di tutto, di comunicazione”. E come? “Trovandosi in quella paludosa disposizione mentale in cui s’incontrano la commedia e la tragedia, la satira per raggiungere i suoi scopi può decidere di utilizzare – anche attraverso l’uso spregiudicato della caricatura e della sua carica trasgressiva – l’arma della comicità, del buffonesco, della risata devastante e ‘terribile’ che tutti i potenti temono”.

Il discorso si fa delicato quando si passa dalla teoria alla pratica, dalle generose impostazioni alla cruda realtà. Perché in alcuni casi eclatanti si è constatato che il vecchio avvertimento “chi tocca i fili muore” può valere anche, e forse soprattutto, per la politica. E’ il caso di tornarci presto. L’appuntamento è per delle storie esemplari, e quel che più conta, vere.

Tag: Satira

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  1. Fabrizio Iacovoni

Postato gennaio 9, 2010 alle 10:15 AM

Articolo interessante dell’amico R.M. Levante
che anche per le cose apparentemente futili
si rivela un ottimo divulgatore e trasmette cul-
tura. Il sottoscritto non ha riso mai per le
barzellette sui carabinieri  ritenendole vol-
gari e razziste. Mi considero un precursore
di Pasolini, la cui citazione di Levante mi e’
molto piaciuta. E stando ai giorni nostri
ritengo volgare Forattini quando ,forse-
esaurita la vena umoristica,rappresenta in
forma animalesca(scimmia, rinoceronte..) certi
politici.

Caricatura nella storia, contro il potere, fino al disegno satirico

di Romano Maria Levante

Anche nelle mostre, come in ogni attività o espressione umana, c’è un aspetto più profondo che va oltre l’apparenza; ed è l’attitudine a stimolare la curiosità di conoscere al di là di quanto esposto e rappresentato. La volontà di saperne di più porta a riflessioni e approfondimenti. Per questo torniamo sul tema delle vignette umoristiche dopo la mostra “In nome della legge” svoltasi alla Biblioteca nazionale centrale Umberto I di Roma, dal 6 ottobre al 14 novembre 2009, a cura dell’Ufficio storico della Polizia di Stato e del Centro studi Gabriele Galantara per la satira sociale e di costume. Ha aperto una finestra sul gran numero di giornali umoristici sorti nell’’800 e nella prima parte del ‘900 impegnati nella satira al poliziotto, bersagliato dagli strali dei disegnatori; e ci ha stimolato ad approfondire l’aspetto della caricatura, su cui di norma fa leva la vignetta satirica.

I prestigiosi maestri e teorici della caricatura

Potrà sorprendere che cominciamo con Gustave Dorè, di cui sono ben note le tavole drammatiche della “Divina Commedia” e quelle eroiche del “Paradiso Perduto”, nonché quelle apocalittiche della “Bibbia” e le visioni grottesche del “Don Chisciotte”, opera nelle cui illustrazioni si avvertono tratti caricaturali. E’ sua una produzione di caricature vere e proprie, espressione grafica in stile colto e raffinato sui personaggi di Dickens e Courteline, del “Circolo Pickwick” e della “Vie de Bohème”; e in stile popolare sui tipi umani, le figure reali che incontrava nella Parigi di Napoleone III.

Altrettanto può stupire che Baudelaire, evocando le “curiosità estetiche”, vi comprendesse i caricaturisti francesi e stranieri, tra i quali troviamo nomi inattesi come Goya e Brueghel, e persino “le caricature di Leonardo da Vinci”. E’ vero che premette di “non voler scrivere un trattato sulla caricatura”; ma fa riflessioni sull’“essenza del riso e degli elementi costitutivi della caricatura”, divenute per lui “una specie di ossessione”, così organiche da farne una vera e propria teoria.

Nella caricatura Baudelaire trova “un elemento misterioso, persistente, eterno, che si raccomanda all’attenzione degli artisti”; e sottolinea come “cosa curiosa e veramente degna di attenzione che questo elemento inafferrabile del bello sia introdotto persino nelle opere destinate a mettere l’uomo di fronte alla propria bruttura morale e fisica! E, cosa non meno misteriosa, questo spettacolo pietoso eccita in lui una ilarità immortale e incorreggibile”.

Per il grande scrittore il ridere “è essenzialmente umano ed essenzialmente contraddittorio, vale a dire che di volta in volta è segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita”. Nella comicità che suscita il riso ed è lo scopo della caricatura “l’elemento angelico e l’elemento diabolico funzionano parallelamente”. E lo spiega: “L’umanità si eleva e acquisisce per il male e l’intelligenza del male una forza proporzionale a quella che guadagna per il bene”.

Anche per questi illustri precedenti non deve sorprendere che si attribuisca alla caricatura un ruolo significativo nell’espressione artistica, di un’arte non minore o subalterna, se Leonardo è stato definito “il padre della caricatura moderna”. E si assegni ad essa un ruolo senza dubbio ancora più significativo per il manifestarsi della libertà di espressione nel senso più ampio del termine.

Ne fa fede la fioritura di caricature politiche fin dal ‘600, moltiplicatesi nell’800 e ‘900, che hanno preso a bersaglio personaggi e ideologie, soggetti e situazioni; la mostra ricordata ne ha dato uno spaccato italiano per il soggetto poliziotto e le situazioni estreme in cui è coinvolto, fissato nella storia della cultura con il Catalogo curato da Fabio Santilli, dove si analizza in modo compiuto il rapporto tra “satira e polizia tra otto e novecento” con i “complementi di ricerca” su “la figura del poliziotto nella letteratura e nel fumetto” e “origini e cambiamenti nella Polizia di Stato.

Satira alla polizia, satira al potere in generale

Una satira impersonale sul potere, viene di definirla, perché non prende di mira soggetti ben identificati, come potrebbero essere il Ministro di polizia e altri potenti; ma il poliziotto qualsiasi con un ulteriore paradosso: mentre “appare come un ottuso esecutore e mero strumento del potere” – così Antonio Laurito, direttore dell’Ufficio storico della Polizia di Stato – e, quindi, impersona il potente che lo gestisce, ne è lontano anni luce sotto il profilo antropologico e anche fisionomico.

Ecco i “giudizi autorevoli del tempo” riportati da Santilli: “Senza alcuna specializzazione tecnica, culturalmente rozzo, scelto a caso, privo di una consapevolezza sia pur rudimentale dei problemi sociali emergenti, svincolato di fatto dall’obbligo di rispettare la legge, insensibile al rispetto dei più elementari diritti di coloro che sono oggetto delle sue attenzioni, è considerato un nemico, inflessibile e spesso crudele, da cui bisogna guardarsi e così si impone, radicandosi questa immagine nella mentalità comune”. E’ un’immagine reale, dunque, quella che troviamo nella satira.

Maurizio Zinni la ripercorre attraverso le vignette pubblicate in settant’anni da una molteplicità di giornali umoristici che abbiamo già ricordato nel resoconto della mostra. Qui vogliamo approfondire una figura divenuta una maschera dalla quale dovrebbero trasparire, quasi in modo lombrosiano, i caratteri interni. I baffoni, anche se in linea con i costumi delle epoche attraversate, avevano un che di ridondante e quasi minaccioso, anche i particolari anatomici venivano ingigantiti, si parla delle braccia e delle mani, del naso e delle orecchie. Così il portamento e la positura statuaria, anche se per evidenziare di più gli sberleffi subiti: come il bimbo che fa pipì, già da noi accostato al simbolo bruxellese della trasgressione innocente ma comunque libertaria in positivo.

