Libri, “piovono” in ottobre, nel segno delle “Parole d’Italia”

di  Romano Maria Levante

L’annuale manifestazione “Ottobre piovono libri” presenta nel 2010 la novità derivante dal suo svolgimento alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, evento che ha suggerito di proporre liberamente un tema a cui ispirarsi nelle iniziative di promozione del libro e della lettura organizzate in lungo e in largo nella penisola nelle località e nei siti più disparati. “Parole d’Italia” è il tema, daremo un’idea della risposta che emerge dal vasto programma di iniziative – oltre 2000 – e specificheremo quelle della regione Abruzzo, quest’anno presente con tutte le sue province.

Lo scorso anno la manifestazione “Ottobre piovono libri” ci diede una spiacevole sorpresa, nessuna iniziativa a Teramo e provincia. Ne parlammo con il direttore generale del MiBAC per le Biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore Maurizio Fallace, ne scrivemmo sulla rivista, inviammo sollecitazioni ai responsabili del settore cultura interessati, l’assessore regionale Di Dalmazio, quello provinciale Di Michele e il sindaco di Teramo Brucchi che ne ha la delega; facemmo anche un’ampia intervista al direttore della Biblioteca provinciale Luigi Ponziani.

Post hoc, non abbiamo l’ambizione che sia propter hoc, quest’anno sono otto le iniziative nella provincia di Teramo, citata nella conferenza stampa di presentazione del 29 settembre 2010 al Ministero per i beni e le Attività Culturali per l’iniziativa di Alba Adriatica legata alla sua origine di nucleo abitativo presso la stazione ferroviaria – ma con la precisa collocazione amministrativa come Tortoreto Stazione, abbiamo precisato – il cui nome non era propriamente balneare, di qui il cambio di denominazione per evocare l’aurora sul mare, e il decollo come località turistica.

La quinta edizione 2010 del mese di promozione della lettura

Il “dove eravamo rimasti” non finisce qui, perché merita di essere sottolineato anche il decollo di una manifestazione che mobilita per un mese intero tutta la penisola alla promozione del libro e della lettura nella campagna promossa dal Centro per il Libro e la Lettura, ma la cui organizzazione e lo svolgimento sono lasciati alle iniziative locali. L’adesione e il sostegno attivo della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, nonché dell’Unione delle Province d’Italia – il cui presidente on. Bono è intervenuto alla presentazione – e dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani hanno indubbiamente contribuito al crescente sviluppo.

Sorta nel 2006 con 260 adesioni, ha avuto una progressione geometrica raddoppiandole nel biennio successivo raggiungendo le 1100 iniziative nel 2008, poi ancora un 50% di crescita nel 2009 con 1700, mentre quest’anno si sono superate le 2000 iniziative: precisamente sono 2300 con una novità rispetto alla formula di lasciare libera la periferia nell’impostare e organizzare la campagna.

L’autonomia e la libertà di scelta in sede locale restano, sono investite città e località di ogni dimensione, il Centro si limita a promuovere e a registrare le adesioni inserendole nel programma complessivo, in una grande varietà di sedi e modalità espressive: dalle biblioteche, che fanno la parte del leone, ai circoli culturali, dalle scuole alle librerie, dai teatri alle piazze, fino alle stazioni e agli ospedali in diverse ore del giorno per l’intero mese di ottobre. Quest’anno la novità è l’anticipo del 150° anniversario dell’Unità d’Italia con il lancio del tema “Parole d’Italia” al quale gli organizzatori delle singole iniziative possono liberamente ispirarsi. Una proposta quanto mai opportuna considerando che i Comuni sono stati alla base dell’epopea risorgimentale e dai Comuni possono venire risposte ispirate alla riaffermazione di un’identità che appare fortemente radicata in sede locale e resiste all’omologazione del mondo globalizzato.

“Parole d’Italia”, dunque, nei tanti “luoghi d’Italia” che partecipano alla campagna, ed ecco il risultato: sono 500 le iniziative riferite a una “parola” nella quale si riassume lo spirito unitario, sia essa un personaggio o un evento storico, un monumento o un oggetto, in altri termini un simbolo. La risposta ottenuta fa pensare che venga raggiunto la finalità per la quale è stato proposto tale riferimento: “Un riconoscimento della natura plurale e policentrica del nostro paese e delle sue numerose identità culturali – afferma il Centro per il libro e la lettura – con l’obiettivo finale della compilazione di un lessico italiano d’inizio millennio, rivolto al futuro ma selezionato partendo da quegli elementi che caratterizzano il panorama delle culture e delle tradizioni locali”.

Questa circostanza ha fatto cambiare il logo: dall’ombrello aperto con la concavità rivolta verso l’alto per raccogliere la pioggia di libri, al profilo della penisola con le singole regioni dove spuntano grandi occhi ad indicare, in un’immagine quasi surrealista, l’interesse alla lettura.

Le iniziative in Abruzzo per il mese di ottobre

Volgendo lo sguardo alle province d’Abruzzo, cominciamo con la “new entry” rispetto allo scorso anno, Teramo: vi troviamo 8 iniziative compresa quella citata della storia di Alba Adriatica: “Ottobre piovono libri… e noi leggiamo” e “Parole, rime e note in transito”, “Paroliamo in treno” e “PescAutori”, “Vetrina tematica Josè Saramago” ed “Editori e autori abruzzesi si presentano”. “Acquisizione biblioteca privata Masi” ci fa ricordare quanto ci disse lo scorso anno il direttore della biblioteca provinciale Ponziani a proposito della favorevole opportunità che si era presentata.

La seconda citazione spetta all’Aquila che sebbene la tragedia del sisma non sia superata, si riapre al libro e alla lettura con 7 iniziative: significativa quella dal titolo “Biblioterapia, un libro per una città”, poi “Vieni a visitare la casa dei libri”, due “Incontri – lettura animata e laboratorio”, quindi “Ascolto, immagino, vedo, indovino” fino a “Scopriscienza” e “Superanimali”.

A Chieti si registrano 11 iniziative, una dal titolo allusivo “Piovono libri in paese”. Gianni Rodari è presente in tre iniziative, il “Bibliogiro” dei suoi libri, “L’omino dei sogni”, “Per cielo, per terra… e per telefono, l’Anno Rodariano”. C’è l’invito allettante “Leggi con noi” e “Disegnami una fiaba”, ci si cala nei “Libricoli” e in “Back to school” e si va dalla “Biodiversità” ai “Superanimali”. Quindi due cavalcate molto diverse: “La riproducibilità della musica dalla stampa alle tecnologie digitali” e “I dodici cavalieri delle libertà”. Si può trovare un filo conduttore che le unisce.

Il boom quest’anno è di Pescara, con ben 40 iniziative, di cui alcune collegate da una matrice unica. “Le parole raccontano” introduce 7 iniziative di incontro con gli autori, per entrare dietro e dentro le storie e le immagini, fino al viaggio tra le parole che ricostruiscono la realtà. Analogamente nelle 6 iniziative dal titolo “Sostenibilità e legalità: cambiare è possibile”, dove si considerano anche i “Diversi e uguali” e “Uomini e donne del mondo e dal mondo”. Oltre a parlarne in quella appena citata, alle donne è dedicato un ciclo monografico di 7 iniziative dal titolo comune “Occhi di donna” con la “Realtà vista e narrata dalle donne” di cui si analizzano volti, immagini e parole dietro e dentro le storie. Un ciclo di 7 iniziative anche per “La luna tra scienza e coscienza”, incontri con gli autori, la luna in versi fino a “In Abruzzo… la luna vista da noi”. Non mancano iniziative singole, alcune ripropongono “Back to school”, “Per cielo, per terra e… per telefono: Gianni Rodari – Anno Rodariano Abruzzese” e la “Biodiversità”, altre del tutto originali come “Ut pictura poesis: incontro tra arti sorelle”. Benemerita l’iniziativa “Prestito di voce . La mia voce tante voci per illuminare il buio”. E ci piace concludere con “A parer mio” e ”Chi cerca trova”, due titoli che insieme riassumono i significati della cultura: la libertà di opinione e lo spirito di ricerca premiato.

Dalle “Parole d’Italia” un affresco dell’identità nazionale

Avendo evocato le “Parole d’Italia” – il tema proposto che prepara alla celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia nel 2011 – vogliamo riportare i risultati dell’excursus da noi compiuto tra le circa 500 iniziative in argomento: è emerso un itinerario tra le città e i paesi d’Italia con percorsi anche originali che scavano nella storia nazionale e nell’identità municipale facendo riferimento a vicende e personaggi molteplici, in un affresco che risponde alle finalità del tema proposto.

Cerchiamo di darne alcuni tratti senza riferimenti territoriali e senza evidenziare le singole iniziative, citandole con i loro titoli non virgolettati in una mescolanza tra regioni e località e in una successione tematica che ne sottolinea la continuità ideale nella quale si ritrova l’Italia intera.

I libri raccontano… storie di uomini e idee per “fare” l’Italia. Quest’Italia che ci tocca raccontare, storia e attualità della nostra identità. Con il dilemma: eroi o canaglie? I protagonisti del passato visti dagli opposti fronti.

Cominciamo con quelli dell’Unità d’Italia. Da Quarto a Salemi: Garibaldi e i Mille in Sicilia, poi con Garibaldi da Torino al delta del Po, quindi a Pescia: Garibaldi l’illusione italiana. L’alba della democrazia viene salutata in Garibaldi e la Repubblica romana; la cui storia avventurosa è vista anche come un olocausto tutto italiano. La lettura è politica nei rapporti tra l’Europa e la spedizione dei Mille e sociologica nel romanzo del Mille, in Italia siamo tanti e siamo diversi. Anche Anita Garibaldi viene evocata tra storia e romanzo. Si va sulle tracce dei Mille spigolando tra gli scrittori italiani. Con queste letture si mette allo scoperto identità e nazione: un paese, tante storie. Raccontiamo il nostro paese, uno su mille era di Arquata.

Storia e storie tra presente e passato, bella e perduta l’Italia del Risorgimento. Il Risorgimento nella memoria, la lunga via dell’Unità d’Italia, con la canzone che unisce. C’è anche la poesia risorgimentale e l’Italia romantica, si vivono storie di passioni. L’Italia rivissuta dal punto di vista di Collodi e De Amicis, all’indomani dell’Unità, si evoca “bell’Italia amate sponde”. E poi l’Italia nelle pagine degli scrittori. L’Unità d’Italia è unione di popoli, parole e musica del Risorgimento, Fratelli d’Italia: luci e ombre: come i “fari” di Puglia. Ci si muove tra passato e presente: la memoria del Risorgimento a Ferrara, e nove passi nella storia; Mazzini e il Risorgimento italiano e anche il Risorgimento e il brigantaggio.

Gli statuti comunali si pongono tra la storia locale e quella nazionale: l’Emilia Romagna si racconta, c’è il rapporto tra cultura e territorio e un viaggio attraverso la musica e le regioni; i ritratti familiari e la corte dei Savoia. Si sentono storie locali e voci dialettali; si rivisita l’Arno e l’antico mestiere dei navicellai, si va tra pievi e castelli. Le realtà locali formano l’identità culturale nazionale: il contributo di Monreale e il Castel Guelfo con 700 anni di storia; 150 anni di Morcone annesso alla provincia di Benevento; Piacenza primogenita d’Italia. Tre tradizioni locali evocate, i “cruza de ma”, proverbi… e non solo in lingua genovese, i “Carusi” nella realtà mineraria dell’entroterra siciliano e Sambuca Pistoiese tra arte, storia e tradizioni. Ma i localismi non sono negativo campanilismo quando si considera l’Italia frammento d’Europa.

Le iniziative non dimenticano il cammino della speranza: trenta giorni di nave a vapore; storie di emigrazione della valle dell’Isdice (1880-1912) e il ventre di Gravebarden, appunti sull’emigrazione. Anche le culture emigranti in e dall’Italia; e contro i miti etnici, alla ricerca di un Alto Adige diverso.

Tra questi temi, tanti personaggi nel filo d’Arianna della nostra storia patria, ne citiamo alcuni presi fior da fiore, cominciando da Dante Alighieri genio e profeta dell’Italia unita e da Fogazzaro con “Piccolo mondo antico”; poi Quintino Sella nella nascita di una biblioteca pubblica e Cesare Pavese tra i luoghi del Mediterraneo, Carlo Piancastelli e Angelo Sismonda, Ugo Pierri e Cesare Rovighi, Anna Sarfatti e Rosamunda Smitherson, Cesare Bettolini e Vittorio Bodini. E ancora, gli scrittori Fenoglio e Ippolito Nievo, e “quattro autori una città”: Lodovico Antonio Muratori, Mario Ventura, Edmondo Berselli da poco scomparso e Luigi Francesco Valdrighi. Riguardano Trieste, ma la scoperta di autori e personaggi non si limita a questa città e neppure all’epoca risorgimentale: troviamo anche Aldo Capitini e Giovannino Guareschi che ci piace venga ricordato, lo merita. E’ una sorta di Antologia di Spoon River, ebbene anche l’opera di Lee Masters ispira un’iniziativa.

Per le donne molte citazioni: le donne nel Risorgimento e nell’Unità d’Italia, con “occhi di donna” la realtà vista dalle donne, volti e immagini. Spuntano profili di donna nella poesia italiana del ‘900 e le donne che ritrovano il cuore, con dosi di libertà. Vediamo anche come si scrive al femminile.

Esplode la cultura, dall’italiano al dialetto, e ci si accosta al Risorgimento tra gioco, lettura e storia; siparietti scherzosi Open days, l’unità d’Italia: musica in cucina; e “a professò, ancora co st’Italia…”

Le radici latine sono evocate, “alea iacta est”, Giulio Cesare in Archivio; anche la strada francigena e perfino “rosae, rosarum, rosis”. Poi le esclamazioni: U come Unità!, Italia Italia! e infine Viva l’Italia!, come le altre espressioni sono titoli di iniziative, non indichiamo le località, esprimono il sentimento nazionale. Per finire, i libri aiutano a vivere; volta pagina, cambia vita.

Altri temi – a parte le “Parole d’Italia” che ci siamo sforzati di riassumere – sono architettura e arti, arti visive e folclore con cultura locale, letteratura e paesaggio, scienza e ambiente, storia e società, tutti riportati e accuratamente classificati nel sito del Centro per il libro e la lettura in una banca dati accessibile a livello tematico e territoriale che è stata la nostra fonte per l’excursus compiuto.

La manifestazione nelle parole dei promotori e le prospettive

Dato conto della manifestazione nell’impostazione generale e nel tono e contenuto delle sue iniziative, soprattutto sul tema “Parole d’Italia”, crediamo utile lasciare la parola ai promotori.

Giuseppe Benelli, consigliere del Ministro per i Beni e le attività Culturali, ha tenuto a sottolineare l’attenzione di Sandro Bondi per il libro e la lettura, ricordando che viene da un’attività nel campo degli archivi, e la sua prima pubblicazione riguardò la tesi di laurea sull’agostinismo. Parla della molteplicità dei luoghi dove si svolgono le iniziative, non solo dedicati al libro ma di accesso generale; e cita i “Giovedì di Santa Marta”, voluti dal Ministro, rara occasione per Roma e per la cultura italiana di incontrare autori e personaggi di libri anche non noti; il programma di ottobre dei “giovedì” si inserisce nella manifestazione, come la recente presentazione della rivista trimestrale “Accademie e Biblioteche d’Italia”. Il libro e la lettura sono definiti una priorità del ministero.

Un bilancio delle precedenti edizioni è tracciato dal Presidente del Centro, Gian Arturo Ferrari. L’aspetto da lui ritenuto più importante è l’essere un’iniziativa aperta e libera, che non parte dal centro e si irradia in periferia ma recepisce le istanze locali di Comuni e soggetti diversi non in esecuzione di un unico disegno bensì con una crescita spontanea dal basso. Un altro aspetto rilevante è la ricchezza di iniziative di piccole dimensioni poco appariscenti e quindi più vicine alla realtà e alla situazione dei lettori anche potenziale; comincia faticosamente a costituirsi un tessuto di relazioni per la collaborazione tra le diverse istituzioni. La terza caratteristica è la crescente capacità di mobilitazione, la capillarità delle iniziative e il processo di diffusione che ha portato al gran numero di partecipanti.

Infine la replicabilità di molti appuntamenti, che non sono attività episodica: “Solo dalla ripetizione e reiterazione si ottiene il risultato – ha ribadito – occorre sedimentare, le iniziative che si ripetono da un anno all’altro si radicano stabilmente”. E ha sottolineato la penetrazione nelle regioni meridionali, pur se sono indietro nella lettura e diffusione del libro.

Passando dal consuntivo alle prospettive, ha premesso che il mondo dei libri è composito e differenziato. In Italia c’è una grossa industria e un’ampia articolazione in editori e punti di vendita, iniziative locali rimarchevoli ma il settore viene ad essere troppo diviso al suo interno nelle componenti: editori e librai, bibliotecari e studenti, lettori in genere. Ognuno è portatore di istanze e interessi diversi; vi sono differenze anche dentro ogni categoria. “Il divario tra grandi editori ed editori piccoli locali è lo stesso che c’è tra l’elefante e la mosca, così tra la biblioteca nazionale e la piccola locale non c’è alcun rapporto, la differenza nelle situazioni e nei problemi è enorme”.

Questa frammentazione è l’ostacolo principale all’unificazione del mondo dei libri, che invece dovrebbe condividere valori e obiettivi. Si dovrebbe cercare di avvicinare e mettere insieme entità eterogenee per trarre effetti positivi dalla diversità che invece opera in negativo. L’unificazione del mondo del libro è un obiettivo primario perché possano condividersi valori ed obiettivi. L’anomalia è data dal fatto che il mondo dei libri è grosso economicamente ma è piccolo dal punto di vista sociale, troppi ne sono esclusi.. L’esclusione è un’ingiustizia e un’iniquità da contrastare.

Sul piano delle iniziative concrete, nel dare la conferma che a maggio ci sarà l’annuale iniziativa “se mi vuoi bene regalami un libro”, ha dichiarato che intende unificarla con quella autunnale per accrescere la massa critica e quindi la capacità di raggiungere i destinatari in modo efficace, tanto più che le risorse sono scarse.

Il Centro per il libro e la lettura intende essere “un luogo di incontro tra tutte le componenti”, e vorrebbe porsi come “strumento fondamentale di comunicazione con l’opinione pubblica”. Presto disporrà di uno strumento che misurerà a cadenza mensile la lettura e l’acquisto di libri – lo ha definito “una ecografia” – e permetterà di conoscere la risposta alle iniziative: quindi si potranno mettere a punto e tarare opportunamente gli interventi.

In alcune province scelte come “test” sarà portata avanti l’indagine annunciata a suo tempo al fine di individuare i migliori strumenti promozionali per la lettura. Mentre il Centro non potrà intervenire su fenomeni quali la chiusura delle piccole librerie che esulano dalla sua competenza e dipendono dal mercato dove si manifesta una forte tendenza alla concentrazione e alle grandi dimensioni; sarà difficile anche operare gli interventi previsti in passato per la scarsità di risorse che potrebbe precludere persino la difesa delle librerie storiche spinte alla chiusura dai costi crescenti.

Il direttore del Centro Flavia Cristiano ha illustrato il programma di “Ottobre piovono libri”, sottolineando non solo che le iniziative sono quasi decuplicate dal 2006 al 2010 nonostante la crisi, ma che vi sono in tutte le province nessuna esclusa, e ne ha commentato la distribuzione che vede il Centro e il Sud crescere più del Nord. Altra caratteristica è la loro varietà, come si può vedere nel sito www.cepell.it dove sono illustrate in dettaglio e risulta di agevole consultazione. Non è il caso che riportiamo le indicazioni fornite, avendo dato già conto dell’analisi apposita da noi effettuata. Diciamo soltanto che a questo punto si è avuta la citazione di Alba Adriatica, per l’originale svolgimento del tema “Parole d’Italia” con la sua storia che nasce da una stazione ferroviaria.

E con il ritorno dove eravamo partiti, da una stazione ferroviaria, apriamo l’ombrello per raccogliere i libri che piovono dal cielo, anche se il logo è diventato lo stivale con tanti occhi.

Apocrifi, 2. L’intera Sacra Famiglia, a Illegio

di Romano Maria Levante

Nuovo approfondimento  sulla mostra “Apocrifi. Memorie e leggende oltre i Vangeli”. Questa volta abbiamo visitato per voi le opere esposte. La mostra terminerà domani.

Una caratteristica comune si nota nelle opere di ispirazione “apocrifa” esposte a Illegio, che le differenzia dall’iconografia canonica, cioè dalla produzione celebrativa e rituale: la colorazione e i contrasti, le espressioni e le figurazioni sono molto più intense, per lo più manca l’oro celebrativo come lo spirito contemplativo, sostituiti da un realismo che colpisce per la sua carica evocativa.

All’irritualità della fonte apocrifa corrisponde una soluzione figurativa che passa per la libera espressione dei sentimenti e per una costruzione delle immagini lontana da ogni convenzione. Rompendo la prima convenzione, quella del riferimento alle fonti canoniche, non potevano permanere le altre legate ai modi controllati e, qualche volta, oleografici, di rappresentare il sacro. Abbiamo avuto l’impressione che non dipende solo dal diverso stile pittorico dei molteplici artisti appartenenti a un arco temporale di almeno tre secoli, ma dall’approccio e dall’atteggiamento.

Questo dà un valore tutto particolare alle settantacinque opere esposte ispirate agli Apocrifi e un merito aggiuntivo all’iniziativa di radunarle nella grande mostra tematica di Illegio: dove oltre all’interesse sul piano storico legato anche a un loro “sdoganamento”, se così si può dire, dopo condanne secolari – che abbiamo cercato in parte di soddisfare nel servizio precedente – troviamo altrettanto interesse sul piano artistico nell’impronta comune che si nota nei secoli al di là degli stili e dei cicli pittorici: una forza espressiva libera da ogni costrizione.

Nascita di Gesù e Fuga in Egitto

Come sono rappresentati, dunque, temi familiari nelle celebrazioni della Natività, anche se non canonici come il bue e l’asinello e i re Magi? La curiosità c’è, anche se manca il brivido del proibito che ci si attende dall’Apocrifo; c’è il fascino dell’inedito, del non visibile nell’iconografia corrente.

La prima sorpresa all’inizio della Mostra è incontrare dei legni dipinti e intagliati di grande preziosità. Tali sono la “Natività di Gesù” e l’“Adorazione dei Magi”, di Landshut, del 1485, viene da Linz, con un oro diverso da quello rituale, che forma riflessi luminosi e pieghe accentuate, e colora i lunghissimi capelli della Madonna; i Re Magi, con le vesti d’oro, entrano nella scena, quasi al posto di San Giuseppe, mentre la Madonna ha il viso assorto. E’ invece monocromatica di un marrone opaco l’“Adorazione”di un intagliatore svevo del 1520-25, da Bressanone; di colore simile i “Due Magi, da una Epifania”, di Erhart, in legno di tiglio, del 1480-90, da Linz.

Dell’ultimo decennio del XV secolo l’altorilievo dei fratelli De Lupi “Natività e corteo dei Magi”, da Venezia, come se venissero dall’alto e fanno capolino il bue e l’asinello, mentre nell’“Altare dei Re Magi”, di Simone di Tesido, del 1496, da Bruxelles, ritroviamo le vesti dorate dalle pieghe ombrate e i Magi addirittura dietro la Madonna.
L’unico dipinto finora è l’olio su tavola di Mazzolino, “Adorazione dei Magi” del 1522, dalla Galleria Borghese di Roma, portano i doni e il Bambino si sporge con gesto spontaneo verso uno di loro inginocchiato mentre la madre, un viso raffaellesco, alza la mano destra dietro di lui.

Taddeo di Bartolo è l’autore di due dipinti a tempera su tavola “L’Annuncio ai pastori e adorazione” e “L’Adorazione dei Magi”, del 1409, della Pinacoteca di Siena, dove spiccano i musi accostati di bue e asinello per riscaldare il neonato con il loro fiato, sotto una grotta scura sovrastata da un albero dietro al gruppo della Madonna con il Bambino e San Giuseppe, al quale si aggiungono due pastori in ginocchio nel primo, e nel secondo il corteo dei Magi, uno dei quali si prostra per baciare i piedi al piccolo Gesù.

La fuga in Egitto è nel secondo settore della Mostra, c’è la tavola ottagonale che ha tale titolo, del Maestro della Predella, del 1370-75, dalla Pinacoteca Vaticana, un monte stilizzato e un edificio, e la Madonna con Bambino sul quadrupede, dietro San Giuseppe; in un’altra parte della predella “L’annuncio ai santi Gioacchino e Anna”, con monte, bosco e paese stilizzati.

Altri due oli su tavola rappresentano lo stesso evento, uno di Giovanni Busi detto il Cariani, del 1519, da Bergamo, con l’angelo che tiene le briglie al quadrupede su cui siede la Madonna con Bambino avvolta in un mantello celeste e cappuccio seguita da San Giuseppe; l’altro del Maestro del Pappagallo, un “Riposo nella Fuga in Egitto”, metà del XVI secolo, da Parigi, immagine serena di una Madonna dal bel viso con mantello rosso a forti pieghe, in un ambiente di cui è curata la prospettiva. Lo stesso si può dire per la “Madonna della palma”, di Bugiardini, 1520, da Firenze.

I due dipinti a olio su tela sono di Tintoretto e di Amalteo Pomponio. Il primo, forse una copia, del XVII secolo, viene dai depositi di Udine, una scena oscura con la Madonna in primo piano tra scorci e bagliori; il secondo, del 1565, da Pordenone, una Madonna col Bambino serena, quasi in trono sul quadrupede, e uno sfondo in cui è curata la prospettiva, con elementi naturali ed edifici.

La Sacra Famiglia e San Giuseppe

Uno dei più prestigiosi quadri sulla “Sacra Famiglia”, tra quelli esposti, è un olio su tavola dipinto dopo il 1529, della bottega di Andrea del Sarto, viene da Genova. Colpisce il dialogo tra ragazzi del Bambin Gesù e di San Giovannino; l’altro, della Kauffmann, del 1789, da Bergamo, mostra un’atmosfera serena in un ambiente naturale, qui i due ragazzi giocano con una pecora.

Raffigurazioni di vita domestica in quattro dipinti, di cui due dagli Uffizi di Firenze: la “Madonna del bucato” di Massari, anno 1620 e “La Madonna del cucito” di Trevisani, del 1690; gli altri due del Maestro Brissinese, “Sacra Famiglia in scena domestica”, del 1515, e di Haller, “Sacra Famiglia nella bottega di Giuseppe”, del 1770, ognuno impegnato nella propria attività, entrambi da Bressanone.

Sono immagini molto naturali con una Madonna giovanissima e gesti ampi e vistosi, soprattutto nel “cucito” di Trevisani e del maestro Brissinese, il filo è tenuto molto lungo dalla mano che ha l’ago. Per il “bucato”, nel lato destro c’è la Madonna con il Bambino cresciuto che la aiuta a prendere i panni dalla tinozza; nel lato sinistro San Giuseppe che li stende sul ramo orizzontale di un albero.

Dalla Sacra Famiglia, saltando un intero settore, passiamo al “capofamiglia”, il padre putativo di Cristo, San Giuseppe poco considerato dall’iconografia canonica e molto da quella apocrifa. Qui ne viene raffigurata la morte, o per essere aderenti ai titoli, il “Transito di San Giuseppe”.

Troviamo quattro oli su tela, realizzati per altrettante chiese, tra il 1730 e il 1750. Due sono più rituali: il grande dipinto di Ligari, m. 2,50 x 1,36 della chiesa di Albosaggia, Sondrio, con la religiosità della fede nella scena rischiarata da squarci di luce in ambiente oscuro, Cristo benedicente e la Madonna a mani giunte intorno al Santo sul letto a occhi chiusi e due grandi angeli sopra e a lato; la consolazione della fede nello sguardo della Madonna rivolto in alto con Cristo in preghiera a mani giunte, mentre il Santo si accascia e un angelo gli regge il bastone.

Altri due dipinti sono particolari per motivi opposti: quello di Grassi, del convento di Cavalese, Trento, esprime l’intimità con Gesù che benedice il Santo nel letto di morte e la Madonna in preghiera che lo scruta apprensiva, mentre un grande angelo domina la scena; quello di Paroli, dalla chiesa di Cassegliano, Gorizia, esprime l’apoteosi con il Santo ancora in vita che si rivolge a Cristo benedicente avendo dall’altro lato la Madonna, al centro di una complessa composizione molto spettacolare, su più piani e livelli, in una sinfonia di angeli con il soffio dello Spirito Santo, si vede anche uno strumento musicale.

