Censis, la crescita sociale e gli “invisibili”

di Romano Maria Levante

Imprese e precari, badanti e sommerso nella ricerca del Censis.

Siamo tornati il 22 giugno 2009 alla sede del Censis per la seconda settimana del “mese di sociale”, una specie di prolungamento laico del “mese mariano” con attente riflessioni sulla società italiana. Questa volta non si è parlato dei comportamenti, erratici e individualisti, bensì della “società solida degli ‘invisibili’”, cioè della “maggioranza degli invisibili che quotidianamente tiene le fila della crescita sociale”.

Non si tratta della “maggioranza silenziosa” di antica memoria, in un certo senso inerte finché non ci fu la scossa della “marcia dei quarantamila”, bensì di un arcipelago attivo ma non visibile: ”Una maggioranza oggi orfana non solo di ‘rappresentanza’, perché i tradizionali soggetti non sono riusciti a intercettarne i cambiamenti, ma soprattutto di ‘rappresentazione’, perché poco si sa dei numeri, dei comportamenti che la caratterizzano”.

E’ stata questa l’unica fugace concessione alla politica e anche alla sociologia, per il resto l’incontro è stato tutto giocato sul terreno dell’economia, come del resto la ricerca che ne è alla base.

Il direttore generale Giuseppe Roma ha inquadrato il tema, tracciando l’identikit della resistenza alla crisi: “Piccoli soggetti, piccole imprese e lavoratori precari, una base flessibile che costituisce gran parte della nostra occupazione e della solidità della nostra economia”. In questo modo si va ad esplorare, su un terreno diverso dalle realtà territoriali che fu dissodato a suo tempo nell’“inverno della crisi”, come risponde alle difficoltà che vengono dall’esterno il nucleo centrale dell’economia reale. “L’Italia reagisce con le piccole strutture in cui si articola questo popolo invisibile perché non è rappresentato né considerato come dovrebbe, mentre è quello che regge il sistema”.

I piccoli produttori: la fragile spina dorsale dell’economia

Alla ricercatrice Ester Dini il compito di illustrare i risultati dell’analisi e delle elaborazioni compiute per svelare questo mondo in qualche modo dissimulato tra i dati macroeconomici.

“Con la crisi abbiamo capito che il nucleo di resistenza sono state le piccolissime imprese, per la prima volta i riflettori si sono puntati, hanno messo in luce la solidità dei piccoli”. Ma ha subito aggiunto: è “un universo che presenta luci e ombre, le une e le altre oggi più visibili”.

Le luci, innanzitutto, di quello che viene definito “il capitale più prezioso del paese”: e non potrebbe essere altrimenti se si considera che gli oltre 4 milioni e 300 mila imprenditori di piccole e piccolissime aziende sotto ai 20 addetti, occupano quasi 10 milioni di lavoratori e producono un valore aggiunto di oltre 300 miliardi di euro, pari al 45% circa del totale nazionale; mentre l’incidenza sull’occupazione nelle imprese manifatturiere e dei servizi va oltre, raggiunge quasi il 58%, con un 39% di quota sugli investimenti, essendo imprese “labor intensive”, come si suol dire.

Nelle esportazioni mostrano di resistere meglio delle grandi imprese, se tra il 2007 e il 2009 i dati del primo bimestre mostrano un rallentamento direttamente proporzionale alla dimensione, con una flessione del 9,5% per le piccolissime (meno di 10 addetti) e del 29% per le più grandi (oltre 250 addetti) e valori intermedi per le altre, sempre correlati alla dimensione. Concentrandoci sul primo bimestre dell’ultimo anno questo dato trova conferma nel fatto che oltre un terzo delle aziende piccolissime ha un bilancio positivo nell’export, cosa che si riscontra per meno di un quinto delle aziende più grandi.

La sorprendente tenuta sui mercati esteri, la cui importanza è evidente, non viene da sé: “Negli ultimi anni, dice il Censis, anche le micro e le piccole imprese sono state spinte ad impegnarsi in uno sforzo di ridefinizione della propria identità, ripensandosi sempre più come imprese globali. In molte si sono confrontate sul terreno dell’internazionalizzazione, diventando esportatrici, o addirittura estendendo la propria presenza all’estero”.

Da un’apposita indagine è risultato che un quarto delle piccole imprese interpellate esporta, il 6,5% ha stretto accordi o “joint ventures” con imprese estere, il 5% vi ha creato strutture distributive, l’1,5% è presente con strutture produttive e la stessa percentuale ha creato marchi per l’estero. Lo hanno fatto con coraggio. Dal punto di vista delle strategie, quasi il 15% sta entrando in nuovi mercati, mentre l’8% investe in innovazioni e il 4% addirittura si sta ampliando. E qui le luci sono finite.

Dove sono le ombre? La sintesi la dà senza mezzi termini la ricerca : “Se i dati per quanto parziali mostrano come il tessuto microimprenditoriale stia tendenzialmente metabolizzando i contraccolpi della crisi, e per certi versi appaia dare segnali di reattività migliori di altre realtà, non è scontato però , che la capacità di resistenza dei piccoli sia illimitata”. Una sorta di “quousque tandem…”, e fra poco diremo a chi è rivolto. Intanto aggiungiamo che non si tratta di timori eccessivi, le ombre sono il rovescio della medaglia delle luci, la resistenza avviene per lo più su base difensiva con riduzione di costi per quasi la metà di esse, con taglio dei prezzi e della produzione per il 14%, dell’occupazione per il 7%.; e con l’accentuazione delle criticità sempre presenti.

A chi è rivolto il “quousque tandem…”? A coloro che mettono le imprese più piccole in crisi di liquidità allungando i tempi di pagamento di un terzo, sicché occorre attendere due mesi per riscuotere crediti dai privati e l’assurdo di ben quattro mesi per riscuoterli dalla Pubblica Amministrazione. Quindi c’è già un volto ben identificato che, scoperto, dovrebbe arrossire.

L’altro volto che dovrebbe arrossire è quello dei banchieri i quali fanno mancare il credito ai piccoli proprio quando serve di più per le loro difficoltà di ottenere pagamenti tempestivi: da un’indagine Unioncamere dell’aprile 2009 è risultato che un quinto delle imprese artigiane ha incontrato difficoltà di accesso al credito come limitazione dei prestiti o incremento delle garanzie, per non parlare dei tassi più onerosi pur in una fase di caduta dei tassi ufficiali.

Queste le ombre del momento, si potrebbe dire. Restano quelle di sempre che nelle situazioni difficili si fanno sentire maggiormente, perché “piove sul bagnato”: “il peso della burocrazia, della complessità della regolamentazione e delle procedure, e soprattutto l’inefficienza del servizio pubblico, costituiscono un costo aggiuntivo rispetto ai ‘competitors’ europei sempre meno tollerabile. Che per le imprese piccole ha un peso decisamente maggiore”. E vengono citati anche gli oneri derivanti dal cattivo funzionamento del sistema giudiziario, con una durata del contenzioso contrattuale tra imprese superiore a 1200 giorni e un’incidenza del 3.5% sul fatturato annuo delle microimprese. Un altro volto da dare al nostro “quousque tandem…”.

Risultato di tutto questo: nel primo trimestre 2009 è proseguito il saldo negativo tra formazione di nuove piccole imprese e chiusure “con una perdita secca di 40.000 imprese, in linea con i risultati degli ultimi tre anni”; è vero che questa cifra va rapportata al numero complessivo di quattro milioni e 300 mila, ma è pur sempre un segno della fragilità di questo nucleo fondamentale.

I precari: un esercito del lavoro di riserva senza tutela

Quattro milioni e 600 mila è un numero vicino a quello dei piccoli imprenditori: Sono “i lavoratori ‘di mezzo’, né dipendenti, né completamente autonomi; una platea di ‘para-lavoro’, che non è né totalmente subordinato né totalmente autonomo, ma che sta nel mezzo dell’uno e dell’altro: sfuggente e poliedrica”. Nel dare questa definizione si è precisato che rappresentano un quinto dell’occupazione complessiva.

Costituiscono quel “mondo variegato” che dà oggi alle imprese la flessibilità di cui hanno bisogno, come i disoccupati nei rapporti tra le classi erano chiamati l’esercito del lavoro di riserva che dava forza al “padrone” nel contenere la spinta salariale. Due eserciti che non lottano ma sentono la crisi.

Si tratta di “figure professionali estremamente diverse fra loro, ma accomunate dalla condizione di instabilità che incombe sulla loro situazione professionale”; aggravata dalla crisi perché “il sistema di tutela è ancora troppo strutturato su modelli tradizionali che hanno fatto ormai il loro corso”. Solo un quarto di questi lavoratori fa capo all’industria, mentre quasi il 70% si concentra in quello che il Censis definisce “il ‘mare magnum’ del terziario”.

Ma qual è il volto dell’ “invisibile moltitudine del ‘para-lavoro’”, il nuovo “quarto Stato”? Di volti se ne contano più di uno, molto diversi tra loro, scopriamoli uno per volta.
La metà di questa moltitudine, due milioni e 300 mila pari al 10% degli occupati, è costituito dai “lavoratori dipendenti con contratto a termine”, tra cui apprendisti e interinali. Sono presenti in tutti i settori e qualifiche professionali, in ugual misura uomini e donne, con una maggiore incidenza nell’industria dove costituiscono quasi un quarto del totale, e un quinto nelle qualifiche intermedie.

Prevalentemente giovani, il 60% ha meno di35 anni e più di un terzo il diploma, sono assimilati ai lavoratori dipendenti a parte la temporaneità. Ma mentre prima era un aspetto transitorio, perché la formula “a termine” era l’anticamera del tempo indeterminato, con la crisi è diventato un aspetto critico che determina la precarietà. Infatti nel 2008 poco più di un quarto di loro aveva prospettive di stabilizzazione, perché in formazione-apprendistato o in prova, questi ultimi un decimo del totale; i restanti tre quarti inseriti precariamente per sopperire alle maternità e alle assenze (pari a un quarto), coprire un posto al momento vacante (13%), lavorare su un progetto (7%) o un’attività stagionale (quasi un quinto del totale). I dati del primo trimestre del 2009 mostrano come la precarietà con la crisi diventa disoccupazione: i posti di lavoro a termine sono diminuiti di oltre 150 mila (-7%) su una diminuzione di 200 mila (-0,9%) dell’occupazione complessiva.

L’altra metà del cielo, che cielo non è, risulta costituita da figure professionali diverse accomunate dalla caratteristica di non avere neppure le tutele, seppure temporanee, dei lavoratori a termine. Ma mentre poco più del 65% lavora per più committenti senza vincoli di presenza e di orario, il 15% “ha una condizione per molti versi assimilabile a quella di lavoratore dipendente”, e “il 18% si muove tra l’una e l’altra dimensione”. Il Censis fornisce l’identikit di quattro volti diversi.

I più numerosi, ben un milione, quasi il 4% degli occupati, sono i cosiddetti “semiprofessionisti, autonomi che lavorano individualmente senza addetti” e devono rispettare vincoli di orario e di presenza pur senza essere dipendenti. L’80% uomini, di età speculare a quella dei lavoratori a termine, qui il 60% ha più di 35 anni, con minore grado di istruzione, oltre il 40% ha la licenza media. Poco meno di un terzo lavora nell’edilizia e un quarto nel commercio.

Seguono i 360 mila “collaboratori a progetto”, l’1,6% degli occupati, “tra cui si cela una fetta consistente del lavoro a tutti gli effetti, salvo quelli contrattuali, assimilabile al dipendente”, il che è tutto dire; nel 2008 è risultato che la maggioranza lavora per un solo committente e deve rispettare l’orario di lavoro, e quasi l’80% ha comunque vincoli di presenza in azienda. Prevalgono le donne, quasi il 60%, e i giovani, la metà ha meno di 35 anni, con elevato livello di istruzione, il 40% ha il diploma, il 37% la laurea. Un quarto di loro lavora nel terziario avanzato, in particolare nei servizi alle imprese; e poco meno nel terziario sociale, istruzione, sanità, il resto nei servizi sociali e nella Pubblica amministrazione.

Qualcuno non si aspetta di trovarle qui, ma ci sono, oltre 800 mila Partite Iva (3,5% dell’occupazione), cioè “consulenti che lavorano stabilmente per un solo cliente” – il che mostra palesemente la dissimulazione del rapporto sottostante nella totale flessibilità per le imprese – per cui “costituiscono forse la componente più invisibile e instabile di questo universo”. Prevalentemente uomini per il 70%, di età più avanzata, la metà ha oltre 45 anni, e minore istruzione, meno di un terzo con il diploma. .Circa un quarto lavora nel commercio.

L’ultimo volto, degli invisibili tra gli invisibili, è quello dei “collaboratori occasionali”, poco meno di centomila (meno dello 0,5% degli occupati), “che lavorano a intermittenza, solo quando si creano opportunità di mercato”, gli unici forse per i quali la precarietà dipende dall’intermittenza e non dalla simulazione a copertura di un lavoro dipendente stabile. Torna la prevalenza delle donne per quasi il 60% e il maggiore livello di istruzione, circa il 40% con diploma. Queste caratteristiche li avvicinano ai “collaboratori a progetto”, ai quali li accomuna anche la destinazione, a parte la presenza molto maggiore nei servizi sociali mentre sono assenti nell’istruzione e sanità.

Come si muove questo esercito di invisibili, serbatoio di flessibilità per le imprese e di precarietà per i componenti, e anche espressione di profondi mutamenti nell’organizzazione aziendale e nella stessa concezione del rapporto con il lavoro? E quali le maggiori ombre che offuscano le luci?

Quattro sono i coni d’ombra che si proiettano sulla platea degli occupati e quindi sulla vita economica e produttiva del Paese.

Il primo è naturalmente il riflesso sinistro della precarietà, la disoccupazione di cui è l’anticamera: “è indicativo che nell’anno della crisi, rileva ancora il Censis, il paralavoro sia l’unica componente del mercato ad avere registrato una perdita netta di 136 mila unità (-2,9%), mentre il lavoro tradizionale, autonomo e dipendente, ha sostanzialmente tenuto”; tra i gruppi considerati, il più colpito è stato quello dei lavoratori a partita Iva che hanno subito il “ridimensionamento più drastico” con una diminuzione superiore a 240 mila, oltre un quinto del totale.

Il secondo cono d’ombra è la “cristallizzazione”, nel senso che questa forma di lavoro precario e a basso costo si è andata consolidando ed è rimasta “quasi completamente impermeabile rispetto ai processi di mobilità e transizione verso altre forme di impiego”. L’80 per cento dei lavoratori a termine o a progetto resta precario, e solo il rimanente 20% passa a un lavoro stabile.

Vi è poi il terzo cono d’ombra, in senso stretto, ed è l’invecchiamento, nel senso che mentre prima era costituito soprattutto da giovani all’inizio della vita lavorativa, “oggi il bacino dei lavoratori precari è sempre più intergenerazionale, coinvolgendo face d’età un tempo escluse”. Negli ultimi quattro anni l’utilizzo di questa forma di lavoro è aumentato nelle fasce di età più elevate, addirittura del 30% tra 45-54 anni la cui incidenza sul totale ha raggiunto il 20%.