L’enfatizzazione dei particolari esteriori era ancora più evidente nelle cartoline satiriche, perché restavano a lungo negli scaffali e venivano conservate dai destinatari una volta spedite, per cui avevano una vita molto più lunga dei giornali. C’era una cura maggiore nell’evidenziare i segni dell’istituzione, laddove la caricatura giornalistica si soffermava essenzialmente sull’individuo.

I caratteri interni non sono monolitici, ma al poliziotto cattivo non si contrappone quello buono, il potere non lo tollererebbe. Piuttosto al poliziotto violento si affianca quello stupido e incapace, quindi si va dalla padella alla brace: l’uno è pericoloso come i delinquenti, l’altro non protegge.

Aspetto esteriore e caratteri interni attraverso la rappresentazione del loro modo di agire confluivano, perciò, nel senso di minaccia o perlomeno di sfiducia che ne derivava. In effetti era la reazione del pensiero liberale agli autoritarismi del potere, politico ed economico, che si vedeva contrapposto al semplice cittadino, oppresso ed inerme. La reazione era la satira graffiante contro chi era lo strumento di questo potere lontano e irraggiungibile, e alzava le mani sull’individuo.

Ciò che colpisce è il capovolgimento dei ruoli e dei caratteri: la satira sul poliziotto gli attribuisce tutti gli aspetti e i comportamenti che non dovrebbe avere, dato che si richiedono da lui onestà e correttezza, solerzia e sagacia perché sia all’altezza dei compiti affidatigli. Caratteri negativi evidenziati non come deviazioni occasionali, ma come radicati e diffusi, senza alcuna eccezione.

Non si limita all’oppressione e alla sbadataggine la satira sul poliziotto cattivo oppure sciocco. C’è anche la sferzante allusione ai due pesi e due misure, all’ossequio per i ricchi mentre vengono perseguitati i poveri; come all’interno della polizia l’agente corretto e moderato viene sacrificato a vantaggio di quello prevaricatore e violento. Spesso è più evidente la satira al potere che arma la mano al poliziotto, e comprime le libertà: allora si esprime senza il tramite di questa figura ma direttamente, oppure nel poliziotto visto come agente provocatore con mandanti ben precisi. C’è al riguardo una galleria di sovversivi veri o presunti ai quali si affiancano i poliziotti a loro assimilati.

Abbiamo già ricordato la satira che mette alla berlina i poliziotti senza il sorriso della caricatura ma con la forza della denuncia, così per le morti in carcere o per gli attentati terroristici, e ne abbiamo sottolineato le similitudini con episodi odierni che, però, non fanno scattare la satira quanto la mobilitazione di cittadini e politici, almeno quelli più sensibili ai diritti umani e alla sicurezza. Ma è bene che sia così, vuol dire che oggi i canali della democrazia sono agibili, e non ci si deve rifugiare nella satira per esercitare quel controllo impossibile per vie istituzionali nei sistemi autoritari.

Paradossalmente il poliziotto oggi è lasciato in pace perché la satira può puntare direttamente al potere, senza interposte persone. E anche, come hanno sottolineato le alte autorità della polizia – e lo abbiamo già ricordato – per l’evoluzione che ha avuto questo corpo, anch’essa in linea con il radicamento sempre più solido e stabile della democrazia: evoluzione nel ruolo e nel personale.

Come passaggio intermedio tra il poliziotto bersagliato e il poliziotto ignorato dalla satira c’è stata la sua assimilazione agli altri sfruttati e angariati dal potere. Figli del popolo anche loro, come del resto qualche decennio dopo constaterà Pasolini con la sua lungimirante lettura dei cambiamenti nella società italiana dove la polizia non era più espressione del potere; lo erano di più i giovani manifestanti ai quali doveva opporsi, in quanto rampolli viziati dei grandi potenti dell’economia e della finanza, e in generale della ricca borghesia, che sfogavano nelle piazze le loro allucinazioni.

In effetti ci fu anche una presa di coscienza dell’inadeguatezza delle forze di polizia ai propri compiti proprio per le carenze di preparazione e istruzione che la satira aveva preso a bersaglio ingigantendole ma che esistevano veramente. Fu migliorata l’integrazione nella realtà urbana del poliziotto proveniente dalla campagna, mediante corsi di formazione e di addestramento, si elaborarono disegni di legge di riordino del corpo di Polizia. Il Ministero dell’interno, per migliorare “la loro posizione specialmente morale”, prese una decisione: “Liberarli da tutti quei servizi che, pur essendo indispensabili, menomano la loro autorità in faccia alla pubblica opinione”.

Fu creato addirittura, per tali servizi, un nuovo corpo, “le guardie ausiliarie, con ferma di un anno”, così il Manuale del Funzionario di sicurezza pubblica di polizia giudiziaria” del 1887. La satira aveva vinto. .Non solo aveva mosso le coscienze, aveva prodotto anche effetti concreti. E positivi.

Siamo tornati sulla satira al poliziotto – della quale nel nostro recente commento alla mostra abbiamo percorso una ricca galleria di vignette e disegni satirici – per completezza e per dare il giusto merito a un’importante tessera nel mosaico della caricatura e della storia del costume.

Aggiungiamo un’altra piccola tessera, che riguarda il livello internazionale, accennando alla guerra di caricature tra disegnatori satirici inglesi e francesi sull’“Intesa cordiale”. Ci fu una vera e propria offensiva dei caricaturisti nei confronti di Napoleone, dileggiato in modo feroce quanto equanime da inglesi e francesi, nelle forme più disparate.

Nell’ultimo periodo, 1814-15, è ricorrente raffigurarlo nelle vesti del diavolo, o sulla sua groppa, o tra le sue braccia come infante oppure gettatovi dalla morte, fino alla discesa agli inferi con i propri seguaci; prima il dileggio era meno crudo, ma altrettanto sferzante, come le sculacciate a un Napoleone monello in una vignetta del 1803.

Anche Chamberlin fu bersagliato dalla caricatura fino ad essere raffigurato con la falce sterminatrice su un campo di cadaveri, e la stessa morte di Rodhes fu salutata ritraendolo nel “giacimento di teschi” dei boeri da lui fatti massacrare. Il nostro poliziotto era in buona compagnia.

Dalla caricatura al disegno satirico

Diego Buzzalino l’ha analizzata tecnicamente, selezionandola come sul tavolo anatomico, e nel suo “La caricatura meccanica: Teoria e pratica”, del 1948, ha scritto: “La caricatura non trema. Sfida i governi e ne mostra i tarli. Ascolta i popoli e ne formola i voti. Sempre e dovunque con il miracolo del riso. Riso amaro o beffardo, volgare o violento.

Sempre! Riso, cifrario del mistero umano; riso, erma bifronte del travaglio quotidiano; riso, singulto, arcano disprezzo, forma veneranda dell’ingiuria. Riso, riso, riso”. Per concludere così dopo l’elogio del riso: “Substrato della caricatura è l’umorismo. L’umorismo è la poesia del riso lievitata ai fermenti del ridicolo mordace. Parla al cuore ed al cervello, lenisce ed incenerisce”.