In queste raffigurazioni di San Giuseppe c’è sempre la Madonna, che troviamo poi in tre dipinti dalle grandi figure con intense colorazioni. Due sono sul “Commiato di Cristo dalla Madre”, il più antico di Defendente Ferrari, con gli apostoli e le sante Anna ed Elisabetta, del 1525, da Firenze, un’immagine dolente che ricorda la passione nel Cristo e nella Madre dallo sguardo perso, anche se è ravvivata dal prezioso mantello verde dorato; l’altro di Manetti, del 1605, da Siena, molto sereno con in primo piano Cristo inginocchiato e la Madonna seduta che ne accoglie l’omaggio, la luce si posa sui mantelli e solo le due donne in secondo piano mostrano apprensione. Nel terzo “Cristo riceve la benedizione della Vergine”, del Monogrammista RG, del XVII secolo, da Montecarlo, inconsueto rovesciamento dei ruoli, un giovane Cristo in ginocchio davanti alla Madre benedicente e quasi ammonitrice, l’ortodossia non li avrebbe mai raffigurati così, gli Apocrifi sì.

Storie della Madonna con Sant’Anna

Queste immagini ci introducono alle storie della Madonna, alla quale è dedicato il terzo settore della Mostra nel quale vi sono anche quattro sculture lignee di “Sant’Anna Metterza”, tre policrome e una monocromatica; andiamo subito a cercarle in modo da dedicarci poi alla madre di Cristo che, comunque, è rappresentata con Sant’Anna in quasi tutte le sue raffigurazioni.

Di quelle policrome, una più arcaica, di uno scultore della Normandia, del XIV secolo, viene da una collezione privata di Bergamo, con il Bambino e una piccola Madonna davanti a Sant’Anna quasi in un marsupio; le altre due da Linz, più elaborate nelle fattezze e nel panneggio, la prima del Maestro SW, 1490-1500, con solo Sant’Anna seduta che guarda avanti, la seconda della bottega Lienhart Krapfenbacher, 1510-20, che sostiene Madonna e Bambino con lo sguardo contemplativo verso l’alto, una composizione espressiva e coinvolgente.

La scultura monocromatica, pressoché contemporanea e anch’essa proveniente da Linz, di un Maestro austriaco, raffigura Sant’Anna statuaria con la Madonna in piedi e il Bambino di fronte, composizione statica alla base della quale spuntano angeli distesi a terra che reggono il bordo del manto quasi come cariatidi, gli unici che appaiono nell’intero gruppo dedicato a Sant’Anna.

C’è anche una “Madonna con Bambino e Sant’Anna”, un olio su tavola del 1510-20, di Caprotti detto Salai, che ricorda il famoso dipinto del quale, nella Mostra di Roma “La mente di Leonardo”, è stato analizzato il polimorfismo anche con simulazioni multimediali, e ne abbiamo dato conto nella nostra visita alla mostra; del resto Salai è stato l’allievo prediletto a cui Leonardo lasciò i dipinti, insieme all’altro allievo preferito, Melzi, al quale lasciò i manoscritti.

Ed ora, finalmente, i numerosi dipinti sulla Nascita di Maria Vergine, su tela, su tavola e nelle preziose icone che ci portano nella Russia cristiana e trasmettono nell’intimo il senso del sacro con i colori forti e le immagini ieratiche e assorte, riflesso di un’ispirazione ricca di motivi interiori.

Tre interpretazioni molto diverse, la “Natività della Vergine Maria” di un Maestro ungherese, del 1500-10, da Budapest, la “Natività di Maria” di Pozzo, del 1672, da Lemna, Como, e la “Nascita della Madonna” di Giaquinto, del 1753, dagli Uffizi.

La prima, del Maestro ungherese, ha una prospettiva molto particolare, in primo piano la tinozza dove viene lavata la neonata, già con manto e velo, poi il letto con la puerpera che prende la ciotola, a destra un’architettura con due figure lontane, colori pastello, espressioni assorte.

La seconda, di Pozzo, è invece una scena classicheggiante, quasi arcadica, ripresa da lontano su uno sfondo scuro con angeli-putti sospesi in aria, si svolge nella zona centrale rischiarata dalla luce in un esterno con un portico e delle colonne.

La terza, di Giaquinto, è una scena molto realistica negli elementi e nelle espressioni in primissimo piano, in vista anche un catino dove una donna dal viso aggrondato versa acqua da una brocca con un grande fazzoletto bianco colpito dalla luce che le copre la testa e le spalle ponendola al centro della rappresentazione, si vede la neonata appena partorita, questa volta nuda, presa in braccio per essere posta in una stoffa celeste.

L’“Educazione della Vergine” di Jouvenet, del 1700, dagli Uffizi, e l’opera dallo stesso titolo di ambito veneto, del XVIII secolo, da Tolmezzo, Udine, sono più omogenee ma con delle differenze nell’ambientazione e nelle espressioni.

Nella prima ci si trova in un interno con l’educatrice intenta ad indicare le parole di un cartiglio alla Madonna bambina in ginocchio a mani giunte e l’espressione serena; nella seconda in un esterno vicino a una colonna, l’educatrice ha il viso aggrondato, la bambina legge tutta seria in un’atmosfera scura con squarci di luce.

La vita pubblica è rappresentata nella “Presentazione di Maria al Tempio” del Maestro di Salisburgo, del 1520, da Linz e nello “Sposalizio della Vergine” di Cebej, del 1773, dalla Slovenia. Sono molto diverse, la presentazione al tempio è una pittura su tavola dall’inquadratura molto originale, una stretta scalinata dove la bambina dai lunghi capelli sale attesa in alto da notabili e vigilata dal basso da figure attente, le due in piedi sono forse i genitori; lo sposalizio è un grande dipinto ad olio su tela, di m 2,19 x 1,30, con tre figure in primo piano, il sacerdote dietro e avanti i due sposi con la Vergine che tende la mano a Giuseppe il quale protende la sua per metterle l’anello, sopra e davanti gli angeli-putti e ai lati immagini sfumate dei presenti a una normale scena di matrimonio, che però ha il pregio di essere una rappresentazione unica, inedita.

Siamo così giunti a un momento emozionante, forse quello culminante, le icone russe sulla madre di Cristo con le loro tinte forti su fondo oro. Ne abbiamo due con la “Natività della Vergine”, una di un Atelier del Volga, seconda metà del XVI secolo, viene da Mosca, suggestiva composizione in piena armonia tra colori intensi e contrasti di figure collocate in scomparti diversi; l’altra di un Atelier della Russia centrale, fine XVIII- inizi XIX secolo, viene da Vicenza, con due baldacchini uno dorato, l’altro scuro, e delle figure al loro interno ed altre al di fuori.

Ci sono poi le icone da un Atelier russo, la bellissima “Annunciazione”, del XIX secolo, anch’essa da Vicenza, una tempera con le due figure dell’angelo e della Madonna ritte e ieratiche, nelle loro grandi aureole d’oro, con Maria che tesse. Altrettanto straordinarie quelle sulla “Vita della Vergine”, entrambe da Mosca, la prima cosiddetta “Odigitria”, XV-XVI secolo, la tipica Madonna con Bambino da icona al centro e 18 miniature ai quattro lati, intense scene di vita; la seconda, di un secolo successiva, reca al centro la “Dormizione della madre di Dio” con molte figure che ne sorreggono il corpo e angeli in volo e ai quattro lati 25 miniature colorate che ne ripercorrono la vita.

La “Dormizione” ci porta alle altre raffigurazioni della “Morte della Vergine”, la Mostra ne contiene alcune, e altre due sono riservate alla sua “Assunzione”. Ritroviamo nel bassorilievo policromo l’arte di Landshut, del 1485, da Linz, con il caratteristico mantello a riflessi dorati sulle pieghe marcate, il rilievo dà plasticità a una immagine di dolore; molto diverso per materiali e fattura il bassorilievo di St. Veit an der Glan, del 1500-10, dalla Carinzia, con le statue lignee che spiccano intorno alla Madonna sofferente. Contemporaneo il “Transito della Vergine”, della cerchia del maestro di Kaposztafalva, da Linz, policromia in legno di tiglio con la Madonna che soffre in ginocchio davanti a un leggio e vicino figure addolorate con aureola. Figure di dolore non di morte.

Le rappresentazioni più tragiche sono quelle della “Morte di Maria con annuncio e Assunzione” del Maestro bolzanino, del 1598, collezione privata altoatesina, e la “Sepoltura di Maria” di ignoto, del 1800, da Bressanone. In entrambe c’è il corpo divenuto cadavere, mentre nelle altre non veniva rappresentata la morte ma l’agonia: nella prima il corpo è sorretto tra un affollarsi colorato di gente con sullo sfondo l’Annunciazione a sinistra e l’Assunzione a destra, un’ambientazione consolatoria; nella seconda, invece, lo sfondo è nero con due squarci dai quali si affacciano gli angeli, e alcune persone e prelati reggono il corpo nell’abbandono della morte. Ma c’è subito l’“Assunzione della Vergine” di Grassi, del 1744, da Udine, a portare la Madonna nella gloria dei cieli con gli angeli che la sospingono in alto e la circondano su uno sfondo luminoso.

Si conclude con l’immagine realistica della morte anche il ciclo di incisioni di Durer, del 1504, dall’Istituto per la grafica di Roma, con la Madonna distesa senza vita sotto un baldacchino circondata dai fedeli; altre incisioni riguardano la vita di Maria, l’apparizione dell’angelo a Gioacchino e il suo incontro con Anna alla Porta Santa, lo sposalizio della Vergine e la fuga in Egitto. Sono incisioni xilografiche di grande accuratezza e precisione, degne del grande Durer.

Passione di Cristo e Resurrezione

La parte estrema della vita e della storia di Cristo è stata molto frequentata dagli Apocrifi per la drammaticità dell’evento e la concitazione delle vicende che lo hanno accompagnato. Torniamo al secondo settore della Mostra e vi troviamo una galleria di immagini.

Come inizio, i due piccoli oli su tavola di Simon de Chalors, del 1543, provenienti dalla Galleria Borghese di Roma, l’ “Ecce Homo” e “L’Addolorata”, una drammaticità pensosa e contenuta su fondo nero.

Vediamo poi due opere molto particolari che si distaccano da tutte le altre: “La discesa di Cristo nel Limbo”, di Huys, del 1547-77, da Parigi, una composizione inquietante, con un brulicare di figure concitate su più livelli tra figurazioni surreali e vampate rosse; e “La discesa agli Inferi, con ciclo della Passione” di Kostroma, fine secolo XVII, da Mosca, un’icona dal consueto fondo dorato, le storie nei sedici comparti sui bordi e nella zona centrale l’ulteriore illustrazione con immagini intense e colorate tra macchie scure da decifrare in un insieme composto e ordinato.

Dall’allucinazione e dall’enigma della discesa nel profondo, al trionfo in cielo della Resurrezione. Ci sono quattro dipinti più un quinto che chiude in bellezza questo momento di gloria cristiana.

I primi due, di Basaiti, del 1520-30, da Bergamo, e di Amalteo, del 1546, da San Vito al Tagliamento, mostrano Cristo sopra al sepolcro in due pose diverse, statico o nello slancio, con i soldati tramortiti, secondo la tradizione apocrifa non canonizzata. Gli altri due, di Fisher, del 1791, da Budapest, e di Loth, del 1687, da Firenze, lo raffigurano il primo ugualmente nello slancio che tramortisce con un grande angelo a reggere la lastra sepolcrale, il secondo librato nella gloria del cielo sopra un magma oscuro nel quale si dibattono soldati sanguinanti e atterriti, immagine quasi da girone infernale.

La migliore conclusione, come tema e livello dell’artista, si trova nel dipinto “Cristo risorto appare alla Vergine”, del 1630, da Cento, Bologna, dove lo scambio di sguardi teneri tra lui e la Madre fa dimenticare la potenza soprannaturale della Resurrezione per riportarci ai valori umani.

Ed è bello che questo sia venuto dagli Apocrifi, i quali hanno dimostrato con le opere esposte nella Mostra di non andare alla ricerca di effetti dirompenti o di storie dissacranti. Ma di voler aggiungere il loro contributo di testimonianza e memoria per una rappresentazione quanto mai devota della storia sacra.

Apocrifi nell’arte, 1. La mostra a Illegio, Udine

di  Romano Maria Levante

Le basi religiose e culturali in mostra a Illegio, nel cuore della Carnia, fino al 4 ottobre 2009

“Apocrifi. Memorie e leggende oltre i Vangeli”. Intrigante e misteriosa mostra su una materia controversa per la Chiesa. Anche perché è sostenuta dalla Conferenza Episcopale Italiana ed è organizzata dal Comitato di San Floriano, presieduto da mons. Angelo Zanello, espressione della piccola comunità cristiana di Illegio, il paese montano in provincia di Udine dove l’esposizione resterà aperta fino al 4 ottobre 2009.

Il mistero della sede si può chiarire subito, il Comitato che coinvolge studiosi friulani in Italia e all’estero, dal 2004 propone appuntamenti culturali e spirituali di respiro internazionale nel nome del Santo al quale si ispira, martire del IV secolo venerato nell’Europa centrale, soprattutto nell’alta Austria, a Cracovia e a Roma, patrono di Illegio della cui pieve è stato titolare. La Mostra del 2005, “Mysterium. L’Eucarestia nei capolavori dell’arte europea” fu ospitata a Bruxelles nei Musei Reali d’Arte e di Storia e quella del 2007, “Apocalisse. L’ultima rivelazione” nei Musei Vaticani. Il Comitato motiva la scelta di Illegio richiamandosi al Monte della Trasfigurazione e a Betlemme, il primo come sede ideale di bellezza e rivelazione, la seconda come fonte di irradiazione della fede.

L’interesse della Chiesa e il significato della Mostra

Entriamo subito nel mistero principale, quello dell’inconsueto interesse della Chiesa per un tema rimosso in passato, dimostrato dal sostegno, e non semplice avallo o patrocinio, dell’istituzione ecclesiale italiana più autorevole qual è la Cei, nonché dall’affollata presentazione, alla quale abbiamo partecipato il 23 aprile 2009, nell’artistico Palazzo Borromeo sede dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, con gli interventi del Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura Mons. Gianfranco Ravasi e del sottosegretario al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, On. Francesco Giro, oltre che di mons. Zanello e di don Geretti, parroco di Illegio curatore della Mostra.

L’inaugurazione del 24 aprile da parte del cardinale Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali e del Ministro dei Beni e Attività culturali Sandro Bondi, ha visto la partecipazione dell’ambasciatore d’Italia alla Santa Sede Zanardi Landi, del direttore generale del Ministero Cecchi e del soprintendente per il Friuli-Venezia Giulia ai beni storico-artistici Magani. Ci sono stati anche intermezzi musicali del “Gruppo ottoni della Bassa friulana” diretto dal maestro Fasso.

Da Mons. Ravasi un’interpretazione autentica, nel sottolineare il significato iniziale di “nascosto” piuttosto che quello successivo di “proibito” degli Apocrifi, collocati in un “orizzonte molto vasto che reinventa il Nuovo testamento, spesso da non essere distinguibili dai dati canonici”. E ancora: “Questo mondo che ricrea in modo fantastico il Nuovo testamento nasce dal desiderio di sapere di più delle figure amate. Hanno la caratteristica popolare che affascina l’arte: l’eccesso”. Il ministro della cultura del Vaticano va ancora oltre: “C’è nobiltà in questi testi, sono preziosissimi, importanti perché conservano frammenti storici della memoria, non solo tradizioni popolari”.

E fa una serie di esempi, sottolineando che vengono considerati soprattutto i periodi estremi della vita di Cristo: l’infanzia, anche quella della Madonna, e la Passione. Nell’infanzia si incontra “un Gesù ragazzo con potenza divina e carattere infantile, di qui prodigi eccessivi che sconcertano”. Nella Passione c’è “l’incrocio tra temi teologici e colore”, come nel Vangelo di Nicodemo, anzi fra tragedia e farsa nell’episodio di “Giuda tornato a casa dopo il tradimento, va dalla moglie che sta cucinando un gallo arrosto, le dice che teme la resurrezione del figlio di Dio, alle parole di lei ‘c’è la stessa probabilità che questo gallo canti’, il gallo arrosto cantò più di tre volte”.

Un avvertimento e un’epigrafe ideale hanno concluso l’intervento di Mons. Ravasi. L’avvertimento: “Il mondo degli apocrifi ci fa capire che la fede è passione, però attenzione alle degenerazioni. I testi degli Gnostici sono alti intellettualmente ma pericolosi, raffinati ma non popolari”.
L’epigrafe ideale: “Nel Nuovo Testamento c’è un detto di Gesù che non è nei Vangeli canonici ma è ugualmente canonico, perché si trova negli Atti degli Apostoli, cap. 20 vers. 35, è un messaggio lasciato da Paolo: ‘C’è molta più gioia nel dare che nel ricevere’”. Ci torna subito in mente il motto dannunziano “Io ho quel che ho donato”, ci sembra un altro segno dell’unione tra l’arte e la fede.

Una chiave interpretativa laica molto intensa è venuta dal sottosegretario Francesco Maria Giro che, dopo l’omaggio al popolo d’Abruzzo colpito dalla tragedia del terremoto, ha parlato della “Crocifissione come evento traumatico che impose di preservarne la memoria prima orale poi scritta, quindi va prestata molta attenzione all’uso del linguaggio per mantenere viva la tradizione. C’è il problema che mancava l’audizione di chi trasmetteva la tradizione linguistica, e anche quando arrivò la parola scritta insorse il problema interpretativo di carattere ermeneutico ed ontologico”. Giro lo precisa ulteriormente: “Il linguaggio è fondamento dell’essere, e l’ontologia – cioè l’essere nella sua coerente e profonda esistenza – diventa ermeneutica. L’essere si manifesta nel linguaggio”. Poi lo riferisce al tema della Mostra: “L’Apocrifo esprime l’atto contrario, che resta nascosto e non si rivela.

E’ nascosto perché non esprime la potenza dei testi canonici”. Perché allora gli Apocrifi hanno tanto fascino? “La discussione su Apocrifi e Gnostici è stata collegata all’impostazione che fossero testi iniziatici, motivo questo per tenerli segreti, di qui mistero e suggestione”. E sulla Mostra: “Attraverso la pratica artistica, che è sempre linguaggio, avvicina a un tema che è di filosofia, teologia, ermeneutica con uno spessore e un rilievo evidenti. Fa capire, con opere introvabili, come la sensibilità popolare risponda al collegamento tra arte, cultura e fede”. Una citazione di Heidegger a metà intervento può costituirne degno sigillo: “Solo dove c’è la parola c’è il mondo e solo dove c’è il mondo c’è la storia”. Ecco dove porta il linguaggio, molto lontano.

Nel mondo controverso degli Apocrifi

Per valutare meglio l’inedito interesse della Chiesa è bene inquadrare storicamente la questione degli Apocrifi partendo dalla constatazione che non hanno le caratteristiche negative generalmente attribuite a tale termine. Divenne dispregiativo e sinonimo di“falso” (Tertulliano) o “falsificato” (Ireneo) e almeno di “proibito”, mentre stava per “nascosto” e “segreto”, come i libri degli Gnostici (Clemente Alessandrino). Vi appartengono per esclusione tutte le storie di Cristo e della Madonna diverse dai Vangeli cosiddetti canonici, essi soltanto riconosciuti autentici.

Non si tratta dell’“ipse dixit” aristotelico moltiplicato per quattro, se mai per uno in quanto i quattro evangelisti erano portatori della storia e del Verbo di Cristo. La scelta forse fu obbligata per dare riferimenti certi codificando i principi fondamentali in un preciso canone: canone “della verità”, “della fede”, “della Chiesa”, in cui rientrano, appunto, i Vangeli canonici

Scrive Luigi Moraldi, il più noto studioso degli Apocrifi del Nuovo Testamento: “Dei Vangeli canonici si suole dire che sono talmente profondi che a volte ci inducono a dimenticare che sono anche ‘storia’. Di questi Vangeli ‘apocrifi’ possiamo dire che sono realistici, graziosi, attraenti e naturali, ma nel leggerli non si può dimenticare che sono pieni di dottrina e che la prima predicazione cristiana era di certo più vicina a questi vangeli che non alle quattro sintesi dei vangeli canonici”. Tra i quali c’è la netta differenza fra i tre “sinottici” e quello più teologico di Giovanni.

In realtà non c’è solo la distinzione, quasi una dicotomia, tra Canonici e Apocrifi, vi sono anche i libri “deuterocanonici”, contestati ma anche accolti da molti e, tra gli Apocrifi, gli “adulterati” che circolano nelle chiese data l’ortodossia del loro contenuto, ma non possono essere utilizzati nelle cerimonie liturgiche, e i libri di carattere “eretico” per il contenuto dissonante dai canonici ai quali vengono contrapposti.

Questa distinzione, che risale ad Eusebio di Cesarea si ritrova nel cosiddetto “Frammento dei , Muratori” (anno 200), mentre Agostino non fa classificazioni ma dice esplicitamente che “un diligente studioso della Sacra Scrittura sarà colui che l’avrà letta per intero e l’avrà conosciuta… almeno attraverso la lettura sia pure soltanto dei libri cosiddetti canonici, giacché gli altri li leggerà con più sicuro metodo, quando, in fatto di dottrina, si sarà munito di fede vera, affinché essi non creino preconcetti nella sua ancor debole mente”. Per la scelta dei testi detta il criterio elementare di preferire i libri accettati da tutte le chiese rispetto a quelli accettati solo da alcune, e tra i libri che non tutti accettano preferire quelli “che hanno il gradimento del maggior numero di chiese autorevoli a quelli che hanno il gradimento di un minor numero di chiese se queste sono meno autorevoli”, mentre se dei libri sono graditi “al maggior numero di chiese e non a quelle autorevoli penso che tutti quei libri debbano ritenersi di uguale autorità”.

Non ci si è limitati alle enunciazioni di carattere generale come quelle sopra citate, sono state fatte delle vere e proprie liste di proscrizione, una sorta di “Indice” ante litteram con tanto di nome dei testi proibiti. Comincia papa Innocenzo I che in una lettera di “consigli” (“Consulenti tibi”) afferma (anno 405): “Tutti gli altri scritti che vanno sotto il nome di Mattia e di Giacomo il Minore, sotto il nome di Pietro e di Giovanni (scritti da un certo Leucio), sotto il nome di Andrea (scritto dai filosofi Xenocaride e Leonida) od ancora sotto il nome di Tomaso e tutti gli altri scritti che ci sono, non soltanto si devono ripudiare, ma sappi che devono essere condannati”.

Dopo 75 anni tornano questi stessi nomi negli scritti di Turribio di Astorga contro i manichei (anno 480) e trascorsi altri 16 anni si ha l’elenco più completo dell’epoca nel cosiddetto “Decreto Gelasiano” (anno 496) riferito al papa Gelasio ma sulla cui autenticità ci sono forti dubbi. Le opere “che i cattolici devono evitare” sono 60, indicate nei titoli e nomi, numero uguale a quello delle opere elencate in diversi Manoscritti del VII secolo nella “Lista dei sessanta libri canonici”.

Passano tre secoli e abbiamo il “triplice elenco di Niceforo patriarca di Costantinopoli (anni 806-818) dei libri canonici, non ‘canonizzati’ e discussi, e dei libri Apocrifi”: quelli non canonizzati sono soltanto 4 e gli Apocrifi del Nuovo Testamento solo 8, gli altri pur esistenti non figurano.

E’ evidente il motivo della moltiplicazione degli Apocrifi. Nel periodo più antico coesistevano con quelli poi divenuti Canonici perché adottati dalla Chiesa, e sviluppavano aspetti fantastici e straordinari del divino senza distaccarsi dalle narrazioni correnti negli aspetti fondamentali. Quando lo facevano, ed è il caso degli Gnostici, ciò dipendeva dalla volontà di far aderire il cristianesimo alle istanze e caratteristiche di quei territori spesso lontani.

Gli sviluppi successivi dipesero dalla volontà di tramandare le storie di Cristo e del Nuovo Testamento con una passione che portava a calcare le tinte della divinità esagerandone le manifestazioni. I varchi lasciati dalla laconicità ed essenzialità dei Vangeli canonici offrivano lo spunto per riempire i vuoti sia per la vita di Cristo, soprattutto l’infanzia e la Passione, sia per quella della Madonna, San Giuseppe e Sant’Anna, temi sui quali gli Apocrifi si esercitarono sempre più.

La forma utilizzata spesso era dedotta dalle fonti canoniche, per i Vangeli apocrifi ci si ispirava a quelli sinottici. In altri casi si seguiva lo schema di riportare le parole di Cristo tornato tra gli apostoli dopo la Resurrezione attraverso domande e risposte per chiarire i misteri, con una sottolineatura del sacro e divino rispetto al terreno e all’umano. Un’ulteriore forma era l’enfatizzazione di alcuni aspetti della vita di Cristo con particolari presi dalla tradizione o leggendari. Normalmente erano le tradizioni locali a dare l’impronta alla narrazione.

Moraldi scrive: “Esisteva una diversità di tradizioni orali, di situazioni e di esigenze che, più o meno felicemente e problematicamente, riuscivano dialetticamente a convivere e a comporsi. Queste diversità comportavano spontaneamente diverse presentazioni del vangelo, di atti apostolici, di lettere apostoliche, di apocalissi, ecc., corrispondenti alle tradizioni, al modo di vivere e di pensare della comunità. Non era, ad esempio, uguale la relazione tra Cristo e mondo redento, per il fatto che i termini erano considerati con prospettive diverse.

Comportarono anche una certa varietà di espressioni della fede, della dottrina e della vita comunitaria che inizialmente non erano affatto considerate come separatrici dalla Chiesa”. Ed ecco le inevitabili conseguenze: “Ma a mano a mano che si stringevano di più i vincoli dell’unità e che si imponevano i libri canonici, la letteratura apocrifa venne marginalizzata e diventò, coscientemente o meno, sempre più tendenziosa”. Così conclude: “Molti cristiani conoscevano il Vangelo solo sotto quella forma che noi oggi chiamiamo apocrifa e non v’è dubbio che le opere più antiche furono scritte da persone che erano in perfetta buona fede”.

Questo viatico di uno dei maggiori esperti in materia – autore di molti volumi sugli Apocrifi, con particolare riguardo ai testi Gnostici, i più “proibiti” – ci riporta alla benevola interpretazione attuale di Mons. Ravasi. Se la paragoniamo agli anatemi papali che abbiamo prima riportato, ci accorgiamo che anche in questo campo la Chiesa ha dato prova della capacità di ammettere i propri errori del passato. Con la Mostra lo ha fatto in modo eclatante, e bisogna dargliene atto.

I temi della Mostra

Siamo ora attrezzati culturalmente per cogliere i contenuti della Mostra non limitandoci alla bellezza estetica ma penetrandone i significati che nascono da una vicenda così antica e controversa.

La prima constatazione riguarda le immagini rappresentate: ci sono le storie di Cristo che partono dalla nascita fino alla fuga in Egitto e poi saltano alla Passione, morte e Resurrezione; quelle della Madonna che trattano della sua nascita e della sua educazione; le vicende della figura di Giuseppe, trascurata dall’iconografia rituale; anche Sant’Anna è al centro di opere di grandi autori.

Rispetto alle storie narrate dai testi si nota l’omissione di quelle sull’infanzia di Gesù, le più problematiche, come si è detto, per i poteri divini esercitati in modo paradossale quasi per gioco, ed altre molto delicate sulla Sacra Famiglia, con i presunti fratelli di Cristo, la Maddalena, eccetera.

I più grandi, tra gli artisti rappresentati, sono il Guercino e Durer, il Tintoretto e Andrea del Sarto, poi Pozzo e Amalteo e gli anonimi delle preziose icone russe e bizantine.

Il curatore della Mostra don Alessio Geretti, alla Presentazione a Roma ha detto che molti temi trattati nelle opere esposte sembrerebbero canonici, tanto sono entrati nelle tradizioni e nei riti della cristianità.

Sono della natività, la nascita nella grotta con il bue e l’asinello e l’adorazione dei Magi, immagini non contenute nei Vangeli e tratte dagli Apocrifi; così per la fuga in Egitto con le palme e i frutti. E le scene della Croce, con il Padre che offre il Figlio in sacrificio; nella Resurrezione la chiusura del sepolcro, l’uscita di Cristo che tramortisce i soldati di guardia, il sepolcro scoperchiato sono anch’esse di ispirazione apocrifa. Nelle storie di Maria troviamo la nascita, la presentazione al tempio e la morte, poco sull’infanzia, tema prediletto dagli Apocrifi; c’è l’apparizione di Gesù alla Madre, poi lei che indica il Figlio come fonte di salvezza e ricorda la Madonna di Czestochowa, tutte di ispirazione apocrifa, ma l’apparizione ebbe il riconoscimento di papa Giovanni Paolo II. Nel gruppo di Sant’Anna vi sono alcune opere preziose, le uniche sul tema in Occidente. Don Geretti ha concluso con la rivelazione di un enigma e la confessione di un Apocrifo.