L’ultimo cono d’ombra, che è il riflesso di quelli descritti, è costituito da “quel processo di progressivo disinvestimento dal lavoro” per cui si cercano solo le prestazioni, ma le competenze non vengono considerate un valore da trattenere all’interno dell’impresa come investimento nel capitale umano; di qui le esternalizzazioni di funzioni aziendali, di qui l’“usa e getta” dei lavoratori, se è consentito usare un termine aspro ma, crediamo, eloquente. Questo avviene, denuncia il Censis, “perché le imprese non hanno avuto la forza di ripensare i propri modelli organizzativi, ma anzi hanno favorito l’emergere di una cultura del lavoro all’ingrosso, in cui la risorsa lavoro è ridotta a mera variabile di costo”.

Più chiari non si potrebbe essere. .Ed ora si comprende l’accenno introduttivo al deficit di rappresentanza di questo arcipelago di lavoratori (e il termine immaginifico di “invisibili”), reiterato dopo l’esplorazione compiuta: “Resta da chiedersi come mai questa platea consistente di para-lavoro, pur cresciuta nelle dimensioni, in esperienza e anzianità, e anche in ruolo, non sia riuscita negli anni a dare visibilità ai propri interessi di categoria, di gruppo, e trovare adeguati strumenti di rappresentanza dei propri interessi”.

I “qualcosisti” del terziario e le badanti: i più invisibili tra gli “invisibili”

Chiariamo subito il significato del termine insolito usato dal Censis, qualifica i lavoratori che in passato trovavano sbocchi nel terziario purché disposti “a fare qualcosa” in attività di servizio che vanno dal commercio al turismo, dalla Pubblica amministrazione alla consulenza; l’accesso al lavoro è stato favorito soprattutto per le donne, i giovani e l’offerta sempre più qualificatale.

Questa valvola di sfogo dell’offerta di lavoro, che ha contenuto per molti anni la disoccupazione intellettuale, è venuta meno già prima della crisi, per la progressiva saturazione dei settori che l’avevano fatta funzionare. Tra il 2003 e il 2008 è proseguita la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore dei servizi, più di 700 mila, ma si è dimezzata rispetto al quinquennio precedente quando era stata di 1 milione e 400 mila.

Nella “new economy” e nell’immobiliare gli spazi si sono chiusi, e così nel comparto pubblico per l’esigenza di contenere la spesa; si sono ristretti nei servizi alle imprese e ricerca, comunicazione e consulenza. Mentre si sono allargati nei servizi a domicilio per le famiglie, assistenza e collaborazione, con un aumento di quasi 160 mila nell’ultimo quinquennio. Ne parleremo tra poco, dopo aver sottolineato altri due elementi emersi dall’analisi del Censis del comparto dei servizi

Il primo è che “tra il 2004 e il 2008 i nuovi accessi hanno privilegiato in larga misura le professioni tecniche (+ 11,9%), a scapito del grande ceto impiegatizio, il cui tasso di crescita è stato inferiore, pari all’1,6”, o dell’ampio bacino delle professioni occupate nella vendita, aumentato solo del 5,4%”. Una tendenza alla specializzazione, specchio di trasformazioni nel terziario alle prese con problemi sempre più complessi che richiedono professionalità più qualificate e specialistiche: tra i più richiesti in questi anni vengono citati gli infermieri e gli odontotecnici, i dietisti e i chimici, gli statistici e gli informatici, gli specialisti dell’organizzazione e gli addetti a controllo e gestione.

Il secondo elemento è che si è puntato ad una maggiore flessibilità e in alcuni comparti i lavoratori a rischio hanno raggiunto un quarto-un quinto del totale: si tratta dei servizi avanzati alle imprese, del terziario sociale e del commercio e pubblici esercizi. Vi sono settori con precariato molto maggiore, come l’industria dello spettacolo, dove ha un’incidenza che raggiunge addirittura l’83%, per i macchinisti e attrezzisti di scena; ma anche per registi e direttori artistici, coreografi e pittori-restauratori e ricercatori è della metà, mentre per gli annunciatori e presentatori radio e tv e tecnici vari è quasi del 40%. Nonostante questo la massima aspirazione dei giovani non è più il posto fisso come in passato ma “entrare nel mondo dello spettacolo”, presumibilmente pensando solo alle star.

Soffermiamoci, infine, sull’allargamento degli spazi nei servizi per le famiglie, che il Censis chiama “la lenta emersione della rete del ‘micro welfare’”, in parole povere la diffusione di colf e badanti. E’ un “fai da te” delle famiglie per tamponare un “welfare” molto carente sul piano dell’assistenza perché le risorse sono assorbite dal sistema pensionistico per le distorsioni ben note.

I dati sono eloquenti, dal 2001 al 2008 il loro numero è aumentato di 400 mila unità pari al 37%, oggi sono quasi un milione e mezzo; ed è cresciuta anche la quota di lavoratori regolari, che ha raggiunto il 40% rispetto al 27% precedente, cosa che può avere effetti nei rapporti con le famiglie. Sono due milioni e mezzo le famiglie che ricorrono a un collaboratore domestico, il 10% del totale, e tra queste un quarto lo utilizza a tempo pieno per l’assistenza a malati e disabili.

Si tratta di un lavoro che si è sviluppato con una sostanziale autoregolamentazione, essendo restata di fatto la disciplina all’iniziativa delle parti, con flessibilità assoluta ma anche con molta fragilità.

Un cono d’ombra viene dal fatto che la prevalenza del lavoro irregolare, nonostante l’emersione, come si è visto, sia cresciuta sensibilmente; ciò è dovuto anche alla reciproca convenienza dato che spesso il lavoratore straniero non ha interesse ai versamenti dei contributi non potendone usufruire, per vari motivi, a fini pensionistici. L’effetto negativo è la precarietà assoluta che danneggia entrambe le parti: il Censis cita i dati di un’indagine secondo cui quasi il 40% dei lavoratori la considera occupazione a termine in attesa di un diverso lavoro o di smettere del tutto, e solo un quarto la vede come lavoro stabile. Ne deriva il rischio che per questi servizi familiari venga meno l’offerta di lavoro finora “disponibile ed illimitata”, e si creino gravi problemi per le famiglie e anche per il “welfare” nazionale alle cui carenze esse fanno fronte da sole con questi servizi.

Il secondo cono d’ombra, che riflette quello già evidenziato prima, è l’invecchiamento, anche in questo settore, che accresce il rischio appena evidenziato dell’esaurirsi nel tempo dell’offerta di lavoro di colf e badanti. Tra i lavoratori regolari, la metà del totale, quelli di età superiore a 41 anni nel 2006 hanno raggiunto il 56% (42% nel 2002) e gli “over 50” il 24% (15% nel 2002). Pur considerando che ci può essere un interesse a regolarizzarsi avvicinandosi la pensione, si tratta “di un fenomeno non indifferente, destinato a sollevare nel breve-medio periodo un problema di ricambio interno alla categoria”.

Una categoria, per concludere, con “una intrinseca compattezza, che deriva dall’identità di ruolo e dalla condivisione di interessi comuni” nella quale il Censis vede che “inizia ad emergere la voglia di contare, di dare voce e visibilità al proprio mondo”. Per avere un sostegno ai propri progetti di vita e professionali all’altezza “dell’importanza di ruolo che è chiamato a svolgere, ma che ancora non gli viene riconosciuta”. Che siano le badanti le prime della “moltitudine degli invisibili” a diventare visibili?

Il sommerso: gli invisibili per eccellenza

Gli invisibili per eccellenza restano, comunque, i lavoratori del sommerso, “scoperti” dal Censis oltre 35 anni fa per i quali si sono fatti tanti tentativi di farli emergere assicurando condoni, franchigie fiscali e quant’altro. Si è riusciti, in parte, solo riguardo agli immigrati con la sanatoria del 2002, ma è stato un risultato temporaneo, il lavoro irregolare è continuato ad aumentare a un tasso superiore a quello del lavoro regolare (5,6% rispetto all’1,8% tra l 2003 e il 2006) raggiungendo i 3 milioni, pari al 12% dell’occupazione complessiva.

Ma il dato più eclatante è dato dalla diffusione del sommerso nel Mezzogiorno: assorbe il 45% del lavoro irregolare, un lavoratore su cinque è nel sommerso, e nella regione Calabria uno su quattro. Il forte calo di occupazione al Sud, che ha fatto parlare di “secessione in atto” nel mercato del lavoro – 114 mila in meno nel primo trimestre 2009 rispetto allo stesso periodo del 2008 – “potrebbe contribuire ad accrescere le già numerose fila dei lavoratori in nero”, commenta il Censis.

E’ una medaglia con due facce: dal punto di vista sociale e civile è un fenomeno oltremodo negativo perché, in aggiunta alla deprecabile irregolarità e inosservanza delle leggi, priva il lavoratore dei suoi sacrosanti diritti non solo in materia salariale ma anche sul piano normativo, previdenziale e della sicurezza sul lavoro; nella realtà trova conferma “il ruolo svolto dal sommerso come camera di compensazione delle inefficienze e dei ritardi” e anche “la valenza sociale che il sommerso ha sempre avuto nei momenti anche peggiori, fungendo in definitiva come il principale ammortizzatore delle crisi e delle difficoltà del sistema”.

Per questo “il rischio di una nuova stagione di ripresa del sommerso” ha due facce,  negativa con l’offerta di lavoro irregolare che può spingere le imprese a preferirlo a quello regolare;  positiva, meglio invisibili che inesistenti, cioè meglio una retribuzione in nero che nessuna retribuzione.

Più in generale, come la fase di contrazione dei costi porta le aziende a scivolare nel lavoro sommerso, così la riduzione della capacità di spesa fa entrare le famiglie nell’economia sommersa, mediante consumi di prodotti “low cost” anche a scapito della qualità, e di prodotti contraffatti (nel 2008 il 9% degli italiani ha acquistato borse contraffatte, il 6% prodotti di abbigliamento, il 5% cd, dvd e videogiochi). E’ un invisibile quest’ultimo che troviamo per le strade e nei mercati, ha un volto spesso bisognoso di aiuto dietro il quale spesso ci sono organizzazioni delinquenziali, ma ci sono anche anomalie del sistema produttivo, ne abbiamo parlato a suo tempo dando conto di un’altra recente ricerca del Censis con l’Ares proprio su questo fenomeno.

Qualche conclusione e osservazione a margine

Il presidente Giuseppe De Rita ha tratto le conclusioni portando a sintesi le luci e ombre che abbiamo fin qui evidenziato: “Quella presentata è una realtà che funziona bene nella sua consistenza come si è venuta formando ma non ha la vitalità interna per progredire”. E ancora: “Il nostro è un sistema che ha retto per 40 anni, tra lavoro dipendente regolare e le valvole del sommerso e del terziario per l’occupazione. Oggi mostra problemi crescenti e non ha la vitalità per lo scatto necessario. Il terziario che ha sempre assorbito tutti i lavoratori generici non funziona più, è saturo, gli spazi si sono chiusi. E’ diminuita anche la caratteristica propensione ad andare in pensione in anticipo per fare un secondo lavoretto, dato che questa possibilità il mercato non la offre più”. E ha aggiunto con amara arguzia: “Tutto è invecchiato, anche le badanti”.

Non basta il “piccolo è bello” del nostro sistema di imprese che ha comunque resistito meglio di altri alla crisi: “Il ‘parva sed apta mii’ non funziona più perché consente solo di fronteggiare la situazione con l’adattamento e non di superarla andando oltre”. E così dicendo ha rinviato al quarto seminario della prima settimana di luglio per le indicazioni su come superare il galleggiamento.

Il direttore generale Roma, da noi interpellato, ci ha anticipato qualcosa. Per risolvere i problemi di mobilità occorre rimuovere i vincoli tuttora esistenti tra cui la presenza pubblica. “La flessibilità e la precarietà non garantiscono di per sé la mobilità. Il precario resta precario come il posto fisso è un impiego a vita, concetti impensabili in altri paesi. La chiave di tutto è nell’innovazione che è anche fattore di mobilità. Un sistema che non innova riesce a galleggiare ma rimane ingessato, e se non c’è circolazione non può progredire”.

Un ulteriore commento, in particolare sul sommerso, lo chiediamo a Ester Dini, che ha tenuto la relazione. Conferma che “forse dietro al drastico calo di occupazione al Sud può esservi un travaso nel sommerso”. E aggiunge un aspetto significativo, quasi paradossale: “Anche nel sommerso è calata la precarietà. Prima era una condizione ‘stabile’, dovuta all’evasione fiscale e contributiva, che garantiva il lavoro pur non tutelato, oggi neppure questo perché viene meno anche il sommerso”.

La guerra dei poveri non ha mai dei vincitori.

Censis, una ricerca sugli italiani, sono individualisti e trasgressivi

di Romano Maria Levante

La deregulation dei comportamenti in una ricerca presentata il 15 giugno.

Difficilmente capita di trovare, in un incontro sui grandi movimenti in atto nella società italiana, una chiave interpretativa delle vicende politiche contingenti così immediata e rivelatrice come quella fornita dalla ricerca del Censis sul tema “La ‘deregulation’ dei comportamenti”, presentata a Roma nella sede in piazza di Novella il 15 giugno 2009.

Tanto che – così cominciamo dalla fine – nella discussione svoltasi dopo l’illustrazione dei risultati abbiamo prospettato ai ricercatori la possibilità che l’indagine possa incidere su queste vicende portando a modificare strategie politiche controproducenti, alla luce di un’analisi che dà la spiegazione profonda e argomentata dell’esito dei sondaggi e poi degli stessi risultati elettorali.

Non è nostra intenzione “buttarla in politica”, come si suol dire, però non possiamo tacere l’istintiva associazione di idee che dà alla ricerca una valenza tutta speciale e la rende capace di riportare il dibattito tra opposizione e maggioranza, o più precisamente tra opposizione e capo del governo, sui contenuti dell’azione dell’esecutivo per risolvere i problemi del paese; piuttosto che su comportamenti ai quali – questo per noi è il quadro emerso dalla ricerca – sembrerebbe non essere particolarmente interessata la maggioranza degli italiani. Un quadro non definitivo e, quali che siano i giudizi – quello del Censis è stato negativo – destinato a durare per parecchi anni ancora.

Lo specchio del Paese

La ricerca del Censis si inserisce – lo ha detto all’inizio il direttore generale Giuseppe Roma – nell’impegno del Centro studi investimenti sociali di tenere sotto osservazione il tessuto economico e sociale del Paese, per coglierne gli umori profondi e le evoluzioni. Lo ha fatto con le indagini sull’“inverno della crisi” e su altre ricerche come quelle sui territori di eccellenza e sulla reazione del territorio alle difficoltà, quest’ultima con l’Unioncamere, tutte analisi di cui abbiamo dato conto.