Della satira di costume scrive che “le piaghe del proprio tempo sono denudate. E si ride. Ma quel riso è detergente. Quel riso fa guardare intorno a sé, fa guardare in sé. E redime”. La dissacrazione è scherzosa e beffarda e assolve a un compito fondamentale: “castigat ridendo mores”. E’ anche un fatto di cultura, esprime libertà di pensiero e di critica, fruga nei ripostigli nascosti della società superando la coltre spesso soffocante di perbenismo.

Perciò l’associazione culturale “L’oleandro” di Brescia, nelle edizioni del “Festival dell’Umorismo Riviera del Garda”, con la direzione artistica del grande Osvaldo Cavandoli, oltre alla Sezione letteratura, ha dato speciale rilievo alla Sezione grafica, con la partecipazione di centinaia di disegnatori satirici italiani e stranieri e di migliaia di visitatori alla mostra delle opere presentate.

Ed è istruttivo leggere come “L’oleandro” interpreti i disegni umoristici nella presentazione del volume del 1994, primo anno della rassegna: “In essi traspare la coesistenza più o meno pacifica dei contrari insiti in quasi tutte le cose umane, per cui si viene a scoprire il comico nel tragico e nel solenne, e il tragico e il solenne nel comico, la saggezza nella follia e viceversa”. Riguardo alla resa grafica aggiunge: “In talune opere caricaturali i personaggi colti con l’enfatizzazione fisionomica sono restituito con tratti rapidi e secchi, nei loro atteggiamenti più espressivi, con grande ironia, con segno perentorio e icastico: risultato di tecniche raffinatissime, messe a servizio della straordinaria capacità di leggere fuori e dentro l’animo umano”. Per concludere: “Anche la semplicità di certi disegni è frutto di un complicato processo di segnali coordinatamente trasmessi che vuole risolversi in una coraggiosa sintesi formale, a tratti persino ardita viso il pubblico generalmente popolare”, Definizioni che, com’è naturale, sono applicabili all’intera produzione umoristica e satirica.

La caricatura in senso stretto risponde di fatto alla libertà di reinterpretare graficamente con tratti grotteschi le sembianze del personaggio; non per far leva sui suoi difetti fisici ma per esasperarne, deformandole, le peculiarità in modo da metterne a nudo l’essenza. Collegando sempre più queste particolarità al contesto, si è passati al disegno satirico e l’espressione caricaturale ha trovato nella vignetta politica il suo ideale terreno di coltura; un vero e proprio lievito che ne ha accresciuto l’impatto e il valore. Così la vignetta politica non va più ricercata nelle riviste umoristiche, rarefattesi fino a scomparire, ma si trova nelle prime pagine dei grandi quotidiani d’opinione.

Oggi si parla meno di caricatura e molto più di disegno satirico, di espressione caricaturale nella vignetta politica. Sono varianti grafiche della satira i cui confini spesso vengono superati per cui si passa facilmente dall’una all’altra, l’umorista puro diventa satirico soprattutto quando si indigna.

Scrive Fabio Santilli nel citato catalogo “In nome della legge”: “Il buon disegnatore satirico è certamente un raffinato artista della comunicazione che, al contrario di quanto si creda comunemente, non si pone l’obiettivo di far ridere. Quello è l’obiettivo del comico”. E lo precisa così: “Il satirico si pone innanzi tutto l’obiettivo di far riflettere mediante lo smascheramento delle contraddizioni.

Per questo fine il satirico usa sovente l’arma della caricatura (che non deve essere confusa col ‘ritratto caricaturale’) cioè una forma di rappresentazione che utilizza lo stravolgimento abnorme e grottesco di personaggi, azioni o situazioni attraverso la scientifica e premeditata alterazione delle loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche per far emergere le qualità morali dell’oggetto ‘caricato’ (sia esso personaggio, azione o situazione) sulla base del personale codice etico dell’artista”. Santilli fa anche una netta distinzione: “In questo senso si comprende perfettamente la differenza con il ritratto caricaturale che, infatti, generalmente non ha alcuno scopo derisorio o moralizzatore, consistendo essenzialmente nell’accentuazione di quegli elementi fisionomici che caratterizzano il soggetto ritratto e che solo il vero artista sa cogliere”.

Aggiunge Maurizio Zinni nel ricercare le radici dello stereotipo negativo del poliziotto: “La grafica satirica, per sua stessa natura, maschera, asciuga, esaspera i temi da essa affrontati. Non vuol essere obiettiva, tutt’altro: è sbilanciata in un senso o nell’altro, ferocemente di parte e per questo non indietreggia di fronte a nulla, si burla di situazioni estreme, nascondendo spesso le lacrime sotto un riso più di pancia che di testa”.

E spiega come avviene tutto questo: “Le vignette accentuano caricaturalmente e allegorizzano il soggetto dileggiato costringendo il lettore ad una doppia azione: da un lato prendere le distanze da quanto mostrato, dalla realtà descritta; dall’altro, obbligarlo a mantenere sul mondo circostante uno sguardo dritto e impietoso, capace di decrittare l’essenza del visibile e di decifrarne i diversi gradi della rappresentazione grafica.”. Così viene visto, in definitiva, il contenuto della satira: “Apparentemente, quindi, solo una rappresentazione faziosa dell’oggetto criticato, a ben guardare, invece, uno specchio di umori diffusi e speso repressi, distillati con sapiente abilità a diversi livelli di comprensione e lettura dai disegnatori satirici”.

Della caricatura c’è una definizione all’inizio del ‘900 di Luigi Rasi, attore, drammaturgo e storico del teatro la cui collezione di documenti e cimeli è stato il primo nucleo della grande biblioteca e raccolta teatrale del Burcardo a Roma, ne abbiamo parlato di recente: “E’ l’arte di dire le cose più atroci di questo mondo col mezzo della immagine a una persona, senza che questa se ne offenda, per modo anzi che se ne compiaccia; anzi: per modo che, più atroci sono le cose dette, più grande ne sia il compiacimento”. Rasi si era illuso o aveva sottovalutato la reazione che può suscitare la vera satira, quando non solletica la vanità dei protagonisti di apparire con mere deformazioni di facciata, ma “castiga” con essi un costume, soprattutto se si tratta di costume politico, anche ricorrendo nella rappresentazione esteriore a iperboli paradossali del tutto diverse dalla realtà che si intende evocare. E forse si era illuso anche Baudelaire quando scriveva: “Il riso causato dal grottesco ha in sé qualcosa di profondo, di assiomatico e di primitivo, che si riavvicina alla vita innocente e alla gioia assoluta molto di più del riso causato dalla comicità di maniera”.

Tutto questo porta a valorizzare quanto in passato era visto un “divertissement” fine a se stesso, per cui si parlava di caricatura piuttosto che di satira, come se fosse un gioco grafico volutamente deformante di una realtà invece ordinata e compiuta. Gli artisti di strada i quali fanno caricature dei passanti che si sottopongono ai loro schizzi non vogliono evocare realtà nascoste, ma esagerare quelle evidenti con un compiacimento dell’amplificazione che ha in sé la propria giustificazione.

La caricatura del personaggio, tanto più se politico, invece, fin dai tempi passati, cercava di rappresentare con la deformazione del tratto esteriore la vera essenza del carattere, del ruolo, dell’azione del soggetto. E quando ad essa si è aggiunto il contesto in cui si muove nel più ampio spazio della vignetta, questo intento è diventato esplicito e trasparente senza che la caricatura, rimasta alla base, cessasse di identificare nell’immediato i tratti del soggetto. Considerati, però, non come fattezze da riprodurre bensì come espressioni di una visione del tutto soggettiva dell’umorista.