L’enigma riguarda il dipinto più famoso, che ora non è più in mostra essendo stato dato in prestito temporaneo solo per un mese dalla galleria Doria Pamphili di Roma: “Il riposo nella Fuga in Egitto” di Caravaggio, del 1596-97, un olio su tela di grandi dimensioni, dove nel buio dell’aperta campagna la luce si posa a destra sulla Madonna che, stremata dalla stanchezza, dorme seduta stringendo il Bambino e al centro sulla figura di una giovane donna con il corpo seminudo avvolto in parte da un velo, mentre a sinistra nella semioscurità c’è San Giuseppe con in mano uno spartito che mostra alla donna e a chi guarda il quadro. Ecco cosa ha detto al riguardo don Geretti: “Caravaggio rivolge a noi lo spartito perché lo possiamo leggere, c’è la chiave di lettura del Cantico dei Cantici”. E ha fatto balenare la soluzione dell’enigma parlando del rapporto tra vita attiva, contemplativa ed artistica, questa “intermedia tra le prime due e premessa per la vita spirituale”.

L’apocrifo riguarda la scelta di un piccolo, lontano paese per una mostra così importante. Ci si deve andare appositamente lasciando la vita caotica, quindi “ci si prepara psicologicamente in una sorta di purificazione”, favorita dalla trasparenza dell’aria di montagna e dei suoi orizzonti. “Illegio va considerata sede apocrifa rispetto alle sedi canoniche”, ha detto. Che anche da altri apocrifi, ormai sdoganati, come quelli che hanno ispirato le opere esposte, possa venire la stessa purificazione?

Una risposta si può trovare in queste altre parole di don Geretti, un secondo enigma: “Gli apocrifi dicono ma anche tacciono, l’arte ha cercato di tradurre i testi compatibili con la Chiesa cattolica”.
E’ venuto ora il momento della visita alle settantacinque opere esposte, e speriamo di aver creato l’attesa che meritano; ne renderemo conto in dettaglio molto presto, per coloro che non hanno la fortuna di potersi purificare, come ha detto don Geretti, anche per una sola giornata, all’aria tersa e trasparente della Carnia.

De Chirico, Rosai e Campigli, De pisis e Caporossi, Baj e Fontana, a Teramo

di Romano Maria Levante

– 23 settembre 2009

“Tra figura e segno”, una cavalcata nel Novecento pittorico nella mostra allestita presso la Pinacoteca Civica dal 1 al 27 settembre 2009

Il Novecento, con il suo tumultuoso sviluppo scientifico e tecnologico senza eguali rispetto al passato, non poteva non avere un forte impatto su tanti altri aspetti della vita e della cultura. Se poi si aggiungono le due guerre mondiali che hanno sconvolto l’Europa nella prima metà del secolo, si può comprendere appieno come tutto sia stato rimesso in discussione, comprese le concezioni filosofiche e artistiche.

La rivoluzione pittorica del Novecento

Non considerando le opere ispirate direttamente dalla rivoluzione scientifica e dalle vicende belliche, nell’arte ha fatto irruzione l’interpretazione della realtà nelle sue innumerevoli forme in continuo divenire come le scoperte e le conoscenze, le innovazioni e in definitiva il progresso.
Gli artisti non vanno più alla ricerca della bellezza nelle forme in senso classico, ma seguono un percorso ben più complesso e personale. La realtà viene ricercata e rappresentata non solo per come è – in una molteplicità di manifestazioni di per sé notevole – ma per come potrebbe essere nell’immaginazione mentale e nel trasporto onirico: la realtà pensata e la realtà sognata che perde, quindi, ogni fattezza figurativa per assumere un aspetto indefinibile e spesso indecifrabile.

Ma non basta, c’è la realtà come contenitore dell’interiorità dell’artista e proiezione dei propri pensieri in un contesto enigmatico e misterioso dove il figurativo è soltanto apparente.
Sulla tela, in definitiva, non si va più alla ricerca della bellezza in astratto e neppure in concreto; e nemmeno della realtà nella sua evidenza visiva, ma nella sua rielaborazione mentale per cui diventa un campo di battaglia nel quale non appaiono soltanto le trasfigurazioni cromatiche e grafiche di pensieri spesso imperscrutabili, ma persino lacerazioni o buchi, affollamenti o assenza di segni.

In questo modo si consuma il passaggio dalla raffigurazione del mondo reale, idealizzato o meno nella bellezza, all’immagine pensata, dalla figurazione all’astrazione, dalla figura al segno.
Ed è proprio “tra figura e segno” il passaggio scandito dalla mostra presso la Pinacoteca Civica di Teramo dal 1° al 27 settembre, con il titolo principale “Da de Chirico a Fontana”: una cavalcata che prende l’avvio dalla pittura metafisica di de Chirico degli inizi del secolo, per spaziare dal cubismo al futurismo, dall’astrattismo fino allo spazialismo di Fontana, un approdo prestigioso come l’avvio.

Manuela Valleriani, come per la mostra sul Futurismo a Giulianova, ha fatto da apripista, con il suo bel servizio sull’apertura della mostra, nel quale dà conto degli Enti promotori e delle dichiarazioni delle autorità, dal Sindaco Brucchi alla Di Felice, Direttore dei musei civici di Teramo, al curatore Alberton; e ne delinea i contorni, con un “excursus” sul Novecento, dal figurativo all’astrattismo.
Antonella Gaita ha poi fornito altre informazioni utili e una carrellata visiva, dando uno scorcio indicativo, pur se necessariamente parziale, di quanto il visitatore potrà troverà nell’esposizione.
Da parte nostra, come di consueto, il racconto di una visita che ci ha soddisfatto molto andando oltre ogni aspettativa: come appare sobria la presentazione e la promozione così risulta notevole la resa spettacolare e didattica. Perché si gode della vista di opere importanti di pittori celebri e si impara; si è portati a capire ciò che prima appariva incomprensibile, la scomparsa della figura sostituita dal segno.

Non solo si comprende questo passaggio, ma lo si segue in un percorso accidentato come lo è stato il Novecento, reso trasparente dalle schede dedicate ad ogni artista che ne illustrano la biografia e ne illuminano la cifra stilistica e l’orientamento pittorico, come la stessa Valleriani ha giustamente sottolineato perché sono un aspetto rimarchevole della mostra.

Sincero encomio al curatore Roberto Alberton, che abbiamo incontrato all’inizio, prima di visitarla, e non abbiamo trovato la domenica alla nostra seconda visita, gli avremmo manifestato a voce l’apprezzamento; valeva la pena tornarci per un bis come quando si sente il bisogno di rivedere un film per approfondire passaggi sfuggiti alla visione iniziale per seguire la trama. C’è una trama in questa rassegna, il merito è aver offerto il filo di Ariana per orientarsi nel labirinto del Novecento, definito una “torre di Babele” di stili e di linguaggi, ma non poteva essere altrimenti.

Alberton ci ha dato anche una chiave di lettura permanente, una sorta di “passepartout” nel decifrare le tre opere – un Polittico e due dipinti – poste all’ingresso, quasi vigilate dalle nere sculture del “Fauno” di Pagliaccetti e della “Pantera” di Crocetti collocate a presidio virtuale della bella Pinacoteca Civica all’inizio del viale Bovio all’angolo di Piazza Garibaldi, dov’è la Villa comunale.

L’opera del Maestro dei Polittici Crivelleschi della prima metà del XV secolo, con San Bonaventura e San Sebastiano, nella sua iniziale ricerca di prospettiva, nella “scansione spaziale” degli aggetti delle colonne lignee e nel suo “guardare dentro”, si proietta idealmente nelle multidimensionali “Tessitrici” di Campigli, quasi un polittico profano, fino alla “Ricerca spaziale” di Fontana, dove la materia viene lacerata “per lasciare il posto allo spazio”, divenuto protagonista assoluto.

Un percorso lungo come la storia dell’arte, dopo che Giotto forzò l’immobilità ieratica bizantina immersa nell’adorazione del divino per calarsi sulla terra attraverso la prospettiva, realizzata con lo spazio più colore e luce, penetrando in una realtà fatta di sentimenti e di sofferenza, insomma di vita quotidiana che rendendolo più umano avvicinava il sacro alla gente comune.

Dalle tante varianti sul tema della realtà, dal ritratto all’ambiente e al paesaggio, dalla scomposizione della luce e del colore degli impressionisti e dei divisionisti il salto nella Babele del ‘900, una fucina di ricerca e sperimentazione, un crocevia di stili e di movimenti nei quali, dice Alberton, “la problematica dello spazio va avanti, ognuno la interpreta a suo modo fino a Fontana che la porta alle estreme conseguenze facendone l’elemento portante del quadro”.

Entriamo, dunque, in questa Babele, teniamo stretta la chiave che ci ha dato il curatore, il filo di Arianna ci accompagnerà nell’itinerario della mostra, guidato dalle schede degli Autori ordinati nelle belle sale sovrapposte, dove si accede per le moderne scalette di spesso cristallo.

Da Baj a Giò Pomodoro

L’ingresso è morbido, sono le cravatte di Baj e alcuni suoi disegni accattivanti posti in un vetro trasparente al centro della sala, molto “humor” nella ricerca di stupire e divertire. Così preparati non ci sorprendono gli “spiritelli” spiraliformi, con grossa testa e collo filiforme, una sorta di ET “ante litteram”, che Carlo Rambaldi non si sia ispirato a loro piuttosto che al gatto di casa come ebbe a dire? Ma non rimangono tali, assumono forme a fungo e a ombrello, a sfera peduncolata e testa quadrangolare anche su lego e collage, insomma una mutazione onirica; fino all’approdo alla dignità farsesca di generali e ammiragli con il petto coperto di decorazioni.

Dino Buzzati immagina, in un pagina molto divertente, che per placare l’inquietudine di mutanti insoddisfatti degli “spiritelli”, l’unico modo fu promuoverli a “comandanti, generali, ammiragli” con gli onori grotteschi del caso: “Li vestì di tutto punto con damaschi e broccati, li coprì di nastrini di guerra, di medaglie, di stelle, di scintillanti patacche, di spettacolose mostrine, pendagli, cordoni d’oro e d’argento, sontuose spalline, bandoliere, cartucce, collare, aquile, e così vennero al mondo i generali famosi”.

Nella mostra ci sono tre “Personaggi”, due del 1956-57, con il testone e il collo filiforme, uno in collage del 1974, un “Semaforo animato”, “personaggio” anch’esso così chiamato per il colore e forse in senso satirico; e finalmente il “Generale”, che è del 1980, quindi ha subito mutazioni che lo allontanano dal modello del collo filiforme, pur avendo le decorazioni. Molto diverso il “Minotauro”, ricorda Picasso di “Guernica”, un carboncino le cui fattezze si trovano nel disegno quasi cubista del “Generale” posto nel vetro centrale.

Diversissimi i vicini Besozzi, Crippa e Birolli, rappresentati da due opere ciascuno. Del primo .non abbiamo le “trasparenze lacustri” nei caratteristici collage notati da Baj, bensì due oli su tela del 1962-65 il primo dei quali, “Ramificazione”, è una composizione di forme a uovo in varie posizioni. Colorata sul rosso la “Macchina agricola” di Birolli, mentre il “Senza titolo”, del 1955 come il primo, unisce molto verde, quasi che la macchina agricola sia scesa ad operare nella campagna; c’è qualcosa di Matisse e Picasso, che conobbe a Parigi ed ebbero influenza su di lui. Il verde scuro brillante trionfa nelle due opere di Crippa, pilota abile e appassionato che morì in un volo acrobatico, nelle “Spirali” espresse questa sua passione per il volo: gli “Elefantini” sono sovrastati da qualcosa che vola, sembra un’auto, mentre gli “Insetti” sembrano pervasi dal movimento necessariamente aereo.

Non c’è solo Baj dei celebri, c’è anche Giò Pomodoro, la cui vita artistica ha uno stretto sodalizio con il fratello Arnaldo, lo scultore delle grandi sfere della Terra della Farnesina a Roma e dell’Onu a New York, scultore egli stesso che lascia spazi vuoti per far irrompere la luce solare. “Sole”, infatti, si intitola la principale opera esposta, una tempera del 1956 con un cerchio intersecato da segni e figure su una sorta di cartiglio d’epoca di foggia leonardesca. Il sole, soggetto attivo, “non semplice riflesso sulla superficie, ma elemento cardine della vita umana” non figura invece nelle altre tre opere esposte, dello stesso periodo, “Senza titolo”: di colorazione diversa, dal verdino al bianco-rosso, all’azzurro-nero sembra una ricerca di ricomposizione: l’intrico di rami si dissolve nel big bang del secondo fino a trovare delle forme scure su un azzurro cielo oppure l’inverso, chissà.

Da Sironi a Rosai

A fare da anticamera alla sala con Sironi e Rosai ci sono cinque bei dipinti di Guidi, che prese parte alle due mostre sul “Novecento italiano” nel 1926 e 1929, fu nel gruppo di “Valori Plastici”, espose con de Chirico e Carrà, Morandi e Soffici; non solo, ma aderì allo “spazialismo” di Fontana e firmò due “Manifesti dell’Arte Spaziale”. Il colore e la forma insieme alla luce – diventerà “luce spaziale” – sono nella sua pittura, che risente del cromatismo di Renoir e Cezanne. Le due “Angosce”, del 1950-55, esprimono questo cromatismo luminoso con bianco e celeste che si muovono paralleli, colori più scuri in “Testa di donna” del 1950 e “Paesaggio” del 1960, verdi delicati nella “Marina” del 1950.

Due quadri di Cassinari ci portano nel cromatismo opposto, cupo e violento, tali sono i verdi di “Estate” e i blu di “Composizione”. Anche lui fu parte attiva di movimenti, si orientò verso un astrattismo impressionistico che troviamo nelle due opere esposte, fino ad avvicinarsi al cubismo.
Vi approdò Meloni, almeno nelle due opere esposte del 1950, “Il bue” e “L’uomo che dorme”, con dei richiami a Picasso. Venti anni dopo tornerà al figurativo inframmezzato negli inserti di collage.
In pieno figurativo troviamo Marussig, dopo un percorso tra l’impressionismo e l’espressionismo che lasciò i segni nella sua pittura. Fu tra i fondatori del gruppo “Novecento” – con Sironi cui si aggiunsero Carrà e Campigli – che perseguiva una classicità moderna imperniata sulla plasticità delle forme e l’interesse alla vita borghese, a paesaggi e ritratti femminili: proprio le opere esposte, “Paesaggio”, con una strada di campagna, una casetta e un monte sullo sfondo, e “Corsetto rosso”, una donna seduta con un libro aperto che guarda lontano, ripensa alla vicenda che ha letto.

Paesaggi e ancora paesaggi nei quattro dipinti di Lilloni, di un cromatismo luminoso che colora di verdi e celesti tenui un figurativo delicato. Del resto aveva dato vita al gruppo dei “chiaristi”, con la pittura a fondo chiaro, anche se preferiva definirsi “naturalista” per la sua visione intimista della realtà. Da “Sponda del Lario” del 1949 a “Montegeneroso” del 1969 non si avvertono mutamenti, e così in “Torrente a Brivio”, mentre l’elemento umano appariva nell’altrettanto figurativo “Seminatori di grano” del 1933.

In netta contrapposizione a questo cromatismo delicato il segno forte e la violenza cromatica della pennellata di Maccari, di cui è esposto “Donne” del 1945, cinque visi marcati in un magma oscuro.
Di tutt’altra natura i tre dipinti di Sironi, l’artista dalle molte vite che ricordiamo nella pittura celebrativa, in particolare del lavoro, utilizzata dal regime fascista fino a formulare un’estetica basata su forme geometriche e plasticismo in opere monumentali anche murali; abbiamo pure la sua produzione cartellonistica pubblicitaria legata al Futurismo e una pittura intima e personale, che abbiamo commentato a suo tempo parlando della mostra presso la Fondazione Crocetti a Roma, portata anche nella sala “Carino Gambacorta” della Banca di Teramo. Sironi nel gruppo “Novecento” fu fautore di un ritorno all’antico con il recupero del classicismo. Qui vediamo esposta la bella tempera “Bersaglieri”, ben marcata e dinamica, baionette e penne al vento; e due “Composizioni” su carta che si stendono in orizzontale, quasi fregi ornamentali.

E finalmente siamo ad Ottone Rosai, con quattro opere. E’ uno dei grandi, ha attraversato futurismo, cubismo e metafisica per approdare, soprattutto negli ultimissimi anni ai quali si riferiscono i quadri esposti, ad una visione diretta della realtà, che aveva perseguito anche nella corrente del “Purismo”, orientata al recupero della vita quotidiana avendo in primo piano gli “omini” e le osterie, le viuzze e le casette rispetto all’energia futurista da tempo abbandonata. Da “La Villa” del 1946 a “Paesaggio” del 1956 c’è un’evoluzione nella chiarezza dei colori liberati dai toni cupi; negli altri due dipinti, “Carabinieri” del 1956 e “Cupolone con Campanile” del 1957, l’anno della morte, la nitidezza dei colori e delle linee diventa ancora più evidente, si riposa la vista.

Usciamo da questa sala molto espressiva di correnti e orientamenti stilistici, si è sentito il fervore culturale del Novecento fatto di salti in avanti e di ritorni, una fucina d’arte e di pensiero, tra futurismo ed espressionismo fino all’approdo neofigurativo di Rosai. La sala che ci attende ci riporta subito alle astrazioni più estreme, in un otto volante di emozioni e di sensazioni.

Da Scanavino a Caporossi

Il primo dipinto che vediamo è di Scanavino, “Prima luce” del 1954, la forma si è dissolta: sono linee sottili quasi a definire una planimetria; punto di arrivo dopo un inizio figurativo influenzato anche da Van Gogh e dopo esperienze postcubiste. Nel 1951 c’è stato anche un soggiorno a Londra dove è colpito dalle esperienze pittoriche di Bacon e Matta, Sutherland e Martin, l’anno successivo l’incontro con Baj e Crippa. Il segno perde ogni contatto con la realtà, diviene simbolo, siamo alla “realtà pensata”; il “nodo stilizzato” diventa la sua cifra stilistica, e lo si vede nell’opera esposta, il groviglio di linee esprime l’angoscia esistenziale dell’uomo.

I due “Senza titolo” di Tancredi Parmeggiani e Corpora più diversi non potrebbero essere. Il primo è un colorato addensarsi di piccole sagome uguali allineate come fossero in una scatola di gomitoli, frutto della sua concezione “spazialista”: è un moltiplicarsi di piccole forme ripetute come avviene, in grandi dimensioni e in forma umana per le quattro “Tessitrici” di Campigli. L’assenza di titolo ci lascia libero campo per esplorarne il pensiero, potrebbe non essere estranea la televisione, che per lui è “un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti”.
Non proviamo neppure a fare delle ipotesi per il dipinto del 1957 non titolato di Corpora, una macchia di un verde intenso con qualche balugine dove si potrebbe vedere tutto e il contrario di tutto. D’altra parte l’autore ha battagliato contro il gruppo “Novecento” orientato al recupero dei classici, per un “Fronte nuovo delle arti” e poi per il “Gruppo degli Otto” della corrente “astratto-concreta”, di cui il critico Lionello Venturi diceva “Non sono e non vogliono essere degli astrattisti, essi non sono e non vogliono essere dei realisti: si propongono di uscire da questa antinomia che minaccia di trasformare l’astrazione in un rinnovato manierismo”. Un artista nel guado, dunque.

Nigro invece si schiera apertamente nel movimento “Arte concreta”, che rifugge da simbolismi e astrazioni per proiettare le intuizioni dell’artista in immagini che mirano a cogliere, come teorizzò Dorfles nel 1949, “quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori”. Così abbiamo le “griglie” verdi che troviamo anche in una delle due “Composizioni” del 1955-56 esposte, l’altra è una sorta di carta geografica tormentata. In seguito semplificherà ancora di più la ricerca degli spazi, passerà a un nuovo ciclo denominato “Tempo totale”.

Essenziale appare Turcato, che segue il percorso di Corpora tra i movimenti di rottura rispetto al passato. Nelle due “Senza Titolo”, con tecnica mista e collage, delinea nella prima una superficie ininterrotta con qualche ombra vagante, nella seconda una sezione a foglia d’acero percorsa da reticoli che non la privano della sua forma e struttura. Ma con “Superficie lunare”, un magma verde con macchie rosse vulcaniche, del 1969, che fa parte di una serie, supererà l’informale dopo uno studio originale che lo porterà alla rielaborazione della forma-colore.

I puntini rossi di Turcato esplodono nelle “Composizioni” di Veronesi, siano ellissi che si intersecano, come quella del 1953, o cerchi solari inscritti l’uno nell’altro su un cielo di diverse tonalità rosse, o infine la “Costruzione in rosso”, figure e linee geometriche con la costante del colore squillante, queste due ultime del 1974. Nasce figurativo ma presto passa all’astrattismo anche come tecnica fotografica e cinematografica, le sue eleganti geometrie vengono da Kandinskij. Rosso è anche il “Senza titolo” di Milani, del 1963, un colore con delle macchie che lo rendono indefinito, a fare da sfondo plastico per un artista soprattutto scultore.

Ed eccoci approdati a Caporossi, un “unicum” forse nel Novecento, anche lui inizia come figurativo e solo nel dopoguerra, era nato nel 1900, lo abbandona per l’astratto, “il mestiere per la fantasia” scrisse il critico Seuphor, ma per poco. Prendendo lo spunto da una composizione cubista, per sottrazione arriva a un segno semplificato così definito dallo stesso critico: “Questo artiglio, questa mano, questo tridente, questa forca, è già uno stile… non dipinge altro che questa medesima sillaba, questo medesimo segno sommario che non vuol dire nulla, non vuol significare nulla, ma che è quello che è”. Sarà chiamato anche “fonema, “modulo espressivo”, fatto si è che viene ripreso infinitamente con il suo sapore arcaico e misterioso. Ovviamente lo si ritrova, diversamente declinato, nei due dipinti esposti, “Composizione” e “Senza titolo”, del 1955.

Da Campigli a de Pisis

Siamo arrivati al “clou” della mostra. In una delle due sale superiori, quella sopra Sironi e Rosai, troviamo due dipinti di Campigli e cinque di de Pisis. Fronteggiati da ben otto de Chirico.
Paradossalmente tutto si fa più chiaro, la Babele pittorica viene decifrata sempre meglio, l’apprendimento nel percorso del Novecento dà i suoi frutti in questa sezione spettacolare.
Campigli è divenuto familiare dall’inizio, le “Tessitrici” del 1958 all’ingresso ci sono apparse figure composte, inserite nello spazio come in un polittico profano, abbiamo detto. Così non sono una sorpresa “Le Bagnanti” del 1953 e la “Figura femminile” del 1955: forme arcaiche, prese dall’arte etrusca che scoprì nel 1928 al Museo di Valle Giulia e furono per lui una rivelazione; di lì vennero le donne “a clessidra” o “ad anfora”, di lì la sua pittura arida con colori spenti ocra o terracotta; di lì la ricerca di segni-simbolo spesso geometrici che costituiscono il suo alfabeto in una dimensione sospesa, atemporale.

Ed ora de Pisis, dopo tanta fuga nell’indistinto, nel codice dei segni o nell’antico, riporta alla realtà naturale nei suoi colori e nelle sue linee portanti, anche se le forme vengono lasciate fluttuare. Ci giunge con un percorso non solo pittorico, ma letterario e poetico, che gli ha fatto attraversare la metafisica e, con l’influsso di de Chirico, lo ha portato ad approfondire i classici, da Rubens a Guercino fino alle nature morte del seicento napoletano. La residenza stabile parigina fa immettere in queste esperienze e influssi pittorici la ventata dell’impressionismo che scioglie i volumi nel colore e nella pennellata rapida e luminosa. Il suo segno diventa evanescente ma ben delineato, come evocato, lontano dal classicismo ma anche dall’astrattismo; la realtà è nei suoi colori e soprattutto nel suo clima, fatto di sensazioni e di emozioni, in definitiva di poesia. Così, nelle belle opere esposte, “Natura morta” del 1933 e “Hommage à Morandi” del 1937’, la seconda con le caratteristiche bottiglie dell’artista omaggiato, colori tenui, pastello, forme fluttuanti; ancora di più in “Parigi” del 1937 e nei due “Fiori” dello stesso anno e del 1939, straordinari esempi di come il pensiero e il sogno possano trasferirsi nella tela senza perdere i contorni della realtà ma facendoli fluttuare sulla spinta del sentimento che il pennello riesce a rendere come in una magia.

De Chirico

L’approdo a de Chirico non poteva essere più trionfale. Gli otto dipinti sono espressivi di tre suoi motivi caratteristici: i cavalli, la mitologia, i gladiatori e la metafisica in senso stretto.

Dei primi abbiamo “Cavalli in riva al mare”: due destrieri, il primo dei quali imbizzarrito con la testa rivolta all’indietro, ci sembra di potervi vedere un “d’aprés” del “Cavallo selvaggio spaventato che emerge dall’acqua” di Delacroix, 1828, già ripetuto in un disegno a carboncino su carta del 1952. Troviamo la stessa ambientazione di colore verde cupo nella “Vita silente”, anch’esso esposto, una sorta di natura morta all’aperto fatta di grossi grappoli e un frutto spaccato a metà, con un rudere sullo sfondo. Anche l’altro dipinto, “Cavalli con cavaliere”, ricorda le criniere al vento del pittore francese e, per certi versi, il “Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro” dello stesso de Chirico ispirato al “Cavallo pomellato” di Géricault.

Anche nelle pitture mitologiche si potrebbero trovare le assonanze che declinava esplicitamente nei suoi “d’aprés”, indicando o meno nella firma il riferimento ispiratore a seconda del grado di derivazione. Vi era, comunque, pur sempre il suo segno caratteristico, anche nei motivi per i quali si rifaceva espressamente ai classici. Ed ecco “Ippocrate che rifiuta i doni” del 1960, ed “Esculabio proctologo” del 1950-55, in un ambiente scuro con rossi mantelli e il tempietto sullo sfondo.
“I Gladiatori (La Lutte)” è un dipinto espressivo del tema divenuto costante proprio dal 1927-29 (l’opera esposta è degli inizi, datata 1929), e declinato in varie forme, in grovigli affollati – come nel “Combattimento di gladiatori” del 1969 allorché lo riprende – e in composizioni semplici di ambiente metafisico. Qui siamo nella composizione semplice, il “Combattimento” di quarant’anni dopo riprenderà la visione di spalle della lotta, ma quello del 1929 ha corpi michelangioleschi in primo piano.

Entriamo infine nella metafisica, al confine con la “Neometafisica”, così viene chiamato il suo ritorno alla metafisica dall’inizio degli anni ’60. insieme alla produzione barocca e classicheggiante. Abbiamo due opere rappresentative dei due filoni, la piazza metafisica e il manichino.

“Piazza d’Italia” del 1956 è molto suggestivo, oltre che espressivo di questo filone portante della sua arte, gli alti porticati a destra e a sinistra, l’edificio cilindrico sullo sfondo, lontane colline, si intravede anche il classico treno con vapore, il monumento al centro della piazza e l’ombra netta che si staglia in primo piano in un ambiente dove le due figurette umane accentuano il deserto e la solitudine. C’è “un’impalpabile interiorità” che si proietta su un ambiente, si invera nelle cose ma ne è nascosta, di qui l’enigma e il mistero. E le cose che creano l’ambiente sono tanto più nette e precise, quanto più appaiono impenetrabili e impraticabili, quasi fosse un teatro dove mancano gli attori. “Teatro ma non teatrale”, tanto è il rigore e l’ordine, “maestoso silenzio, scenari di realtà e finzione – si legge – specchi di realtà finta e di finzione reale” che esprimono sentimenti: la malinconia di una strada deserta o l’angoscia di una partenza.

L’altro dipinto esposto, “Le Maschere” del 1960, rappresenta il tipico motivo metafisico, i manichini, questa volta in una resa originale: due teste in primo piano, la prima a foggia di armatura, una squadra e sullo sfondo una finestra che si apre su alti edifici metafisici. “Il manichino – scriveva l’artista che ci ha lasciato libri e saggi con le sue concezioni dell’arte – è un oggetto che possiede a un dipresso l’aspetto dell’uomo, ma senza il lato movimento e vita”; così come abbiamo visto che le sue piazze, pur figurative per tanti aspetti, non intendono rappresentare la realtà, vuote come sono anch’esse di vita, ma quasi stanze di un interno nel quale si proietta l’interiorità dell’artista, forse i manichini sono anche una chiave di lettura delle piazze, apparente realtà vuota del suo contenuto.

Non lascia un senso di vuoto, tutt’altro, la vista degli otto de Chirico, densi di contenuti oltre che espressivi di forme dietro le quali c’è un approfondimento pittorico nutrito dal continuo riferimento ai grandi classici come maestri indiscutibili cui si è ispirato per tutta la vita. Il vuoto forse, verrà adesso, con la “tabula rasa” delle forme per far irrompere lo spazio, siamo arrivati a Fontana.