E non è stato poco merito l’aver visto ed evidenziato segni di solidità e vitalità, coesione e iniziativa che consentivano una lettura diversa della crisi non per il gramsciano “ottimismo della volontà” ma – se ci è consentita una contaminazione – per quello che Gleijeses, il nuovo direttore del Teatro Quirino, in tutt’altro ambito e per tutt’altro motivo, ha definito l’“ottimismo della ragione”. A questa visione si sono accodati autorevoli protagonisti solo quando i movimenti sotterranei si sono tradotti in indicatori economici; ma risiede proprio qui la forza del Censis, essere uno specchio del Paese nel quale bisogna saper guardare nel modo giusto liberandosi da troppi luoghi comuni.

La ricerca che verrà illustrata fa parte di una sorta di “diario dell’estate”, ci si passi questa definizione, perché impegnerà per l’intero mese di giugno su quattro temi sociali tutti molto particolari e dalle denominazioni immaginifiche, com’è nello stile del presidente Giuseppe De Rita.

Ma non vogliamo anticipare questi altri temi per non far venir meno l’interesse e l’attesa, assicuriamo che ci saremo per darne conto ai lettori della Rivista, come sempre.

La doppia morale e la trasgressione a orologeria

Torniamo ai comportamenti per chiederci subito il perché della prospettata“deregulation”. La risposta la dà subito la ricercatrice Ketty Vaccaro in un’analitica illustrazione dei risultati.

La frammentazione dei comportamenti è il corollario della società molecolare, quindi molto frammentata, che il Censis ha evidenziato da tempo. “La libertà di essere se stessi è l’unico criterio sentito nell’odierna società, come vincolo e base dei comportamenti. Il valore condiviso è il primato del soggetto e l’autoaffermazione, C’è un’ampia gamma di comportamenti che si iscrive nel bisogno di esprimere se stessi, in un individualismo esasperato rafforzato da una forma di coercizione sociale. Quasi un obbligo ad ‘essere se stessi’”.

In fondo, ci viene di commentare, il richiamo alla “privacy”, divenuto un ludo cartaceo quasi maniacale con l’istituzione dell’apposita Autorità, ha avuto un effetto valanga in questa direzione, come nell’apprendista stregone. Il richiamo ossessivo ha rafforzato un abito mentale, e forse Stefano Rodotà, la cui impostazione culturale e politica è ben altra, si sentirà un nei panni scomodi di Frankenstein. La sua creatura amorevolmente allevata è ora un mostro sfuggito ad ogni controllo.

C’è una doppia morale, quella apparentemente dominante per costumi e consuetudini, nonché valori astrattamente condivisi e quella che ogni individuo si costruisce per sé e riferisce i propri comportamenti ad essa, non ai canoni più generali. Vale anche nella religione dove sotto la superficie della morale cattolica c’è quella personale dei praticanti, che non rinunciano ad “essere se stessi”. “L’idea del peccato – secondo la ricerca – rimane ma è il singolo fedele a ritenere di poterlo definire e giudicare sulla base della valutazione della propria coscienza in una corsa alle valutazioni (ed attenuanti) che può contribuire a spiegare anche il monito del Papa quando avverte che “’il confessionale non è il lettino dello psicanalista’”. Ma il 30% dei fedeli non lo seguono, ritenendo non necessari i confessori, il 20% è riluttante a confidare loro i propri peccati e il 10% addirittura li ritiene “un impedimento al dialogo con Dio”.

Ciò avviene anche in manifestazioni liturgiche nelle quali altri sono i valori, rispetto ai comportamenti personali che superano ogni vaglio in quanto autoassolutorio. Se ne sono avuti segni vistosi nelle Giornate mondiali della Gioventù, dove neanche l’attiva partecipazione del Papa basta a rimuovere, almeno per quei pochi giorni, i comportamenti trasgressivi di sempre; anche perché continuare ad essere se stessi non ha implicazioni negative sulla propria vita personale. In definitiva, “la soggettivizzazione dei criteri di riferimento morale comporta un riadattamento dei principi della morale cattolica in materia di sessualità sulla base della valutazione della propria coscienza individuale”. Si tratta non tanto “del rifiuto di riferimenti valoriali comuni quanto della continua rinegoziazione di tali valori e riferimenti frutto di scelte e valutazioni in cui l’individuo è da ritenersi unico arbitro legittimato”. Rinegoziazione calata sulle specifiche esigenze individuali.

Se ne ha conferma, pur in una forma diversa, nei comportamenti normali dei giovani, per i quali la “doppia morale” è scandita dal calendario: allorché il tempo libero, per le vacanze o il fine settimana, fa scattare comportamenti trasgressivi rispetto a quelli consueti che vengono invece mantenuti quando quelli trasgressivi li danneggerebbero.
La ricerca misura questi fenomeni con dati raccolti attraverso apposite indagini sul campo. Ebbene, la percentuale di giovani che dichiarano di aver bevuto alcolici nell’ultima settimana è del 3% circa nella media dei due sessi per i giorni lavorativi e di studio, schizza all’86% nel sabato. Se doveva esserci una spiegazione quasi scientifica delle “stragi del sabato sera” è venuta da questi dati. Che evidenziano anche un altro versante del rischio alcool: un quinto dei giovanissimi dagli 11 ai 18 anni ne fa uso.
Si ha “modello di consumo ‘compatibile’ di trasgressione controllata, con l’incremento dell’uso delle droghe da ‘performance’ (la cocaina e le anfetamine), il crollo di consumi di sostanze come eroina poco conciliabili con la ‘normalità della vita quotidiana’ e la diffusione continua di nuove forme di ritualizzazione dei consumi (l’’ectasy’ nei fine settimana); è l’equivalente del consumo di bevande alcoliche dei giovani nella giornata di sabato e l’astinenza negli altri giorni per non interferire negli impegni giornalieri, ma purtroppo al controllo spesso sfugge la guida, ed allora è tragedia. Delle infrazioni automobilistiche accertate nel 2008 quelle della guida sotto l’influenza di alcool nel week end sono il 70% dell’intera settimana..

Le conseguenze nelle devianze e nel rifiuto dell’altro

L’esasperazione delle tendenze ora evidenziate porta a devianze sempre più diffuse, e spesso ostentate, rispetto a comportamenti ritenuti moralmente accettabili, anche se c’è il tentativo, molte volte non riuscito, di mantenersi all’interno delle regole per non incorrere nei fulmini della legge; ma le regole ispirate a tradizioni e valori se sprovviste di sanzioni non sono più considerate valide.

Così il buonismo e il “politicamente corretto” sono visti come convenzioni che limitano l’essere se stessi, il solipsismo, e vengono considerati sempre più “come forme odiose di ipocrisia, superate le quali sarebbe finalmente possibile ‘dire le cose come stanno’”.
Anche la solidarietà e la fiducia negli altri sembrano in disuso, per “l’emergere e l’affermarsi di un egoismo pragmatico e familistico, a scapito di un civismo vago, e percepito sempre più come espressione di un altruismo incosciente e ideologico”.
Qui s’innesta il comportamento ostile nei confronti dell’altro, soprattutto se “diverso” perché immigrato, un’esagerata autodifesa dei propri ambiti e di confini che vengono visti come minacciati. Malintesa autodifesa che si traduce in spirito aggressivo e risoluzione diretta dei conflitti interpersonali con la violenza. Gli episodi di cronaca, con accoltellamenti per banali questioni di parcheggio, di discoteca o di tifo, nonché per reazione contro gli immigrati sono espressione dell’intolleranza che è il frutto bacato di un’esasperata ricerca di autoaffermazione.

E’ vero che da una ricerca del 2007, sempre del Censis, il 60% degli italiani ritiene gli immigrati utili e comunque una realtà da affrontare positivamente con nuovi modelli di convivenza multietnica; ma vi è pur sempre un 40% che li vede come un problema di ordine pubblico perché responsabili dell’inasprirsi della criminalità, e addirittura una minaccia per i loro valori e tradizioni incompatibili con i nostri. In termini più specifici il giudizio si aggrava: quasi il 60% si dice convinto che rispettino poco le leggi italiane; più del 50% li considera poco rispettosi delle donne, il 44% li ritiene più violenti e sporchi.
In questo contesto non sorprende che i recentissimi dati di Demos & Pi indichino in poco meno del 70% la percentuale di italiani favorevole al respingimento dei barconi provenienti dalla Libia, in barba ai distinguo umanitari sul dovere di verificare il diritto di asilo in Italia e non in Libia.

Per i clandestini già in Italia, le preoccupazioni crescono e diventano individuali, non più riferite ai valori e al territorio. Il 52% li ritiene “il maggior elemento di pericolo per l’incolumità personale”, più che gli “automobilisti e motociclisti che guidano in modo imprudente”, additati solo dal 51% nonostante quest’ultimo sia un rischio più concreto e dovrebbe prevalere nei giudizi della gente.

Così, osservano i ricercatori, “alcuni atteggiamenti sempre più palesemente xenofobi, lungi dall’essere occultati, sono affermati con forza, in nome della necessità di un comune riferimento alle regole nazionali e del diritto di difesa di valori della propria comunità di appartenenza”. E poco conta che una parte dell’opinione pubblica non la pensa così, basta l’ampia percentuale di coloro che hanno queste idee intolleranti anche perché sono i più attivi. Ne fanno fede le forme di controllo autogestito del territorio, le cosiddette “ronde”, nobilitate come “associazioni di volontariato per la sicurezza” e tradotte in disposizioni legislative a furor di popolo si direbbe: dove il furore è l’esaltazione e il popolo è quello più intransigente. Ebbene, il 54% degli intervistati pensa che “l’istituzione delle ronde garantisca maggiore sicurezza”, anche qui in barba a tutti i buonismi.

Un altro segno evidente degli effetti dell’esasperata autoaffermazione è individuato nel “bullismo”visto come “affermazione di sé e nello stesso tempo di ricerca di riconoscimento ed identità giocato su una piccola appartenenza e sulla identificazione del ‘nemico’ nel più debole”, come del resto lo è l’immigrato. L’80% dei genitori intervistati dal Censis nel 2008 lo vedeva in aumento e il 74% notava una preoccupante precocità del fenomeno perché insorgente a un’età inferiore, mentre il 60% affermava, altro dato preoccupante, che “gli insegnanti non hanno strumenti per intervenire”. Di qui il 5 in condotta che ha comportato una percentuale significativa di bocciature nell’anno scolastico appena concluso. Ma non vogliamo fare richiami politici.

Le espressioni dell’autoaffermazione e il privato dei potenti

L’autoaffermazione di cui abbiamo parlato non è soltanto un dato interiore, un modo di essere e di pensare che poi travalica nelle devianze e nelle violenze. E’ anche un comportamento ostentato, che si specchia nella società dello spettacolo e nei suoi riti mediatici e rimbalza poi nel privato e personale. Sembrerebbe un elemento positivo, un fatto di sincerità e di coraggio, per questo viene esibito nei “reality” e nei “talk show” dove stazionano i sedicenti “opinionisti”, sempre i medesimi, che parlano dall’alto della loro incompetenza con la presunzione sfacciata di affermare la propria opinione come parte di loro stessi.

E qui viene meno la funzione del servizio pubblico, che potrebbe e dovrebbe rifiutarsi di assecondare un andazzo così negativo -il canone non è legittimato dall’asserita “diversità” dalla televisione commerciale a questi fini? – per ripristinare i valori della competenza nella marea montante della vacuità e della caduta di ogni valore positivo. Lo dimostra il fatto che alle selezioni del “Grande Fratello” dell’emittente privata da ben nove anni si presentano ogni volta 20.000 giovani per realizzare quella che è diventata la massima aspirazione: “entrare nel mondo dello spettacolo”, vale a dire esserci, esibirsi senza alcuna seria preparazione, dovunque e comunque, purché si abbia visibilità, e quella televisiva è ritenuta oggi la più appagante.

La ricerca iscrive in questo fenomeno anche il recentissimo “boom” della diffusione di “Facebook”, il sito di incontro e contatto on line su Internet, che ha raggiunto in poco tempo quasi 10 milioni di iscritti, equamente ripartiti tra i due sessi, il 60% dei quali dai 18 ai 34 anni. La logica del sito è raccontarsi e farsi conoscere, esprimersi liberamente ed autorappresentarsi nella cosiddetta piazza mediatica; e non sarebbe negativo, tutt’altro, avendo sostituito l’ “agorà” ateniese, se i contenuti fossero all’altezza dello spazio conquistato, invece avviene l’opposto, la banalità è imperante.

Ma al di là delle apparenze e delle ostentazioni, quali sono le vere aspirazioni dei giovani? La ricerca ha una risposta anche per questo. Perché quasi il 40% dei giovani italiani tra i 18 e i 30 anni, la maggiore percentuale,vorrebbe “realizzare le proprie aspirazioni”, una sorta di tautologia; a questo si deve aggiungere il quasi coincidente “essere se stessi” con il 25%, quindi quasi il 65% aspira ad autorealizzarsi e affermarsi dovunque e comunque; é lontana l’epoca in cui l’aspirazione era diventare medico o avvocato, ingegnere o viaggiatore, scienziato o anche attore!

L’autoaffermazione è svincolata da obiettivi precisi, a differenza del passato, ma anche dal “diventare ricco e famoso”, risultato perseguito soltanto dal 3% dei giovani; mentre è confortante che per il 26% il successo può consistere nel “fare qualcosa di utile per tutti”.
Qui la ricerca disvela un aspetto confortante che differenzia i giovani dalla media nazionale della quale abbiamo ricordato fin qui pecche non proprio trascurabili. Perché rifiutano il valore negativo portato avanti con forza dalla società (“diventare ricco e famoso” pesa per quasi un terzo del totale), per sposare il “fare qualcosa di utile per gli altri (lo stesso 26% circa che abbiamo indicato come incidenza tra i giovani); rifiutano anche la spinta al potere (12% tra i valori della società, 1% tra quelli dei giovani); e vedono non riconosciuta la loro ricerca di realizzare le proprie aspirazioni ed essere se stessi (tra i valori della società rappresentano il 17% rispetto a quasi il 65% tra i giovani).

A questo punto la ricerca del Censis approfondisce il tema del potere e del rapporto con i giovani, perché analizza la loro reazione rispetto alle anomalie dei comportamenti dei personaggi pubblici che, non meno della media del paese, rispondono alla “libertà di essere se stessi”, anzi la manifestano in “forme più incisive ed eclatanti”. Seguiamo la ricerca, ha espressioni eloquenti.

Per le manifestazioni del potere: “’Agli dei più che ai mortali ‘ la trasgressione è consentita e l’essere al di sopra delle regole che vincolano l’uomo comune è proprio l’appannaggio più ambito del potere”. Tanto più che, come abbiamo visto, neppure l’“uomo comune” se ne sente vincolato e trasgredisce fino al limite della perseguibilità. Spesso negata agli uomini di potere.

Per la gente normale: “’Beato lui che può’ è il commento più comune di fronte alla narrazione mediatica di comportamenti che sdoganano molti vizi italici da tempo risaputi ma , fino a ieri, almeno retoricamente condannati, primo fra tutti l’approfittare della propria posizione di privilegio per ottenere e dare favori e benefici”. Sono tanti coloro ai quali fischiano le orecchie a queste parole!