Anche certi caratteri somatici e l’abbigliamento portati all’estremo hanno caricato di comicità il soggetto reso immediatamente riconoscibile nella sua essenza satirica. Il maestro è sempre Forattini, con il suo duce e la sua scimmia, il suo barone in pantofole fino al premier senza volto, segni identificativi folgoranti di noti personaggio e nel contempo dei loro caratteri. Deformati, sì, ma per portarli all’essenza vista dall’autore in estrema sintesi: del resto, non ebbe a dire Pablo Picasso che “l’umorismo è l’unico filo conduttore, immediato e irreversibile, verso la strada della verità”?

A questo punto non suscitano più il sorriso nel soggetto bersagliato e neppure il riso nei destinatari della comunicazione. Santilli è molto esplicito: “Credo che sia ormai chiaro che la satira non vuole divertire. Le caricature di Goya non fanno ridere per nulla, quelle di Daumier molto raramente, quelle del nostro Scalarini meno che mai. Anche le figure grottesche di Galantara difficilmente strappano un sorriso”. Però non finisce qui. Sempre secondo Santilli, “la volontà ribelle della satira può trovare anche canali alternativi di espressione e, prima di tutto, di comunicazione”. E come? “Trovandosi in quella paludosa disposizione mentale in cui s’incontrano la commedia e la tragedia, la satira per raggiungere i suoi scopi può decidere di utilizzare – anche attraverso l’uso spregiudicato della caricatura e della sua carica trasgressiva – l’arma della comicità, del buffonesco, della risata devastante e ‘terribile’ che tutti i potenti temono”.

Il discorso si fa delicato quando si passa dalla teoria alla pratica, dalle generose impostazioni alla cruda realtà. Perché in alcuni casi eclatanti si è constatato che il vecchio avvertimento “chi tocca i fili muore” può valere anche, e forse soprattutto, per la politica. E’ il caso di tornarci presto. L’appuntamento è per delle storie esemplari, e quel che più conta, vere.

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  1. Fabrizio Iacovoni

Postato gennaio 9, 2010 alle 10:15 AM

Articolo interessante dell’amico R.M. Levante
che anche per le cose apparentemente futili
si rivela un ottimo divulgatore e trasmette cul-
tura. Il sottoscritto non ha riso mai per le
barzellette sui carabinieri  ritenendole vol-
gari e razziste. Mi considero un precursore
di Pasolini, la cui citazione di Levante mi e’
molto piaciuta. E stando ai giorni nostri
ritengo volgare Forattini quando ,forse-
esaurita la vena umoristica,rappresenta in
forma animalesca(scimmia, rinoceronte..) certi
politici.

Caricatura, nella storia, fino al disegno satirico

di Romano Maria Levante

Anche nelle mostre, come in ogni attività o espressione umana, c’è un aspetto più profondo che va oltre l’apparenza; ed è l’attitudine a stimolare la curiosità di conoscere al di là di quanto esposto e rappresentato. La volontà di saperne di più porta a riflessioni e approfondimenti. Per questo torniamo sul tema delle vignette umoristiche dopo la mostra “In nome della legge” svoltasi alla Biblioteca nazionale centrale Umberto I di Roma, dal 6 ottobre al 14 novembre 2009, a cura dell’Ufficio storico della Polizia di Stato e del Centro studi Gabriele Galantara per la satira sociale e di costume. Ha aperto una finestra sul gran numero di giornali umoristici sorti nell’’800 e nella prima parte del ‘900 impegnati nella satira al poliziotto, bersagliato dagli strali dei disegnatori; e ci ha stimolato ad approfondire l’aspetto della caricatura, su cui di norma fa leva la vignetta satirica.

I prestigiosi maestri e teorici della caricatura

Potrà sorprendere che cominciamo con Gustave Dorè, di cui sono ben note le tavole drammatiche della “Divina Commedia” e quelle eroiche del “Paradiso Perduto”, nonché quelle apocalittiche della “Bibbia” e le visioni grottesche del “Don Chisciotte”, opera nelle cui illustrazioni si avvertono tratti caricaturali. E’ sua una produzione di caricature vere e proprie, espressione grafica in stile colto e raffinato sui personaggi di Dickens e Courteline, del “Circolo Pickwick” e della “Vie de Bohème”; e in stile popolare sui tipi umani, le figure reali che incontrava nella Parigi di Napoleone III.

Altrettanto può stupire che Baudelaire, evocando le “curiosità estetiche”, vi comprendesse i caricaturisti francesi e stranieri, tra i quali troviamo nomi inattesi come Goya e Brueghel, e persino “le caricature di Leonardo da Vinci”. E’ vero che premette di “non voler scrivere un trattato sulla caricatura”; ma fa riflessioni sull’“essenza del riso e degli elementi costitutivi della caricatura”, divenute per lui “una specie di ossessione”, così organiche da farne una vera e propria teoria.

Nella caricatura Baudelaire trova “un elemento misterioso, persistente, eterno, che si raccomanda all’attenzione degli artisti”; e sottolinea come “cosa curiosa e veramente degna di attenzione che questo elemento inafferrabile del bello sia introdotto persino nelle opere destinate a mettere l’uomo di fronte alla propria bruttura morale e fisica! E, cosa non meno misteriosa, questo spettacolo pietoso eccita in lui una ilarità immortale e incorreggibile”.

Per il grande scrittore il ridere “è essenzialmente umano ed essenzialmente contraddittorio, vale a dire che di volta in volta è segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita”. Nella comicità che suscita il riso ed è lo scopo della caricatura “l’elemento angelico e l’elemento diabolico funzionano parallelamente”. E lo spiega: “L’umanità si eleva e acquisisce per il male e l’intelligenza del male una forza proporzionale a quella che guadagna per il bene”.

Anche per questi illustri precedenti non deve sorprendere che si attribuisca alla caricatura un ruolo significativo nell’espressione artistica, di un’arte non minore o subalterna, se Leonardo è stato definito “il padre della caricatura moderna”. E si assegni ad essa un ruolo senza dubbio ancora più significativo per il manifestarsi della libertà di espressione nel senso più ampio del termine.

Ne fa fede la fioritura di caricature politiche fin dal ‘600, moltiplicatesi nell’800 e ‘900, che hanno preso a bersaglio personaggi e ideologie, soggetti e situazioni; la mostra ricordata ne ha dato uno spaccato italiano per il soggetto poliziotto e le situazioni estreme in cui è coinvolto, fissato nella storia della cultura con il Catalogo curato da Fabio Santilli, dove si analizza in modo compiuto il rapporto tra “satira e polizia tra otto e novecento” con i “complementi di ricerca” su “la figura del poliziotto nella letteratura e nel fumetto” e “origini e cambiamenti nella Polizia di Stato.

Satira alla polizia, satira al potere in generale

Una satira impersonale sul potere, viene di definirla, perché non prende di mira soggetti ben identificati, come potrebbero essere il Ministro di polizia e altri potenti; ma il poliziotto qualsiasi con un ulteriore paradosso: mentre “appare come un ottuso esecutore e mero strumento del potere” – così Antonio Laurito, direttore dell’Ufficio storico della Polizia di Stato – e, quindi, impersona il potente che lo gestisce, ne è lontano anni luce sotto il profilo antropologico e anche fisionomico.