Fontana

Fontana è nell’altra sala superiore, sul lato opposto di quella con de Chirico. La raggiungiamo, con gli occhi e la mente ancora immersi nei meandri della mitologia e soprattutto nell’enigma delle piazze metafisiche che, al di là del loro significato recondito, fanno sentire la malinconia di un pomeriggio, di una strada deserta, fanno provare l’angoscia della partenza, della solitudine.
Per affrontare bene Fontana occorre prima un “default”, qualcosa che cancelli queste immagini e ci restituisca la mente sgombra e l’animo aperto. Questo ruolo lo svolge Manzoni, esposto nella stessa sala, con i due dipinti e con le sue parole riprodotte nella scheda. Due “Achrome” del 1959 e del 1962-63 evidenziano questa cancellazione di immagini e colori, la piazza è stata spazzata via e se resta ancora in noi è realmente vuota di tutto, anche dei suoi enigmi e della sua solitudine. La “tela grinzata” del primo presenta soltanto delle increspature al centro, definiti “labili fili di Arianna senza un confine; i “pallini di polistirolo e caolino” del secondo configurano, secondo il critico, “uno spazio assoluto” nel “rigore assoluto del non colore” che tutto annulla. L’artista non solo ne è consapevole, ma vuole proprio questo risultato. Nel criticare i pittori che considerano un quadro come “una superficie da riempire di colori e di forme” e lo considerano terminato solo quando segno dopo segno, colore dopo colore, lo hanno riempito, afferma: “Una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?”.

E siamo così giunti, nella cavalcata del Novecento pittorico, allo spazio totale, allo “spazialismo” di Fontana. La “tabula rasa” di Manzoni è stata provvidenziale, siamo pronti a riempirla di spazio. Anzi, qualora ci fossero state le opere successive di Fontana, avremmo trovato la stessa monocromia, spesso sul bianco, la stessa “tabula rasa” interrotta soltanto da un segno quale labile traccia e testimonianza. Le opere esposte sono tra il 1956-58, lo spazio aveva ancora un contenuto.

Vi sono cinque quadri di dimensioni consistenti dallo stesso titolo, “Concetto spaziale”, con dei vuoti nei quali irrompe una forma, un oggetto, una figurazione, tutti da decifrare. Cui si aggiungono due delicati disegni su carta del 1941, prima del “manifesto” del 1946.
Ci aiutano a decifrare lo “spazialismo” dell’artista le sue stesse espressioni pubbliche, ricordando che questo stile rivoluzionario nasce allorché nota che nel barocco “le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio”. Così proclama nel “Manifesto Blanco” del 1946: “Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. E’ necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo”. E qual è questa “arte maggiore”? Quella che ha come protagonista assoluto, e non più come elemento prospettico, lo spazio, proclamato come nuovo sovrano dell’arte come il Futurismo aveva fatto per l’energia, il dinamismo e il movimento.

Non è più delimitato dalla forma, è esso stesso il quadro, per cui “la tela diviene superficie plastica, supporto in cui lo spazio si concretizza e viene plasmato in tagli, buchi, squarci, nelle infinite modulazioni che egli viene a realizzare”. Viene sovvertito il rapporto luce-spazio, nel senso che quest’ultimo è un elemento concreto, ha la prevalenza: vera luce uguale vero spazio. Leggiamo che come la materia nella relatività, così l’opera definisce e congloba lo spazio: “Ci troviamo di fronte alla più totale rivoluzione copernicana, anzi einsteiniana dell’arte”.

L’“Ambiente spaziale” lo realizzò plasticamente nel 1949 immergendo il visitatore in un ambiente che, per l’oscurità rotta da una luce spettrale con un arabesco in alto “coagulo di materia primordiale”, faceva sentire in un isolamento non enigmatico come quello metafisico, ma abissale; così da percepire “lo spazio in tutta la sua immateriale fisicità”. Ecco, dunque, il significato degli “arabeschi” di forma diversa che troviamo nel suo “Concetto spaziale”: sia esso una grande ellisse come un uovo nero, oppure una specie di decorazione o ancora un magma frastagliato rosso e giallo, tutti del 1956, i due ultimi sono con “tecnica mista e pietre su tela”; il primo invece in “aniline e inchiostri su tela”, la tecnica anche delle due opere del 1957, su sfondi pastello variegati due sagome longitudinali o quadrate-circolari sospese; fino alla losanga su sfondo nero del 1958.
Sono dipinti nei quali troviamo anche buchi e lacerazioni della tela, così interpretati nel bel Catalogo della mostra, veramente istruttivo nelle sue schede per Autore: “Lo spazio deve essere, come egli afferma, materia plastica da plasmare. Ecco allora che i vituperati buchi, tagli, squarci, possono essere percepiti nel loro reale significato: sono articolazioni, modulazioni, scansioni ritmiche dello spazio che non è più evocato o delimitato dalle forme, bensì è il quadro, la tela che diviene superficie plastica, supporto vero in cui lo spazio si concretizza e viene plasmato in tagli, buchi, squarci, nelle infinite modulazioni che egli viene a realizzare. Sono tracce, percorsi, segni che vengono a delineare quasi una sorta di scrittura, come di uno spartito musicale”.
La tela viene bucata e lacerata per fare posto allo spazio, come ci diceva Alberton prima della visita agli ottanta dipinti esposti, un viaggio istruttivo e affascinante tra le contraddizioni del Novecento.

E’ proprio vero e non rituale quanto ha scritto l’Assessore regionale alla Cultura Mauro Di Dalmazio: “Il percorso espositivo, tracciato all’interno della Pinacoteca Civica del Comune di Teramo, si rende fruibile al grande pubblico che, oltre all’esperienza emozionale, potrà assorbire il vissuto e la storia innescando il circolo virtuoso della conoscenza”.
Il vissuto e la storia di un secolo come il Novecento riempiono gli occhi e la mente. E una mostra che li ha riproposti pensando al visitatore non si dimentica facilmente.

1 Commento

  1. Besozzi Walter

Postato settembre 30, 2009 alle 6:38 PM

mostra molto interessante

De Chirico, Rosai e Campigli, De Pisis e Caporossi, Baj e Fontana, a Teramo

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 23 settembre 2009

“Tra figura e segno”, una cavalcata nel Novecento pittorico nella mostra allestita presso la Pinacoteca Civica dal 1 al 27 settembre 2009

Il Novecento, con il suo tumultuoso sviluppo scientifico e tecnologico senza eguali rispetto al passato, non poteva non avere un forte impatto su tanti altri aspetti della vita e della cultura. Se poi si aggiungono le due guerre mondiali che hanno sconvolto l’Europa nella prima metà del secolo, si può comprendere appieno come tutto sia stato rimesso in discussione, comprese le concezioni filosofiche e artistiche.

La rivoluzione pittorica del Novecento

Non considerando le opere ispirate direttamente dalla rivoluzione scientifica e dalle vicende belliche, nell’arte ha fatto irruzione l’interpretazione della realtà nelle sue innumerevoli forme in continuo divenire come le scoperte e le conoscenze, le innovazioni e in definitiva il progresso.
Gli artisti non vanno più alla ricerca della bellezza nelle forme in senso classico, ma seguono un percorso ben più complesso e personale. La realtà viene ricercata e rappresentata non solo per come è – in una molteplicità di manifestazioni di per sé notevole – ma per come potrebbe essere nell’immaginazione mentale e nel trasporto onirico: la realtà pensata e la realtà sognata che perde, quindi, ogni fattezza figurativa per assumere un aspetto indefinibile e spesso indecifrabile.

Ma non basta, c’è la realtà come contenitore dell’interiorità dell’artista e proiezione dei propri pensieri in un contesto enigmatico e misterioso dove il figurativo è soltanto apparente.
Sulla tela, in definitiva, non si va più alla ricerca della bellezza in astratto e neppure in concreto; e nemmeno della realtà nella sua evidenza visiva, ma nella sua rielaborazione mentale per cui diventa un campo di battaglia nel quale non appaiono soltanto le trasfigurazioni cromatiche e grafiche di pensieri spesso imperscrutabili, ma persino lacerazioni o buchi, affollamenti o assenza di segni.

In questo modo si consuma il passaggio dalla raffigurazione del mondo reale, idealizzato o meno nella bellezza, all’immagine pensata, dalla figurazione all’astrazione, dalla figura al segno.
Ed è proprio “tra figura e segno” il passaggio scandito dalla mostra presso la Pinacoteca Civica di Teramo dal 1° al 27 settembre, con il titolo principale “Da de Chirico a Fontana”: una cavalcata che prende l’avvio dalla pittura metafisica di de Chirico degli inizi del secolo, per spaziare dal cubismo al futurismo, dall’astrattismo fino allo spazialismo di Fontana, un approdo prestigioso come l’avvio.

Manuela Valleriani, come per la mostra sul Futurismo a Giulianova, ha fatto da apripista, con il suo bel servizio sull’apertura della mostra, nel quale dà conto degli Enti promotori e delle dichiarazioni delle autorità, dal Sindaco Brucchi alla Di Felice, Direttore dei musei civici di Teramo, al curatore Alberton; e ne delinea i contorni, con un “excursus” sul Novecento, dal figurativo all’astrattismo.
Antonella Gaita ha poi fornito altre informazioni utili e una carrellata visiva, dando uno scorcio indicativo, pur se necessariamente parziale, di quanto il visitatore potrà troverà nell’esposizione.
Da parte nostra, come di consueto, il racconto di una visita che ci ha soddisfatto molto andando oltre ogni aspettativa: come appare sobria la presentazione e la promozione così risulta notevole la resa spettacolare e didattica. Perché si gode della vista di opere importanti di pittori celebri e si impara; si è portati a capire ciò che prima appariva incomprensibile, la scomparsa della figura sostituita dal segno.

Non solo si comprende questo passaggio, ma lo si segue in un percorso accidentato come lo è stato il Novecento, reso trasparente dalle schede dedicate ad ogni artista che ne illustrano la biografia e ne illuminano la cifra stilistica e l’orientamento pittorico, come la stessa Valleriani ha giustamente sottolineato perché sono un aspetto rimarchevole della mostra.

Sincero encomio al curatore Roberto Alberton, che abbiamo incontrato all’inizio, prima di visitarla, e non abbiamo trovato la domenica alla nostra seconda visita, gli avremmo manifestato a voce l’apprezzamento; valeva la pena tornarci per un bis come quando si sente il bisogno di rivedere un film per approfondire passaggi sfuggiti alla visione iniziale per seguire la trama. C’è una trama in questa rassegna, il merito è aver offerto il filo di Ariana per orientarsi nel labirinto del Novecento, definito una “torre di Babele” di stili e di linguaggi, ma non poteva essere altrimenti.

Alberton ci ha dato anche una chiave di lettura permanente, una sorta di “passepartout” nel decifrare le tre opere – un Polittico e due dipinti – poste all’ingresso, quasi vigilate dalle nere sculture del “Fauno” di Pagliaccetti e della “Pantera” di Crocetti collocate a presidio virtuale della bella Pinacoteca Civica all’inizio del viale Bovio all’angolo di Piazza Garibaldi, dov’è la Villa comunale.

L’opera del Maestro dei Polittici Crivelleschi della prima metà del XV secolo, con San Bonaventura e San Sebastiano, nella sua iniziale ricerca di prospettiva, nella “scansione spaziale” degli aggetti delle colonne lignee e nel suo “guardare dentro”, si proietta idealmente nelle multidimensionali “Tessitrici” di Campigli, quasi un polittico profano, fino alla “Ricerca spaziale” di Fontana, dove la materia viene lacerata “per lasciare il posto allo spazio”, divenuto protagonista assoluto.

Un percorso lungo come la storia dell’arte, dopo che Giotto forzò l’immobilità ieratica bizantina immersa nell’adorazione del divino per calarsi sulla terra attraverso la prospettiva, realizzata con lo spazio più colore e luce, penetrando in una realtà fatta di sentimenti e di sofferenza, insomma di vita quotidiana che rendendolo più umano avvicinava il sacro alla gente comune.

Dalle tante varianti sul tema della realtà, dal ritratto all’ambiente e al paesaggio, dalla scomposizione della luce e del colore degli impressionisti e dei divisionisti il salto nella Babele del ‘900, una fucina di ricerca e sperimentazione, un crocevia di stili e di movimenti nei quali, dice Alberton, “la problematica dello spazio va avanti, ognuno la interpreta a suo modo fino a Fontana che la porta alle estreme conseguenze facendone l’elemento portante del quadro”.

Entriamo, dunque, in questa Babele, teniamo stretta la chiave che ci ha dato il curatore, il filo di Arianna ci accompagnerà nell’itinerario della mostra, guidato dalle schede degli Autori ordinati nelle belle sale sovrapposte, dove si accede per le moderne scalette di spesso cristallo.

Da Baj a Giò Pomodoro

L’ingresso è morbido, sono le cravatte di Baj e alcuni suoi disegni accattivanti posti in un vetro trasparente al centro della sala, molto “humor” nella ricerca di stupire e divertire. Così preparati non ci sorprendono gli “spiritelli” spiraliformi, con grossa testa e collo filiforme, una sorta di ET “ante litteram”, che Carlo Rambaldi non si sia ispirato a loro piuttosto che al gatto di casa come ebbe a dire? Ma non rimangono tali, assumono forme a fungo e a ombrello, a sfera peduncolata e testa quadrangolare anche su lego e collage, insomma una mutazione onirica; fino all’approdo alla dignità farsesca di generali e ammiragli con il petto coperto di decorazioni.

Dino Buzzati immagina, in un pagina molto divertente, che per placare l’inquietudine di mutanti insoddisfatti degli “spiritelli”, l’unico modo fu promuoverli a “comandanti, generali, ammiragli” con gli onori grotteschi del caso: “Li vestì di tutto punto con damaschi e broccati, li coprì di nastrini di guerra, di medaglie, di stelle, di scintillanti patacche, di spettacolose mostrine, pendagli, cordoni d’oro e d’argento, sontuose spalline, bandoliere, cartucce, collare, aquile, e così vennero al mondo i generali famosi”.

Nella mostra ci sono tre “Personaggi”, due del 1956-57, con il testone e il collo filiforme, uno in collage del 1974, un “Semaforo animato”, “personaggio” anch’esso così chiamato per il colore e forse in senso satirico; e finalmente il “Generale”, che è del 1980, quindi ha subito mutazioni che lo allontanano dal modello del collo filiforme, pur avendo le decorazioni. Molto diverso il “Minotauro”, ricorda Picasso di “Guernica”, un carboncino le cui fattezze si trovano nel disegno quasi cubista del “Generale” posto nel vetro centrale.

Diversissimi i vicini Besozzi, Crippa e Birolli, rappresentati da due opere ciascuno. Del primo .non abbiamo le “trasparenze lacustri” nei caratteristici collage notati da Baj, bensì due oli su tela del 1962-65 il primo dei quali, “Ramificazione”, è una composizione di forme a uovo in varie posizioni. Colorata sul rosso la “Macchina agricola” di Birolli, mentre il “Senza titolo”, del 1955 come il primo, unisce molto verde, quasi che la macchina agricola sia scesa ad operare nella campagna; c’è qualcosa di Matisse e Picasso, che conobbe a Parigi ed ebbero influenza su di lui. Il verde scuro brillante trionfa nelle due opere di Crippa, pilota abile e appassionato che morì in un volo acrobatico, nelle “Spirali” espresse questa sua passione per il volo: gli “Elefantini” sono sovrastati da qualcosa che vola, sembra un’auto, mentre gli “Insetti” sembrano pervasi dal movimento necessariamente aereo.

Non c’è solo Baj dei celebri, c’è anche Giò Pomodoro, la cui vita artistica ha uno stretto sodalizio con il fratello Arnaldo, lo scultore delle grandi sfere della Terra della Farnesina a Roma e dell’Onu a New York, scultore egli stesso che lascia spazi vuoti per far irrompere la luce solare. “Sole”, infatti, si intitola la principale opera esposta, una tempera del 1956 con un cerchio intersecato da segni e figure su una sorta di cartiglio d’epoca di foggia leonardesca. Il sole, soggetto attivo, “non semplice riflesso sulla superficie, ma elemento cardine della vita umana” non figura invece nelle altre tre opere esposte, dello stesso periodo, “Senza titolo”: di colorazione diversa, dal verdino al bianco-rosso, all’azzurro-nero sembra una ricerca di ricomposizione: l’intrico di rami si dissolve nel big bang del secondo fino a trovare delle forme scure su un azzurro cielo oppure l’inverso, chissà.

Da Sironi a Rosai

A fare da anticamera alla sala con Sironi e Rosai ci sono cinque bei dipinti di Guidi, che prese parte alle due mostre sul “Novecento italiano” nel 1926 e 1929, fu nel gruppo di “Valori Plastici”, espose con de Chirico e Carrà, Morandi e Soffici; non solo, ma aderì allo “spazialismo” di Fontana e firmò due “Manifesti dell’Arte Spaziale”. Il colore e la forma insieme alla luce – diventerà “luce spaziale” – sono nella sua pittura, che risente del cromatismo di Renoir e Cezanne. Le due “Angosce”, del 1950-55, esprimono questo cromatismo luminoso con bianco e celeste che si muovono paralleli, colori più scuri in “Testa di donna” del 1950 e “Paesaggio” del 1960, verdi delicati nella “Marina” del 1950.

Due quadri di Cassinari ci portano nel cromatismo opposto, cupo e violento, tali sono i verdi di “Estate” e i blu di “Composizione”. Anche lui fu parte attiva di movimenti, si orientò verso un astrattismo impressionistico che troviamo nelle due opere esposte, fino ad avvicinarsi al cubismo.
Vi approdò Meloni, almeno nelle due opere esposte del 1950, “Il bue” e “L’uomo che dorme”, con dei richiami a Picasso. Venti anni dopo tornerà al figurativo inframmezzato negli inserti di collage.
In pieno figurativo troviamo Marussig, dopo un percorso tra l’impressionismo e l’espressionismo che lasciò i segni nella sua pittura. Fu tra i fondatori del gruppo “Novecento” – con Sironi cui si aggiunsero Carrà e Campigli – che perseguiva una classicità moderna imperniata sulla plasticità delle forme e l’interesse alla vita borghese, a paesaggi e ritratti femminili: proprio le opere esposte, “Paesaggio”, con una strada di campagna, una casetta e un monte sullo sfondo, e “Corsetto rosso”, una donna seduta con un libro aperto che guarda lontano, ripensa alla vicenda che ha letto.

Paesaggi e ancora paesaggi nei quattro dipinti di Lilloni, di un cromatismo luminoso che colora di verdi e celesti tenui un figurativo delicato. Del resto aveva dato vita al gruppo dei “chiaristi”, con la pittura a fondo chiaro, anche se preferiva definirsi “naturalista” per la sua visione intimista della realtà. Da “Sponda del Lario” del 1949 a “Montegeneroso” del 1969 non si avvertono mutamenti, e così in “Torrente a Brivio”, mentre l’elemento umano appariva nell’altrettanto figurativo “Seminatori di grano” del 1933.

In netta contrapposizione a questo cromatismo delicato il segno forte e la violenza cromatica della pennellata di Maccari, di cui è esposto “Donne” del 1945, cinque visi marcati in un magma oscuro.
Di tutt’altra natura i tre dipinti di Sironi, l’artista dalle molte vite che ricordiamo nella pittura celebrativa, in particolare del lavoro, utilizzata dal regime fascista fino a formulare un’estetica basata su forme geometriche e plasticismo in opere monumentali anche murali; abbiamo pure la sua produzione cartellonistica pubblicitaria legata al Futurismo e una pittura intima e personale, che abbiamo commentato a suo tempo parlando della mostra presso la Fondazione Crocetti a Roma, portata anche nella sala “Carino Gambacorta” della Banca di Teramo. Sironi nel gruppo “Novecento” fu fautore di un ritorno all’antico con il recupero del classicismo. Qui vediamo esposta la bella tempera “Bersaglieri”, ben marcata e dinamica, baionette e penne al vento; e due “Composizioni” su carta che si stendono in orizzontale, quasi fregi ornamentali.

E finalmente siamo ad Ottone Rosai, con quattro opere. E’ uno dei grandi, ha attraversato futurismo, cubismo e metafisica per approdare, soprattutto negli ultimissimi anni ai quali si riferiscono i quadri esposti, ad una visione diretta della realtà, che aveva perseguito anche nella corrente del “Purismo”, orientata al recupero della vita quotidiana avendo in primo piano gli “omini” e le osterie, le viuzze e le casette rispetto all’energia futurista da tempo abbandonata. Da “La Villa” del 1946 a “Paesaggio” del 1956 c’è un’evoluzione nella chiarezza dei colori liberati dai toni cupi; negli altri due dipinti, “Carabinieri” del 1956 e “Cupolone con Campanile” del 1957, l’anno della morte, la nitidezza dei colori e delle linee diventa ancora più evidente, si riposa la vista.

Usciamo da questa sala molto espressiva di correnti e orientamenti stilistici, si è sentito il fervore culturale del Novecento fatto di salti in avanti e di ritorni, una fucina d’arte e di pensiero, tra futurismo ed espressionismo fino all’approdo neofigurativo di Rosai. La sala che ci attende ci riporta subito alle astrazioni più estreme, in un otto volante di emozioni e di sensazioni.

Da Scanavino a Caporossi

Il primo dipinto che vediamo è di Scanavino, “Prima luce” del 1954, la forma si è dissolta: sono linee sottili quasi a definire una planimetria; punto di arrivo dopo un inizio figurativo influenzato anche da Van Gogh e dopo esperienze postcubiste. Nel 1951 c’è stato anche un soggiorno a Londra dove è colpito dalle esperienze pittoriche di Bacon e Matta, Sutherland e Martin, l’anno successivo l’incontro con Baj e Crippa. Il segno perde ogni contatto con la realtà, diviene simbolo, siamo alla “realtà pensata”; il “nodo stilizzato” diventa la sua cifra stilistica, e lo si vede nell’opera esposta, il groviglio di linee esprime l’angoscia esistenziale dell’uomo.

I due “Senza titolo” di Tancredi Parmeggiani e Corpora più diversi non potrebbero essere. Il primo è un colorato addensarsi di piccole sagome uguali allineate come fossero in una scatola di gomitoli, frutto della sua concezione “spazialista”: è un moltiplicarsi di piccole forme ripetute come avviene, in grandi dimensioni e in forma umana per le quattro “Tessitrici” di Campigli. L’assenza di titolo ci lascia libero campo per esplorarne il pensiero, potrebbe non essere estranea la televisione, che per lui è “un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti”.
Non proviamo neppure a fare delle ipotesi per il dipinto del 1957 non titolato di Corpora, una macchia di un verde intenso con qualche balugine dove si potrebbe vedere tutto e il contrario di tutto. D’altra parte l’autore ha battagliato contro il gruppo “Novecento” orientato al recupero dei classici, per un “Fronte nuovo delle arti” e poi per il “Gruppo degli Otto” della corrente “astratto-concreta”, di cui il critico Lionello Venturi diceva “Non sono e non vogliono essere degli astrattisti, essi non sono e non vogliono essere dei realisti: si propongono di uscire da questa antinomia che minaccia di trasformare l’astrazione in un rinnovato manierismo”. Un artista nel guado, dunque.

Nigro invece si schiera apertamente nel movimento “Arte concreta”, che rifugge da simbolismi e astrazioni per proiettare le intuizioni dell’artista in immagini che mirano a cogliere, come teorizzò Dorfles nel 1949, “quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori”. Così abbiamo le “griglie” verdi che troviamo anche in una delle due “Composizioni” del 1955-56 esposte, l’altra è una sorta di carta geografica tormentata. In seguito semplificherà ancora di più la ricerca degli spazi, passerà a un nuovo ciclo denominato “Tempo totale”.

Essenziale appare Turcato, che segue il percorso di Corpora tra i movimenti di rottura rispetto al passato. Nelle due “Senza Titolo”, con tecnica mista e collage, delinea nella prima una superficie ininterrotta con qualche ombra vagante, nella seconda una sezione a foglia d’acero percorsa da reticoli che non la privano della sua forma e struttura. Ma con “Superficie lunare”, un magma verde con macchie rosse vulcaniche, del 1969, che fa parte di una serie, supererà l’informale dopo uno studio originale che lo porterà alla rielaborazione della forma-colore.

I puntini rossi di Turcato esplodono nelle “Composizioni” di Veronesi, siano ellissi che si intersecano, come quella del 1953, o cerchi solari inscritti l’uno nell’altro su un cielo di diverse tonalità rosse, o infine la “Costruzione in rosso”, figure e linee geometriche con la costante del colore squillante, queste due ultime del 1974. Nasce figurativo ma presto passa all’astrattismo anche come tecnica fotografica e cinematografica, le sue eleganti geometrie vengono da Kandinskij. Rosso è anche il “Senza titolo” di Milani, del 1963, un colore con delle macchie che lo rendono indefinito, a fare da sfondo plastico per un artista soprattutto scultore.

Ed eccoci approdati a Caporossi, un “unicum” forse nel Novecento, anche lui inizia come figurativo e solo nel dopoguerra, era nato nel 1900, lo abbandona per l’astratto, “il mestiere per la fantasia” scrisse il critico Seuphor, ma per poco. Prendendo lo spunto da una composizione cubista, per sottrazione arriva a un segno semplificato così definito dallo stesso critico: “Questo artiglio, questa mano, questo tridente, questa forca, è già uno stile… non dipinge altro che questa medesima sillaba, questo medesimo segno sommario che non vuol dire nulla, non vuol significare nulla, ma che è quello che è”. Sarà chiamato anche “fonema, “modulo espressivo”, fatto si è che viene ripreso infinitamente con il suo sapore arcaico e misterioso. Ovviamente lo si ritrova, diversamente declinato, nei due dipinti esposti, “Composizione” e “Senza titolo”, del 1955.

Da Campigli a de Pisis

Siamo arrivati al “clou” della mostra. In una delle due sale superiori, quella sopra Sironi e Rosai, troviamo due dipinti di Campigli e cinque di de Pisis. Fronteggiati da ben otto de Chirico.
Paradossalmente tutto si fa più chiaro, la Babele pittorica viene decifrata sempre meglio, l’apprendimento nel percorso del Novecento dà i suoi frutti in questa sezione spettacolare.
Campigli è divenuto familiare dall’inizio, le “Tessitrici” del 1958 all’ingresso ci sono apparse figure composte, inserite nello spazio come in un polittico profano, abbiamo detto. Così non sono una sorpresa “Le Bagnanti” del 1953 e la “Figura femminile” del 1955: forme arcaiche, prese dall’arte etrusca che scoprì nel 1928 al Museo di Valle Giulia e furono per lui una rivelazione; di lì vennero le donne “a clessidra” o “ad anfora”, di lì la sua pittura arida con colori spenti ocra o terracotta; di lì la ricerca di segni-simbolo spesso geometrici che costituiscono il suo alfabeto in una dimensione sospesa, atemporale.

Ed ora de Pisis, dopo tanta fuga nell’indistinto, nel codice dei segni o nell’antico, riporta alla realtà naturale nei suoi colori e nelle sue linee portanti, anche se le forme vengono lasciate fluttuare. Ci giunge con un percorso non solo pittorico, ma letterario e poetico, che gli ha fatto attraversare la metafisica e, con l’influsso di de Chirico, lo ha portato ad approfondire i classici, da Rubens a Guercino fino alle nature morte del seicento napoletano. La residenza stabile parigina fa immettere in queste esperienze e influssi pittorici la ventata dell’impressionismo che scioglie i volumi nel colore e nella pennellata rapida e luminosa. Il suo segno diventa evanescente ma ben delineato, come evocato, lontano dal classicismo ma anche dall’astrattismo; la realtà è nei suoi colori e soprattutto nel suo clima, fatto di sensazioni e di emozioni, in definitiva di poesia. Così, nelle belle opere esposte, “Natura morta” del 1933 e “Hommage à Morandi” del 1937’, la seconda con le caratteristiche bottiglie dell’artista omaggiato, colori tenui, pastello, forme fluttuanti; ancora di più in “Parigi” del 1937 e nei due “Fiori” dello stesso anno e del 1939, straordinari esempi di come il pensiero e il sogno possano trasferirsi nella tela senza perdere i contorni della realtà ma facendoli fluttuare sulla spinta del sentimento che il pennello riesce a rendere come in una magia.

De Chirico

L’approdo a de Chirico non poteva essere più trionfale. Gli otto dipinti sono espressivi di tre suoi motivi caratteristici: i cavalli, la mitologia, i gladiatori e la metafisica in senso stretto.

Dei primi abbiamo “Cavalli in riva al mare”: due destrieri, il primo dei quali imbizzarrito con la testa rivolta all’indietro, ci sembra di potervi vedere un “d’aprés” del “Cavallo selvaggio spaventato che emerge dall’acqua” di Delacroix, 1828, già ripetuto in un disegno a carboncino su carta del 1952. Troviamo la stessa ambientazione di colore verde cupo nella “Vita silente”, anch’esso esposto, una sorta di natura morta all’aperto fatta di grossi grappoli e un frutto spaccato a metà, con un rudere sullo sfondo. Anche l’altro dipinto, “Cavalli con cavaliere”, ricorda le criniere al vento del pittore francese e, per certi versi, il “Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro” dello stesso de Chirico ispirato al “Cavallo pomellato” di Géricault.