Ancora più direttamente il Censis mette il dito nella piaga: “In modo ancora più marcato di quanto non avvenga nei comportamenti di ciascuno, in quelli degli uomini pubblici il controllo sociale non viene più esercitato sulla base di riferimenti valoriali comuni, anche se non viene necessariamente azzerato; ma piuttosto è rinegoziato in modo ancora più evidente proprio grazie alla retorica libertà di essere se stessi, ormai regola aurea che, se vale per tutti, non può che valere ancora di più per i potenti”. Il fischio alle orecchie per i sopracitati diventa a questo punto assordante.

La “versione potenziata nei comportamenti dei personaggi pubblici” in tema di relativismo morale non è accettata, però, dai giovani come fa, invece, la società nel suo complesso; e questo è un dato confortante, per certi versi inatteso a stare alla forte spinta all’autoaffermazione ad ogni costo. Torna l’idealismo nell’inchiesta tra i giovani italiani dai 18 ai 30 anni nel condannare in modo molto più severo del giudizio sociale comportamenti fuori delle regole: il professore universitario che fa carriera con concorsi truccati e l’imprenditore affermato che usa lavoratori in nero, il magistrato con amicizie equivoche.

Il fatto che non riguardino il privato e potrebbero vedere gli intervistati tra i possibili danneggiati non attenua il valore morale di una condanna pronunciata dall’83% dei giovani” per il professore, dal 72% per l’imprenditore e dal 62% per il magistrato, percentuali doppie rispetto a quelle del giudizio sociale; anche doppia di quella sociale è la loro riprovazione per la donna in carriera che usa il corpo per affermarsi. Più accondiscendenza e maggiore vicinanza al giudizio sociale c’è per comportamenti in cui realmente “il privato è privato”: come il manager di successo che usa cocaina, lo studente modello che si sballa nel fine settimana, fino al politico potente con i servizi segreti.

Considerazioni di sintesi e di prospettiva

Il presidente De Rita ha tratto alcune conclusioni o meglio ha espresso uno stato d’animo, suo personale e dell’intero istituto: “Noi del sociale ci troviamo di fronte al primato del soggetto, all’essere se stessi, addirittura alla coazione ad essere se stessi. La personalizzazione arriva a un punto tale che si dice ‘decido io, il mio privato è il mio privato’. Si dissolvono i rapporti, non funzionano i meccanismi, sparisce il ‘politically correct’, trionfa il solipsismo individuale”.

Già prima del 1968, prosegue, è iniziata la deriva verso la personalizzazione, poi è arrivato il relativismo: “Ne ho sofferto in prima persona e come Censis, assistendo alla crisi dei corpi intermedi dopo che abbiamo tanto esaltato il sociale e ci siamo impegnati in concreto”.

Ma non serve recriminare, se si guarda in faccia la realtà si trovano dei segni positivi nei giovani che fanno pensare ad una possibile inversione di tendenza o almeno all’arresto della deriva. Si sono rivelati più attenti ai valori morali della società in complesso, e più sensibili alla correttezza dei comportamenti di rilevanza pubblica quando non riguardano il privato. Se poi interviene un terzo rispetto a loro scatta il meccanismo di appartenenza.
L’altro elemento da considerare è il fatto che il solipsismo a lungo andare distrugge se stesso, in quando si avvita sul soggetto, lo porta all’isolamento. Il risultato è una precarietà e un’incertezza destinate a finire: “La società dei comportamenti individuali non può che essere una società dai legami instabili, frutto di ricomposizioni continue, in cui quello che era fondante può diventare inutile il momento dopo, con un meccanismo quasi inconsapevole in cui la cifra maggiore è la tempestività e la fragilità del legame, seppure intenso, che si tende a costruire proprio in nome dell’affermazione della propria soggettività”. Quale lo sbocco di tutto ciò?

In questa instabilità si trovano gli anticorpi perché “da una parte c’è la valorizzazione di essere se stessi… in un unico modello che non crea coesione sociale, dall’altra un affastellarsi di micro appartenenze con una ricerca continua di relazioni a forte intensità emozionale ma fortemente volatili”. Se questi anticorpi faranno superare la “libertà di essere se stessi” svincolati dai valori, si potrà avere un “recupero della capacità di coagulare persone, gruppi sociali, interessi, istituzioni, una nuova classe dirigente”.
Ci avviciniamo alla previsione finale, espressa con molta cautela: “Al momento non sembrano in campo soggetti e culture in grado di arginarla, ma è possibile che questa nuova filosofia della libertà e del valore dell’espressione profonda di sé sia giunta alla fine del proprio ciclo e che nell’onda lunga del cambiamento sociale si possa cominciare ad affermare una cultura di nuova attenzione all’altro in cui ci sia un ritorno alla coscienza del noi contro l’affermazione della mucillagine dell’io”.

Non le ha dette a voce De Rita queste parole, ma sembrano scritte da lui. Come sembrano di suo pugno le righe conclusive della ricerca: “Tale fine di ciclo probabilmente non sarà repentina ma si attuerà attraverso un silenzioso sfarinamento nel tempo, verosimilmente senza scosse. Aspettiamo e vedremo”.

Una sorta di previsione dei terremoti, si può dire che avverranno ma non quando. A voce si è spinto più in là. Considerando che “l’onda lunga del cambiamento sociale” ha cicli cinquantennali, essendo iniziato il processo circa quarantadue anni fa il conto è presto fatto. Lo “sfarinamento” dell’individualismo durerà per un arco di tempo all’incirca di otto anni ancora. Per qualcuno saranno troppo pochi, per qualche altro saranno troppi, e ognuno può dare loro nome e cognome. Si ripropone il dilemma posto da Franco Battiato dal lontano 1991 in “Povera patria”: “Non cambierà non cambierà, sì che cambierà, vedrai che cambierà… la primavera intanto tarda ad arrivare”.

Oltre che per la previsione, in un certo senso il “clou” delle riflessioni fatte nell’incontro alla sede del Censis, abbiamo già detto che a molti fischieranno le orecchie per risultati dell’indagine. C‘è “un relativismo morale a cui si condiscende tutti, per continuità di comportamento e in ossequio comune al primato della coscienza individuale”; e “se il privato viene descritto come zona franca, anche in ambito pubblico si assiste ad un nuovo rapporto con le norme di riferimento dei comportamenti sociali”.

E allora il messaggio che abbiamo anticipato all’inizio trova le sue motivazioni documentate, almeno per noi. La gente, i cittadini elettori, non vogliono moralismi ma contenuti, nei programmi politici e nell’azione di governo, nella spinta della maggioranza e nel contrasto dell’opposizione. Se questo servirà a dare concretezza alla politica si potrà dire “oportet ut scandala eveniant”! Anche perché le parole di De Rita fanno capire che torneranno i valori collettivi; non subito, ci vorrà del tempo da impiegare in modo utile concentrandosi totalmente sui problemi reali del Paese.

Non ci sono posizioni politiche nella neutralità dell’analisi, fondata su indagini approfondite, e nel nostro resoconto corredato da osservazioni. Sarebbe interessante che i lettori dicessero la loro usufruendo della possibilità di inserire senza formalità commenti on line in calce all’articolo.

Questa è la visione di un Centro che ha il merito di aver messo a nudo tanti segreti riposti della nostra società, in un’ottica non solo di studio ma anche di investimento sociale. E’ la realtà come emerge dall’accurato monitoraggio compiuto: “Per fortuna o purtroppo”, per dirla con Giorgio Gaber.

Contraffazione, 2. Made in Italy, le anomalie nel settore del lusso, ricerca Censis-Ares

di Romano Maria Levante

Abbiamo di recente cominciato a esplorare la contraffazione, considerando le operazioni clandestine di alterazione e imitazione fraudolente compiute da un sottobosco di oscuri trafficanti; fenomeno dalle dimensioni allarmanti a livello mondiale oltre che nazionale, per effetto della globalizzazione e relativa delocalizzazione produttiva che disperde il “know how” e rende difficili i controlli.

La ricerca Censis-Ares ha delineato in via generale queste condizioni, e ne abbiamo già dato conto. Per una verifica sul campo, nel nome della completezza dell’informazione, non possiamo ignorare i risultati di un’inchiesta di tutt’altro tipo, quella della trasmissione televisiva “Report”, benemerita nel denunciare anomalie e irregolarità a tutti i livelli, con coraggio e professionalità.

I “disoccupati” e gli “schiavi del lusso” nelle inchieste di “Report”

La trasmissione “Report” su Rai 3, con due inchieste di Sabrina Giannini commentate in studio da Milena Gabanelli il 2 dicembre 2007 e il 18 maggio 2008, ha alzato il coperchio su metodi produttivi inammissibili, perché è intollerabile l’esistenza di “disoccupati del lusso” e ancor più di “schiavi del lusso”.

Si tratta della logica conseguenza di quanto segnalato nell’indagine Censis-Ares, sulla dispersione della produzione di abbigliamento “griffato” al di fuori del controllo della casa madre. In realtà, la sottrazione a questo controllo deriva dal voler eludere il rischio imprenditoriale facendolo ricadere sul fornitore che lo scarica sui sub fornitori sia per i cicli di domanda sia per il processo produttivo.

Per questo si creano quelli che “Report” ha chiamato i “disoccupati del lusso”, sprovvisti di qualsiasi garanzia, che smettono il lavoro nelle fasi di depressione per attendere di riprenderlo nei periodi di picco della domanda. Di qui una prima fonte delle irregolarità perché il modo per sottrarsi a questa situazione è lavorare in nero, magari in proprio, avvalendosi del “know how” acquisito.

Altra fonte di disoccupazione nasce dall’abbassarsi della retribuzione del lavoro per l’offerta, anche nelle zone di tradizionale produzione italiana, di manodopera clandestina, per lo più cinese, a prezzi ancora più stracciati. Ciò dipende dall’assillante ricerca del costo più basso di produzione che si può realizzare soltanto esternalizzandola e verificandola con un controllo limitato alla qualità, e non esteso alle condizioni di lavoro e alla regolarità dell’attività dei sub fornitori.

Questo crea anche gli “schiavi del lusso”, cioè condizioni di lavoro degradate e di sfruttamento in quanto i compensi bassissimi del primo fornitore costringono il fornitore successivo che organizza la produzione a servirsi di lavoro irregolare ai costi più bassi possibile per restare nei termini ristretti che gli sono stati imposti. Condizioni che non si realizzano soltanto nei paesi nei quali il lavoro non è tutelato, Cina in particolare, dove la contraffazione è punita ma si pratica in modo occulto ugualmente inarrestabile; si realizzano anche in Italia come “Report” ha verificato nei suoi servizi da Napoli, con manodopera italiana, e da Prato con manodopera anche cinese.

Sconvolgenti alcuni risultati, borse di nylon o plastica, materiale di scarso valore, pagate 20 euro per la manodopera al sub fornitore che le produce, e vendute a 440 euro; borse per il 90% di stoffa e solo il 10% di pelle pagate a chi le produce meno di 40 euro per la manodopera e vendute a 3.500 euro e così via. Marchi famosi sono coinvolti in queste situazioni non certo tollerabili. I controlli che le “griffe” esercitano con propri ispettori sembrano riguardare soltanto la qualità della merce e non le condizioni di lavoro, e non a caso, perché non li supererebbero. E anche quando una “griffa” certifica la sua produzione non lo fa per tutti i marchi che le fanno capo, e si cita un esempio.

Che dire dinanzi a questa faccia nascosta di un settore nel quale prolifera la contraffazione? Che spesso sono le condizioni in cui le “griffe” fanno svolgere la produzione .per accrescere i profitti, a favorire il mercato parallelo dei falsi, oltre a dar luogo a inaccettabili quanto irregolari condizioni di lavoro, secondo l’efficace documentazione di “Report”. L’assenza di controlli da parte delle “griffe”, per tenersi fuori da responsabilità nelle violazioni delle normative sul lavoro, si ritorce contro di loro nel far venir meno l’argine ai falsi dato da controlli che riguardassero la manodopera (dovrebbe essere artigianale e regolare), e i materiali (dovrebbero avere maggior valore intrinseco).

Non vengono anche da qui gli atteggiamento verso una contraffazione accettata se non favorita?
A volte si crea una catena con quattro anelli, di cui solo l’ultimo impegnato nella produzione per una remunerazione falcidiata perché quella della casa madre, già molto ristretta, è poi ripartita tra diversi intermediari come da sempre avviene, in situazioni molto diverse, per i prodotti agricoli.

Secondo quanto ha accertato “Report” direttamente – con incalzanti interviste di Sabrina Giannini in Italia e in Cina – si mette in moto una spirale al ribasso dei costi e delle condizioni di lavoro innescata dai prezzi iugulatori che impediscono comunque di produrre con manodopera regolare e qualificata. Dall’artigiano italiano in regola e nella legalità si passa presto al lavoro nero italiano – è il caso riscontrato nella zona di Napoli – poi al lavoro nero dei cinesi che operando in condizioni subumane possono offrire prezzi ancora inferiori – è il caso di Prato in due diverse situazioni – fino alla delocalizzazione in Cina che apre praterie di irregolarità: con il “made in Italy” apposto sulle etichette di prodotti cinesi con metodi disinvolti oppure giustificato dal fatto che l’ultima operazione, come tracolla o manico della borsa, è omessa per essere completata in Italia e avvalersi, al pari dell’alimentare, delle pieghe della normativa per una “contraffazione legale”.

Quello che è emerso dall’inchiesta fa tornare ai tempi della schiavitù, non solo nelle condizioni di lavoro degli “schiavi del lusso”, così “Report” li ha definiti, ma nella remunerazione che li strangola imposta dalle case di moda. Mentre i prezzi di vendita al pubblico sono a livello stratosferico.

“Abbiamo sempre pensato – ha commentato Milena Gabanelli in studio – che la differenza fra un accessorio di lusso e un altro comprato al mercato fosse nei materiali e nei costi di produzione. Non è sempre così, succede che si vende a 3500 quello che costa 100, e se vogliamo esagerare 150. Qualcuno le può chiamare regole di mercato, ma il fatto è che si risparmia sulla parte artigianale, cioè quella che dà valore aggiunto alla griffe e all’etichetta. Eppure chi la indossa di solito ignora che a monte non ci stanno le mani esperte e raffinate di un artigiano, ma quelle di un clandestino”.

I controlli della Guardia di Finanza cercano di contrastare il fenomeno, ma i mille rivoli sfuggono perché se i lavoratori irregolari vengono identificati, continuano sotto altri sub fornitori in un meccanismo che definiremmo “l’inferno del lusso”. Come si può puntellare un sistema così anomalo con l’impari lotta alla pirateria dilagante perché viene di fatto favorita dalle stesse case per i prezzi iugulatori e l’assenza di controlli sui sub fornitori, se non per la qualità? La pirateria ne è la logica conseguenza perché nei compensi imposti è insita l’irregolarità nell’esecuzione, altrimenti non si potrebbero rispettare. Proteggere questo sistema non vuol dire difendere il “made in Italy”, tutt’altro, perché a tali livelli infimi è assente l’artigianato italiano con la sua tradizione di qualità.