Ecco i “giudizi autorevoli del tempo” riportati da Santilli: “Senza alcuna specializzazione tecnica, culturalmente rozzo, scelto a caso, privo di una consapevolezza sia pur rudimentale dei problemi sociali emergenti, svincolato di fatto dall’obbligo di rispettare la legge, insensibile al rispetto dei più elementari diritti di coloro che sono oggetto delle sue attenzioni, è considerato un nemico, inflessibile e spesso crudele, da cui bisogna guardarsi e così si impone, radicandosi questa immagine nella mentalità comune”. E’ un’immagine reale, dunque, quella che troviamo nella satira.

Maurizio Zinni la ripercorre attraverso le vignette pubblicate in settant’anni da una molteplicità di giornali umoristici che abbiamo già ricordato nel resoconto della mostra. Qui vogliamo approfondire una figura divenuta una maschera dalla quale dovrebbero trasparire, quasi in modo lombrosiano, i caratteri interni. I baffoni, anche se in linea con i costumi delle epoche attraversate, avevano un che di ridondante e quasi minaccioso, anche i particolari anatomici venivano ingigantiti, si parla delle braccia e delle mani, del naso e delle orecchie. Così il portamento e la positura statuaria, anche se per evidenziare di più gli sberleffi subiti: come il bimbo che fa pipì, già da noi accostato al simbolo bruxellese della trasgressione innocente ma comunque libertaria in positivo.

L’enfatizzazione dei particolari esteriori era ancora più evidente nelle cartoline satiriche, perché restavano a lungo negli scaffali e venivano conservate dai destinatari una volta spedite, per cui avevano una vita molto più lunga dei giornali. C’era una cura maggiore nell’evidenziare i segni dell’istituzione, laddove la caricatura giornalistica si soffermava essenzialmente sull’individuo.

I caratteri interni non sono monolitici, ma al poliziotto cattivo non si contrappone quello buono, il potere non lo tollererebbe. Piuttosto al poliziotto violento si affianca quello stupido e incapace, quindi si va dalla padella alla brace: l’uno è pericoloso come i delinquenti, l’altro non protegge.

Aspetto esteriore e caratteri interni attraverso la rappresentazione del loro modo di agire confluivano, perciò, nel senso di minaccia o perlomeno di sfiducia che ne derivava. In effetti era la reazione del pensiero liberale agli autoritarismi del potere, politico ed economico, che si vedeva contrapposto al semplice cittadino, oppresso ed inerme. La reazione era la satira graffiante contro chi era lo strumento di questo potere lontano e irraggiungibile, e alzava le mani sull’individuo.

Ciò che colpisce è il capovolgimento dei ruoli e dei caratteri: la satira sul poliziotto gli attribuisce tutti gli aspetti e i comportamenti che non dovrebbe avere, dato che si richiedono da lui onestà e correttezza, solerzia e sagacia perché sia all’altezza dei compiti affidatigli. Caratteri negativi evidenziati non come deviazioni occasionali, ma come radicati e diffusi, senza alcuna eccezione.

Non si limita all’oppressione e alla sbadataggine la satira sul poliziotto cattivo oppure sciocco. C’è anche la sferzante allusione ai due pesi e due misure, all’ossequio per i ricchi mentre vengono perseguitati i poveri; come all’interno della polizia l’agente corretto e moderato viene sacrificato a vantaggio di quello prevaricatore e violento. Spesso è più evidente la satira al potere che arma la mano al poliziotto, e comprime le libertà: allora si esprime senza il tramite di questa figura ma direttamente, oppure nel poliziotto visto come agente provocatore con mandanti ben precisi. C’è al riguardo una galleria di sovversivi veri o presunti ai quali si affiancano i poliziotti a loro assimilati.

Abbiamo già ricordato la satira che mette alla berlina i poliziotti senza il sorriso della caricatura ma con la forza della denuncia, così per le morti in carcere o per gli attentati terroristici, e ne abbiamo sottolineato le similitudini con episodi odierni che, però, non fanno scattare la satira quanto la mobilitazione di cittadini e politici, almeno quelli più sensibili ai diritti umani e alla sicurezza. Ma è bene che sia così, vuol dire che oggi i canali della democrazia sono agibili, e non ci si deve rifugiare nella satira per esercitare quel controllo impossibile per vie istituzionali nei sistemi autoritari.

Paradossalmente il poliziotto oggi è lasciato in pace perché la satira può puntare direttamente al potere, senza interposte persone. E anche, come hanno sottolineato le alte autorità della polizia – e lo abbiamo già ricordato – per l’evoluzione che ha avuto questo corpo, anch’essa in linea con il radicamento sempre più solido e stabile della democrazia: evoluzione nel ruolo e nel personale.

Come passaggio intermedio tra il poliziotto bersagliato e il poliziotto ignorato dalla satira c’è stata la sua assimilazione agli altri sfruttati e angariati dal potere. Figli del popolo anche loro, come del resto qualche decennio dopo constaterà Pasolini con la sua lungimirante lettura dei cambiamenti nella società italiana dove la polizia non era più espressione del potere; lo erano di più i giovani manifestanti ai quali doveva opporsi, in quanto rampolli viziati dei grandi potenti dell’economia e della finanza, e in generale della ricca borghesia, che sfogavano nelle piazze le loro allucinazioni.

In effetti ci fu anche una presa di coscienza dell’inadeguatezza delle forze di polizia ai propri compiti proprio per le carenze di preparazione e istruzione che la satira aveva preso a bersaglio ingigantendole ma che esistevano veramente. Fu migliorata l’integrazione nella realtà urbana del poliziotto proveniente dalla campagna, mediante corsi di formazione e di addestramento, si elaborarono disegni di legge di riordino del corpo di Polizia. Il Ministero dell’interno, per migliorare “la loro posizione specialmente morale”, prese una decisione: “Liberarli da tutti quei servizi che, pur essendo indispensabili, menomano la loro autorità in faccia alla pubblica opinione”.

Fu creato addirittura, per tali servizi, un nuovo corpo, “le guardie ausiliarie, con ferma di un anno”, così il Manuale del Funzionario di sicurezza pubblica di polizia giudiziaria” del 1887. La satira aveva vinto. .Non solo aveva mosso le coscienze, aveva prodotto anche effetti concreti. E positivi.

Siamo tornati sulla satira al poliziotto – della quale nel nostro recente commento alla mostra abbiamo percorso una ricca galleria di vignette e disegni satirici – per completezza e per dare il giusto merito a un’importante tessera nel mosaico della caricatura e della storia del costume.

Aggiungiamo un’altra piccola tessera, che riguarda il livello internazionale, accennando alla guerra di caricature tra disegnatori satirici inglesi e francesi sull’“Intesa cordiale”. Ci fu una vera e propria offensiva dei caricaturisti nei confronti di Napoleone, dileggiato in modo feroce quanto equanime da inglesi e francesi, nelle forme più disparate.

Nell’ultimo periodo, 1814-15, è ricorrente raffigurarlo nelle vesti del diavolo, o sulla sua groppa, o tra le sue braccia come infante oppure gettatovi dalla morte, fino alla discesa agli inferi con i propri seguaci; prima il dileggio era meno crudo, ma altrettanto sferzante, come le sculacciate a un Napoleone monello in una vignetta del 1803.

Anche Chamberlin fu bersagliato dalla caricatura fino ad essere raffigurato con la falce sterminatrice su un campo di cadaveri, e la stessa morte di Rodhes fu salutata ritraendolo nel “giacimento di teschi” dei boeri da lui fatti massacrare. Il nostro poliziotto era in buona compagnia.