Anche nelle pitture mitologiche si potrebbero trovare le assonanze che declinava esplicitamente nei suoi “d’aprés”, indicando o meno nella firma il riferimento ispiratore a seconda del grado di derivazione. Vi era, comunque, pur sempre il suo segno caratteristico, anche nei motivi per i quali si rifaceva espressamente ai classici. Ed ecco “Ippocrate che rifiuta i doni” del 1960, ed “Esculabio proctologo” del 1950-55, in un ambiente scuro con rossi mantelli e il tempietto sullo sfondo.
“I Gladiatori (La Lutte)” è un dipinto espressivo del tema divenuto costante proprio dal 1927-29 (l’opera esposta è degli inizi, datata 1929), e declinato in varie forme, in grovigli affollati – come nel “Combattimento di gladiatori” del 1969 allorché lo riprende – e in composizioni semplici di ambiente metafisico. Qui siamo nella composizione semplice, il “Combattimento” di quarant’anni dopo riprenderà la visione di spalle della lotta, ma quello del 1929 ha corpi michelangioleschi in primo piano.

Entriamo infine nella metafisica, al confine con la “Neometafisica”, così viene chiamato il suo ritorno alla metafisica dall’inizio degli anni ’60. insieme alla produzione barocca e classicheggiante. Abbiamo due opere rappresentative dei due filoni, la piazza metafisica e il manichino.

“Piazza d’Italia” del 1956 è molto suggestivo, oltre che espressivo di questo filone portante della sua arte, gli alti porticati a destra e a sinistra, l’edificio cilindrico sullo sfondo, lontane colline, si intravede anche il classico treno con vapore, il monumento al centro della piazza e l’ombra netta che si staglia in primo piano in un ambiente dove le due figurette umane accentuano il deserto e la solitudine. C’è “un’impalpabile interiorità” che si proietta su un ambiente, si invera nelle cose ma ne è nascosta, di qui l’enigma e il mistero. E le cose che creano l’ambiente sono tanto più nette e precise, quanto più appaiono impenetrabili e impraticabili, quasi fosse un teatro dove mancano gli attori. “Teatro ma non teatrale”, tanto è il rigore e l’ordine, “maestoso silenzio, scenari di realtà e finzione – si legge – specchi di realtà finta e di finzione reale” che esprimono sentimenti: la malinconia di una strada deserta o l’angoscia di una partenza.

L’altro dipinto esposto, “Le Maschere” del 1960, rappresenta il tipico motivo metafisico, i manichini, questa volta in una resa originale: due teste in primo piano, la prima a foggia di armatura, una squadra e sullo sfondo una finestra che si apre su alti edifici metafisici. “Il manichino – scriveva l’artista che ci ha lasciato libri e saggi con le sue concezioni dell’arte – è un oggetto che possiede a un dipresso l’aspetto dell’uomo, ma senza il lato movimento e vita”; così come abbiamo visto che le sue piazze, pur figurative per tanti aspetti, non intendono rappresentare la realtà, vuote come sono anch’esse di vita, ma quasi stanze di un interno nel quale si proietta l’interiorità dell’artista, forse i manichini sono anche una chiave di lettura delle piazze, apparente realtà vuota del suo contenuto.

Non lascia un senso di vuoto, tutt’altro, la vista degli otto de Chirico, densi di contenuti oltre che espressivi di forme dietro le quali c’è un approfondimento pittorico nutrito dal continuo riferimento ai grandi classici come maestri indiscutibili cui si è ispirato per tutta la vita. Il vuoto forse, verrà adesso, con la “tabula rasa” delle forme per far irrompere lo spazio, siamo arrivati a Fontana.

Fontana

Fontana è nell’altra sala superiore, sul lato opposto di quella con de Chirico. La raggiungiamo, con gli occhi e la mente ancora immersi nei meandri della mitologia e soprattutto nell’enigma delle piazze metafisiche che, al di là del loro significato recondito, fanno sentire la malinconia di un pomeriggio, di una strada deserta, fanno provare l’angoscia della partenza, della solitudine.
Per affrontare bene Fontana occorre prima un “default”, qualcosa che cancelli queste immagini e ci restituisca la mente sgombra e l’animo aperto. Questo ruolo lo svolge Manzoni, esposto nella stessa sala, con i due dipinti e con le sue parole riprodotte nella scheda. Due “Achrome” del 1959 e del 1962-63 evidenziano questa cancellazione di immagini e colori, la piazza è stata spazzata via e se resta ancora in noi è realmente vuota di tutto, anche dei suoi enigmi e della sua solitudine. La “tela grinzata” del primo presenta soltanto delle increspature al centro, definiti “labili fili di Arianna senza un confine; i “pallini di polistirolo e caolino” del secondo configurano, secondo il critico, “uno spazio assoluto” nel “rigore assoluto del non colore” che tutto annulla. L’artista non solo ne è consapevole, ma vuole proprio questo risultato. Nel criticare i pittori che considerano un quadro come “una superficie da riempire di colori e di forme” e lo considerano terminato solo quando segno dopo segno, colore dopo colore, lo hanno riempito, afferma: “Una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?”.

E siamo così giunti, nella cavalcata del Novecento pittorico, allo spazio totale, allo “spazialismo” di Fontana. La “tabula rasa” di Manzoni è stata provvidenziale, siamo pronti a riempirla di spazio. Anzi, qualora ci fossero state le opere successive di Fontana, avremmo trovato la stessa monocromia, spesso sul bianco, la stessa “tabula rasa” interrotta soltanto da un segno quale labile traccia e testimonianza. Le opere esposte sono tra il 1956-58, lo spazio aveva ancora un contenuto.

Vi sono cinque quadri di dimensioni consistenti dallo stesso titolo, “Concetto spaziale”, con dei vuoti nei quali irrompe una forma, un oggetto, una figurazione, tutti da decifrare. Cui si aggiungono due delicati disegni su carta del 1941, prima del “manifesto” del 1946.
Ci aiutano a decifrare lo “spazialismo” dell’artista le sue stesse espressioni pubbliche, ricordando che questo stile rivoluzionario nasce allorché nota che nel barocco “le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio”. Così proclama nel “Manifesto Blanco” del 1946: “Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. E’ necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo”. E qual è questa “arte maggiore”? Quella che ha come protagonista assoluto, e non più come elemento prospettico, lo spazio, proclamato come nuovo sovrano dell’arte come il Futurismo aveva fatto per l’energia, il dinamismo e il movimento.

Non è più delimitato dalla forma, è esso stesso il quadro, per cui “la tela diviene superficie plastica, supporto in cui lo spazio si concretizza e viene plasmato in tagli, buchi, squarci, nelle infinite modulazioni che egli viene a realizzare”. Viene sovvertito il rapporto luce-spazio, nel senso che quest’ultimo è un elemento concreto, ha la prevalenza: vera luce uguale vero spazio. Leggiamo che come la materia nella relatività, così l’opera definisce e congloba lo spazio: “Ci troviamo di fronte alla più totale rivoluzione copernicana, anzi einsteiniana dell’arte”.

L’“Ambiente spaziale” lo realizzò plasticamente nel 1949 immergendo il visitatore in un ambiente che, per l’oscurità rotta da una luce spettrale con un arabesco in alto “coagulo di materia primordiale”, faceva sentire in un isolamento non enigmatico come quello metafisico, ma abissale; così da percepire “lo spazio in tutta la sua immateriale fisicità”. Ecco, dunque, il significato degli “arabeschi” di forma diversa che troviamo nel suo “Concetto spaziale”: sia esso una grande ellisse come un uovo nero, oppure una specie di decorazione o ancora un magma frastagliato rosso e giallo, tutti del 1956, i due ultimi sono con “tecnica mista e pietre su tela”; il primo invece in “aniline e inchiostri su tela”, la tecnica anche delle due opere del 1957, su sfondi pastello variegati due sagome longitudinali o quadrate-circolari sospese; fino alla losanga su sfondo nero del 1958.
Sono dipinti nei quali troviamo anche buchi e lacerazioni della tela, così interpretati nel bel Catalogo della mostra, veramente istruttivo nelle sue schede per Autore: “Lo spazio deve essere, come egli afferma, materia plastica da plasmare. Ecco allora che i vituperati buchi, tagli, squarci, possono essere percepiti nel loro reale significato: sono articolazioni, modulazioni, scansioni ritmiche dello spazio che non è più evocato o delimitato dalle forme, bensì è il quadro, la tela che diviene superficie plastica, supporto vero in cui lo spazio si concretizza e viene plasmato in tagli, buchi, squarci, nelle infinite modulazioni che egli viene a realizzare. Sono tracce, percorsi, segni che vengono a delineare quasi una sorta di scrittura, come di uno spartito musicale”.
La tela viene bucata e lacerata per fare posto allo spazio, come ci diceva Alberton prima della visita agli ottanta dipinti esposti, un viaggio istruttivo e affascinante tra le contraddizioni del Novecento.

E’ proprio vero e non rituale quanto ha scritto l’Assessore regionale alla Cultura Mauro Di Dalmazio: “Il percorso espositivo, tracciato all’interno della Pinacoteca Civica del Comune di Teramo, si rende fruibile al grande pubblico che, oltre all’esperienza emozionale, potrà assorbire il vissuto e la storia innescando il circolo virtuoso della conoscenza”.
Il vissuto e la storia di un secolo come il Novecento riempiono gli occhi e la mente. E una mostra che li ha riproposti pensando al visitatore non si dimentica facilmente.

1 Commento

  1. Besozzi Walter

Postato settembre 30, 2009 alle 6:38 PM

mostra molto interessante

Aiardi, la legge finanziaria com’era

 di Romano Maria Levante

Riproponiamo un’intervista-saggio che nel 1981 l’On. Alberto Aiardi rilasciò al nostro Romano Levante per la rivista «Realtà del Mezzogiorno». Aiardi, già intervistato da AbruzzoCultura.it per il suo libro “Persona e città. Politica, economia ed etica” (Galaad Edizioni, pp. 240, Euro 14), è stato responsabile dell’Ufficio Studi della Camera di Commercio di Teramo, docente universitario, Vice Sindaco di Teramo, deputato alla Camera per cinque legislature e Sottosegretario al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica.

Carenze e vizi mostrati sin dal 1981, rivisti oggi che “la finanziaria non c’è più”, o è “light”.

E’ stata presentata in questi giorni la legge finanziaria per il 2010, definita “light” per la sua leggerezza, non solo in termini di manovra, appena 3 miliardi di euro in complesso, ma per la sua stessa consistenza. Tanto che il ministro dell’Economia Tremonti, che ne è l’artefice, ha detto addirittura nel presentarla, “e la finanziaria non c’è più…”, con la stessa soddisfazione dell’omino in pigiama nello spot che esclamava “e la pancia non c’è più…”. E ha aggiunto che è l’ultima finanziaria, il prossimo anno ci sarà la “legge di stabilità” prevista nella nuova riforma.

In effetti la finanziaria di quest’anno, che inizia ora l’iter parlamentare, si compone di soli tre articoli, e anche se il secondo articolo sul bilancio dello stato ha cinquanta commi, non supera i settanta commi. Va considerato che a luglio c’è stato il provvedimento con le misure anticrisi, anch’esso snello, composto di 26 articoli per circa 70 commi; lo scorso anno gli articoli erano stati quattro per un totale di 100 commi, dopo la cosiddetta “manovra d’estate” con altri 100 commi.

Perché citiamo in modo inusuale questi ultimi, che sono la scansione logica degli articoli e non hanno una propria specificità? Perché le leggi finanziarie per quattro anni consecutivi sono state costituite addirittura di un solo articolo, diviso in un numero di commi compreso tra un media di 600 per il 2005 e il 2006 e una media di 400 per il 2007 e il 2008. E’ stato l’effetto vistoso del costume che era invalso di far decadere con il voto di fiducia mediante un maxiemendamento ad articolo unico le molte centinaia di emendamenti ostruzionistici e anche di “assalto alla diligenza” per far andare sulla corsia preferenziale della finanziaria provvedimenti spesso clientelari di spesa, le “leggine” dette di collegio. Un “buco” coperto da una “toppa” non certo appropriata né elegante.

L’intervista che ci concesse più di ventotto anni fa Alberto Aiardi, allora Vicepresidente della Commissione Bilancio della Camera e da poco relatore alla legge finanziaria per il 1981, è molto significativa, ci rivela i “buchi” e le “toppe” di ieri. Viene bene rileggerla oggi che ci si prepara a un nuovo sistema, in parte avviato, perché veniva poco dopo l’entrata in vigore della legge di riforma dell’epoca, varata nel 1978, non ancora a regime, e ne metteva a nudo le pecche subito emerse.

Ecco, dunque, il testo integrale dell’intervista, a parte l’alleggerimento della nostra introduzione dalla quale abbiamo stralciato le parti attinenti ai fatti economici contingenti. Fu pubblicata nel numero di aprile del 1981 sul mensile di politica economia cultura “Realtà del Mezzogiorno”, che per quindici anni ha ospitato, oltre ai nostri articoli di collaboratore fisso, le “corrispondenze abruzzesi” di Giammario Sgattoni raccontate di recente in cinque articoli di ricordo e di memoria.

La legge finanziaria nel racconto del relatore On. Alberto Aiardi

Nuovi interrogativi si aggiungono a quelli che la legge ha suscitato sin dalla sua introduzione con il provvedimento-quadro numero 468 del 1978 che ha ridefinito l’intera materia delle procedure di bilancio; e ci riferiamo non solo alla legge finanziaria per il 1981 ma anche a quella dello scorso anno, allorché fu inaugurato il nuovo modo di programmare e gestire la spesa pubblica.

Si è passati a un dimezzamento del numero degli articoli, dagli 88 dello scorso anno ai 44 del testo approvato dalla Camera; ma va sottolineato che il testo del Governo era di soli 17 articoli, portati già in Commissione a 32 e quindi ulteriormente aumentati ai 44 ora ricordati Non é stato certo il fatidico 17 dell’articolato governativo a produrre i due raddoppi successivi nel numero degli articoli; e neppure l’integrazione per far fronte alle esigenze eccezionali delle zone terremotate che si ritrova solo nelle cifre degli allegati e non negli Articoli della legge. E allora, cos’è avvenuto lungo l’iter di approvazione della legge per determinarne la lievitazione? E’ uno degli aspetti oscuri le cui motivazioni potranno essere approfondite ma che comunque potrà essere pragmaticamente evidenziato dal confronto dei diversi schemi normativi. Le aggiunte più vistose appaiono la quadrimestralizzazione della scala mobile dei pensionati, i nuovi strumenti di raccolta del risparmio e la parte relativa al Mezzogiorno il cui capitolo era del tutto assente nel primitivo testo governativo.

E’ innegabile tuttavia che la possibilità di includere o meno un capitolo di tale importanza sta a significare per lo meno una estrema latitudine ed indeterminatezza nel contenuto della legge finanziaria. E’ questa l’altra faccia del problema del carattere “omnibus” giustamente rigettato almeno nelle intenzioni; nel definire le ‘esclusioni’ vanno anche definite le ‘inclusioni’ necessarie perché la legge finanziaria possa essere validamente composta.

Problemi di metodo, come si vede, si mescolano a problemi di contenuto e di sostanza. Come dire che le premesse di cui abbiamo parlato all’inizio non si sono ancora tradotte in fatti conseguenti. Tanti interrogativi, dunque, si affollano sulla legge finanziaria. Abbiamo ritenuto che la cosa migliore fosse porli al Relatore di maggioranza che più di ogni altro può approfondirne gli aspetti più controversi nella duplice attività governativa e parlamentare.

Venti domande all’On. Alberto Aiardi

Alberto Aiardi, quarantacinque anni, deputato di Teramo per la Circoscrizione abruzzese da tre legislature, per la DC, Vicepresidente della Commissione bilancio, programmazione e partecipazioni statali dalla scorsa legislatura, è stato il relatore di maggioranza della legge finanziaria e del bilancio di previsione 1981 alla Camera.

In tale ramo del Parlamento si è svolto praticamente l’intero lavoro di approfondimento, revisione e discussione dei successivi testi della legge che ha impegnato il dibattito in Commissione e in Aula per 5 mesi (dal 30 settembre del 1980 al 1 marzo del 1981). Al Senato la legge è stata approvata in via definitiva nel testo licenziato dalla Camera dopo una discussione rapidissima (dal 4 al 27 marzo scorsi).

L’On. Aiardi ne ha seguito, quindi, passo passo la faticosa gestazione ed è l’interlocutore ideale per dare una risposta ai numerosi interrogativi che restano aperti pur dopo l’approvazione finale della legge. Interrogativi, come si è detto nell’introduzione, di metodo e di contenuto, sui quali non è eccessivo soffermarsi data l’importanza assunta dal provvedimento nel meccanismo istituzionale del governo dell’economia.

D Puoi dire, in breve, ai lettori di “Realtà del Mezzogiorno”, a cosa serve, in definitiva, questa legge finanziaria le cui vicende sono sempre così burrascose?

R. Si era sempre messo in evidenza, prima della legge numero 468 del 1978, come il bilancio dello Stato rappresentasse ormai, data la rilevanza e complessità assunte dalla spesa pubblica, un documento scarsamente significativo di fronte alla esigenza di una concreta valutazione della manovra di politica economica che il Governo intende, annualmente e nel breve periodo, mettere in atto. Ora, il compito della legge finanziaria è sinteticamente quello di adeguare le spese dello Stato e degli altri Enti che concorrono a formare il settore pubblico allargato agli obiettivi di politica economica che con il bilancio annuale e quello poliennale si intendono conseguire. Con la determinazione del livello massimo di ricorso al mercato finanziario si stabilisce, per spiegarci in modo semplice, il massimo dei debiti che possono contrarsi dallo Stato nell’ambito delle compatibilità generali della manovra di intervento nella economia. Praticamente la legge finanziaria determina l’ammontare complessivo delle spese che si possono sostenere, anche se soltanto in termini di competenza, e che si determinano tenendo conto da un lato delle poste già contenute in bilancio per spese alle quali si dovrà comunque in buona parte far fronte o che siano state già decise, dall’altro delle nuove spese che si ritiene di dover affrontare, e che appunto vengono stabilite con tale provvedimento. Con la legge finanziaria si incide pertanto sulle modalità operative, determinando quantità e tempi di spesa per rendere concreta la manovra di bilancio, in riferimento tra l’altro ai contenuti della Relazione previsionale e programmatica, con la quale si esplicitano le coerenze e le compatibilità della politica economica.

D. Come rispondi alle critiche della Commissione Affari Costituzionali sull’incoerenza tra l’impostazione della legge finanziaria e quella della legge di bilancio, in particolare sui criteri diversi adottati per le previsioni di spesa (a legislazione invariata) e di entrata (scontando incrementi di gettito anche per “misure tributarie allo studio”)?

R. In effetti questo è un problema che si è posto con le prime esperienze della legge finanziaria e segnatamente con quella di quest’anno, in considerazione della impostazione – a mio parere corretta – del bilancio di previsione a legislazione invariata. E’ certo comunque che scontare con il bilancio a legislazione invariata maggiori entrate, per le quali, a parte previsioni di ragionati incrementi sulla base della normativa esistente, si prevedono nuove misure tributarie allo studio, pone questioni di rilevanza anche costituzionale, per possibile inosservanza dell’art. 81 della Costituzione. E’ da dire però che il problema è stato in buona parte superato con l’approvazione a suo tempo del nuovo decreto fiscale e con l’emendamento del Governo soppressivo dell’art. 1, concernente in particolare l’Ilor. Una più corretta soluzione del problema, non tenuto presente a suo tempo con la riforma di contabilità attuata con la legge 468, dovrà trovarsi in sede di aggiustamento della legge 468 stessa, valutando questo aspetto come altri che si sono evidenziati nella pratica attuazione.

D. Ed alle critiche sul perdurare della superata concezione “omnibus” per la quale la stessa Commissione cita, tra l’altro, le spese per consulenze, pubblicazioni, del Ministero di grazia e giustizia, ma potremmo ricordare anche le borse di studio del Ministero della pubblica istruzione ed altri esempi ancora?

R. Notevoli passi avanti si sono fatti quest’anno per restituire, secondo lo spirito della legge 468, alla legge finanziaria, il suo reale contenuto, evitando che potesse rappresentare l’occasione per introdurvi una serie di norme che invece devono trovare sistemazione in specifiche leggi sostanziali. Su questa linea si era mosso il Governo, con la presentazione di un testo composto soltanto di diciassette articoli. Per la verità quest’anno si è registrato un ribaltamento di posizioni, se ricordiamo le polemiche precedenti. Cioè proprio da parte del Parlamento, negli anni passati fortemente critico verso la linea del Governo che aveva approfittato della finanziaria per far passare una serie di norme specifiche, per cui si coniò la definizione di legge ‘omnibus’, si è operato per l’inserimento di norme che più opportunamente avrebbero dovuto formare oggetto di provvedimenti ad hoc. Basti pensare soltanto alla tormentata questione delle pensioni. In realtà la legge finanziaria deve prevedere soltanto le risorse da destinare alla soluzione di un determinato problema, lasciando poi all’attività legislativa normale la approvazione della nuova normativa con legge specifica, evitando così anche di espropriare le Commissioni di merito di loro fondamentali competenze. Resta pertanto valida, a mio parere, la critica sulla introduzione anche quest’anno di norme sostanziali, alcune peraltro di scarsa rilevanza, che finiscono per appesantire e snaturare la legge finanziaria, facendo perdere di vista il dibattito ed il confronto sulle scelte fondamentali di politica economica.

D. Ma andiamo a critiche più sostanziali: così com’è composta come può la legge finanziaria adempiere al suo compito primario di valutare – come osserva la Commissione citata – ‘la fattibilità oltre che l’opportunità del programma legislativo complessivamente proposto dal Governo e la congruità dei relativi accantonamenti finanziari’?

R. Ritengo, anche per le osservazioni avanzate in precedenza, che se viene sfrondata da aspetti marginali o che comunque, pur rilevanti, devono formare oggetto di specifici provvedimenti sostanziali, la legge finanziaria, ed in particolare quella di questo anno, offre un quadro coerente ed organico del programma legislativo che si intende attuare nel corso dell’anno. Ad ogni buon fine, l’opportunità del programma e la congruità degli accantonamenti formano oggetto di valutazione da parte del Parlamento, che può modificarli come è avvenuto per comparti significativi.

D. Allora, come credi che si possa articolare la legge in modo che o rifletta il programma di governo dell’economia per l’anno a venire oppure, all’estremo opposto, si limiti a definirne la cornice?

R. L’articolazione della legge, a parte i problemi accennati di rapporto tra questa e la legge di bilancio, ritengo che debba rispondere alle caratteristiche indicate con la legge 468, e cioè contenere essenzialmente la rimodulazione annuale delle leggi di spesa in essere, la definizione dei nuovi fondi speciali, la determinazione del livello massimo di ricorso al mercato.

D. Non credi che in mancanza di questa ‘impostazione rigorosa’ si aprano paradossalmente varchi insperati per la produzione delle ‘leggine’ che tanto danno economico arrecano ai conti dello Stato; e ciò attraverso la compiacente copertura offerta dai ‘fondi globali’ i cui accantonamenti tendono ad essere sopravalutati creando capaci ‘pieghe di bilancio’?

R. E’ stata questa una preoccupazione tenuta ampiamente presente in sede di esame della legge finanziaria, soprattutto nel lavoro preliminare della Commissione Bilancio. E proprio per evitare gli inconvenienti accennati si è affermata la linea, condivisa da tutti i gruppi politici, rivolta a dare precisa caratterizzazione alle voci dei fondi speciali così da trovare nel corso del programma legislativo chiaro riferimento, oltre che alle coperture, alle scelte che si sono volute operare con la legge finanziaria. Il risultato certamente non è ancora perfetto, ma, come è facilmente intuibile, l’ottenimento di una più rigorosa gestione del Bilancio dipende moltissimo dal Parlamento. Vorrei inoltre rammentare due aspetti importanti. Il primo riguarda i nuovi fondi speciali. Questi, riflettenti la manovra che parte nel 1981 e quantificati nella finanziaria, consentono di distinguere l’ammontare del nuovo programma di spesa dal riflesso finanziario sul 1981 del programma precedente ed ancora in corso di approvazione. Il secondo concerne la netta volontà espressa dalla Commissione Bilancio circa il ripristino delle apposite tabelle dei fondi speciali, da approvarsi in maniera esplicita e non soltanto per l’ammontare complessivo, anche per non privare il Parlamento di un esame specifico delle singole voci che concorrono a formare detto ammontare.

D. Come credi si possa risolvere l’annoso problema – evocato anche nella discussione sulla legge –della copertura delle leggi di spesa ex art. 81 della Costituzione anche in relazione a spese future?

R. E’ da premettere che nel quadro dei problemi rimasti aperti in questi primi anni di applicazione della legge 468 del 1978 emerge quello della copertura delle leggi di spesa, con particolare riguardo a quelle che dispongono spese a carattere pluriennale o continuativo. In questa materia, infatti, come ho avuto modo di rilevare in sede di replica, la legge di riforma ha delineato un sistema di strumenti e procedure che, sia per la mancata attuazione in ordine a suoi elementi essenziali, come il bilancio pluriennale programmatico, che per una sua certa difficoltà interpretativa, non ha potuto sinora tradirsi in concreto. Ne è conseguita una conferma della prassi tradizionale, per la quale la disciplina stabilita con il quarto comma dell’articolo 81 della Costituzione viene sostanzialmente assicurata con riguardo agli oneri deliberati a carico dell’esercizio in corso o, al massimo, del successivo e non anche per quelli disposti a carico degli esercizi futuri. Il nuovo sistema delle decisioni di spesa sembra che si possa così delineare: la legge poliennale determina obiettivi, procedure e livello massimo della spesa, verificandone la copertura sulla base del bilancio pluriennale e per gli anni in questo considerati; mentre la decisione di bilancio – cioè, in base all’articolo 18 della legge 468, la legge finanziaria – rende attuale anno per anno il riscontro globale di copertura effettuato all’atto della approvazione delle leggi di spesa, commisurandolo alla loro modulazione nell’ambito della manovra perseguita. Apparirebbe così raggiungibile l’obiettivo di rendere le decisioni di spesa al contempo flessibili e responsabili.

D. Nella tua replica c’è stata una differenziazione interessante a questo riguardo tra spese correnti e spese in conto capitale nel senso che i criteri di copertura dovrebbero privilegiare queste ultime a differenza del passato in cui esse sono state considerate per lo più un ‘residuo’. Potresti illustrare questo punto?

R. Il sistema posto dalla legge è noto e si traduce, nella perspicua interpretazione fissata dalla Corte dei Conti, nella relazione al Parlamento sul Rendiconto del 1078, nel ‘vincolo di non peggioramento dei saldi netti da finanziare (per le spese in conto capitale) e dei saldi di parte corrente (per le spese correnti ed i rimborsi dei prestiti) rispetto alla misura fissata per gli uni e gli altri nel bilancio pluriennale’. Le nuove e maggiori spese di parte corrente (o per il rimborso prestiti), disposte a carico degli esercizi considerati dal bilancio pluriennale, devono cioè trovare copertura all’interno del differenziale tra le entrate tributarie ed extra-tributarie e le spese correnti (risparmio pubblico) fissato dal bilancio pluriennale per quei medesimi esercizi. Nel senso o di sostituire oneri già previsti e compresi nel risultato differenziale o di aggiungersi agli oneri previsti indicando come copertura ‘il miglioramento nella previsione per i primi due titoli delle entrate rispetto a quella relativa alle spese di parte corrente’ (articolo 4, comma VIII). Le nuove e maggiori spese di parte capitale, invece, oltre a trovare copertura con la previsione o l’introduzione di incremento delle entrate, possono anche riferirsi al risultato differenziale tra le entrate finali e spese finali (saldo netto da finanziare) cioè, in sostanza, all’indebitamento previsto per ciascuno degli esercizi finanziari considerati dal bilancio pluriennale. Come più volte osservato questo sistema non soltanto definisce un parametro quantitativo per il riscontro di copertura ma esprime una scelta sulla qualità della spesa, privilegiando quella di parte capitale, che può essere finanziata in ‘deficit’, rispetto a quella di parte corrente, per la quale si richiede una ‘copertura reale’.

D. Potresti spiegare anche i motivi per cui a tre anni dall’approvazione della legge 468 che regola il bilancio il sistema non né ‘a regime’ ma presenta anzi gravi carenze ed anomalie; non solo quelle di cui fin qui si è discusso ma anche la non attuazione di strumenti istituzionali formalmente previsti?

R. E’ indubbio che una riforma delle procedure di contabilità dello Stato, come prospettato dalla legge 468, non sia pienamente attuabile nel breve tempo, considerando le complesse implicazioni di metodo e di strumentazione che essa comporta. Di fatto, ad esempio, il bilancio pluriennale programmatico non è stato sinora presentato, per cui la stessa metodologia delle coperture non ha potuto giovarsi degli strumenti propri previsti dalla legge.