Lo ha detto chiaramente la Gabanelli: “In pratica stiamo trasferendo ai cinesi una competenza che è solo nostra e che tutto il mondo ci invidia. Alla base di questo processo di svilimento, non è il piccolo pellettiere ma, incredibile, l’industria del lusso, proprio chi non ne avrebbe bisogno. Infatti i cinesi si sono insediati là dove c’è un polo manifatturiero, e l’artigiano locale è andato a farsi benedire sotto i colpi della concorrenza sleale. Ma la logica dell’articolo di lusso è la stessa dell’articolo di largo consumo? Anche Dior, Dolce Gabbana e Louis Vuitton, come chi fa le ciabattine da mare o le magliette che si vendono sulle bancarelle, devono produrre al minor costo possibile altrimenti non ci stanno più dentro?”. E ancora: “Allora se tu puoi fare la scarpa in Cina, mettere la suola in Italia e scriverci ‘made in Italy’ perché la norma è così ambigua che te lo consente, lo fai. Addirittura qualche grande marchio può permettersi di fare la scarpa completa in Cina e poi cambiare l’etichetta. Sarebbe una frode. Ma un sistema che non protegge il vero ‘made in Italy’ pare faccia comodo a tutti. Tranne a chi lo fa davvero e a chi compra, perché a un prezzo alto non corrisponde una qualità alta. Poi se vuoi fare una griffa e venderla a meno, e la vuoi fare in Cina, sarebbe solo corretto scriverlo. Il nostro mercato più importante è quello americano, si fida sempre meno di noi, perché sa che produciamo molto fuori, ma possiamo non dichiararlo”.

Non è impossibile invertire la tendenza. Un operatore sardo, Antonio Marras, rintracciato da “Report”, ha reclutato ricamatrici locali per un lavoro dignitoso e regolare nella splendida cornice tradizionale della Sardegna, e funziona. Così l’autrice dell’inchiesta Sabrina Giannini: “Portare la tradizione regionale del suo ‘made in Italy’ vincendo la scommessa. E’ rimasto lontano dai riflettori del fashion system e dei poteri forti, eppure oggi disegna anche per il marchio di un’importante maison francese”.
E poi, come in “Furore” di Steinbeck il protagonista allo stremo approda in quello che era il “campo del governo”, un’isola di legalità e ordine, pulizia ed efficienza nel caos di miseria e di violenza della Grande depressione, così in “Report” la Giannini approda al “Consorzio 100% Italiano”; un’oasi nel deserto dove i costi di produzione con manodopera italiana regolare e certificata in ogni fase sono sì più elevati, 90-100 euro e con i materiali, anch’essi italiani e di qualità, i costi generali e quanto fa parte della gestione di un’azienda, si arriva a 250-300 euro franco fabbrica; ma il prezzo in vetrina può essere di 900-1000 euro, quindi il conto economico è sostenibile e dà ugualmente margini sufficienti, in compenso c’è un ciclo produttivo regolare e legale e una qualità elevata.

Saranno minori i profitti? Senz’altro, ma saranno ugualmente elevati. Ha ragione la Gabanelli:“Allora parliamo del mercato del lusso, oggetti così esclusivi che non hanno prezzo. Quindi il fatto che da noi il costo è così elevato non dovrebbe incidere. E quei 20-30 euro in più su questi accessori salverebbero un intero settore e certamente non limiterebbero la vendita di beni destinati a consumatori ricchi. Ma con ogni probabilità non c’è limite alla sete di profitto”.

Saranno minori le possibilità di spese di promozione e pubblicità, sfilate e vetrine, che sono ingenti nelle grandi case, peraltro cosi attente nel contenere i costi a livello produttivo? Può darsi. Ma rinunciare un po’ a questo“lusso” per mantenere le condizioni minime di un “made in Italy” di qualità anche nel rispetto della legalità è il meno che si possa pretendere, anche perché avere sotto al “lusso” la miseria più degradante è grottesco: fa pensare a un gustoso film del grande Totò che sotto al vestito inappuntabile aveva soltanto il collo, la pettorina e i polsini della camicia, ma quella era miseria vera e non una situazione indotta dall’avidità come quella che viene denunciata.

Altrimenti coloro che si comportano in questo modo – anche se sono case rinomate, ma di fatto operanti in un’illegalità solo formalmente coperta dai sub fornitori – si dovrebbero lasciare soli alle prese con la contraffazione da loro stessi suscitata con una filiera produttiva che disperde il loro “know how” all’esterno in mille rivoli e genera “disoccupati del lusso” scaricati nelle fasi depressive senza garanzie né ammortizzatori e “schiavi del lusso” che lavorano in condizioni subumane.

Ma non si deve arrivare a tanto. Ha affermato Andrea Calistri, Presidente del “Consorzio 100% Italiano”: “Le grandi griffe hanno, come dire, atteggiamenti con noi di dialogo aperto sull’argomento, non possiamo però non considerare il fatto che le grandi griffe sono molto spesso aziende globalizzate, e che proprio questa globalizzazione spinta, probabilmente, porta a fare scelte non esattamente drastiche come quelle che abbiamo fatto noi. E’ etico dire: ‘Io faccio prodotti in Italia in aziende certificate’ e farlo davvero, così com’è etico dire: ‘Io faccio i prodotti in Cina’. E li faccio davvero in Cina, oppure li faccio in India e li faccio davvero in India. Ho imparato che non è etico scriverci ‘made in Italy’ e fare i prodotti in Cina”.

Ha detto a “Report” Diego della Valle, noto proprietario di una “griffa” della moda: “Io sono un sostenitore totale del ‘made in Italy’ in questo senso: io dico ad altri marchi importanti come i nostri che noi dobbiamo stare molto attenti a non annacquare la grande considerazione che hanno nel mondo del ‘made in Italy’. Quando la gente ha del denaro, soprattutto in questi paesi emergenti vuol comprare i grandi marchi italiani e anche il ‘made in Italy’, ma questo serve soprattutto a preservare il grande artigianato italiano. Beh, io sono dieci o quindici anni che dico che se non stiamo attenti il ‘made in Italy’ un po’ alla volta ce lo giochiamo e adesso un bel pezzo di strada è stata fatta. Ho l’impressione che più che urgente è già tardi”.

Viene bene a questo punto la proposta della Gabanelli che, se tradotta in apposita normativa, potrebbe essere risolutiva: ”Fare pressione in sede europea affinché venga approvata una legge chiara sull’obbligatorietà della provenienza del prodotto e definisca ‘made in Italy’ ciò che realmente è fatto qui, non solo la suola della scarpa o il manico delle borse. Forse c’è ancora tempo di recuperare la credibilità di un marchio che ci distingue nel mondo ed anche il relativo indotto. Adesso le leggi sono così contorte che permettono ai furbi di fare i furbi”.

Alcune considerazioni sugli elementi emersi

Cosa è emerso, dunque, nel nostro viaggio in un labirinto insolito e inquietante, pieno di sorprese? Iniziato con la ricerca del Censis-Ares e proseguito seguendo le due inchieste di “Report”?

Intanto si distinguono due realtà diverse: quella in cui l’azione di contrasto difende da rischi per la salute e da frodi commerciali; e quella nella quale si tratta invece di proteggere interessi che sono legittimi ma dovrebbero comunque mettersi da se stessi in condizioni di minore vulnerabilità.

Nel primo caso la mobilitazione speciale con risorse pubbliche anche ingenti dedicate al contrasto è doverosa e sacrosanta, rientrando nei compiti dello Stato tutelare con ogni mezzo, anche straordinario, i consumatori indifesi di fronte alle pericolose irregolarità che li minacciano.

Nel secondo caso non si tratta di vera tutela dei consumatori, perché sono consapevoli di quello che acquistano. Lo ha detto il presidente del Censis Giuseppe De Rita alla presentazione della ricerca del Censis-Ares: “Entra nella struttura sociale voler spendere poco e apparire molto”; e nell’introduzione ha scritto della “poco diffusa consapevolezza da parte dell’opinione pubblica dei danni economici e sociali della contraffazione, che vengono considerati solo in concomitanza di episodi di cronaca eclatanti su cui si appuntano, di tanto in tanto, i riflettori dei media”. E il Ministro dello sviluppo economico Claudio Scaiola, nel cui dicastero c’è la Direzione generale dedicata alla lotta alla contraffazione, ha scritto a sua volta che questa è “vissuta dalla stragrande maggioranza della popolazione come un ‘fenomeno di costume’, un’‘infrazione veniale’, quasi un atto di solidarietà sociale nei confronti di soggetti bisognosi”. Lo sono coloro che espongono per strada merce a basso prezzo, i quali sarebbero portati a delinquere, spacciare droga o prostituirsi se non avessero quella modesta fonte di guadagno. Questo è il grave pericolo per la sicurezza pubblica da scongiurare non accanendosi contro di loro, pur nel doveroso rispetto della legge, altro che buoni sentimenti!

Ne deriva che uno dei “fronti” della battaglia è proprio, sempre nelle parole del Ministro, “la sensibilizzazione delle diverse fasce di consumatori, a partire dai più giovani”. Gli altri due fronti sono: “L’inasprimento e la rigida applicazione delle sanzioni”, coinvolgendo la Guardia di Finanza, le Dogane, le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato; “il rafforzamento della collaborazione a livello internazionale per garantire la tutela del ‘made in Italy’ nel mondo”.

Vorremmo aggiungere un quarto fronte, in cui devono impegnarsi le case produttrici, le “griffe”, soprattutto se gli interessi da tutelare sono i loro interessi e non quelli generali che includono i consumatori; tanto più che “la popolazione deve essere sensibilizzata” affinché collabori all’azione di contrasto. Perché non “sensibilizzare” anche loro a impiegare le proprie risorse in questa azione? In effetti è quanto si è verificato nel mondo del calcio, anch’esso caratterizzato da esibizioni miliardarie per quanto riguarda remunerazioni dei calciatori, diritti televisivi e quant’altro; il tutto senza sostenere costi connessi a tale forma di spettacolo, come quelli per la sorveglianza all’interno degli stadi, fino a poco tempo fa affidata totalmente alle forze dell’ordine. Di recente si è presa coscienza dell’anomalia insita nella devoluzione dei profitti ai soggetti privati in presenza di pesanti costi per garantirli gravanti sulla finanza pubblica, e si sono obbligate le società ad accollarsi il costo della sicurezza interna con un sistema di sorveglianza privato affidato ai cosiddetti “steward”pagati da loro, collegati con le forze dell’ordine ma non mobilitati a surrogare le società.

Per alcuni settori attaccati dalla contraffazione, particolarmente quello del “lusso”, l’esibizione miliardaria è non meno eclatante, anzi i profitti raggiungono livelli massimi rispetto ai deficit calcistici, tanto da creare quei meccanismi psicologici di cui parlava il Ministro; e sarebbe altrettanto impopolare la mobilitazione speciale e massiccia delle forze dell’ordine, che hanno compiti prioritari rispetto a questi. In analogia con l’azione negli stadi, anche nel campo in esame dovrebbe esserci un impegno massiccio delle imprese con l’accollo dei relativi costi.

E’ stata scartata nel Convegno l’ipotesi, pur prospettata, di ridurre la differenza di prezzo rispetto ai prodotti contraffatti, sebbene possa essere risolutiva; in fondo è quanto avvenuto nei medicinali con l’ingresso sul mercato dei farmaci generici, scaduta la licenza dei farmaci “griffati”, a prezzi abbattuti di netto; ebbene, quelli “griffati” sono potuti restare sul mercato se hanno ridotto drasticamente i propri prezzi, non più giustificati sul piano dei costi ma mantenuti a quei livelli dalla posizione monopolistica, cessata la quale non hanno più avuto fondamento. I farmaci generici sono stati incoraggiati anche dal servizio sanitario al fine di ridurre i costi della spesa farmaceutica.

Nel caso delle “griffe” nell’abbigliamento è difficile mantenere il differenziale di prezzo, ben più abnorme di quello nei farmaci, solo con misure di polizia per puntellare una situazione insostenibile di per sé, nelle condizioni di cui si è detto determinate dalle imprese per massimizzare i profitti. Soprattutto quando i prodotti offerti nel circuito clandestino a prezzi vicini ai costi di produzione, di frequente sono gli stessi venduti dalle case a prezzi diecine di volte più elevati, come si è visto.
Se ne rendono conto tutti coloro che si soffermano su questi aspetti. Il direttore del Censis, Giuseppe Roma, a una nostra domanda su come si spiegano queste abnormi differenze ha risposto che gli alti prezzi “sono giustificati dall’idea e dal marchio che c’è dietro”; e quando abbiamo parlato della facilità della contraffazione dovuta all’assenza di un’alta qualità di materiali e manodopera, quindi con un basso costo di produzione, ha osservato sconsolato: “Questa è la tragedia”. Lo stesso col. Vittorio Di Sciullo della Guardia di Finanza, alla nostra osservazione al termine del Convegno che andrebbero distinte anche nell’azione di contrasto le due forme di contraffazione perché il pericolo sociale è ben diverso, ha detto: “Questo è un problema”.
E’ vero che – come il colonnello aveva giustamente affermato – il “made in Italy” è un valore da proteggere, e lo abbiamo sostenuto anche per il settore alimentare nella linea del Ministro Luca Saia e del presidente della Coldiretti Sergio Marini. Ma è altrettanto minacciato dalle case che delocalizzano la produzione facendo venire meno l’apporto dell’artigianato italiano, lo ha detto Diego della Valle.

Possibili linee di intervento

Una sia pure parziale soluzione ai problemi fin qui evidenziati può essere trovata sviluppando una linea di intervento che riprende l’iniziativa – citata dal direttore del Censis nel Convegno citato – di un produttore del settore il quale ha attivato proprie indagini nei paesi della contraffazione segnalando poi alle autorità doganali i “container” con le merci contraffatte; è un esempio da seguire di impegno e partecipazione diretta all’azione di contrasto sostenendo per essa dei costi soprattutto quando i profitti sono abnormi come dimostrano i bilanci delle case della moda e gli investimenti di ingenti capitali perfino in mega alberghi di lusso in tutto il mondo.

Facciamo un’associazione di idee molto ardita ma per noi pertinente. La critica di Alessandro Baricco ai finanziamenti alla cultura è stata incentrata sul fatto che non si interviene alla radice, al momento formativo ma a valle, quando ci si è dispersi in mille rivoli che si cerca di intercettare con un’azione a quel punto forzatamente velleitaria e inefficace. E’ quello che si dovrebbe fare anche nella contraffazione se è del tipo ora illustrato, eliminando le condizioni che la favoriscono, in modo da non doverne rincorrere i mille rivoli sul mercato con insostenibili costi per lo Stato.