Dalla caricatura al disegno satirico

Diego Buzzalino l’ha analizzata tecnicamente, selezionandola come sul tavolo anatomico, e nel suo “La caricatura meccanica: Teoria e pratica”, del 1948, ha scritto: “La caricatura non trema. Sfida i governi e ne mostra i tarli. Ascolta i popoli e ne formola i voti. Sempre e dovunque con il miracolo del riso. Riso amaro o beffardo, volgare o violento.

Sempre! Riso, cifrario del mistero umano; riso, erma bifronte del travaglio quotidiano; riso, singulto, arcano disprezzo, forma veneranda dell’ingiuria. Riso, riso, riso”. Per concludere così dopo l’elogio del riso: “Substrato della caricatura è l’umorismo. L’umorismo è la poesia del riso lievitata ai fermenti del ridicolo mordace. Parla al cuore ed al cervello, lenisce ed incenerisce”.

Della satira di costume scrive che “le piaghe del proprio tempo sono denudate. E si ride. Ma quel riso è detergente. Quel riso fa guardare intorno a sé, fa guardare in sé. E redime”. La dissacrazione è scherzosa e beffarda e assolve a un compito fondamentale: “castigat ridendo mores”. E’ anche un fatto di cultura, esprime libertà di pensiero e di critica, fruga nei ripostigli nascosti della società superando la coltre spesso soffocante di perbenismo.

Perciò l’associazione culturale “L’oleandro” di Brescia, nelle edizioni del “Festival dell’Umorismo Riviera del Garda”, con la direzione artistica del grande Osvaldo Cavandoli, oltre alla Sezione letteratura, ha dato speciale rilievo alla Sezione grafica, con la partecipazione di centinaia di disegnatori satirici italiani e stranieri e di migliaia di visitatori alla mostra delle opere presentate.

Ed è istruttivo leggere come “L’oleandro” interpreti i disegni umoristici nella presentazione del volume del 1994, primo anno della rassegna: “In essi traspare la coesistenza più o meno pacifica dei contrari insiti in quasi tutte le cose umane, per cui si viene a scoprire il comico nel tragico e nel solenne, e il tragico e il solenne nel comico, la saggezza nella follia e viceversa”. Riguardo alla resa grafica aggiunge: “In talune opere caricaturali i personaggi colti con l’enfatizzazione fisionomica sono restituito con tratti rapidi e secchi, nei loro atteggiamenti più espressivi, con grande ironia, con segno perentorio e icastico: risultato di tecniche raffinatissime, messe a servizio della straordinaria capacità di leggere fuori e dentro l’animo umano”. Per concludere: “Anche la semplicità di certi disegni è frutto di un complicato processo di segnali coordinatamente trasmessi che vuole risolversi in una coraggiosa sintesi formale, a tratti persino ardita viso il pubblico generalmente popolare”, Definizioni che, com’è naturale, sono applicabili all’intera produzione umoristica e satirica.

La caricatura in senso stretto risponde di fatto alla libertà di reinterpretare graficamente con tratti grotteschi le sembianze del personaggio; non per far leva sui suoi difetti fisici ma per esasperarne, deformandole, le peculiarità in modo da metterne a nudo l’essenza. Collegando sempre più queste particolarità al contesto, si è passati al disegno satirico e l’espressione caricaturale ha trovato nella vignetta politica il suo ideale terreno di coltura; un vero e proprio lievito che ne ha accresciuto l’impatto e il valore. Così la vignetta politica non va più ricercata nelle riviste umoristiche, rarefattesi fino a scomparire, ma si trova nelle prime pagine dei grandi quotidiani d’opinione.

Oggi si parla meno di caricatura e molto più di disegno satirico, di espressione caricaturale nella vignetta politica. Sono varianti grafiche della satira i cui confini spesso vengono superati per cui si passa facilmente dall’una all’altra, l’umorista puro diventa satirico soprattutto quando si indigna.

Scrive Fabio Santilli nel citato catalogo “In nome della legge”: “Il buon disegnatore satirico è certamente un raffinato artista della comunicazione che, al contrario di quanto si creda comunemente, non si pone l’obiettivo di far ridere. Quello è l’obiettivo del comico”. E lo precisa così: “Il satirico si pone innanzi tutto l’obiettivo di far riflettere mediante lo smascheramento delle contraddizioni.

Per questo fine il satirico usa sovente l’arma della caricatura (che non deve essere confusa col ‘ritratto caricaturale’) cioè una forma di rappresentazione che utilizza lo stravolgimento abnorme e grottesco di personaggi, azioni o situazioni attraverso la scientifica e premeditata alterazione delle loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche per far emergere le qualità morali dell’oggetto ‘caricato’ (sia esso personaggio, azione o situazione) sulla base del personale codice etico dell’artista”. Santilli fa anche una netta distinzione: “In questo senso si comprende perfettamente la differenza con il ritratto caricaturale che, infatti, generalmente non ha alcuno scopo derisorio o moralizzatore, consistendo essenzialmente nell’accentuazione di quegli elementi fisionomici che caratterizzano il soggetto ritratto e che solo il vero artista sa cogliere”.

Aggiunge Maurizio Zinni nel ricercare le radici dello stereotipo negativo del poliziotto: “La grafica satirica, per sua stessa natura, maschera, asciuga, esaspera i temi da essa affrontati. Non vuol essere obiettiva, tutt’altro: è sbilanciata in un senso o nell’altro, ferocemente di parte e per questo non indietreggia di fronte a nulla, si burla di situazioni estreme, nascondendo spesso le lacrime sotto un riso più di pancia che di testa”.

E spiega come avviene tutto questo: “Le vignette accentuano caricaturalmente e allegorizzano il soggetto dileggiato costringendo il lettore ad una doppia azione: da un lato prendere le distanze da quanto mostrato, dalla realtà descritta; dall’altro, obbligarlo a mantenere sul mondo circostante uno sguardo dritto e impietoso, capace di decrittare l’essenza del visibile e di decifrarne i diversi gradi della rappresentazione grafica.”. Così viene visto, in definitiva, il contenuto della satira: “Apparentemente, quindi, solo una rappresentazione faziosa dell’oggetto criticato, a ben guardare, invece, uno specchio di umori diffusi e speso repressi, distillati con sapiente abilità a diversi livelli di comprensione e lettura dai disegnatori satirici”.

Della caricatura c’è una definizione all’inizio del ‘900 di Luigi Rasi, attore, drammaturgo e storico del teatro la cui collezione di documenti e cimeli è stato il primo nucleo della grande biblioteca e raccolta teatrale del Burcardo a Roma, ne abbiamo parlato di recente: “E’ l’arte di dire le cose più atroci di questo mondo col mezzo della immagine a una persona, senza che questa se ne offenda, per modo anzi che se ne compiaccia; anzi: per modo che, più atroci sono le cose dette, più grande ne sia il compiacimento”. Rasi si era illuso o aveva sottovalutato la reazione che può suscitare la vera satira, quando non solletica la vanità dei protagonisti di apparire con mere deformazioni di facciata, ma “castiga” con essi un costume, soprattutto se si tratta di costume politico, anche ricorrendo nella rappresentazione esteriore a iperboli paradossali del tutto diverse dalla realtà che si intende evocare. E forse si era illuso anche Baudelaire quando scriveva: “Il riso causato dal grottesco ha in sé qualcosa di profondo, di assiomatico e di primitivo, che si riavvicina alla vita innocente e alla gioia assoluta molto di più del riso causato dalla comicità di maniera”.