D. A parte questi problemi il cui approfondimento porterebbe lontano, puoi esplicitare l’intero disegno – che ci auguriamo veder realizzato presto almeno per poterlo discutere e, se del caso, criticare – dal bilancio pluriennale programmatico alla Nota di variazione in connessione con gli strumenti già in atto?

R. Come è noto, lo stesso bilancio pluriennale a legislazione vigente, pur incorporando la proiezione per gli esercizi considerati delle determinazioni su cui si basa il bilancio approvato, inclusi i fondi speciali, espone dati ad un elevato livello di aggregazione. Un primo, utile intervento, sembra possa essere quello della proiezione disaggregata dei fondi speciali ‘nel bilancio pluriennale e limitatamente all’arco temporale da questo considerato’, come ribadito dalla Corte di Conti nella relazione sul Rendiconto per il 1979 e come già proposto in sede di studio. Per conseguire questo scopo sembra sufficiente, con riguardo alla discussione in atto, che il Governo si impegni ad esporre la proiezione disaggregata dei fondi speciali approvati con la legge finanziaria (insieme con quelli approvati con la legge di Bilancio) nella sede del Bilancio pluriennale, attraverso le operazioni e con i medesimi metodi, con cui, secondo la relazione governativa, una tale proiezione era stata già approntata, per la presentazione del disegno di legge finanziaria. Strumento a tale fine potrebbe essere la nota di variazioni con cui si trasferiranno sul disegno di legge di bilancio (che è anche di approvazione del bilancio pluriennale) le deliberazioni della legge finanziaria. Una tale procedura, va comunque, ribadito, resta soltanto e assai parzialmente surrogatoria della presentazione di un vero bilancio pluriennale programmatico, avente le caratteristiche di struttura e funzione previste dalla legge di riforma.

D. Puoi riassumere le principali differenze tra vecchio e nuovo sistema della legislazione di spesa precisando cosa è già acquisito degli auspicati vantaggi e cosa invece deve essere ancora perfezionato?

R. Le principali modifiche introdotte con il nuovo sistema sono: una impostazione più articolata, anche ai fini di una migliore conoscenza e di un più adeguato controllo, dei conti della finanza pubblica, la predisposizione del bilancio di cassa accanto a quello di competenza, l’estensione del bilancio al settore pubblico allargato, la stesura del bilancio pluriennale, la determinazione dei limiti d’indebitamento, un adeguamento della disciplina dei residui, la presentazione delle relazioni sulla stima del fabbisogno di cassa, e quindi la legge finanziaria. Se passi significativi si devono registrare per quanto attiene alla migliore comprensione dell’intero sistema della contabilità pubblica e se un primo importante obiettivo viene raggiunto con la legge finanziaria, che individua e determina i caratteri e le possibili influenze della manovra annuale di politica economica, molti problemi restano aperti: il collegamento tra legge finanziaria, bilancio annuale e bilancio pluriennale programmatico, anche in riferimento, come si è avuto modo di notare in precedenza, alle coperture di spesa; la conoscenza degli effettivi movimenti di cassa e della collegata manovra dei residui, anche per determinare il fabbisogno di cassa del settore pubblico allargato, e quindi il reale disavanzo di cassa da finanziare, senza dimenticare una maggiore capacità operativa delle strutture amministrative ed un più moderno utilizzo dei relativi strumenti.

D. Pur senza fare classificazioni od avanzare giudizi di valore quali ritieni siano i provvedimenti, come si suol dire, più qualificanti della legge finanziaria e quali i loro presumibili effetti in campo economico?

R. La destinazione di risorse aggiuntive per il 1981, determinate con la legge finanziaria, è andata nella direzione di un positivo incremento della spesa per investimenti. A parte le sensibili risorse finalizzate alla ricostruzione delle zone terremotate, possiamo fare riferimento agli investimenti per il Mezzogiorno, alle spese per l’adeguamento delle strutture giudiziarie e penitenziarie, agli interventi in materia di opere pubbliche, agli investimenti nel settore agricolo, in quello dell’edilizia, al sostegno del credito per l’artigianato e per le esportazioni, alle misure particolari per alcuni settori dell’economia, con particolare riguardo all’industria e relativo fondo per l’innovazione, così pure per le Partecipazioni statali, senza dimenticare il sensibile incremento dei fondi per l’aiuto ai paesi in via di sviluppo. E’ evidente che gli effetti di una manovra come quella prevista, tendente a favorire processi di ristrutturazione e di riequilibrio sia sotto il profilo territoriale che settoriale, sono strettamente collegati alla capacità di accelerare la realizzazione degli investimenti.

D. Alcuni dei provvedimenti che hai citato non erano nel testo generale del Governo; più in generale vi è stata una completa revisione del testo in Commissione prima ed in aula poi. Anche se ciò può ritenersi normale, anzi qualifica l’intervento delle varie istanze come apporto costruttivo e non come mera ratifica, non si può negare che in questa circostanza si è fatto ‘tabula rasa’ della proposta governativa iniziale; come si concilia questo con il ruolo che alla finanziaria si vuole assegnare di verifica della fattibilità del programma di governo per l’anno a venire?

R. Non direi che si è fatta tabula rasa dell’iniziale proposta governativa. D’altronde non possiamo dimenticare che il primitivo testo venne presentato a settembre, da un altro governo ed in una situazione congiunturale che si è venuta drammaticamente modificando nel giro di pochi mesi, senza parlare del verificarsi dell’evento del sisma, che ha imposto l’esigenza del reperimento di nuove e consistenti risorse finanziarie da destinare alla ricostruzione. In pratica nel confronto tra Governo e Parlamento, sulla base anche della prima nota di variazioni e degli emendamenti al testo della finanziaria presentati dal Governo stesso, si è operato in un continuo raccordo tra programmi di spesa, obiettivi di politica economica e manovra finanziaria. Circa quest’ultimo aspetto infatti, nonostante l’introduzione della nuova spesa per le pensioni, ed a parte le necessità intervenute successivamente per porre vincoli ulteriori all’espansione del disavanzo (situazione valutaria internazionale, peggioramento ulteriore della bilancia dei pagamenti, eccetera), non sono stati superati in modo rilevante i limiti posti responsabilmente dal Governo per la determinazione del livello massimo del ricorso al mercato finanziario, nell’ambito delle compatibilità di una manovra coerente di politica economica.

D. Ponendoci su di una tematica più generale, qual è il disegno di politica economica che emerge dalla legge finanziaria approvata nel persistente dilemma tra stretta creditizia antinflazione e politica di sviluppo per l’occupazione?

R. Certamente la linea di politica economica sottesa alla legge finanziaria ed al conseguente quadro di bilancio è quella individuata già, nei riferimenti di fondo, nella Relazione previsionale e programmatica per il 1981, e secondo la quale la correzione degli squilibri economici interni, accentuati dai fattori esterni di crisi, dipende da una decisa azione antinflazionistica, sostenuta da guadagni di produttività del sistema e quindi da maggiori investimenti. A tal fine importanti risultano gli obiettivi intermedi: contenimento (sul 5% del Pil) della quota di disavanzo corrente del settore pubblico allargato; aumento degli investimenti pubblici, specialmente in settori strategici; mantenimento, entro valori compatibili, del livello del fabbisogno complessivo di detto settore pubblico. Pertanto la legge finanziaria 1981, come licenziata dalla Camera e poi, senza variazioni, approvata definitivamente dal Senato, ha retto a mio parere, sul fronte del collegamento con i suddetti obiettivi di politica economica. In effetti si è determinato un livello di risparmio pubblico negativo (il disavanzo di parte corrente) coerente con tale impostazione, almeno in termini di competenza.

D. La notizia dell’approvazione definitiva della legge al Senato è stata data da ‘la Repubblica’ del 28 marzo con il titolo ‘La maggioranza ha approvato una legge tutta da rifare’. Ciò, evidentemente, in relazione sia agli ‘sfondamenti’ operati da leggi di spesa approvate dal Parlamento, sia alle misure della ‘domenica nera’ del 22 marzo che avrebbero stravolto l’intero quadro finanziario. Cosa pensi di questo giudizio e come ritieni che si colleghi la legge all’attuale situazione economico-finanziaria del Paese e agli impegni che ne derivano?

R. Che le decisioni del Parlamento e l’aggravarsi della situazione economica abbiano determinato l’adozione di nuovi provvedimenti monetari, tra cui la ulteriore restrizione creditizia, e la necessità di comprimere ulteriormente la spesa corrente, non significa che vengono meno le ipotesi sulle quali si fonda la legge finanziaria; esse, anzi, ne ricevono positiva conferma. Una qualificazione della spesa nella direzione degli investimenti, in coerente rapporto con le linee del Piano Triennale e rivolta a privilegiare una concreta politica dell’offerta, è indispensabile per accrescere la produttività, come una delle condizioni più importanti per contribuire a combattere le cause che sono alla base di un così elevato tasso di inflazione nel nostro Paese. Non vedrei pertanto contraddizione tra misure restrittive in atto e sostegno, in termini produttivistici, ai settori dell’economia, come possibilità offerte dalla finanziaria. L’uscita dalla crisi e la ripresa economica non dipendono certamente da più o meno dure strette creditizie. Esse sono necessarie se non si aggrediscono, attraverso responsabilità congiunte di Governo e di forze sociali, i complessi nodi che alimentano gli elevati impulsi inflazionistici che sono, come è ben noto, da domanda e da costi al tempo stesso, e da costi interni ed esterni contemporaneamente. Lo Stato deve fare la sua parte, organizzando meglio le sue spese, da un lato contenendo al massimo quelle che hanno connotazioni chiaramente improduttive e parassitarie, e dall’altro assicurando tempestività di sostegni agli investimenti. Gli altri centri di decisione devono assumersi le loro responsabilità, anche per un approfondito esame delle conseguenze di indicizzazioni esasperate ed illogiche di fronte ad un tasso di inflazione a due ‘decine’ se non a tre.

D. Ti chiediamo ora delle notazioni personali, se ce lo consenti: quali sono state le più petulanti richieste di modifica della legge e i momenti di maggiore imbarazzo nel non accettare istanze astrattamente giustificate ma in contrasto con le compatibilità ed i vincoli finanziari?

R. Non direi che si siano avute richieste per così dire ‘petulanti’, a parte il tentativo d’inserire nella legge problemi marginali e riguardanti soluzioni particolari di interesse di zone e categorie. Debbo dire che questo tentativo in elevata misura non ha avuto udienza. Un momento di reale imbarazzo è certamente stato quello della discussione sugli emendamenti per i trattamenti pensionistici, ed in particolare per l’aspetto relativo ai benefici quantitativi da concedere. Resto invece convinto che a parte la previsione di spesa necessaria per assolvere a tale impegno, la materia non avrebbe dovuto trovare posto nella legge finanziaria, come non ha niente a che vedere con la legge la prima parte, introdotta con voto dell’aula, e relativa a disposizioni di materia fiscale.

D. A parte questo aspetto particolare ma restando sempre nelle notazioni personali, non ti chiediamo i momenti ‘politicamente’ più difficili anche perché a tutti noti, ma quelli ‘umanamente’ più frustranti, Ci riferiamo all’andamento della discussione sul quale nella tua replica hai avuto accenti critici anche per l’ostruzionismo strisciante messo in atto da alcuni gruppi. Cosa puoi dirci al riguardo e quali rimedi si possono prospettare?

R. Proprio l’andamento della discussione generale in Aula è stato motivo di conferma dello svilimento in cui rischia di cadere sempre più l’attività del Parlamento, se non si ribadiscono condizioni per ridare tono e interesse al dibattito in un confronto serrato e più vivace. Posso comprendere i lunghi ripetitivi interventi, che diventano di fatto soliloqui nel deserto dei banchi parlamentari, quando si mette in atto un ostruzionismo che può avere una sua dignità di fronte a temi politici rilevanti. Ma non comprendo assolutamente un andazzo che tende unicamente ad intralciare il lavoro parlamentare. In particolare, in occasione del dibattito sul bilancio e sulla legge finanziaria, atti fondamentali di indirizzo e di controllo dell’azione di Governo, è inconcepibile procedere come in questi ultimi anni. Come ho detto nella mia replica, ritengo che sia indispensabile, oltre che serio, dedicare, come del resto prevede il regolamento della Camera, una specifica sessione autunnale alla discussione ed all’approvazione della legge finanziaria e del bilancio. E’ un periodo nel quale l’attenzione del Parlamento, e quindi del Paese, deve essere interamente accentrata su decisioni tanto determinanti per la vita sociale, quali quelle relative alla politica economica. Il dibattito inoltre dovrebbe essere più serrato, con brevi interventi, che favoriscano repliche immediate, in un confronto diretto e continuo. Si ravviverebbe in tal modo l’interesse a stare in Aula da parte dei parlamentari, si ricreerebbe il gusto di sentirsi partecipi delle decisioni.

D. Non ritieni, però, che le disfunzioni siano ancora più vaste e diffuse, come emerge dalle defatiganti discussioni svolte in tutte le Commissioni dalle quali – ad eccezione della Commissione bilancio che ha gestito di fatto la legge e della Commissione affari costituzionali che ne ha compiuto una penetrante analisi critica – sono venuti pareri di una estrema povertà con l’unico scopo spesso di inserire richieste di stanziamenti particolari, peraltro molto marginali? Non si lega a tutto questo anche il discorso, che monta sempre di più, della riforma istituzionale e costituzionale?

R. E’ proprio il modo attuale di procedere dei lavori parlamentari, con l’accavallarsi dei problemi e la conseguente farraginosità dei meccanismi, che crea una dispersione di interesse e rende spesso superficiale l’esame dei provvedimenti. Proprio restando alla finanziaria ed al bilancio, se l’intero Parlamento sapesse di essere chiamato per quindici-venti giorni di seguito a trattare soltanto di tali argomenti, sulla base di un calendario preciso, io ritengo che ogni parlamentare sarebbe stimolato a seguire, ad approfondire, a confrontarsi, per gli specifici settori nell’ambito delle rispettive Commissioni e poi in assemblea. Non legherei quindi il problema alla tanto vexata quaestio delle riforme costituzionali. Per me personalmente non è questa la via per risolvere il gap che si è creato tra istituzioni e cittadini. Certamente alcuni aggiustamenti di determinate norme costituzionali sono anche necessari, ma non investono aspetti di fondo. Modifiche elettorali o regolamentari sono peraltro sempre possibili. L’importante, ritengo, è che ognuno cerchi di far procedere meglio le cose per la parte di responsabilità che ha. Anche per il Parlamento, dipende dalla buona volontà di tutti farlo funzionare meglio. Se a tal fine è necessario apportare qualche modifica al regolamento della Camera, lo si faccia e presto.

D. Consentici di introdurre un’altra domanda personale con una citazione del relatore di minoranza alla legge, l’On. Carandini che in sede di replica ha osservato che ‘tra i tanti primati del nostro paese c’è quello del più alto rapporto fra spesa pubblica e prodotto interno lordo e del più basso rapporto fra discussione di temi di politica economica e dibattito politico generale’. A parte un tuo commento su questa affermazione, ci interesserebbe una tua notazione spontanea sull’esperienza – certamente importante per un uomo politico che è anche un ‘tecnico’ in materia economica – di aver vissuto dal di dentro per alcuni mesi la gestazione di un provvedimento chiave per l’economia del Paese.

R. Mi sento di concordare con questa affermazione di Carandini. D’altro canto molti mali della nostra vita politica derivano dalla eccessiva ideologizzazione delle posizioni, per cui il confronto, o lo scontro, si alimenta soprattutto delle tematiche teoriche e degli equilibri necessari per la governabilità, mettendo in zona residua la differenziazione concreta sulle scelte e sulle soluzioni. Non che la vita politica non debba alimentarsi di tensione ideale, ma essa è chiamata anche a risolvere i problemi della gente, e da questa bisogna farsi capire. Proprio tenendo presente ciò vorrei rispondere alla seconda parte della domanda. Dico anzitutto che questa esperienza è stata per me senz’altro significativa, anche se, non proprio come relatore, avevo avuto modo di viverla molto da vicino già negli anni precedenti. La notazione spontanea: sono sempre più convinto della necessità che si trovino i modi più opportuni e semplici per far capire alla gente le questioni delle quali si discute, e questo a maggior ragione in occasione dell’approvazione della finanziaria e del bilancio, i motivi delle scelte che si fanno, gli obbiettivi che si intendono raggiungere. Si tratta cioè di facilitare il riavvicinamento tra cittadino e Stato. Perché, ad esempio, dopo l’approvazione del bilancio, non si pensa a stampare un semplice e chiaro opuscolo illustrativo dello stesso, da diffondere nel Paese, a cominciare dalle scuole superiori?

D. La ventesima ed ultima domanda vorremmo che fossi tu stesso a proporla: puoi rispondere a quella domanda che avresti voluto ti fosse posta e che invece non figura nel ‘terzo grado’ a cui con molta cortesia hai accettato di assoggettarti? Grazie anche a nome dei nostri lettori.

R. La domanda: ‘con tutti i problemi, soprattutto di procedura, che la legge finanziaria ha sollevato, la aboliresti?’ Risposta: No. Pur con le accennate esigenze di apportare miglioramenti alla legge numero 468, ritengo la legge finanziaria un significativo passo avanti nell’adeguamento dell’intero sistema di contabilità pubblica, anche ai fini di una più moderna attuazione dei compiti di indirizzo e di controllo da parte del Parlamento, che proprio nel controllo delle spese del Re ebbe il fondamento iniziale della sua giustificazione storica.

Conclusione

La domanda finale che l’On. Aiardi ha prescelto è proprio quella che avrebbe voluto fargli il Direttore della Rivista Prof. Macera e che esitavo a proporre ritenendola troppo provocatoria. Siamo grati al Relatore della finanziaria per essersela posta spontaneamente cogliendo – con acuta sensibilità politica – la domanda di fondo proveniente dall’opinione pubblica dinanzi alle tormentate vicende della tanto discussa legge. Non sappiano se i lettori della nostra Rivista condivideranno la sua risposta. Ma è certo che gli elementi ampi e documentati da lui forniti nel corso della lunga intervista consentono ora un giudizio più motivato e comunque non superficiale su questo tema di basilare importanza per la vita politico-economica del paese.

Anche di questo ringraziamo l’On. Aiardi a nome dei lettori di Realtà del Mezzogiorno che avranno avuto la costanza di seguirci nei meandri tecnici e procedurali oltre che economici e politici di una legge così complessa.”

Qui termina la lunga intervista dell’aprile 1981. A questo punto un ringraziamento va ai lettori di Abruzzo Cultura che hanno avuto pari costanza. Sono stati premiati dal fatto che il finale, lo vediamo ora, si ricollega alla presentazione iniziale dove abbiamo riportato le parole del Ministro Tremonti “e la finanziaria non c’è più…”. Queste rendono quanto mai attuale il dilemma di allora.

Nella seconda parte dell’intervista si entra anche nei contenuti della legge finanziaria 1981 e, come si vede, molti collimano con quelli attuali, a parte il tasso di inflazione “a due decine” lontano anni luce, e la conseguente politica antinflazionistica assente nella presente fase di deflazione; aspetto certo non secondario, ma che non muta il giudizio di fondo. Nella visione di allora abbiamo una prova ulteriore che i problemi trattati come emergenze si ripresentano come ordinari e permanenti finché le sempre invocate riforme di struttura non fanno il miracolo di risolverli, come avvenne per le abnormi spinte inflazionistiche cessate con l’abolizione dell’indicizzazione della scala mobile, per di più esasperata dall’unificazione al livello massimo del punto di contingenza; a questo si accenna nell’intervista come all’esigenza di una sessione speciale di bilancio con dibattiti serrati senza ostruzionismo, alla riforma del regolamento della Camera e ad altri punti critici, e si può dire oggi a ragion veduta, che sono stati risolti nel senso allora auspicato con preveggenza.

Abbiamo parlato all’inizio di “buchi” e “toppe” nella finanziaria di “ieri”, ma si è visto altresì che il sistema era volto proprio alla trasparenza e al controllo dei conti, obiettivo invece del tutto mancato, anzi rovesciato se fino ad allora i conti pubblici erano in sostanziale equilibrio, pur se precario, mentre poco dopo, con i primi anni ’80, è iniziata la corsa al deficit.

Il rapporto tra debito e Prodotto interno lordo, che nel 1981, l’anno della finanziaria di “ieri”, era del 56%, dieci anni dopo era schizzato al 95%, proprio allorché i parametri di Maastricht nel 1992 lo richiedevano entro il 60% che l’Italia riuscì a far considerare tendenziale; la corsa non si è arrestata, si è superato anche il 120% dopo temporanei contenimenti. Tutto ciò sebbene i vincoli europei al deficit di bilancio abbiano costituito una barriera che negli anni ’80 non c’era; allora bastavano le alchimie interpretative e manipolatorie su un sistema complesso, lacunoso e farraginoso, insieme al rapporto consociativo tra maggioranza e opposizione, sindacati e poteri vari, a creare in un decennio il dissesto dei conti pubblici senza che qualcuno facesse rinsavire.

Un “come eravamo” molto istruttivo, dunque, particolarmente in questa delicata fase di passaggio a un nuovo sistema. Per non risvegliarci un giorno amaramente dal sogno, con una “pancia” ancora debordante, come il patetico omino protagonista dello spot televisivo ricordato all’inizio.

Montorio al Vomano, dalla paura alla speranza nella “vetrina del Parco”

di Romano Maria Levante

Si è presentato da subito come un evento del tutto particolare l’importante Convegno “Dalla paura alla speranza” tenuto nell’ambito della “Vetrina del Parco” a Montorio al Vomano (Teramo) la sera del 5 settembre 2009.

Innanzitutto la sala, adiacente alla chiesa parrocchiale con sulle pareti le immagini in bianco e nero della mostra fotograficaMontorio ieri e oggi”, un “come eravamo” e “come siamo” attraverso gli scatti paralleli; a destra del palco una gigantografia a colori del Calderone, il ghiacciaio più meridionale d’Europa, anche se oggi il ghiaccio è poco visibile in superficie sommerso dalla pietraia, “cova” all’interno, è un ghiacciaio “attivo”, se si può usare il termine coniato per i vulcani.

La sala è affollata, non ci sono i preannunciati Gianni Chiodi e Guido Bertolaso, trattenuti a L’Aquila dall’arrivo del presidente Giorgio Napolitano e dalle incombenze per il concerto di Riccardo Muti, ma interlocutori comunque di prestigio di Arturo Diaconale, nella doppia veste di giornalista moderatore del dibattito e di Commissario al Parco, quindi protagonista: il direttore dei laboratori del Gran Sasso Eugenio Coccia, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Lorenzo Del Boca, e soprattutto il sindaco di L’Aquila Massimo Cialente, ospite quanto mai autorevole, insperato… soccorso alpino al suo collega di Montorio Alessandro Di Giambattista oltre che al Commissario; e poi il caporedattore Domenico Logozzo della locale sede Rai.

Non si tratta di sostituti dei grandi assenti, ma di validi protagonisti in una tavola rotonda che ha esplorato i due versanti a cui Diaconale è sembrato tenere in modo particolare: il versante delle proposte di rilancio, mirate all’eccellenza per andare “più alto e più oltre” di prima, e ci si perdoni il motto dannunziano; il versante della comunicazione, anch’esso di importanza basilare per mantenere desta l’attenzione, far sì che i riflettori restino puntati su L’Aquila e sull’Abruzzo.

Trarre da un così grave evento negativo qualcosa di positivo è l’imperativo categorico declinato da Diaconale, del resto è l’insegnamento delle scuole di “management”, “trasformare le minacce in opportunità”. Qui si deve andare oltre, come non si è trattato di una minaccia ma di un cataclisma biblico così non ci si può fermare alle opportunità ma bisogna puntare all’eccellenza.

E in tutto questo, lo ha detto chiaramente Diaconale, non c’è spazio per un “Abruzzo petrolifero e petrolchimico”. La minaccia che la “regione verde d’Europa” possa diventare “regione nera” è stata evocata dal “Comitato Abruzzese Difesa Beni Comuni” che ha distribuito un volantino e una lettera del 15 giugno con la richiesta di incontro al presidente della Regione per scongiurare un pericolo incombente: con il 1° gennaio 2010 scadrà la moratoria in atto e potranno avere via libera le attività estrattive all’interno e sul mare “nel 50% del territorio abruzzese, coperto da concessioni petrolifere, in particolare della provincia di Teramo, di cui si vociferano già possibili locazioni di raffinerie di petrolio”; la situazione è aggravata dal fatto che “il petrolio abruzzese è un petrolio ‘amaro’, cioè estremamente inquinante e l’estrazione e la sua depurazione, sia in terra che in mare, comporta certezza di inquinamento dell’ambiente circostante e delle falde acquifere”. Non si tratta della rituale denuncia di anime belle fondamentaliste della tutela ambientale. Firmatari della richiesta di incontro che paventa queste conseguenze, espresse nel volantino in termini ben più crudi – “condanna a morte l’agricoltura, l’economia eno-gastronomica e lo sviluppo turistico dell’Abruzzo” – sono i presidenti delle maggiori associazioni produttive, ad eccezione degli industriali, e il motivo della loro assenza è evidente. Troviamo Confcommercio e Federalberghi, Confagricoltura e Coldiretti, Confederazione agricoltori e Federpesca, Assoturismo e Confederazione artigianato, Consorzio colline e Unione comuni Val Vibrata, fino all’associazione Camping e al sindacato. Confidiamo che il presidente Chiodi ascolti le loro ragioni. E se le premesse sono quelle indicate, sono le ragioni di tutti, del Parco e dei settori produttivi più legati al modello di “sviluppo sostenibile” che è una risorsa preziosa per uno sviluppo basato sulla natura e sull’ambiente, sulla storia e sulla cultura, insomma sulle identità forti della terra d’Abruzzo.

Il progetto di eccellenza “Gran Sasso Institute”

Un intervento non rituale è stato quello del direttore dei Laboratori dell’Istituto di fisica nucleare del Gran Sasso – posti nelle grandi caverne adiacenti al traforo con le loro attrezzature d’avanguardia schermate dai raggi cosmici da oltre duemila cinquecento metri di spessore della roccia, meta degli scienziati di tutto il mondo – che hanno fatto entrare la zona tra i territori di eccellenza sul piano scientifico e tecnologico classificati dal Censis. Il prof. Coccia descrive il progetto già ventilato con Diaconale e con Cialente prima del terremoto. Si tratta del “Gran Sasso Institute”, un centro di formazione scientifica di eccellenza di alto livello sul piano internazionale da realizzare in superficie, collegato ovviamente al centro sotterraneo che ha già un elevatissimo “standing” a livello mondiale ma non può espandersi oltre la dimensione attuale. Però, con il richiamo che rappresenta, potrà aiutare a decollare il centro di superficie previsto ad Assergi, per il quale è stata già individuata l’area in passato occupata dal cantiere della Cogefar. Ben collegato con l’autostrada in loco e con il vicino nuovo aeroporto di Preturo utilizzato per il G8, rimasto come preziosa infrastruttura per L’Aquila, potrà dar luogo a un polo scientifico di forte attrattiva internazionale nelle articolazioni sotterranea e di superficie con potenti sinergie e complementarità a livello di infrastrutture, attrezzature e ricercatori.

Il prof. Coccia ha chiarito che è una cosa ben diversa dal laboratorio sotterraneo dove si fa ricerca tematica, il nuovo progetto è rivolto ai giovani ai quale si vuol dare una scuola di alta formazione e specializzazione d’eccellenza per dottorati di ricerca particolarmente avanzati. Si potrà considerare anche la possibilità di far frequentare corsi speciali agli iscritti all’Università a L’Aquila, in modo da creare un motivo in più perché non si abbassi il gradimento per la città nonostante le ferite materiali che il terremoto ha lasciato nel corpo urbano, e le ferite morali al cuore e all’anima di tutti anche per le tante vittime tra i giovani universitari nella Casa dello studente.

I docenti dovranno essere del massimo livello internazionale così da richiamare i migliori studenti da tutto il mondo. E’ questa un’esigenza già sentita prima, con il terremoto diventa primaria e urgente per evitare la disaffezione verso l’università duramente colpita dal terremoto; non basterà tornare come prima, o almeno per farlo occorrerà puntare più in alto, rilanciando al massimo livello.

“L’Aquila città della scienza” dovrà essere non un semplice slogan ma una constatazione una volta realizzato questo progetto. Già l’Ocse, l’organizzazione dei paesi più industrializzati cui è stata sottoposta l’idea centrale da trasformare in progetto è stata favorevole, come lo è il presidente regionale Chiodi e, lo abbiamo detto, il Commissario al Parco Diaconale, tra gli ideatori. E il sindaco di L’Aquila cosa ne pensa? Diaconale lo anticipa, comunica già il suo accordo, ancor prima del sisma, e dà il giusto riconoscimento di come ha saputo esprimere e trasmettere, con il suo impegno incessante e il comportamento dignitoso e determinato, i valori più sentiti dai cittadini aquilani.