Si dirà che intervenire sulla delocalizzazione e quant’altro aumenterebbe i costi delle case produttrici; ma abbiamo già visto che i loro bilanci lo sopporterebbero. E migliorerebbe l’accettabilità sociale dell’azione di contrasto contro quello che, riportiamo ancora le illuminanti parole del Ministro Scaiola, è “vissuto dalla stragrande maggioranza della popolazione come un ‘fenomeno di costume’, un’‘infrazione veniale’, quasi un atto di solidarietà sociale nei confronti di soggetti bisognosi”. Mentre non vi è altrettanta solidarietà per le celebri case “griffate” se agli artifici della delocalizzazione multinazionale aggiungono le irregolarità denunciate da “Report”.

Quindi non ci sembra fuori luogo fare appello alla responsabilità sociale dell’impresa sul doppio versante dell’adozione di modelli produttivi meno esposti alla contraffazione per il loro intrinseco contenuto; e dell’impegno diretto con l’accollo di parte dei costi nell’azione di contrasto.

Non è velleitario richiedere questo, l’esempio che ciò è possibile è dato dall’impegno dell’Ares-Aico, la grande impresa farmaceutica da molti anni in prima linea in questa condivisione di responsabilità e di costi per un’efficace azione di contrasto. Questo suo impegno, evidente anche nella ricerca svolta con il Censis, si è tradotto nella “tracciabilità” del farmaco, un procedimento messo a punto con la mobilitazione dell’impresa, che ha praticamente azzerato le possibilità di contraffazione nei circuiti di distribuzione dei medicinali, quando negli altri principali paesi si hanno percentuali consistenti, dall’1 al 3%. Risultato questo di importanza straordinaria avendo a mente l’estrema a pericolosità dei farmaci adulterati per la salute e la sicurezza di tutti.

Non solo, ma la responsabilità sociale dell’impresa, nel caso dell’Ares-Aico è andata oltre il proprio campo di azione: assume infatti una valenza generale il suo progetto di estensione della “tracciabilità” anche ai prodotti degli altri settori presi di mira dalla contraffazione.

Potrebbe essere l’uovo di colombo per assicurare almeno che le produzioni ufficiali e regolari siano certificate in ogni fase del processo, cosa che implica la riconsiderazione dell’intera filiera produttiva e distributiva da parte delle case “griffate” e non, coinvolte nel meccanismo infernale che si è descritto; e anche per far contribuire le imprese interessate a sostenere i costi dell’azione di contrasto derivanti da questo progetto. La revisione del meccanismo produttivo è necessaria perché altrimenti neppure la riconoscibilità della contraffazione aiuterebbe e, chiusi i canali regolari, si moltiplicherebbero quelli irregolari perché ne rimarrebbero inalterate le premesse.

Ci sembra poter ripetere in tranquillità di coscienza di non ritenere giusto che tutti i costi dell’azione di contrasto siano accollati alla finanza pubblica dando un compito titanico alle forze dell’ordine, soprattutto perché il fenomeno è alimentato dalle anomale modalità della produzione, tali da dar luogo all’abnorme dilatazione di profitti privati a fronte di crescenti, insostenibili costi pubblici. E quando le modalità anomale sconfinano nelle violazioni palesi si deve dire alle imprese che le commettono, allorché denunciano le contraffazioni, l’antico ma sempre ammonitore “medice cura te ipsum”. Né la Ares-Aico può essere lasciata sola a battersi sul fronte dell’impresa privata nell’azione di contrasto. La responsabilità sociale dell’impresa non può che essere collettiva.

Su questo versante la ricerca non si è inoltrata, anche se ha lanciato dei segnali nell’indicare come la contraffazione sia alimentata dal fatto che una produzione così delocalizzata sfugge ai controlli; e non possono essere surrogati dall’azione repressiva nei mille rivoli della distribuzione. Lo stesso presidente dell’Ares, Franco Staino, preoccupato del dilagare del fenomeno anche al di là dei dati rilevati con la ricerca, ha scritto nell’introduzione: “Dobbiamo prendere atto e quindi indicare soluzioni radicali, poiché in molti casi gli stessi produttori non sono in grado di distinguere il prodotto ‘vero’ da quello ‘contraffatto’”. E ha aggiunto: “Noi pensiamo concretamente di collaborare con gli Stati e i produttori per divulgare uno strumento di controllo sistematico e costante”. E lo ha così descritto: “Una soluzione in grado di dare a prodotti immessi in commercio, senza interferire eccessivamente nel processo industriale, valori aggiunti quali la sicurezza dell’originalità, la tracciabilità di tutti i passaggi fino al consumatore, l’accertabilità del rispetto del processo distributivo in ogni momento e la rintracciabilità ai fini del ‘recall’ o altri eventi straordinari”. E infine: “La certificazione dei movimenti delle merci destinate all’impiego o al consumo – come l’esperienza del farmaco immesso in commercio in Italia già dimostra – si traduce anche in uno strumento per l’esercizio del controllo dovuto dalla pubblica amministrazione che sarà reso così efficiente da diventare uno strumento di prevenzione”.
C’è tutto in una dichiarazione così impegnativa, anche l’interferenza nel processo industriale che abbiamo ritenuto necessaria, e per alcuni settori forse dovrà anche essere “eccessiva”.

Il: progetto di “tracciabilità” dell’Ares e la relativa ricerca sul campo

A questo punto il re è nudo, si potrebbe dire. Perché c’è un modo di far venire allo scoperto le anomalie denunciate da “Report” o dimostrarne l’inesistenza, dato che va sempre praticata la doverosa presunzione di “innocenza”, pur nella fiducia che il programma della Gabanelli ha saputo conquistarsi sul campo, anche con gli unanimi riconoscimenti giudiziari della propria correttezza.

Ci sembra che questo risultato si possa ottenere con la realizzazione del progetto “SI.T.R.I.S.” proposto dall’Ares “per la tracciabilità e la rintracciabilità integrale di sicurezza dei beni di consumo e dei prodotti tecnologici” in quanto consentirebbe di ripercorrere ogni fase della “filiera del lusso” verificandola e certificandola, quindi garantendone anche la legalità oggi così discussa. Sarebbe inoltre un modo per dare maggior “valore” ai prodotti certificati e al relativo “made in Italy”, con la certificazione di origine e provenienza anche della lavorazione artigianale.

Si dirà che non si può sollevare il toro dalla coda, come sarebbe voler riportare a normalità un sistema degenerato, per i motivi citati, basandosi su un procedimento di certificazione. Eppure crediamo che il tentativo vada fatto, e le autorità pubbliche dovrebbero appoggiare l’iniziativa che si risolverebbe nella semplificazione e in una maggiore efficacia della loro azione di contrasto.

Naturalmente sarebbe necessario che le maggiori case del “lusso” si impegnassero in questa azione di tutela del proprio settore anche se va a scoprirne le carte, assumendo le iniziative più opportune, come ha fatto meritoriamente l’Ares andando oltre il proprio campo di attività. E allora, per formulare una proposta costruttiva di valenza immediata, intravediamo le linee direttrici di un nuovo progetto di ricerca che intanto analizzasse ciò che avviene alla radice del fenomeno, dopo averne verificato le conseguenze a valle. Sarebbe comunque un presupposto per passare all’eventuale sviluppo del progetto di “tracciabilita”; e, nel caso non si trovi il consenso su questo progetto, darebbe intanto indicazioni per la difesa del “made in Italy” e della legalità.
Ci interesserebbe sapere cosa ne pensa l’Ares-Aico. Potrebbe farsene promotrice insieme al Censis con il quale ha già esplorato il campo della contraffazione? Risalendo dalle conseguenze alle cause per ora soltanto delineate? E in questo caso cercherebbe di coinvolgere le imprese del “lusso”?

Sono domande che poniamo e speriamo non restino senza risposta. In merito all’ultima ci sentiamo di dire che se si riuscisse a coinvolgerle, nessuno potrebbe dire di loro: “sotto il vestito niente”.

4 Comments

  1. Romano Maria Levante

Postato giugno 10, 2009 alle 10:24 AM

Illustre Presidente Staino,
Le sono grato dell’apprezzamento, sarà la mia formazione di dirigente dell’ENI per una vita a farmi vedere nell’iniziativa dell’azienda da Lei presieduta una lodevole espressione di responsabilità sociale dell’impresa; aggiungerei, in un’ottica manageriale, che altrettanto lodevolmente vengono messe a frutto le competenze sviluppate all’interno per un’applicazione all’esterno (in ENI si valorizzò la cosiddetta “catena del valore” trasformando le divisioni di progettazione, perforazione e montaggi nelle consociate Snamprogetti, Saipem e Nuovo Pignone operanti anche per i terzi).
Lo consideri un augurio per il progetto della “tracciabilità” da utilizzare all’esterno della Sua azienda negli altri settori colpiti dalla contraffazione. Sono lieto che Lei abbia colto il mio messaggio – e mi è parso anche il Suo convincimento – che non si può operare soltanto a valle con la repressione impegnando le forze dell’ordine in un’azione di contrasto impari, e sarebbe utile l’opinione del col. Di Sciullo della Guardia di Finanza, relatore al Convegno del Censis e dell’Ares. Ma occorre promuovere nuovi assetti nella filiera produttiva sia nel lusso, innocuo per la sicurezza ma deleterio per l’immagine del “made in Italy”; sia nei settori alimentari e tecnologici in cui è a repentaglio la sicurezza dei consumatori al pari del farmaceutico, protetto però dalla “tracciabilità”.
E qui, sfidando il rischio di sembrare presuntuoso, mi permetto un’aggiunta, forse superflua se l’impostazione di Censis e Ares è di questo tipo. Mi tornano in mente le ricerche che qualche volta facevamo in ENI e chiamavamo “progetto-ricerca” dato che univano la parte applicativa a quella teorica, come fosse ricerca e sviluppo piuttosto che solo ricerca di base. Perché non abbinare nella seconda fase, che Lei con lungimiranza sta impostando con il Censis, un’applicazione concreta per un prototipo di “tracciabilità” su un settore o un’impresa campione? Meglio se due applicazioni, una per la “tracciabilità” a tutela del “made in Italy”, l’altro per la “tracciabilità” a tutela della sicurezza. Dove il Censis metterebbe a frutto le sue capacità di Centro studi per l’indagine e l’Ares quelle di impresa impegnata in concreto sul terreno della “tracciabilità” per la parte applicativa.
E’un’idea, spero non peregrina, suggeritami dal Suo commento ricco di elementi su cui riflettere e anche di autentica passione civile. Non consideri presuntuoso il contenuto della mia risposta, ci veda altrettanta passione civile. E colga la gratitudine per il Suo apprezzamento che giro interamente alla nostra Rivista. Tanto è lo spazio e la libertà che mi concede, tanto lo spirito di servizio che ha fatto accogliere ampi resoconti oltre che sulla contraffazione, sulle malattie rare e sui farmaci innovativi, sulle malattie della globalizzazione e sui servizi pubblici fino alla Rai, sui territori di eccellenza e sulla resistenza alla crisi, oltre che sul terremoto con il Direttore in prima linea.
Per tutto questo, illustre Presidente, La ringrazio, anzi La ringraziamo di cuore.
Romano Maria Levante

  • Franco Staino

Postato giugno 8, 2009 alle 2:29 PM

Egregio  Dr. Levante,
con la presente Le invio i miei ringraziamenti per il grande lavoro che state sviluppando per l’informazione in generale e sulla contraffazione in particolare. Questo fenomeno, come anche i recenti studi dicono, è grave, in progressione e soprattutto investe anche i prodotti di largo consumo e sensibili anche sul piano igienico sanitario. Sulla strada segnata dalla globalizzazione la contraffazione fa il proprio percorso con scaltrezza e voracità. Le imprese si demotivano, i consumatori sono sottoposti a rischi, gli operatori della distribuzione rimangono esposti alla malavita. Una catena disastrosa che deve essere interrotta.
Le forze dell’ordine fanno molto ma quello che ci vuole è un sistema in grado di porre rimedio a monte e senza intaccare i costi (prezzi) dei prodotti medesimi. Il contributo dato da ARES in questa direzione crediamo sia notevole e l’esperienza del farmaco in Italia un fatto esemplare.
Le domande che sono state poste direttamente ad ARES in un recente articolo del Suo giornale ci hanno fatto ritardare il riscontro. Non tanto per prepararci ma perché volevamo effettuare un programmato incontro con il CENSIS per fare il programma del prossimo step di collaborazione. Questo è avvenuto ed oggi possiamo preannunciarvi un secondo studio/ricerca che andrà ad approfondire ulteriormente la prima analisi e ad affrontare specificatamente le problematiche del made in Italy. Come constaterete anche su questo piano ci sentiamo molto dinamici e coerenti con il nostro programma generale.
Il fatto che ci sentiamo sostenuti dai mass media è certamente un rafforzativo in questo sforzo che si accompagna ad un impegno su tutti i settori di sviluppo della nostra realtà imprenditoriale.
Cordialmente
Franco Staino

Postato maggio 22, 2009 alle 12:49 PM

Mi sembra ovvio che se si esporta la conoscenza all’estero, una volta che essa è acquisita è da considerarsi persa.

E’ un bene iniziale ma un male successivo.

  • Piero Sivitilli

Postato maggio 21, 2009 alle 10:48 PM

Un articolo molto interessante. Dà piacere a leggerlo!

Piero Sivitilli – Toronto, Canada

Censis-Ares, 1. La contraffazione e le azioni di contrasto

di Romano Maria Levante

A Roma un Convegno del Censis-Ares, tenutosi nella Sala capitolare del Senato,  dedicato al problema della contraffazione e dei falsi. Lo abbiamo seguito per voi.

Questa volta il nostro viaggio alla scoperta dei lati nascosti dell’economia ci ha fatto esplorare il mondo della contraffazione. Un mondo di cui tutti hanno avuto qualche percezione, ma senza immaginarne le dimensioni, l’estensione e l’articolazione. Merito della ricerca del Censis e dell’azienda farmaceutica Ares-Aico sul tema: “Il fenomeno della contraffazione nel mondo e le ricadute sul mercato italiano – Gli scenari e le strategie di contrasto”. E’ stato analizzato un settore sempre più consistente o, per meglio dire, invadente. I risultati sono stati presentati a Roma il 22 aprile 2009 nella Sala capitolare del Senato con un’ampia partecipazione dei soggetti interessati.

Qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entra un’azienda farmaceutica, dato che nell’esperienza corrente la contraffazione sembra prendere di mira soprattutto i prodotti di lusso dell’abbigliamento; ma l’azienda è da molti anni in prima linea nell’azione di contrasto per i medicinali, azione che ha avuto successo e i cui strumenti si vorrebbero mettere al servizio degli altri settori.

Dimensioni ed estensione del fenomeno

Per rendersi conto della vastità e dell’importanza del problema basti pensare che nel febbraio 2008 si è svolto a Dubai il terzo Congresso mondiale su contraffazione e pirateria con 1200 delegati provenienti da novanta paesi, nel quale si è constatato il continuo aumento del commercio illegale e l’utilizzo di metodi e strumenti sempre più efficaci per sfuggire ai controlli. La contraffazione rappresenta ormai il 7% del commercio mondiale, per un valore di 200 miliardi di dollari, cifra inferiore al totale perché non comprende i prodotti distribuiti entro i territori nazionali e via Internet.