Tutto questo porta a valorizzare quanto in passato era visto un “divertissement” fine a se stesso, per cui si parlava di caricatura piuttosto che di satira, come se fosse un gioco grafico volutamente deformante di una realtà invece ordinata e compiuta. Gli artisti di strada i quali fanno caricature dei passanti che si sottopongono ai loro schizzi non vogliono evocare realtà nascoste, ma esagerare quelle evidenti con un compiacimento dell’amplificazione che ha in sé la propria giustificazione.

La caricatura del personaggio, tanto più se politico, invece, fin dai tempi passati, cercava di rappresentare con la deformazione del tratto esteriore la vera essenza del carattere, del ruolo, dell’azione del soggetto. E quando ad essa si è aggiunto il contesto in cui si muove nel più ampio spazio della vignetta, questo intento è diventato esplicito e trasparente senza che la caricatura, rimasta alla base, cessasse di identificare nell’immediato i tratti del soggetto. Considerati, però, non come fattezze da riprodurre bensì come espressioni di una visione del tutto soggettiva dell’umorista.

Anche certi caratteri somatici e l’abbigliamento portati all’estremo hanno caricato di comicità il soggetto reso immediatamente riconoscibile nella sua essenza satirica. Il maestro è sempre Forattini, con il suo duce e la sua scimmia, il suo barone in pantofole fino al premier senza volto, segni identificativi folgoranti di noti personaggio e nel contempo dei loro caratteri. Deformati, sì, ma per portarli all’essenza vista dall’autore in estrema sintesi: del resto, non ebbe a dire Pablo Picasso che “l’umorismo è l’unico filo conduttore, immediato e irreversibile, verso la strada della verità”?

A questo punto non suscitano più il sorriso nel soggetto bersagliato e neppure il riso nei destinatari della comunicazione. Santilli è molto esplicito: “Credo che sia ormai chiaro che la satira non vuole divertire. Le caricature di Goya non fanno ridere per nulla, quelle di Daumier molto raramente, quelle del nostro Scalarini meno che mai. Anche le figure grottesche di Galantara difficilmente strappano un sorriso”. Però non finisce qui. Sempre secondo Santilli, “la volontà ribelle della satira può trovare anche canali alternativi di espressione e, prima di tutto, di comunicazione”. E come? “Trovandosi in quella paludosa disposizione mentale in cui s’incontrano la commedia e la tragedia, la satira per raggiungere i suoi scopi può decidere di utilizzare – anche attraverso l’uso spregiudicato della caricatura e della sua carica trasgressiva – l’arma della comicità, del buffonesco, della risata devastante e ‘terribile’ che tutti i potenti temono”.

Il discorso si fa delicato quando si passa dalla teoria alla pratica, dalle generose impostazioni alla cruda realtà. Perché in alcuni casi eclatanti si è constatato che il vecchio avvertimento “chi tocca i fili muore” può valere anche, e forse soprattutto, per la politica. E’ il caso di tornarci presto. L’appuntamento è per delle storie esemplari, e quel che più conta, vere.

Tag: Satira

1 Commento

  1. Fabrizio Iacovoni

Postato gennaio 9, 2010 alle 10:15 AM

Articolo interessante dell’amico R.M. Levante
che anche per le cose apparentemente futili
si rivela un ottimo divulgatore e trasmette cul-
tura. Il sottoscritto non ha riso mai per le
barzellette sui carabinieri  ritenendole vol-
gari e razziste. Mi considero un precursore
di Pasolini, la cui citazione di Levante mi e’
molto piaciuta. E stando ai giorni nostri
ritengo volgare Forattini quando ,forse-
esaurita la vena umoristica,rappresenta in
forma animalesca(scimmia, rinoceronte..) certi
politici.

Hans Christian Andersen, al Teatro Valle di Roma

di Romano Maria Levante

Fino al 5 gennaio 2009 una favola natalizia per piccoli e grandi, con il “noir” nordico rischiarato dal bianco della neve.

“Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo”. Con questo canto di Natale nella mente e nel cuore siamo andati al Valle dove non il Re del cielo, ma la Regina delle nevi era in scena. In comune il freddo e il gelo; quest’ultimo con un ruolo di protagonista nello spettacolo. Non solo perché si svolge nell’ambiente nordico sotto una fitta nevicata, ma perché è il gelo a far prendere una piega angosciosa, per poi sciogliersi nel finale romantico e sentimentale.

La favola per piccoli e grandi

Prima di raccontare questa favola di Natale e il modo in cui è stata proposta, confessiamo che ci incuriosiva toccare con mano i meriti della compagnia che è stata in grado di far approdare lo spettacolo per ragazzi sul palcoscenico più ambito: in un teatro storico e nelle festività natalizie.

I meriti del Teatro Kismet OperA di Bari sono resi evidenti dal livello artistico degli attori e dallo spirito innovativo e di ricerca. Quasi trent’anni di vita artistica, il gruppo ha avuto il “felice destino” (Kismet in sanscrito) di aprirsi ai linguaggi del teatro contemporaneo senza rinunciare alle radici nella cultura popolare.

Alla continua ricerca si è unito lo sforzo di renderne visibili i risultati soprattutto nel filone narrativo: quindi centro di produzione teatrale e insieme “luogo privilegiato di cooperazione teatrale a livello internazionale”, punto d’incontro con altre realtà urbane ed esterne. Ha partecipato nel maggio 2009 con “Furie de sanghe” alla manifestazione dei “Teatri del tempo presente” promossa dall’Eti per stimolare la creatività giovanile e il linguaggio universale dell’arte, presentando una “furente compagnia di ventenni”.

E’ giovane Teresa Ludovico, regista e autrice della trasposizione di Andersen, e si trova nella piena maturità artistica: ha creato qualcosa che va oltre i canonici riferimenti alle classi di età, trovando motivi di interesse trasversali tra il pubblico.

Confessiamo inoltre che eravamo pronti a criticare la favola “nordica” per la tendenza a generare paura con storie “noir”, a partire da Cappuccetto rosso e il lupo fino a Biancaneve e la strega, in un percorso narrativo dove l’“agnitio” finale, che porta al trionfo dei sentimenti, deve passare sotto le forche caudine dell’angoscia. Ma non sono così anche le “favole” per grandi, almeno quelle che culminano nell’“arrivano i nostri” dopo vicende spesso terribili di assedi, lutti e sparatorie?

Un filo comune c’è in tutto questo, lo stesso che lega le vicende reali della vita. La lotta per superare le avversità, il lieto fine che quando arriva è sempre il coronamento di un percorso accidentato fatto di rinunce e di sofferenze che però non riescono a fiaccare la capacità di lottare.

Ed allora le immagini e i suoni, il linguaggio delle parole e dei corpi, il dinamismo e le pause, la scenografia e il recitato, sono altrettanti terreni di ricerca di come si esprimono, anche in una favola come questa, gli eterni dilemmi dell’umanità, i contrasti tra forze opposte: il bene e il male in primo luogo, poi durezza e tenerezza, arroganza e vulnerabilità, freddezza e sentimento.

I ragazzi protagonisti vengono a trovarsi immersi in una storia più grande di loro, perché coinvolge questi valori superiori, ma di cui sono i protagonisti ideali con la loro innocenza e il loro entusiasmo.