L’appassionata testimonianza del sindaco dell’Aquila

Ed eccolo il sindaco Cialente, il suo abito blu sempre in ordine è diventato quasi una divisa, quella di un’autorità istituzionale calata nei panni del cittadino, sa che non può mollare e deve tenere alto il livello della propria presenza e della propria azione in ogni ora, in ogni momento. Così sembra appena uscito da una riunione, da un briefing, da un intervento d’emergenza, e nello stesso tempo uscito da casa, dopo aver dato un bacio ai familiari prima di iniziare una giornata di routine.

Inizia con una rievocazione da brivido: “Il terremoto ha distrutto in modo selettivo, chirurgico, una città, unico precedente assimilabile il tremendo terremoto di Messina”. Poi la difficoltà di governare dal centro con decreti, ordinanze, che devono essere rivisti quando emergono dissonanze rispetto alle esigenze spesso molto particolari delle zone interessate. L’impostazione iniziale deve essere modificata, per realizzare gli insediamenti abitativi nelle singole località e frazioni più colpite in modo da mantenere l’identità territoriale; esigenza che come tante altre non è facile far capire al centro. Però nega contrasti con la Protezione civile con la quale ci si confronta in piena armonia, con Bertolaso addirittura c’è .il comune linguaggio dato dalla medesima professione di entrambi.

Si preannunciano momenti difficili, le tensioni sono destinate crescere. Di qui un appello: “Chi ha un ruolo politico, istituzionale, deve adoperarsi per far allentare le tensioni e creare un clima più sereno e costruttivo, per poter operare positivamente”.

Il terremoto ha sconvolto anche l’azione amministrativa, non soltanto perché le sedi sono divenute inagibili e l’intera macchina si è arrestata; ma anche perché quando si è riavviata è stata completamente assorbita dall’emergenza. E qui il Sindaco ha fornito una notizia molto interessante, L’Aquila stava predisponendo il Piano strategico prima del terremoto, sarebbe stato portato presto in Consiglio comunale in modo da essere approvato entro il mese di aprile, iniziato purtroppo nel modo tragico che tutti conoscono.

Veniva ridisegnato il futuro definendo la sua missione sia di capoluogo di regione, sia di città alle prese con la crisi in uno dei settori portanti, quello dell’elettronica. Un futuro ancorato ad alcune idee forti su cui imperniare la “mission” cittadina.

La prima è di porre la montagna, il Gran Sasso, al centro del progetto di rilancio del sistema città-territorio con uno sviluppo eco-compatibile dando impulso a un turismo di tipo più avanzato. La seconda di farne una città della cultura e della qualità della vita. La terza di valorizzarne il grande patrimonio di centri storici, considerando che il solo capoluogo è una delle città italiane con il maggior numero di edifici vincolati per i pregi storico-artistici. La quarta idea è rilanciare l’Università, i centri di ricerca e l’industria “high tec”, aero-spaziale e farmaceutica.

E qui ha espresso il suo forte sostegno al progetto del “Gran Sasso Institute” enunciato da Coccia dei Laboratori e dal Commissario del Parco Diaconale, aggiungendo che lo stesso ministro Tremonti lo ha sfidato a presentare progetti concreti assicurandone l’approvazione; l’Ocse dopo l’assenso di massima all’idea dell’Istituto di studi superiori attende il progetto. E’ necessario il salto di qualità per impedire che l’Università, la quarta in Italia, possa avere contraccolpi negativi dalla tragedia che l’ha colpita. L’Ateneo è fondamentale anche nella vita economica cittadina, per gli effetti diretti nell’abitativo e nella ristorazione come nelle altre attività interessate dall’indotto. Un segnale positivo c’è stato e il Sindaco lo ha comunicato con malcelata soddisfazione: “Già 4.000 studenti fuorisede hanno chiesto di tornare, ci saranno case mobili, l’Università riparte”.

Nell’immediato due sono i grandi progetti di rilancio di respiro internazionale: l’Università portata a livello di eccellenza; un grande polo pubblico-privato delle telecomunicazioni. E’ stata individuata in un tempo record un’area di centomila metri quadri sulla quale realizzare lo stabilimento di quarantamila metri quadri coperti per un’industria di tecnologia molto avanzata.

Anche la ricostruzione del centro storico avverrà introducendo processi fortemente innovativi, fare realizzazioni d’avanguardia non è una novità per L’Aquila, se nel 1933-36 Campo Imperatore era la località sciistica più moderna d’Europa e si raggiungeva in sole tre ore e mezza dal centro di Roma. Dovrà essere portata questa stazione sciistica a livelli di avanguardia comparabili a quelli del passato in un’azione combinata enti locali-regione-Parco, per farne un vero motore di sviluppo, essendo la montagna una autentica fonte di ricchezza da valorizzare in una visione moderna. In questa prospettiva si colloca la privatizzazione della stazione sciistica, già decisa e avviata, e anche il recupero dei borghi. Con una nuova residenzialità che ne sfrutti tutte le potenzialità.

L’aeroporto di Preturo realizzato per il G8 deve diventare l’indispensabile canale dei flussi turistici nazionali ed internazionali, senza dualismi e competizioni controproducenti con l’aeroporto di Pescara, ma in stretto coordinamento e sinergia per accrescere l’efficacia dei collegamenti abruzzesi. “Ci vorrà qualche anno per fare tutto, ha concluso il sindaco Cialente, ma dovremo da subito disegnare un pezzo di Abruzzo nella prospettiva 2050, diverso e più avanzato da quello che portavamo avanti a fatica prima del terremoto”. Un messaggio volitivo corredato di progetti in fieri, e non solo una lettera di intenti.

Il ruolo della comunicazione

L’intervento appassionato e denso di contenuti di Cialente ha segnato il passaggio alla seconda parte del Convegno, quella destinata alla comunicazione, alla quale si è capito tenere molto Diaconale, fino a farne una sorta di “missione” dell’Ente Parco, tenere desta l’attenzione su L’Aquila e l’Abruzzo ed evitare che torni il cono d’ombra dopo i fasti del G8 e i riflessi successivi. La forza delle cose ha fatto sì che l’informazione abbia dovuto continuare a occuparsene nonostante la dignità e la correttezza degli abruzzesi abbia spuntato le due armi utilizzate in genere in queste circostanze: il pietismo e lo scandalismo. Ed è venuta fuori la forza dell’informazione autentica.

S è rivelata nella circostanza l’importanza dell’informazione locale, di cui ha parlato Logozzo, il caporedattore della Rai che ha coperto egregiamente il tragico evento sin dai minuti successivi con inviati locali che non si sono risparmiati nella situazione difficile e pericolosa dei primi momenti.

A Del Boca, Presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Diaconale chiede una valutazione sulla situazione dell’informazione e assicurazioni affinché l’attenzione non venga meno. E’ necessario mantenere .il senso dell’eccezionalità e dell’emergenza perché soltanto in queste condizioni l’italiano mobilita le energie e le istituzioni rispondono, cosa che non avviene nelle situazioni di normalità. L’attenzione continua serve anche a trasformare l’emergenza in occasione di sviluppo a un livello più elevato del precedente. Intanto Diaconale lancia l’idea di una premiazione dei giornalisti che si sono distinti nel documentare la tragedia del terremoto in una cerimonia da tenersi solennemente a Roma.

Del Boca ha dato il suo autorevole riconoscimento al prezioso lavoro svolto dall’informazione locale, intervenuta ben prima che avessero accesso alle zone colpite gli inviati venuti da fuori. Ed ha assicurato il proprio contributo a mantenere desta l’attenzione, nonché l’appoggio con la propria partecipazione all’iniziativa del premio proposto da Diaconale.

Con il ricordo commosso dei tre giovani di Montorio tra le trecento vittime del sisma si è concluso il Convegno.

Il seguito del Convegno

Il seguito c’è stato nello spazio stampa nel quale anche il sindaco Cialente ha potuto prendersi un po’ di relax dopo tanta tensione. Lo abbiamo rispettato, gli abbiamo chiesto solo se è della stessa idea che aveva a Roma quando lo interpellammo alla manifestazione “Culture a confronto” organizzata dal teramano consigliere comunale nella capitale Pasquale De Luca: cioè che occorre una “tassa di scopo” per finanziare la ricostruzione. Non si è tirato indietro, l’ha ribadito dato che le risorse non sembrano sufficienti per il grave problema del restauro dei monumenti, un’opera immane e molto costosa: “La ‘lista di nozze’ su cui si faceva affidamento, diffusa in tutto il mondo attraverso i grandi del G8 divenuto G12 e oltre, finora non ha funzionato. Del resto anche nella lista per gli sposalizi quelli che vanno via subito sono… i portacenere, poi la raccolta si ferma”.

Anche questa è stata una notizia, un piccolo “scoop” del sindaco Cialente, che ringraziamo pubblicamente anche a nome dei nostri lettori per l’amichevole disponibilità dimostrataci. E’ una dote rara in circostanze così difficili che non rendono certo agevole il lavoro dell’informazione.

Così si è concluso il Convegno della speranza. Ricco di propositi e anche di progetti concreti. Ne seguiremo l’iter fino alla realizzazione, intanto ne salutiamo l’annuncio con un apprezzamento particolare: perché in prospettiva andranno a inserirsi in un piano strategico che ridisegnerà la “mission” di L’Aquila in termini nuovi e più avanzati come capoluogo di regione e come “Città della scienza”, valorizzando la montagna in termini ambientali e come fattore di sviluppo.

In questo modo dalla minaccia si sarà tratta un’opportunità, dalla tragedia e dal sacrificio potrà nascere una nuova consapevolezza, una rinsaldata coscienza civile, un rinnovato patto di cittadinanza verso un futuro di innovazione e di progresso. La città lo merita e lo realizzerà.

1 Commento

  1. Giosuè

Postato settembre 17, 2009 alle 7:23 PM

Romano Maria Levante GRAZIE!!!

Alice, il “Chaos”, opere cosmiche ispirate al terremoto, a Montorio

di Romano Maria Levante

Un’esplosione di colori, di sentimenti e di valori in dieci composizioni spettacolari. Visita alla mostra “Caos” dell’artista Alice, inaugurata a Montorio al Vomano (Teramo) il 4 settembre 2009.

Abbiamo parlato di immutabile per la chiesa parrocchiale e per fortuna lo è rimasta. Invece c’è qualche cosa, c’è tanto che ha avuto ben altra sorte, pensiamo solo all’abside della basilica di Santa Maria di Collemaggio, la parte superiore scoperchiata, non potremo mai dimenticare il cielo aperto dov’erano le “voltine” barocche sovrapposte alla nudità della struttura quando vi siamo entrati dopo l’apertura della Porta Santa per la Perdonanza. A terra un cumulo di macerie con l’infinità di elementi che le compongono, pezzi di affresco, di fregio, di tutto; questa frammentazione di un ordine immutabile ha preso il cuore.

Una scena analoga si è ripetuta nelle tante ferite inferte dalla scossa sismica, purtroppo spesso mortali, alle persone come ai monumenti, a tutto; una distesa di oggetti privi ormai di significato perché staccati dalla loro funzione originaria, recisi dalla vita anche quando la vita non è stata recisa. Ricordiamo le immagini post terremoto delle case sventrate, dalle quali emergevano gli interni, messi in piazza in modo impudico per così dire; lo abbiamo visto rappresentato dai “Cinque registi tra le macerie”, è stato un aspetto che ha colpito gli artisti. Ebbene, ovunque oggetti compagni della vita, amati come ricordo o come pegno, dispersi e abbandonati privi di ogni valore.

Ci eravamo chiesti cosa significasse tutto ciò, la disumanizzazione degli oggetti, forse pari a quella della realtà, con la natura divenuta non solo matrigna ma assassina. Aveva un nome tutto questo?

La cosmogonia di Alice

Sì, ora ha un nome, lo ha trovato Alice, e non si è limitata al titolo, ci ha costruito sopra una sorta di cosmogonia e di palingenesi, partendo addirittura dalla Teogonia di Esiodo che al verso 116 postula un “inizio senza inizio” dal quale tutto “trae origine e vita”. Se “sono tre gli attori della creazione” , c’è n’è uno dal quale si parte: “Dunque per primo fu Chaos”, poi vengono “Gaia ed Eros”, la Terra e l’Amore. Cioè tutto. Anche nella Creazione ebraico-cristiana “in principio Dio creò il cielo e la terra” ma non dal nulla; la terra era “informe e vuota”, c’era confusione e indeterminatezza, il Chaos primordiale fu vinto dalla Creazione che diede un ordine superiore. Ci torna in mente l’Aleardo Aleardi della nostra infanzia. “Dimmi, cosa è Dio?”, “‘Ordine’, risposero le stelle”.

Di fronte a tutto questo non potevamo non immergerci nel mondo di Alice, nella sua mostra di arte pittorica e non solo, che prende con i suoi colori lancinanti come prima ci aveva preso il bianco e nero delle foto d’epoca, ma non ci prende il colore, bensì quello che c’è dietro, che c’è dentro.

In primo luogo c’è una sensibilità che viene da lontano, se Maurizio Fallace, uno dei Direttori Generali di punta dei Beni culturali, ha scritto di lei: “E’ la forza e la maestria di un talento innato ed indiscutibile rivitalizzato dalla ricerca, dallo studio e da un bagaglio culturale che si nutre costantemente della curiosità intellettuale e degli insegnamenti che l’artista ha tratto dai numerosi viaggi attraverso le biblioteche, le chiese, d’Europa e le meraviglie del mondo”. E ancora: “I lavori di Alice sono il frutto di un animo profondo che spinge gli occhi a guardare sotto il velo dell’esperienza sensibile e a cercare nuova luce e speranza oltre il limite delle brutali apparenze”.

E ha trovato “luce e speranza” nella visione cosmica di Esiodo, facendo appello a qualcosa di sovrumano nella solitudine disperata dinanzi ad apparenze che più “brutali” non potevano essere avendo la terribile evidenza della realtà. Sarà che ci colpiscono le visioni cosmiche – già era successo con le “Genesi” scolpite da Deredia, come i lettori sanno – sarà che ha evocato in noi l’Aleardi così lontano nel tempo, siamo stati subito presi dalla visione di Alice, che diviene filosofica soltanto in seconda battuta, nasce come impatto con la realtà, brutale come non mai.

Uno studio d’artista devastato, gli innumerevoli oggetti che ne sono strumento di lavoro e arredo a terra, in mille pezzi; come erano tutti al loro posto e in ordine la sera prima, e così li avrebbe trovati l’indomani, mentre erano sconvolti come se ci fosse stato un terremoto distruttivo; e c’era stato veramente il terremoto, addirittura catastrofico, aveva messo a soqquadro, come il suo studio, tutte le case della città, facendone crollare molte, annientando tante vite, seminando terrore e caos.

Dal caos del terremoto al Xàos o Chaos primordiale

Ma è un caos che agli occhi dell’artista assume nuove sembianze, diventa Chaos, dato che per esprimere l’esiodeo Xàos occorre aggiungere l’h, altrimenti sarebbe stato Kàos. E il Xàos di Esiodo è l”inizio senza inizio”, anche se qui sembra segnare una fine. Soltanto in apparenza.

I frammenti di vetri e materiali, polveri colorate e oggetti sono disseminati a terra e sulle tele anch’esse cadute spargendosi secondo contorni elaborati, profili inattesi, immagini inedite mai viste e neppure pensate o sognate. Lontano da ogni ordine e logica secondo il sentire e il vedere corrente, ma poteva trattarsi di un ordine diverso, di una logica nuova forse superiore a quella ordinaria perché creata dalle forze della natura. Anzi da una forza irresistibile come il sisma, scatenata da giganteschi movimenti di faglie, da immani pressioni che sommuovono la crosta della terra. Forze distruttive che, per la compresenza degli opposti, se creano qualcosa lo fanno in grande. E se fosse una creazione di simili forze quella che gli occhi di Alice hanno colto nello studio disastrato?

Questa l’origine di opere che non vanno confuse con i soliti “collage” anche di autori rinomati, di oggetti appiccicati su tela o altri supporti, in una composizione volta spesso più a stupire che a trasmettere particolari significati, meno ancora emozioni. Invece qui troviamo ambedue, il significato sta in una cosmogonia distruttiva che diventa creativa al tempo stesso, non solo per l’episodio che l’ha generata, ma per il significato filosofico che incarna.

Parola quest’ultima non messa a caso, perché è anche alla carne delle povere vittime che pensa l’autrice. Le sue composizioni sono create sotto la spinta dello scompiglio e del tumulto che stravolge le cose e tutto il resto ma per far riacquisire una purezza primigenia nei nuovi assetti voluti dal Chaos, nel senso di nuovo inizio tutto da decifrare; così sono, del resto, le palingenesi.

Il messaggio di Alice

Guardiamole da vicino le opere prima di penetrarne ancora il messaggio. Sono composizioni policrome fatte di una miriade di oggetti e frammenti, tra i quali i coloratissimi vetri di cattedrale e i swarovsky, le perle e i merletti, le catenelle e i fogli di giornale, e poi gli orologi, tanti, ossessivi. puntati sulla stessa ora, le 3,32, non serve dire perché.

E’ un cromatismo magico che pur nei suoi violenti contrasti trasmette un’armonia sottile, come l’accozzaglia di oggetti giustapposti anche in diversi piani rilevati compone un insieme organico del quale non è facile cogliere la chiave. Forse è nelle parole che ci dice l’autrice: “Sono oggetti preziosi perché abbiamo perduto un bene prezioso. Sono messaggi luminosi, ma il bello dobbiamo cercarlo dentro di noi, dentro gli altri. Rifaremo quello che abbiamo perduto, rimetteremo a posto tutti i tasselli, come quelli delle composizioni che, pur eterogenei, hanno trovato una loro unitarietà. La scossa ha creato un disordine, ma con esso nuove forme, opportunità diverse, le ho viste sul posto e le ho fissate per sempre al momento”.

Ci ha confidato pure che l’estemporaneità è nell’ispirazione, non nella realizzazione per la quale c’è voluta una cura particolare, l’approfondimento dei collanti e dei materiali, una razionalità tutta l’opposto dell’istintività di base. Come avviene per lo scrittore, le abbiamo detto ed ha convenuto, che “scrive il libro con il cuore e lo riscrive con la mente”.

E’ stato un piacere parlarle perché i suoi occhi esprimono l’autenticità e la sincerità, pur nella modestia di chi inconsciamente teme di aver trovato qualcosa di troppo grande, e tende a minimizzare. Né si tratta di neofita, lo sviluppo della creatività artistica con la ricaduta sociale delle iniziative volte a promuovere arte e cultura è la finalità dell’Associazione culturale “Forum Artis” che ha sede a Mosciano Sant’Angelo, di cui Alice è presidente con il suo nome anagrafico, Adelina Di Sabatino Di Diodoro. Ha anche interpretato la tragedia delle Torri Gemelle in un’opera che portò a New York nel 2002 come messaggio di pace, premiata come la prima ispirata all’11 settembre. E’ divenuta socia onoraria e medaglia d’oro della “Columbia Association” di New York City, Fire Department, il cui presidente Vincent Tummino venne a premiarla in Abruzzo nel 2005; visita che ha ricambiato tornando a New York nel 2008 per le commemorazioni dell’11 settembre.

L’artista delle catastrofi, allora? No, la sua pittura è ben diversa, ma sa lasciare il passo alle emozioni che cambiano la vita e quando sono così forti e sconvolgenti incidono sull’arte.

Le dieci scintillanti composizioni

Descriviamo le dieci composizioni, create nel terremoto e dal terremoto, e destinate dall’artista alla ricostruzione che è il messaggio subliminale più positivo contenuto nelle opere stesse. Perché non sono fosche e tristi, ma solari e scintillanti di luce e di vita, perché così deve essere il nuovo inizio, raccogliere tutto quanto di positivo è andato in frantumi per ricomporlo nella palingenesi creativa dove Gaia ed Eros prendono il testimone della staffetta da Chaos per volare in alto.

Dal Chaos sono uscite le trecento stelline luminose entrate nel cielo creato intorno al grande cerchio sconvolto nell’opera dedicata alle vittime, l’unica dove non appare nessuno degli orologi che si trovano in ogni altra, e costituiscono la maggior parte degli oggetti della composizione nella seconda opera circolare; la quale, oltre a rappresentare un immenso orologio con le grandi lancette ed includere una miriade di piccoli orologi tutti incollati alle 3,32, per le sue antenne giganti di segnatempo della distruzione diviene la madre terra dalle potenti leve su cui poggiare per ripartire.

Le altre composizioni hanno forme allungate, materiali diversi, un piccolo orologio c’è sempre con presenza discreta, il cromatismo di fondo varia dal verde al viola al blu senza una dominanza particolare. Sono variamente composite nella presenza di oggetti come nella coloritura brillante, che non è resa dalle pur pregevoli riproduzioni; la ricchezza espressiva si può cogliere solo vedendole nella loro originale fattura, impossibile da percepire in tutto il suo rutilante fulgore se riprodotta.

Luce e colore, quindi, ricchezza e ridondanza, una cornucopia che attende di ricomporsi ma intanto sciorina tutta la sua potenzialità di vita e vitalità, superato il trauma del Chaos primordiale.

Il viale della memoria

Usciamo dalla bella “cave” con volte in mattoni che ospita i magici cromatismi di Alice, avendo negli occhi il caleidoscopio di immagini cosmiche da lei create. Torniamo sulla terra pensando alla sincerità dell’ispirazione, dimostrata anche dal gesto di donare le opere per ricostruire cominciando così a dare sostanza al nuovo inizio che supera il Chaos ricreando la vita nei suoi colori.

Il canto popolare” dispensa le sue melodie evocatrici anch’esse di un ordine umano, quello della tradizione dai tempi immutabili. Risaliamo Corso Valentini, vi troviamo una galleria, questa volta attiva e pulsante, di antichi mestieri, di usi e costumi, con l’arcolaio e i fusi della filanda, la preparazione di cibi, gli antichi arnesi e i costumi d’epoca. Una via che non diventa un “viale del tramonto”, le figure e i volti non sono spenti, la virtù atavica dell’Abruzzo “forte e fiero” è tutta in questi protagonisti di una tradizione, di una cultura. E’ un “viale della memoria”, della tradizione che va tenuta viva e vitale perché è un bene prezioso.

Sì, è possibile ripartire. Il Chaos è alle spalle, lo è ancora di più il caos del sisma; c’è sempre questo solido retroterra delle nostre radici che marca un’identità precisa. Ed è sicura garanzia per il futuro.

Vetrina del Parco, dalla paura alla speranza, a Montorio al Vomano

di Romano Maria Levante

Si è presentato da subito come un evento del tutto particolare l’importante Convegno “Dalla paura alla speranza” tenuto nell’ambito della “Vetrina del Parco” a Montorio al Vomano (Teramo) la sera del 5 settembre 2009.

Innanzitutto la sala, adiacente alla chiesa parrocchiale con sulle pareti le immagini in bianco e nero della mostra fotografica “Montorio ieri e oggi”, un “come eravamo” e “come siamo” attraverso gli scatti paralleli; a destra del palco una gigantografia a colori del Calderone, il ghiacciaio più meridionale d’Europa, anche se oggi il ghiaccio è poco visibile in superficie sommerso dalla pietraia, “cova” all’interno, è un ghiacciaio “attivo”, se si può usare il termine coniato per i vulcani.

La sala è affollata, non ci sono i preannunciati Gianni Chiodi e Guido Bertolaso, trattenuti a L’Aquila dall’arrivo del presidente Giorgio Napolitano e dalle incombenze per il concerto di Riccardo Muti, ma interlocutori comunque di prestigio di Arturo Diaconale, nella doppia veste di giornalista moderatore del dibattito e di Commissario al Parco, quindi protagonista: il direttore dei laboratori del Gran Sasso Eugenio Coccia, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Lorenzo Del Boca, e soprattutto il sindaco di L’Aquila Massimo Cialente, ospite quanto mai autorevole, insperato… soccorso alpino al suo collega di Montorio Alessandro Di Giambattista oltre che al Commissario; e poi il caporedattore Domenico Logozzo della locale sede Rai.

Non si tratta di sostituti dei grandi assenti, ma di validi protagonisti in una tavola rotonda che ha esplorato i due versanti a cui Diaconale è sembrato tenere in modo particolare: il versante delle proposte di rilancio, mirate all’eccellenza per andare “più alto e più oltre” di prima, e ci si perdoni il motto dannunziano; il versante della comunicazione, anch’esso di importanza basilare per mantenere desta l’attenzione, far sì che i riflettori restino puntati su L’Aquila e sull’Abruzzo.

Trarre da un così grave evento negativo qualcosa di positivo è l’imperativo categorico declinato da Diaconale, del resto è l’insegnamento delle scuole di “management”, “trasformare le minacce in opportunità”. Qui si deve andare oltre, come non si è trattato di una minaccia ma di un cataclisma biblico così non ci si può fermare alle opportunità ma bisogna puntare all’eccellenza.

E in tutto questo, lo ha detto chiaramente Diaconale, non c’è spazio per un “Abruzzo petrolifero e petrolchimico”. La minaccia che la “regione verde d’Europa” possa diventare “regione nera” è stata evocata dal “Comitato Abruzzese Difesa Beni Comuni” che ha distribuito un volantino e una lettera del 15 giugno con la richiesta di incontro al presidente della Regione per scongiurare un pericolo incombente: con il 1° gennaio 2010 scadrà la moratoria in atto e potranno avere via libera le attività estrattive all’interno e sul mare “nel 50% del territorio abruzzese, coperto da concessioni petrolifere, in particolare della provincia di Teramo, di cui si vociferano già possibili locazioni di raffinerie di petrolio”; la situazione è aggravata dal fatto che “il petrolio abruzzese è un petrolio ‘amaro’, cioè estremamente inquinante e l’estrazione e la sua depurazione, sia in terra che in mare, comporta certezza di inquinamento dell’ambiente circostante e delle falde acquifere”. Non si tratta della rituale denuncia di anime belle fondamentaliste della tutela ambientale. Firmatari della richiesta di incontro che paventa queste conseguenze, espresse nel volantino in termini ben più crudi – “condanna a morte l’agricoltura, l’economia eno-gastronomica e lo sviluppo turistico dell’Abruzzo” – sono i presidenti delle maggiori associazioni produttive, ad eccezione degli industriali, e il motivo della loro assenza è evidente. Troviamo Confcommercio e Federalberghi, Confagricoltura e Coldiretti, Confederazione agricoltori e Federpesca, Assoturismo e Confederazione artigianato, Consorzio colline e Unione comuni Val Vibrata, fino all’associazione Camping e al sindacato. Confidiamo che il presidente Chiodi ascolti le loro ragioni. E se le premesse sono quelle indicate, sono le ragioni di tutti, del Parco e dei settori produttivi più legati al modello di “sviluppo sostenibile” che è una risorsa preziosa per uno sviluppo basato sulla natura e sull’ambiente, sulla storia e sulla cultura, insomma sulle identità forti della terra d’Abruzzo.

Il progetto di eccellenza “Gran Sasso Institute”

Un intervento non rituale è stato quello del direttore dei Laboratori dell’Istituto di fisica nucleare del Gran Sasso – posti nelle grandi caverne adiacenti al traforo con le loro attrezzature d’avanguardia schermate dai raggi cosmici da oltre duemila cinquecento metri di spessore della roccia, meta degli scienziati di tutto il mondo – che hanno fatto entrare la zona tra i territori di eccellenza sul piano scientifico e tecnologico classificati dal Censis. Il prof. Coccia descrive il progetto già ventilato con Diaconale e con Cialente prima del terremoto. Si tratta del “Gran Sasso Institute”, un centro di formazione scientifica di eccellenza di alto livello sul piano internazionale da realizzare in superficie, collegato ovviamente al centro sotterraneo che ha già un elevatissimo “standing” a livello mondiale ma non può espandersi oltre la dimensione attuale. Però, con il richiamo che rappresenta, potrà aiutare a decollare il centro di superficie previsto ad Assergi, per il quale è stata già individuata l’area in passato occupata dal cantiere della Cogefar. Ben collegato con l’autostrada in loco e con il vicino nuovo aeroporto di Preturo utilizzato per il G8, rimasto come preziosa infrastruttura per L’Aquila, potrà dar luogo a un polo scientifico di forte attrattiva internazionale nelle articolazioni sotterranea e di superficie con potenti sinergie e complementarità a livello di infrastrutture, attrezzature e ricercatori.

Il prof. Coccia ha chiarito che è una cosa ben diversa dal laboratorio sotterraneo dove si fa ricerca tematica, il nuovo progetto è rivolto ai giovani ai quale si vuol dare una scuola di alta formazione e specializzazione d’eccellenza per dottorati di ricerca particolarmente avanzati. Si potrà considerare anche la possibilità di far frequentare corsi speciali agli iscritti all’Università a L’Aquila, in modo da creare un motivo in più perché non si abbassi il gradimento per la città nonostante le ferite materiali che il terremoto ha lasciato nel corpo urbano, e le ferite morali al cuore e all’anima di tutti anche per le tante vittime tra i giovani universitari nella Casa dello studente.