Il continuo, tumultuoso sviluppo degli scambi internazionali portato dalla globalizzazione, come l’ingresso sul mercato di nuovi paesi, ha rappresentato un fattore di crescita anche di questo tipo di commercio fino a determinare effetti negativi perfino a livello macroeconomico, oltre che sui settori maggiormente investiti. A ciò va aggiunto il fatto che i contraccolpi non sono limitati al campo economico e commerciale, ma toccano la sicurezza dei consumatori per la non affidabilità dei prodotti contraffatti soprattutto nel farmaceutico e alimentare, nel meccanico e in qualche prodotto di abbigliamento. Non manca l’ulteriore ripercussione negativa di favorire la criminalità organizzata, un racket di trafficanti inseriti in una rete che opera sul piano internazionale.

In base a questi primi elementi non sfugge la necessità e insieme la complessità della lotta a un sistema ramificato nei diversi settori e paesi che di volta in volta sono produttori di merci contraffatte o consumatori e, in taluni casi, produttori e consumatori. E’ questa la situazione dell’Italia come produttore per l’esistenza di una vasta economia sommersa e per la presenza di marchi di eccellenza allettanti per la contraffazione; come consumatore per una certa propensione da parte della domanda verso alcune tipologie di beni contraffatti.

Quest’ultima tendenza finora non ha suscitato particolari preoccupazioni, se non sotto il profilo economico-commerciale; adesso l’allarme si è accentuato per le minacce alla sicurezza dei consumatori in settori come il farmaceutico, l’alimentare e l’elettromeccanico.

La contraffazione si manifesta in diversi modalità. In particolare riguarda i casi in cui a un prodotto sia stato apposto senza autorizzazione un marchio commerciale identico ad uno generalmente utilizzato per lo stesso tipo di prodotto, o un marchio che si confonde facilmente con l’originale; oppure quando venga modificata l’identità merceologica usando materiali e procedimenti diversi da quelli prescritti e con cui viene commercializzato: è il caso dell’abbigliamento e parti di ricambio, alimentare e farmaceutico.

Si parla invece di pirateria quando si introducono prodotti che riproducono, senza consenso del titolare del diritto, quelli protetti dai diritti sulla proprietà intellettuale: è il caso del “software” e dei mezzi audiovisivi, Dvd, Cd, cassette, ecc.

Le vie della contraffazione

Passando al “lato oscuro della globalizzazione”, come lo chiama la ricerca, viene evidenziata la “maggiore difficoltà dei controlli” causata dalla liberalizzazione degli scambi, il formarsi di “cartelli criminali a livello internazionale dediti ad ogni tipo di traffico”, “la diffusione delle tecnologie informatiche e digitali che hanno reso più semplice e meno costosa la riproduzione dei marchi e dei beni”. Ma alla base del fenomeno c’è soprattutto “la delocalizzazione della produzione, ovvero l’allocazione di parti o dell’intera produzione in paesi di nuova industrializzazione, soprattutto asiatici e dell’Est europeo”.
Fasi consistenti del processo avvengono, infatti, fuori dall’azienda madre, anche a distanza di migliaia di chilometri; e questo favorisce la cosiddetta “filiera del falso” che va dalle materie prime al “know how” e produzione, fino alla commercializzazione finale, situata in paesi diversi.

Ne consegue la disseminazione del “know how” originario che entra in possesso di un numero sempre maggiore di soggetti, in grado di realizzare merci del tutto identiche alle originali. In questa situazione avvengono fenomeni che spiegano i fatti altrimenti incomprensibili dinanzi agli occhi di tutti. Seguiamo sempre la ricerca: “La produzione di un bene falso, pertanto, può avvenire sia all’interno degli stessi laboratori che producono per le imprese legali, sottoforma di sovraproduzione degli ordinativi; oppure, più di frequente, può essere realizzata altrove, da parte degli stessi operai che hanno lavorato in passato o ancora come ‘faconer’ in laboratori che producono per l’impresa madre o, ancora, può essere fatta da individui che, semplicemente, entrano in possesso di un bene o cercano di riprodurlo”.

I percorsi vengono definiti “tortuosi”, cambiano più volte i documenti di trasporto, il vettore e spesso l’imballaggio, la merce va al consumo “attraverso canali diversi per due tipi di mercati, a seconda che i prodotti siano destinati a consumatori inconsapevoli o ad acquirenti consenzienti”.

Il primo è il “mercato primario della contraffazione”, che si avvale della catena distributiva legale con o senza il consenso interessato del commerciante.

Il secondo è il “mercato secondario della contraffazione”, che si avvale di canali “paralleli” a quelli ufficiali in cui “l’acquirente consapevole decide intenzionalmente di acquistare merce contraffatta ad un prezzo inferiore”; le sue dimensioni dipendono “in larga parte dalla differenza di prezzo del bene contraffatto rispetto a quello genuino, nonché dal tipo di prodotto”. E’ evidentemente bassa o nulla la domanda consapevole di beni contraffatti dove si richiedono rigidi standard di sicurezza (farmaceutici, alimentari, giocattoli), alta per gli altri prodotti (Cd e Dvd, abbigliamento).

In settori come quello del “lusso”, l’azione di contrasto è ostacolata dal fatto che “l’acquisto può essere legato alla volontà di possedere un oggetto di marca, alla volontà di emulazione” di una classe sociale alla quale si crede di “poter accedere senza sopportarne il costo”; e al fatto che spesso c’è la complicità dei commercianti regolari “nel vendere falsi a prezzo maggiorato o venderli a costi ridotti”. Da un’indagine effettuata nel 2006 negli Usa e in Canada è risultato che “i commercianti mischiano le merci contraffatte con quelle originali e puntano sul basso costo dei prodotti falsificati per attrarre la clientela. In questo modo i negozi al dettaglio hanno aumentato le vendite di vestiti, giocattoli, prodotti farmaceutici, bevande, tabacco, gioielli e profumi”.

La situazione in Italia

Il nostro paese è tra i più esposti dal lato della produzione e anche del consumo per i motivi prima accennati. Il mercato interno del “falso” nel 2008 ha “fatturato”, per così dire, 7 miliardi e 107 milioni di euro, senza considerare le “esportazioni”; di questi 2,6 miliardi di euro nell’abbigliamento e accessori, 1,6 miliardi nei Cd, Dvd e “software”, 1,1 miliardi negli alimentari. Sono stime riferite ai risultati delle operazioni delle forze dell’ordine, oltre 61.000 nel 2007, con 39.000 sequestri per 71 milioni di prodotti da parte della polizia e 17,5 milioni ad opera delle dogane, con oltre 14.300 persone denunciate, 21.300 multate e 1.522 arrestate.

Appare minima la contraffazione nel settore farmaceutico soprattutto per l’azione di contrasto che si avvale della “tracciabilità” dei medicinali mediante un procedimento realizzato in collaborazione con le aziende farmaceutiche e la partecipazione diretta dell’Ares-Aico, in prima fila nelle iniziative per la sicurezza; il risultato è il “bollino farmaceutico” che utilizza le tecniche antifalsificazione delle “carte valori” della Zecca. Nel Convegno, l’Ares-Aico ha illustrato anche il progetto SI.T.R.I.S. per l’estensione della “tracciabilità” di ogni fase agli altri settori investiti dalla contraffazione.

Questi elementi sono stati forniti dal direttore del Censis, Giuseppe Roma, e commentati dal presidente De Rita che ha rivendicato di avere scoperto in passato il sommerso, ma di aver dovuto constatare che si è fatto poco per combatterlo. Crede però che non subirà la stessa sorte la contraffazione, perché “ci invade ovunque ed entra nella nostra vita”, ha una rilevante importanza sociale ed alimenta la criminalità, per cui non si può fare a meno di combatterla con forza; il problema è che lo si può fare finora essenzialmente a livello nazionale, mentre è un “reato di globalizzazione” che richiede un’azione di contrasto su scala internazionale.

Per gli altri promotori della ricerca il presidente dell’Ares, Franco Staino, ha sottolineato l’allarme crescente dato dal fatto che la contraffazione “ha superato il livello artigianale di piccola serie per divenire una grande impresa multinazionale”. I principali requisiti per un’efficace azione di contrasto sono una legislazione adeguata e l’integrazione dei soggetti interessati. Va promossa un’azione di tipo anche culturale che possa portare a un sistema fornito delle tecnologie più avanzate come quelle utilizzate per la “tracciabilità” dei medicinali con il “bollino farmaceutico”.

“La caratteristica di questo sistema – secondo l’Ares – è quella di fornire al produttore, senza gravare sui processi produttivi, l’identificazione univoca ed unica dei dati di ciascun prodotto garantendolo in ogni passaggio distributivo fino al dettagliante,. oltre alla possibilità per il consumatore di accertare l’originalità del prodotto, prima e dopo l’acquisto, attraverso una semplice telefonata, un messaggio sms o via web”.

Confidando di poter arrivare a un simile risultato, per ora l’azione di contrasto si avvale dei normali mezzi a disposizione delle forze dell’ordine. Ne ha dato conto il col. Vittorio Di Sciullo, Comandante gruppo marchi, brevetti e proprietà industriale della Guardia di Finanza, che ha definito la contraffazione “reato plurioffensivo verso lo Stato, le imprese, il mercato, il consumatore”. Viene combattuta cercando di risalire lungo la filiera anche per recuperare i proventi della tassazione mancata. Si elabora una precisa strategia ai livelli più elevati e l’attuazione è affidata ai 700 reparti territoriali; in ogni provincia c’è un “gruppo tutela mercato di beni e servizi”. Le unità speciali si muovono sulla base delle direttive generali collegate alle strategie di contrasto.
La complessità di questa azione appare evidente dal fatto che passano per le dogane cinque milioni di operazioni all’anno, delle quali viene controllato il 5%; L’individuazione dei soggetti da controllare avviene attraverso i documenti di trasporto, la provenienza e destinazione e il canale di distribuzione, in contatto con gli organi competenti. Nel 2008 gli interventi sono stati 16.000, con 95 milioni di prodotti sequestrati, 32.000 denunce e 1300 arresti. “La contraffazione può minare la società civile – ha concluso il col. Di Sciullo – ci sono punte di eccellenza che vanno difese”.

E’ stato presentato da Teresa Alvaro, direttore area centrale per le tecnologie all’Agenzia delle Dogane, uno schema dei modi sempre più stringenti con cui si attuano le strategie di contrasto. Il “progetto Falstaff” è un sistema multimediale che utilizza strumenti tecnologici particolarmente avanzati, alimentato da Dogane, Associazioni di categoria, aziende e anche consumatori per il riconoscimento dei prodotti originali; il risultato è la segnalazione con un semaforo, di via libera o di stop per il controllo della merce all’ingresso in Italia. Si punta a “globalizzare la frontiera tecnologica della Dogana con la tracciabilità e rintracciabilità dei prodotti”.

Sul piano normativo, in materia doganale c’è l’armonizzazione a livello di Unione Europea comunitario, con l’Agenzia delle Dogane organo competente a intervenire alla frontiera. Normative specifiche riguardano i diversi settori interessati dalla contraffazione. La legislazione italiana risulta tra le più avanzate nella repressione, in materia penale si considera reato contro la fede pubblica con la reclusione che, tuttavia, nei casi più gravi non supera i tre anni; d’altra parte nel 2005 sono state inasprite le sanzioni per il consumatore consapevole della contraffazione, con la multa fino a 10.000 euro, “particolarmente gravosa e tale da scoraggiare l’effettiva comminazione della pena”.

Il disegno di legge sullo sviluppo prevede misure di innalzamento della pena per chi produce e distribuisce merce contraffatta con l’introduzione di aggravanti e la confisca dei beni riconducibili al reato; e l’abbassamento delle multe al consumatore forse perché, aggiungiamo, se è consapevole si tratta per lo più della forma di contraffazione che non è pericolosa per la sicurezza e la salute.

Se andiamo poi a guardare quello che la ricerca chiama “il quadro delle competenze”, troviamo una pluralità di istituzioni investite dell’azione di contrasto. Interessata a livello complessivo è la “Direzione generale per la lotta alla contraffazione” presso il Ministero dello sviluppo economico nel quale si prevede di istituire anche un “Consiglio nazionale anticontraffazione” con i soggetti pubblici e privati interessati. Questo Consiglio dovrà coordinare le competenze specifiche che vanno dal “Comitato nazionale antipirateria” e “Comitato per la tutela della proprietà intellettuale” presso la Presidenza del Consiglio dei ministri ai “Desk anticontraffazione” dell’Istituto Commercio Estero ai “Delegati per gli accordi sulla proprietà intellettuale” del Ministero Esteri alle “Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale” del Ministero Giustizia, all’“Ispettorato per il controllo della qualità dei prodotti agroalimentari” del Ministero politiche agricole, alla “Direzione generale farmaci e dispositivi medici”, “Agenzia italiana del farmaco” e “Dipartimento del farmaco” nell’ambito del Ministero Lavoro e Salute, fino alla “Direzione generale beni librari e diritto d’autore” del Ministero Beni culturali. Gli organismi direttamente impegnati nel contrasto sono i Carabinieri del Nas, “Nucleo antisofisticazioni”, e la Guardia di Finanza, nonché l’Agenzia delle Dogane con l’ “Ufficio antifrode centrale”.

Il Censis ha stimato, sulla base della tavola di Leontiev delle interdipendenze strutturali, la perdita derivante dalla contraffazione, perché le risorse impiegate dai consumatori si disperdono in canali clandestini e quindi si sottraggono al circuito economico ufficiale. La produzione aggiuntiva che si avrebbe se il fatturato dei beni contraffatti fosse riportato al mercato legale sarebbe dell’ordine di 18 miliardi di euro, con un valore aggiunto di 6 miliardi che corrisponde a un’occupazione di 130 mila unità; il gettito delle relative imposte sarebbe dell’ordine di 5 miliardi di euro, pari al 2,5% del totale di quelle corrispondenti. Naturalmente si tratta di stime basate su ipotesi di distribuzione secondo le interdipendenze dei settori interessati con il resto dell’economia; utili comunque per rendere la dimensione di un fenomeno certamente di notevole rilievo.

Le forme di contraffazione nei settori critici per la sicurezza dei consumatori

Piuttosto che soffermarci su questi dati, forniamo indicazioni sulle modalità della contraffazione nei tre settori considerati in modo specifico dalla ricerca ai fini della sicurezza dei consumatori.
Nell’alimentare avviene attraverso la commercializzazione di sostanze diverse dal dichiarato sostituendo il prodotto con un altro non conforme in contenuto e in valore. Nei primi 11 mesi del 2008 i Nas hanno sequestrato 8 milioni di prodotti confezionati per un valore di 150 milioni di euro.

Con l’“adulterazione” si sottraggono sostanze a un alimento (latte scremato venduto come intero), con l’“alterazione” se ne modificano i caratteri (lo “spunto” del vino), con la “sofisticazione” si sostituiscono i componenti con altri meno pregiati (olio di semi all’olio di oliva). Si tratta di “commercializzazione di prodotti di rango inferiore come se appartenessero ad un livello superiore”. Poi c’è la falsificazione dell’identità merceologica, dell’età e dell’origine geografica, facilitata dal fatto che le produzioni di cui è protetta l’origine rappresentano meno del 10% del fatturato del settore. Nel mercato estero c’è la forma insidiosa di contraffazione di tipo “imitativo”.