E come in tutte le favole iniziano subito i guai. Le grandi nevicate fanno generalmente la gioia dei ragazzi, possono giocare a tirarsi le palle di neve e sbizzarrirsi a fare pupazzi di ogni foggia.

In questa storia accade ben altro. Scende dall’alto la bellissima regina di ghiaccio, porta via con sé un bambino inerme, Kay, ed arriva l’immancabile sortilegio: baciandolo gli ha trasmesso il suo gelo, in bocca e nel cuore; il bambino sembra morto, come la bella addormentata. Con il paradosso che qui è stato un bacio a renderlo rigido e immoto, là era stato un bacio a risvegliarla: il “noir” delle favole nordiche appare addirittura ancora più cupo, il bambino sembra morto.

Ma c’è ugualmente un principe azzurro che si mette in marcia, anzi un principessa, di cuore non di lignaggio, è la sua amichetta Gerda, non si rassegna e si affanna a cercarlo. Le stagioni miti si sono sostituite all’inverno, però il gelo continua a irrigidire il corpo e l’anima di Kay.

Il “noir” si stempera in questa ricerca appassionata che mette in contatto la bambina con ambienti, questi sì, di favola: un giardino incantato e un castello, un covo di briganti e delle renne servizievoli che la portano dov’è l’amico da lei ricercato. L’ambiente con le sue distrazioni può far dimenticare la cupezza di fondo, ma questa torna quando l’approdo della lunga ricerca si rivela il regno dei ghiacci: dove il gelo domina tutto, non solo il cuore di Kay raggelato dal bacio della Regina.

“Amor omnia vincit” la conclusione, basta il pianto d’amore di Gerda per sciogliere il cuore di Kay liberato dalla mostra del gelo da una lacrima che gli scivola dentro. E’ come il bacio del principe azzurro alla bella addormentata, a parti rovesciate questa volta, e con l’innocenza più pura.

Che non si limita a questo miracolo, ne fa un altro, lo stesso di Pinocchio: Kay e Gerda si ritrovano cresciuti, come il burattino che diventa alla fine un vero bambino, due trasformazioni insieme malinconiche e festose.

Perché segnano il passaggio a un’altra fase della vita lasciando la fase eroica, per così dire, che ha alimentato le tante vicende alle quali ci siamo affezionati. Era eroico Pinocchio, piccolo e inerme burattino in un mondo di mangiafuochi, di gatti e di volpi e assassini in agguato; è eroica la piccola Gerda nel partire alla ricerca dell’amichetto senza aver paura tra inenarrabili vicissitudini.

I significati profondi di una “sacra rappresentazione”

Abbiamo così raccontato la favola di Hans Christian Andersen come si racconta ai bambini. Ma come tutte le favole ha quei significati profondi, si direbbe pedagogici, che la rendono adatta anche e forse ancora di più ai grandi, disvelando debolezze e miserie, slanci e abbandoni, valori e cadute.

Crediamo che a questi aspetti abbia voluto fare riferimento Teresa Ludovico nella sua riduzione e soprattutto nell’allestimento sotto la propria guida di regista, con le belle scene e luci di Vincent Longuemare, i costumi di Ruth Keller e le coreografie di Giorgio Rossi; non è un “bene gli altri”, il loro apporto è fondamentale per la riuscita di uno spettacolo dove tutto si tiene, ripetiamo: il recitativo e il movimento, le parole e i corpi, le scene e le luci, le danze e le acrobazie.

Sono i ricchi ingredienti che rendono vivo lo spettacolo dovendo chiamare a raccolta tutte le risorse dell’arte scenica per esprimere motivi e momenti di grande intensità.

Si pensi ai valori e sentimenti prima evocati, e anche al più sottile filo conduttore dell’intera storia, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza che l’autrice e regista Teresa Ludovico definisce “un tempo della vita in cui si è molto, troppo vulnerabili, ci si ritrova diversi, a volte arroganti, con lo sguardo duro”.

E il bacio a Kay della Regina delle nevi è una metafora di tutto quello che a un certo punto della vita “ruba lo stupore dell’infanzia, e allora la razionalità domina l’esistenza”.

Raccontare come tutto questo sia stato espresso nello spettacolo non è agevole, perchè pur dipanandosi in quadri distinti non ha avuto un’impostazione didascalica che facesse attribuire i singoli momenti a vere e proprie metafore.

E’ l’insieme che ha concorso a una sorta di “sacra rappresentazione” piuttosto che di una favola in senso stretto, anche se di quest’ultima ci sono tanti elementi: i diavoli e i lapponi nani, la renna e le cornacchie fidanzate, gli ortaggi e i fiori che parlano, i principi che volteggiano.

In un uso dello spazio che ha un inizio spettacolare con i lunghi trampoli dentro un mantello fatto di specchi riflettenti alla Bacon; prosegue con l’arrivo dall’alto della Regina delle nevi, poi con i principi sospesi nell’aria: sembrerebbero simulacri di un “deus ex machina” che agisse alla rovescia, e la Regina lo fa subito, non per risolvere ma per complicare.

Una “sacra rappresentazione” per la sua atmosfera e il taglio scenico rigoroso, nonché il dinamismo esasperato in orizzontale dei danzatori e in verticale degli acrobati, che si può arrestare in una fissità ieratica o dilatarsi in larghi movimenti. E poi gli originali effetti scenici dati dai grandi drappi verticali che accompagnano i passaggi più spettacolari.

Con una raffinatezza ed eleganza quasi orientale, riflesso del mondo giapponese che l’autrice regista ha visto e vissuto da vicino; del resto questa storia così delicata e allusiva è nata in Giappone.

Infine le musiche, nel sapiente dosaggio che fa percepire appena le note di “lucean le stelle” dell’intramontabile “Tosca”, come quelle della “Carmen”. Si sente il “volo del calabrone” a sottolineare momenti e stati d’animo particolari, ma soprattutto va considerato il tono generale, veramente intenso nelle sue espressioni vocali e strumentali, gestuali e figurative.

Il messaggio della Regina delle nevi

Così Teresa Ludovico ha reso quella che chiama la “ricchezza simbolica di questa fiaba”. Non è soltanto evocativa e, diremmo, contemplativa; c’è un messaggio, un’esortazione che proviene in modo subliminale dai sette artisti mentre passano dal ballo all’acrobazia, dalla valorizzazione degli elementi orizzontali a quelli verticali, dalle voci dei personaggi anche infantili a quelle austere e misteriose di fondo. In uno straordinario virtuosismo espressivo di danza e recitazione.

Il messaggio lo diremo ora, giunti al momento di concludere. Ci fa capire perché “La Regina delle nevi” non è uno spettacolo riservato a bambini o ragazzi e neppure solo a famiglie con gli adulti nel mero ruolo di accompagnatori dei minori. E’ un messaggio pedagogico per tutti, e soprattutto per il mondo degli adulti. Lo fa capire chiaramente Teresa Ludovico e dobbiamo crederle: “La fiaba ci incoraggia ad andare là, dove qualcuno è prigioniero delle nevi, e ad uscirne insieme”. Potranno farlo tutti, piccoli e grandi, individualmente o meno. A qualunque livello e in qualunque modo.

Perché – lo ripetiamo vedendolo in filigrana nella “sacra rappresentazione” e ritrovandolo come reazione alla convulsa attualità di questi giorni inquieti – sempre e dovunque “amor omnia vincit”.