I docenti dovranno essere del massimo livello internazionale così da richiamare i migliori studenti da tutto il mondo. E’ questa un’esigenza già sentita prima, con il terremoto diventa primaria e urgente per evitare la disaffezione verso l’università duramente colpita dal terremoto; non basterà tornare come prima, o almeno per farlo occorrerà puntare più in alto, rilanciando al massimo livello.

“L’Aquila città della scienza” dovrà essere non un semplice slogan ma una constatazione una volta realizzato questo progetto. Già l’Ocse, l’organizzazione dei paesi più industrializzati cui è stata sottoposta l’idea centrale da trasformare in progetto è stata favorevole, come lo è il presidente regionale Chiodi e, lo abbiamo detto, il Commissario al Parco Diaconale, tra gli ideatori. E il sindaco di L’Aquila cosa ne pensa? Diaconale lo anticipa, comunica già il suo accordo, ancor prima del sisma, e dà il giusto riconoscimento di come ha saputo esprimere e trasmettere, con il suo impegno incessante e il comportamento dignitoso e determinato, i valori più sentiti dai cittadini aquilani.

L’appassionata testimonianza del sindaco dell’Aquila

Ed eccolo il sindaco Cialente, il suo abito blu sempre in ordine è diventato quasi una divisa, quella di un’autorità istituzionale calata nei panni del cittadino, sa che non può mollare e deve tenere alto il livello della propria presenza e della propria azione in ogni ora, in ogni momento. Così sembra appena uscito da una riunione, da un briefing, da un intervento d’emergenza, e nello stesso tempo uscito da casa, dopo aver dato un bacio ai familiari prima di iniziare una giornata di routine.

Inizia con una rievocazione da brivido: “Il terremoto ha distrutto in modo selettivo, chirurgico, una città, unico precedente assimilabile il tremendo terremoto di Messina”. Poi la difficoltà di governare dal centro con decreti, ordinanze, che devono essere rivisti quando emergono dissonanze rispetto alle esigenze spesso molto particolari delle zone interessate. L’impostazione iniziale deve essere modificata, per realizzare gli insediamenti abitativi nelle singole località e frazioni più colpite in modo da mantenere l’identità territoriale; esigenza che come tante altre non è facile far capire al centro. Però nega contrasti con la Protezione civile con la quale ci si confronta in piena armonia, con Bertolaso addirittura c’è .il comune linguaggio dato dalla medesima professione di entrambi.

Si preannunciano momenti difficili, le tensioni sono destinate crescere. Di qui un appello: “Chi ha un ruolo politico, istituzionale, deve adoperarsi per far allentare le tensioni e creare un clima più sereno e costruttivo, per poter operare positivamente”.

Il terremoto ha sconvolto anche l’azione amministrativa, non soltanto perché le sedi sono divenute inagibili e l’intera macchina si è arrestata; ma anche perché quando si è riavviata è stata completamente assorbita dall’emergenza. E qui il Sindaco ha fornito una notizia molto interessante, L’Aquila stava predisponendo il Piano strategico prima del terremoto, sarebbe stato portato presto in Consiglio comunale in modo da essere approvato entro il mese di aprile, iniziato purtroppo nel modo tragico che tutti conoscono.

Veniva ridisegnato il futuro definendo la sua missione sia di capoluogo di regione, sia di città alle prese con la crisi in uno dei settori portanti, quello dell’elettronica. Un futuro ancorato ad alcune idee forti su cui imperniare la “mission” cittadina.

La prima è di porre la montagna, il Gran Sasso, al centro del progetto di rilancio del sistema città-territorio con uno sviluppo eco-compatibile dando impulso a un turismo di tipo più avanzato. La seconda di farne una città della cultura e della qualità della vita. La terza di valorizzarne il grande patrimonio di centri storici, considerando che il solo capoluogo è una delle città italiane con il maggior numero di edifici vincolati per i pregi storico-artistici. La quarta idea è rilanciare l’Università, i centri di ricerca e l’industria “high tec”, aero-spaziale e farmaceutica.

E qui ha espresso il suo forte sostegno al progetto del “Gran Sasso Institute” enunciato da Coccia dei Laboratori e dal Commissario del Parco Diaconale, aggiungendo che lo stesso ministro Tremonti lo ha sfidato a presentare progetti concreti assicurandone l’approvazione; l’Ocse dopo l’assenso di massima all’idea dell’Istituto di studi superiori attende il progetto. E’ necessario il salto di qualità per impedire che l’Università, la quarta in Italia, possa avere contraccolpi negativi dalla tragedia che l’ha colpita. L’Ateneo è fondamentale anche nella vita economica cittadina, per gli effetti diretti nell’abitativo e nella ristorazione come nelle altre attività interessate dall’indotto. Un segnale positivo c’è stato e il Sindaco lo ha comunicato con malcelata soddisfazione: “Già 4.000 studenti fuorisede hanno chiesto di tornare, ci saranno case mobili, l’Università riparte”.

Nell’immediato due sono i grandi progetti di rilancio di respiro internazionale: l’Università portata a livello di eccellenza; un grande polo pubblico-privato delle telecomunicazioni. E’ stata individuata in un tempo record un’area di centomila metri quadri sulla quale realizzare lo stabilimento di quarantamila metri quadri coperti per un’industria di tecnologia molto avanzata.

Anche la ricostruzione del centro storico avverrà introducendo processi fortemente innovativi, fare realizzazioni d’avanguardia non è una novità per L’Aquila, se nel 1933-36 Campo Imperatore era la località sciistica più moderna d’Europa e si raggiungeva in sole tre ore e mezza dal centro di Roma. Dovrà essere portata questa stazione sciistica a livelli di avanguardia comparabili a quelli del passato in un’azione combinata enti locali-regione-Parco, per farne un vero motore di sviluppo, essendo la montagna una autentica fonte di ricchezza da valorizzare in una visione moderna. In questa prospettiva si colloca la privatizzazione della stazione sciistica, già decisa e avviata, e anche il recupero dei borghi. Con una nuova residenzialità che ne sfrutti tutte le potenzialità.

L’aeroporto di Preturo realizzato per il G8 deve diventare l’indispensabile canale dei flussi turistici nazionali ed internazionali, senza dualismi e competizioni controproducenti con l’aeroporto di Pescara, ma in stretto coordinamento e sinergia per accrescere l’efficacia dei collegamenti abruzzesi. “Ci vorrà qualche anno per fare tutto, ha concluso il sindaco Cialente, ma dovremo da subito disegnare un pezzo di Abruzzo nella prospettiva 2050, diverso e più avanzato da quello che portavamo avanti a fatica prima del terremoto”. Un messaggio volitivo corredato di progetti in fieri, e non solo una lettera di intenti.

Il ruolo della comunicazione

L’intervento appassionato e denso di contenuti di Cialente ha segnato il passaggio alla seconda parte del Convegno, quella destinata alla comunicazione, alla quale si è capito tenere molto Diaconale, fino a farne una sorta di “missione” dell’Ente Parco, tenere desta l’attenzione su L’Aquila e l’Abruzzo ed evitare che torni il cono d’ombra dopo i fasti del G8 e i riflessi successivi. La forza delle cose ha fatto sì che l’informazione abbia dovuto continuare a occuparsene nonostante la dignità e la correttezza degli abruzzesi abbia spuntato le due armi utilizzate in genere in queste circostanze: il pietismo e lo scandalismo. Ed è venuta fuori la forza dell’informazione autentica.

S è rivelata nella circostanza l’importanza dell’informazione locale, di cui ha parlato Logozzo, il caporedattore della Rai che ha coperto egregiamente il tragico evento sin dai minuti successivi con inviati locali che non si sono risparmiati nella situazione difficile e pericolosa dei primi momenti.

A Del Boca, Presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Diaconale chiede una valutazione sulla situazione dell’informazione e assicurazioni affinché l’attenzione non venga meno. E’ necessario mantenere .il senso dell’eccezionalità e dell’emergenza perché soltanto in queste condizioni l’italiano mobilita le energie e le istituzioni rispondono, cosa che non avviene nelle situazioni di normalità. L’attenzione continua serve anche a trasformare l’emergenza in occasione di sviluppo a un livello più elevato del precedente. Intanto Diaconale lancia l’idea di una premiazione dei giornalisti che si sono distinti nel documentare la tragedia del terremoto in una cerimonia da tenersi solennemente a Roma.

Del Boca ha dato il suo autorevole riconoscimento al prezioso lavoro svolto dall’informazione locale, intervenuta ben prima che avessero accesso alle zone colpite gli inviati venuti da fuori. Ed ha assicurato il proprio contributo a mantenere desta l’attenzione, nonché l’appoggio con la propria partecipazione all’iniziativa del premio proposto da Diaconale.

Con il ricordo commosso dei tre giovani di Montorio tra le trecento vittime del sisma si è concluso il Convegno.

Il seguito del Convegno

Il seguito c’è stato nello spazio stampa nel quale anche il sindaco Cialente ha potuto prendersi un po’ di relax dopo tanta tensione. Lo abbiamo rispettato, gli abbiamo chiesto solo se è della stessa idea che aveva a Roma quando lo interpellammo alla manifestazione “Culture a confronto” organizzata dal teramano consigliere comunale nella capitale Pasquale De Luca: cioè che occorre una “tassa di scopo” per finanziare la ricostruzione. Non si è tirato indietro, l’ha ribadito dato che le risorse non sembrano sufficienti per il grave problema del restauro dei monumenti, un’opera immane e molto costosa: “La ‘lista di nozze’ su cui si faceva affidamento, diffusa in tutto il mondo attraverso i grandi del G8 divenuto G12 e oltre, finora non ha funzionato. Del resto anche nella lista per gli sposalizi quelli che vanno via subito sono… i portacenere, poi la raccolta si ferma”.

Anche questa è stata una notizia, un piccolo “scoop” del sindaco Cialente, che ringraziamo pubblicamente anche a nome dei nostri lettori per l’amichevole disponibilità dimostrataci. E’ una dote rara in circostanze così difficili che non rendono certo agevole il lavoro dell’informazione.

Così si è concluso il Convegno della speranza. Ricco di propositi e anche di progetti concreti. Ne seguiremo l’iter fino alla realizzazione, intanto ne salutiamo l’annuncio con un apprezzamento particolare: perché in prospettiva andranno a inserirsi in un piano strategico che ridisegnerà la “mission” di L’Aquila in termini nuovi e più avanzati come capoluogo di regione e come “Città della scienza”, valorizzando la montagna in termini ambientali e come fattore di sviluppo.

In questo modo dalla minaccia si sarà tratta un’opportunità, dalla tragedia e dal sacrificio potrà nascere una nuova consapevolezza, una rinsaldata coscienza civile, un rinnovato patto di cittadinanza verso un futuro di innovazione e di progresso. La città lo merita e lo realizzerà.

1 Commento

  1. Giosuè

Postato settembre 17, 2009 alle 7:23 PM

Romano Maria Levante GRAZIE!!!

Ebrei, Giornata europea della cultura ebraica

di  Romano Maria Levante

– 22 agosto 2009 –

In 28 paesi europei e in 59 città italiane il 6 settembre 2009 giornata di festa e di incontri

Non è soltanto il 6 settembre 2009 la data indicata nel programma della Giornata europea della cultura ebraica, c’è anche il 17 Elul 5769, l’anno ebraico corrispondente al nostro 2009 perché, mentre noi datiamo dalla nascita di Cristo, loro fanno riferimento ad Abramo. Cioè al patriarca, “il primo uomo ad avere l’intuizione che esiste un solo Dio creatore del mondo”; di qui la promessa che il popolo nato dalla sua discendenza vivrà per sempre nella terra di Canaan.

Poi venne Mosè, con i Dieci Comandamenti rivolti a tutta l’umanità e per questo trasmessi a lui nel deserto, “terra di nessuno”. Ne è derivata per gli ebrei una missione particolare e obblighi speciali, puntigliosamente numerati in 613, di cui 248 consistenti in azioni da compiere e 365 in azioni vietate, che regolano “la vita di relazione, i rapporti con il prossimo e con l’ambiente naturale e i rapporti con Dio”.
Questo per avvicinarci a un popolo che è sempre stato in una posizione particolare, forse perché il destino assegnatogli da Abramo è stato contrastato in ogni epoca della sua storia millenaria.

Il popolo ebraico

Si può chiamare popolo l’insieme delle etnie ebraiche sparse per il mondo che non hanno i requisiti classici per essere definite così, cioè un’unica lingua, lo stesso territorio e sistema giuridico? Praticano la stessa religione e, sebbene questo non qualifichi un popolo nell’accezione comune, professano la fede nel monoteismo, insieme al sogno della terra promessa, che da duemila anni è stato un legame così forte da far sentire uniti tra loro i gruppi di correligionari sparsi per il mondo.

Ma non per questo non sono integrati nelle rispettive terre, anzi rivelano le differenze culturali e religiose, sociali e linguistiche legate alle origini nazionali. Con gli idiomi locali anche il loro linguaggio, lo yiddish, andò in disuso, finché non fu riscoperta la lingua delle origini con Ben Yehudaua, caso forse unico nella storia di resurrezione di una lingua morta, che torna ad essere lingua viva e in continua trasformazione, tanto che oggi è la lingua ufficiale dello Stato di Israele.
I
Questo accresce l’interesse della Giornata europea della cultura ebraica nei paesi nei quali si innesta sulle culture locali, per cui può rappresentare uno specchio dell’incrocio di culture e di come interagiscono le diversità culturali.
La comunità ebraica italiana raggruppa 21 comunità locali dalle dimensioni piuttosto ridotte, 30.000 persone in totale, ma è la più antica della Diaspora e la sua storia va più indietro della distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Nelle pratiche di culto segue un ebraismo ortodosso basato sul rispetto dei 613 precetti morali e religiosi interpretati e aggiornati dai Maestri, differenziandosi dalle altre due forme, la conservativa e la riformata. Il Mishnà è il codice che raccoglie tutti gli insegnamenti orali arricchiti dalla tradizione dei rabbini, il Talmud contiene discussioni e insegnamenti dei Maestri, la Torà è il corpo legislativo completo. Principio base la credenza nella venuta del Messia.

Ricordiamo l’immagine dell’“ebreo errante”, antica e spesso rinnovata; travolta poi dalla incommensurabile tragedia della “Shoah” che ha visto un popolo martire del più spietato e inumano genocidio. Su queste sofferenze bibliche, è il caso di dirlo, ha saputo conquistare la terra di Abramo, l’ha difesa con il coraggio e il valore degli immigrati da ogni parte del mondo e dei “sabra”, nati in Terrasanta, fino a divenire una temibile potenza atomica. L’inerme Davide di sei milioni di abitanti, poco più di Roma con il suo hinterland, ha sconfitto il Golia di cento milioni di arabi bellicosi.

I partecipanti alla Giornata europea della cultura ebraica

Israele, la terra promessa divenuta nazione, non partecipa alla Giornata, e questo ci ha sorpreso. Perché in quella terra si esprime una sintesi culturale tra tante etnie diverse che hanno il denominatore comune dell’ebraismo, e quindi può evidenziarne gli aspetti peculiari che superano le nazionalità di provenienza.

Lo abbiamo chiesto a Renzo Gattegna, Presidente delle Comunità Ebraiche Italiane e ad Alain Elkan, che con il sottosegretario Giro hanno presentato la manifestazione al Ministero per i Beni e le Attività culturali che ha dato il suo patrocinio per l’importanza intrinseca della cultura e della storia ebraica, nel quadro della politica che fa leva sulla “circolazione” delle attività culturali e sul valore delle diversità.

Hanno risposto che Israele non fa parte dell’Europa, perciò non partecipa alla giornata organizzata dalle comunità ebraiche più consistenti nei vari Stati e città europee. Del resto lo stato ebraico ha altre occasioni per festeggiare e riaffermare la propria identità, lo ha fatto lo scorso anno in occasione del sessantennale della sua fondazione decretata dalle Nazioni Unite e consacrata poi dall’eroismo con cui respinse il primo tentativo dei vicini di schiacciarli. E Renzo Gattegna, nel ricordare l’emozione di quei festeggiamenti, presentando la Giornata non ha mancato di rivolgersi ai fratelli israeliani: “L’augurio migliore che possiamo formulare a questo paese che concentra in sé tanta storia, tanti significati, tante speranze, è che la pace conquisti i cuori di tutte le genti”.

Quindi Israele non partecipa direttamente, anche se è vicina con il cuore ed è nel cuore degli ebrei di tutto il mondo. Ci sono 28 Paesi europei, praticamente tutti quelli dell’Europa occidentale; in quella orientale la Croazia e la Slovenia, la Bosnia e la Serbia, ,la Repubblica Ceca e la Lituania, la Polonia e l’Ungheria, la Romania e l’Ucraina; c’è anche la Turchia. Per l’Italia, le 58 località sono presenti in tutte le grandi circoscrizioni geografiche, ma la distribuzione non nasce da una scelta, bensì dall’iniziativa delle comunità ebraiche esistenti nelle diverse città.

Nel Nord, sono il Piemonte, la Lombardia e anche l’Emilia le regioni maggiormente interessate con 34 località su 40; nel centro ve ne sono 11 e nel Sud 6 località. A Roma e a Milano vi sono le comunità più grandi, mentre sono di media grandezza quelle di Trieste e Venezia, Torino, Firenze e Livorno; piccole le altre anche di grandi città come Bologna e Napoli, Genova e Verona.

Con la particolarità che la città di Trani sarà capofila della Giornata, e per sottolinearlo ha partecipato alla presentazione con un intenso intervento il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola che ha citato il gemellaggio con una città israeliana, sicché anche la nazione che ha riunito gli ebrei è stata evocata in una manifestazione che evidenzia la Diaspora rendendo palese l’estrema dispersione.

Le iniziative della manifestazione e le feste ebraiche

Sinagoghe, luoghi di culto e di incontro saranno tutti aperti al pubblico. Le comunità ebraiche hanno organizzato una serie di iniziative, spettacoli e concerti, mostre e incontri, conferenze e saghe popolari. Sarà così celebrato il tema della giornata, “Feste ebraiche e tradizioni”.

A Bologna la conferenza del mattino su “Le feste ebraiche: un percorso di storia e tradizioni familiari”, sarà un primo assaggio, poi nel pomeriggio con un documentario sullo stesso tema si entra nel clima, seguirà una conferenza sul matrimonio ebraico. Una rappresentazione artistica della storia della Comunità ebraica sarà il pezzo forte di Asti, mentre a Genova si approfondirà il ruolo della poesia ebraica nelle sue diverse ispirazioni, religiose e profane ma sempre popolari, con un’analisi speciale del rapporto tra natura e spiritualità ebraica.

Un programma molto intenso a Milano, si apre con “Le feste ebraiche: un viaggio nel tempo”, seguito da “I canti delle feste” e “Nuovi modi di vivere le festività”. A Modena non si parlerà espressamente di feste ma di “Riti e tradizioni ebraiche” che è un altro modo di vederle.”Illustrazione delle principali festività” con riferimento alla Pasqua e alle tradizioni è la testimonianza di Pitigliano, e anche a Reggio Emilia si tratterà della cena pasquale. A Roma, oltre a varie mostre, la stessa tematica, con “Riti e feste nella tradizione musicale ebraica”, a Torino un “Concerto di canti delle feste e delle tradizioni ebraiche”.

A questo punto vogliamo dare qualche cenno delle festività ebraiche di cui si parlerà molto nel corso della Giornata europea nelle varie località ora indicate.
Feste religiose per eccellenza segnate dall’astensione da ogni attività sono il “sabato ebraico”, la cui radice etimologica è proprio “cessare”, e il “Kippur”. giorno del digiuno.

Quando il sabato (“Shabbat”) significò per gli ebrei cessazione settimanale dal lavoro, fu un fatto rivoluzionario; in questo giorno la famiglia si riunisce intorno alla “tavola sabbatica” preparata perché lo spirito del sabato si rifletta positivamente sull’intera settimana. Nel Kippur, il giorno dell’espiazione, ci si astiene dal mangiare e dal bere oltre che da qualsiasi lavoro o divertimento e ci si dedica solo al raccoglimento, alla preghiera e alla penitenza, insieme al digiuno; è una festa sentita anche dai non osservanti, ma non impedì agli israeliani di combattere quando furono attaccati dagli arabi che volevano approfittarne, in quella che fu chiamata “guerra del Kippur”.

E’ religiosa anche la festa del Capodanno (“Rosh Ha Shana”) molto diversa dalla nostra festività civile. Un “giorno di riflessione e di introspezione, di autoesame e di rinnovamento spirituale”, perché è il “giorno del giudizio” del Signore, segnato dal suono di un corno per suscitare la rinascita spirituale e portare al pentimento. Pure la Pasqua ebraica, che festeggia la liberazione dalla schiavitù d’Egitto cui seguì la legge divina, impone degli obblighi: precisamente il divieto di cibarsi di alimenti lievitati, nel ricordo del pane che fu lasciato senza che lievitasse per la fretta di fuggire, e di tenerne anche piccoli residui che vengono eliminati con la radicale pulizia della casa. Nella nostra tradizione c’erano le pulizie pasquali, non sappiamo se mutuate dalla Pasqua ebraica oppure richieste dal cambio di stagione.

Ispirata anche alla fuga d’Egitto è la festa delle Capanne (“Sukkoth”), costruzioni provvisorie il cui tetto è fatto di fogliame e adornato con frutta e fiori, la “sukka” ricorda i ripari di fortuna degli ebrei nei quarant’anni trascorsi nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù; è una festa gioiosa, a differenza delle quattro finora evocate. Se non gioiosa è gradevole l’atmosfera della festa delle settimane (“Shavuot”), chiamata anche “Tempo del dono della nostra Torà”, che è “per gli ebrei il dono più grande fatto da Dio all’uomo, il legame con il Libro che ha valore di sacralità”; perciò le leggi della Torà sono “l’elemento di coesione del popolo ebraico” e in questo giorno vanno nelle sinagoghe addobbate portando fiori che diffondono il loro profumo.

Le due principali feste restanti sono laiche, non si riferiscono alla Bibbia. La festa delle luci (“Chanukka”) fu stabilita dai Maestri del Talmud per ricordare il prodigio avvenuto nel santuario dove i lumi invece che un giorno solo restarono accesi per otto giorni, dando tempo ai sacerdoti di preparare nuovo olio per alimentarli; al fine di ricordarlo, nel solstizio d’inverno si accendono lumi per otto giorni. L’ultima tra le principali feste, anch’essa laica, è la festa delle sorti (“Purim”), ricorda il rovesciamento delle posizioni e lo scampato pericolo per il popolo ebraico 2500 anni fa, raccontato nel Libro di Ester, “che fa parte del canone biblico e che in questa occasione si legge pubblicamente”; è la festa dei bambini che si mascherano e si divertono insieme agli adulti.

Trani capofila della Giornata europea, in Puglia il festival della Cultura Ebraica

La partecipazione di Vendola, sopra ricordata, ha dato il tono all’incontro, e non solo per le sue capacità di affabulatore. Ma perché ha sottolineato il significato della scelta, e l’impegno a svolgere il ruolo di capofila con la massima convinzione. E qui l’evento nell’evento, il primo Festival della cultura ebraica definito “Negba – Verso il Mezzogiorno”, l’italiano è la traduzione di “Negba”, un sud che richiama il deserto del Negev, ma ha significati che vanno ben oltre il riferimento geografico. Sarà ospitato a Trani e in altre città della Puglia, e si svolgerà dal 6 settembre, in coincidenza con la Giornata ebraica, fino al 10.

Inizierà domenica 6 a Trani al Castello Svevo con Gioele Dix, per proseguire lunedì 7 ad Andria in un incontro sulla bioetica ebraica incentrato sul tema della vita con il rabbino Di Segni e a Bari in un concerto del maestro Lotoro, a Lecce in uno spettacolo teatrale con Ottavia Piccolo e ad Otranto in una serata al Castello Aragonese su “Storie e geografie”, quindi a Trani di nuovo al Castello Svevo sulla presenza ebraica nella cultura italiana con VittorioSgarbi e l’assessore Ortona dell’Unione comunità ebraiche italiane.

Martedì 8 settembre, giornata fatidica della storia nazionale per altri versi, con tre temi impegnativi: a Lecce “Prossimità e precarietà”, ad Oria “La modernità di un precursore”, con la presenza di due rabbini, Della Rocca nel primo, Caro nel secondo e una esibizione di letture e filmati, quindi a Trani nel Castello Svevo “L’ebraismo alla sfida demografica” con il rabbino Bahbout e il presidente dell’Unione giovani ebrei italiani Nahum. Mercoledì 9 a Lecce “Satira, umorismo e antisemitismo” e “Lettera di Shylock”, ad Otranto al Castello Aragonese “Relazioni e intrecci tra le tre grandi culture del Mediterraneo” con illustri esponenti di culture religiose. A San Nicandro Garganico un dialogo alla Torre Mileto sulla storia degli ebrei locali e il “Concerto al tramonto” del Nigunim Trio Italyà fino all’anteprima assoluta del film documentario “Il viaggio di Eti”.

Il 10 settembre, giorno di chiusura del Festival, inizia ad Otranto alle 5,20 del mattino con il “Concerto all’alba” dal torrione del Castello, prosegue con due incontri nel tardo pomeriggio, a Bari su “Le forme della memoria” e a Trani su “Alfabeto ebraico, numeri e cabala” al Castello Svevo dove si conclude nella tarda serata con lo spettacolo teatrale “I silenzi di Joe”, botto finale di una manifestazione veramente pirotecnica nei temi e nei siti.

Abbiamo voluto riportare puntigliosamente il programma per dare atto di un impegno corale e intenso che va preso a mo’di esempio su come procedere ad una apertura culturale che coinvolge un vasto territorio mobilitando risorse ed energie in un itinerario di condivisione e comunicazione. E’ questo lo spirito del progetto a vasto raggio. Ora possiamo apprezzare compiutamente la scelta di fare Trani città capofila della Giornata europea in Italia, e con essa la Puglia, che ha subito ripagato l’onore ricevuto con un Festival che abbiamo visto essere di notevole interesse e spessore culturale.

La motivazione è stata una sorta di riparazione per l’espulsione della comunità ebraica di Trani dal Regno di Napoli nel 1541, sebbene gli ebrei che la componevano avessero contribuito notevolmente, sin dal Medioevo, allo sviluppo della città divenuta la culla dell’ebraismo europeo dal nono al sedicesimo secolo.

Il loro impulso si protrasse per tutto il ‘500 con fiorenti attività commerciali e finanziarie. Dopo oltre 400 anni la comunità locale ha ripristinato, presso la Sinagoga; culto, usi e costumi degli antenati: “La rinascita ebraica di Trani rappresenta una grande realtà del bacino del Mediterraneo, ed è un solido punto di riferimento per gli Ebrei di tutta la Regione”.

Giudizi conclusivi

Il passaggio degli araldi in costume prerinascimentale nelle vie centrali e l’annuncio dell’avvio della manifestazione da parte di gonfalonieri e strumentisti, con rabbini e figure dell’epoca impersonati da attori, daranno un tocco spettacolare a un’iniziativa che ha tante nobili finalità.

Ecco quelle del progetto “Negva”: “Questa parola così carica di significato – si legge nella Presentazione – è la chiave di un progetto e di un impegno per la riscoperta e la valorizzazione, con le istituzioni e i territori, dell’ebraismo perduto nel Sud”. Un impegno “che la regione sta portando avanti come area di riferimento per gli scambi e le relazioni nel bacino del Mediterraneo”.

Sentiamo ora Nichi Vendola, appassionato sostenitore del progetto: “E’ in atto un impegno fortissimo da parte della Regione Puglia nello sperimentare una politica culturale che nasca dal Mediterraneo, da questo immenso spazio di un mare che torna al centro di relazioni feconde con i nostri dirimpettai, e che proietta la Puglia fin dentro le case di altri popoli, in un processo di crescita reciproca”.

Renzo Gattegna a sua volta scrive: “L’edizione del 2009 ci sta facendo provare l’emozione e l’ebbrezza di una coraggiosa avventura… E’ la prima volta che l’ebraismo italiano propone un’iniziativa così importante in una regione dove la presenza dei correligionari è limitata e sparsa nel territorio. Ma la Puglia è ricca di storia e di tracce della presenza ebraica. E proprio in Puglia assistiamo oggi ad un interessante risveglio di vita ebraica e di interesse verso l’ebraismo e la cultura ebraica”.

Vorremmo concludere con il Ministro per i beni e le Attività culturali Sandro Bondi, che ha dato il patrocinio e parla di “senso autentico e profondo di un’iniziativa nata per contrastare i pregiudizi antisemiti, favorire lo scambio culturale e far comprendere l’importanza delle radici ebraiche nella formazione della civiltà europea”.

E’ passato un decennio dalla prima Giornata europea della cultura ebraica: “A dieci anni di distanza si può dire che questa manifestazione non ha esaurito il suo scopo, ma trova anzi slancio vitale sia nelle adesioni sempre più numerose e convinte di istituzioni e cittadini sia nella necessità di rinnovare il senso di una comune appartenenza alla civiltà europea di tutti coloro che vivono nel nostro continente, al di là di ogni matrice etnica o religiosa”.