I rimedi proposti si dividono tra il potenziamento dell’intera filiera alimentare per una distribuzione capillare e controllata e l’irrigidimento di normative e controlli con informazione adeguata al consumatore.
Nei ricambi auto la contraffazione avviene attraverso la commercializzazione di prodotti spesso fatti di materiali scadenti o tecnologie non adeguate e senza controlli di qualità, con gravi rischi per i consumatori. La dimensione del fenomeno è ancora modesta (0,2% del totale), ma allarma il fatto che dal 2006 al 2007 i pezzi sequestrati siano decuplicati (da 13 mila a 133 mila).
In genere si ha la “violazione del marchio” che si manifesta o con prodotti che imitano nell’aspetto l’originale oppure con prodotti difformi facilmente riconoscibili; a queste pratiche si associa la contraffazione del “codice” o “certificato di omologazione” e della sua “dichiarazione di origine”.

L’interesse alla contraffazione si ha quando c’è una vasta domanda, è un ricambio di uso frequente, facile da riprodurre quindi a bassa tecnologia, con un processo produttivo poco costoso. La fonte prevalente di questi prodotti è la Cina, con altri paesi asiatici, mediante rilevanti movimenti di “container” e una serie di artifici per superare i controlli, ad esempio trasferendo in Italia l’ultima fase. La difficoltà nel riconoscere ai controlli i prodotti contraffatti richiederebbe l’introduzione in questo settore della “tracciatura” come per i medicinali. Il rischio per la salute, anzi per la vita, è assimilabile. L’estrema frammentazione del loro mercato di offerta in Italia accresce tali pericoli.

Nei farmaci si intende contraffatto, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “il farmaco la cui etichettatura è stata deliberatamente e fraudolentemente preparata con informazioni ingannevoli circa il contenuto e l’origine del prodotto”. Le situazioni sono molto diverse. Si va dai “falsi perfetti” identici in tutto, solo su canali illeciti spesso favoriti dalle stesse aziende madri, ai “falsi imperfetti” con farmaco somigliante ma meno principio attivo; dai “falsi solo in apparenza” – singolare definizione dei farmaci simili a quelli autentici ma senza principio attivo – ai “farmaci criminali” con sostanze nocive; ma pensiamo siano “criminali” anche quelli senza principio attivo per il danno, spesso irrimediabile, arrecato alla salute del paziente che crede di curarsi mentre ciò non avviene. Infine le patacche complete, farmaci diversi dagli originali e senza principi attivi.
Per una felice circostanza in Italia la contraffazione dei farmaci è pressoché inesistente, gli unici pericoli per il consumatore possono venire da Internet o dai canali clandestini, ma si tratterebbe di acquisti estremamente incauti. Peraltro il fatto che gran parte del costo è a carico del servizio sanitario nazionale e non del privato consumatore toglie interesse ad acquistare a prezzi più bassi.

La gravità dei rischi della contraffazione in questo campo ha portato al sistema di “tracciabilità” del farmaco con il “bollino farmaceutico” di cui si è detto, adesivo a prova di falso nato per impedire le frodi nei rimborsi permesse dai “fustelli” sulle scatole di medicinali, e perfezionato – in collaborazione tra Poligrafico-Zecca e l’Ares-Aico – lungo l’intera catena distributiva, secondo le direttive dell’Unione Europea ai fini dell’azione di contrasto ai medicinali contraffatti. E’ un sistema unico al mondo che richiede, a pieno regime, il collegamento alla banca dati dei farmaci anche di farmacisti e grossisti, oltre che delle aziende farmaceutiche e di distribuzione già inserite.

Ha dato atto di tutto questo il prossimo ministro per la Salute, attuale vice ministro Ferruccio Fazio, prospettando il rischio dei “falsi vaccini e falsi antibiotici”, un grave pericolo se si abbassa la guardia nel contrasto alla contraffazione e se i consumatori si affidano agli acquisti su Internet, dove il sistema di “tracciabilità” che protegge il consumatore nei canali ordinari non può operare. Dal 2003 c’è una nuova procedura e dal 2006 il sistema è attivo, la sua andata a regime fu prevista in tre anni, tenendo conto anche dello smaltimento delle scorte esistenti.

La “contraffazione legalizzata” nell’alimentare

Ma c’è un altro fenomeno rilevante, ed è stato messo a nudo dal deciso intervento al Convegno del presidente della Coldiretti. Sergio Marini ha mosso le acque scagliandosi contro quella che ha definito “contraffazione legale”, cioè consentita dalle norme vigenti. E qui non sono al lavoro gli oscuri trafficanti ma imprese regolari che si avvalgono dei varchi lasciati dalla normativa per operazioni non dissimili nei risultati dalla contraffazione ma ammesse.

Si tratta, in particolare, della possibilità, nel settore alimentare, di porre etichette di “made in Italy” su produzioni industriali derivate da prodotti stranieri, basta compiere in Italia l’ultima operazione, anche se di entità molto limitata (come l’imbottigliamento o l’insacchettamento). Almeno cinque su sei produzioni, apparentemente italiane, derivano invece dalla trasformazione di prodotti stranieri.

E’ evidente, ha sottolineato Marini, che “l’origine deve essere la campagna dove si preleva il prodotto agricolo di base, e non lo stabilimento dove si compie solo un’operazione spesso marginale. Una normativa che ridefinisca l’origine non è distorsione della concorrenza, tutt’altro”.

Dello stesso tenore l’intervento del Ministro delle politiche agricole Luca Zaia, anch’egli impegnato a denunciare che in Italia, e soprattutto all’estero, ci si imbatte di continuo in produzioni che per l’etichetta sono italiane ma con il prodotto agricolo di base coltivato all’estero. Ha detto di battersi per la “tracciabilità completa dell’intero processo produttivo” al fine di certificarne l’origine; per definire regole comuni, in sede di Organizzazione mondiale del commercio, in grado di tutelare l’origine così definita; per misure da decidere in sede di “G8 agricoltura” atte a garantire la qualità anche ai fini della sicurezza alimentare”.

Le difficoltà nel contrasto a livello di consumatori

E’ una situazione in cui i “buoni”, cioè le imprese che per altri versi sono danneggiate dalla contraffazione, diventano “cattivi”, cioè creano essi stessi le condizioni per cui questa si determina. La percezione di tutto ciò non è estranea a quella che Giuseppe De Rita, nella presentazione della ricerca, ha definito “la poco diffusa consapevolezza da parte dell’opinione pubblica dei danni economici e sociali della contraffazione, che vengono considerati solo in concomitanza di episodi di cronaca eclatanti su cui si appuntano, di tanto in tanto, i riflettori dei media”.

Lo stesso Ministro dello sviluppo economico Claudio Scaiola, nel cui dicastero c’è la direzione generale dedicata alla lotta alla contraffazione, ha scritto a sua volta che questa è “vissuta dalla stragrande maggioranza della popolazione come un ‘fenomeno di costume’, un’ ‘infrazione veniale’, quasi un atto di solidarietà sociale nei confronti di soggetti bisognosi”. Come sono quelli utilizzati nella distribuzione e vendita clandestina.

Ne deriva che uno dei “fronti” della battaglia, sempre nelle parole del Ministro, è “la sensibilizzazione delle diverse fasce di consumatori, a partire dai più giovani”. Gli altri due fronti sono: “l’inasprimento e la rigida applicazione delle sanzioni”, coinvolgendo la Guardia di Finanza, le Dogane, le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato; “il rafforzamento della collaborazione a livello internazionale , per garantire la tutela del ‘made in Italy’ nel mondo”.

Occorrerà esplorare anche l’altra faccia della luna, della quale la “contraffazione legalizzata” negli alimentari è solo una piccola parte. E’ un fenomeno particolarmente complesso, ci ritorneremo presto.

Alessandro Baricco, Eugenio Scalfari, Sergio Escobar e la cultura, al Teatro Eliseo

di Romano Maria Levante

Abbiamo seguito per voi il dibattito al Teatro Eliseo di Roma.

Una maggioranza di uomini di teatro passionali e rumorosi, una sorta di fossa dei leoni per Alessandro Baricco era la platea del Teatro Eliseo, a Roma, il pomeriggio del 25 marzo 2009. Con lui sul palco un Eugenio Scalfari in gran forma, Antonio Pilati dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e uno scatenato Sergio Escobar, da vent’anni direttore del mitico Piccolo Teatro di Milano. Moderatore il padrone di casa Vincenzo Monaci presidente dell’Eliseo, che non si è fatto mancare qualche frecciata ad Escobar, immediatamente ricambiato. Il soggetto era stimolante: “Lo spettacolo è finito? Il futuro della cultura in Italia tra finanziamenti pubblici e iniziativa privata”, gli interpreti all’altezza, una vera “piece” teatrale dal vivo. Si attendevano scintille, e ci sono state tra gli uomini di teatro e Baricco; Scalfari ha riproposto pacatamente, ma con decisione, la propria tesi, mentre Escobar con la sua foga è riuscito a trascinare la platea.

Abbiamo potuto godere appieno dello stimolante incontro-dibattito, il terremoto non aveva ancora devastato la terra d’Abruzzo e i suoi giacimenti culturali, si poteva discutere dei modi migliori per finanziare e promuovere la cultura; ora l’emergenza è recuperare e salvare un patrimonio di valore inestimabile, fatto di chiese e monumenti, biblioteche e archivi, piccole abitazioni e palazzi, e del Teatro Stabile dell’Aquila diretto da Alessandro Gassman che, come Pamela Villoresi ha detto al Festival della spiritualità, ha fatto la storia del teatro italiano negli ultimi cinquant’anni, e alla cui rinascita gli artisti intendono partecipare fattivamente con il loro contributo e il loro sostegno. Per il resto, l’intero mondo della cultura si mobiliterà subito in questo immane compito, ne siano certi.

La tesi di Baricco

Esposta con tono sommesso, quasi una riflessione a voce alta, anzi sussurrata come è nel suo stile di affabulatore e fine dicitore, la sua linea di pensiero, di cui al lungo articolo su “Repubblica” del 24 febbraio 2009, è sembrata quasi ovvia, sul filo di un sillogismo. Perché è partito dalla constatazione che il sistema complessivo dell’uso del denaro pubblico a sostegno della cultura è in crisi, e ne ha potuto parlare come operatore culturale che lo conosce dall’interno; non è uno stato di sofferenza transitorio, quindi superabile, “il sistema non è più al passo dei tempi, vanno quindi trovate nuove strade per impiegare in modo più efficace le risorse”. Ma prima si devono capire le ragioni della crisi, il che vuol dire “misurarsi con i tempi nuovi e con le realtà che abbiamo sotto gli occhi e fingiamo di non vedere; in modo da individuare gli errori ed essere disponibili a correggerli entrando nella nuova dimensione dell’oggi”.

E allora è andato a vedere le origini dell’attuale sistema di sostegno e finanziamento pubblico, ed ha illustrato i tre principali obiettivi e le motivazioni che ne sono alla base. Il primo è stato l’esigenza di rompere il privilegio della cultura di una classe, la borghesia, perchè l’accesso fosse aperto a più vaste fasce di popolazione; negli anni ’50, in particolare, ci si dava da fare perché la cultura si diffondesse nel paese. Il secondo, la preoccupazione che il mercato ne abbassasse il livello, per cui era necessario un intervento pubblico a sostegno della qualità con finalità educative verso la popolazione. Il terzo, il desiderio di legittimarsi di una democrazia giovane, dando ai propri cittadini gli strumenti culturali per assumere le responsabilità e progredire sul piano della civiltà.

Una semplice verifica fa capire, secondo Baricco, che non sono stati raggiunti. L’allargamento dell’accesso alla cultura, se progressi sono stati fatti, non è dipeso dall’azione pubblica ma da fenomeni accaduti “nel campo aperto del mercato” e in “ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente”; l’obiettivo è stato mancato perché “chi oggi non accede alla vita culturale è raggiungibile soltanto attraverso due canali, la scuola e la televisione”, campi che invece vengono trascurati”. E’ stata creata l’anomalia di “sistemi di capacità minima dominati dal finanziamento pubblico che è diventato una sorta di proprietario unico, soprattutto nel teatro”. Le risorse dedicate alla cultura oltre che essere insufficienti sono indirizzate nella direzione sbagliata, quindi non sortiscono l’effetto sperato. E’ come se “inseguissimo i singoli quando si sono dispersi in mille direzioni”, invece di agire quando sono riuniti e pronti a recepire il messaggio. “Non c’è sintonia tra ciò che vogliamo e ciò che facciamo, e questo determina un notevole spreco di risorse”.

Ne deriva il fallimento degli altri due obiettivi, quello di un elevato livello qualitativo, impossibile senza concorrenza e per le scelte non certo qualificate della “filiera di intelligenze e saperi – così nell’articolo – che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico passando per i vari assessori”; e l’obiettivo della crescita culturale dei cittadini come legittimazione democratica, molto fragile se si sono sviluppati fenomeni deteriori ed ha “ceduto la grandiosa diga”, è stata “aggirata la grandiosa cerchia di mura” che si credeva di aver creato con i soldi dei contribuenti.

Si deve pensare a un “paesaggio diverso” con strumenti più efficaci e strategie adeguate. “La battaglia per la cultura si deve combattere nelle scuole e in televisione”, dove vanno destinate le risorse perché il loro impiego risulti efficace, ha ribadito. Nello stesso tempo vanno rimosse quelle posizioni di rendita che poggiano sui finanziamenti pubblici, come avviene nel teatro in modo da farlo uscire dal suo immobilismo e metterlo sul mercato in sintonia con i tempi. “Al mercato va restituita la cultura, gli operatori privati possono fare molto dove la mano pubblica ha fallito”, ha concluso: e non ci si deve scandalizzare se si può fare business con la cultura, anzi si deve promuovere questo processo incanalando risorse pubbliche per incentivarlo.

La posizione di Scalfari

Laddove Baricco è stato didascalico e consequenziale, sviluppando un discorso fatto di premesse e conclusioni, Scalfari è stato apodittico e pragmatico. Ha precisato la risposta uscita su “Repubblica” del 27 febbraio 2009 mettendo sul piatto il peso della sua esperienza di operatore culturale nel senso imprenditoriale del termine. E’ partito dalla tiratura di 15.000 copie di “Il Mondo”, negli anni ’60, molto limitata anche se al giornale veniva riconosciuta una particolare autorevolezza; per estenderla si passò negli anni ’70 all’“Espresso”, che in fasi successive giunse a 250.000 copie, nel segno di un liberalismo di sinistra vicino al socialismo nel solco del partito d’azione. Molte cose cambiarono, la diffusione aumentò soprattutto con il nuovo formato più ridotto, quello attuale da settimanale rispetto al precedente da quotidiano. Ci furono conseguenze sui contenuti, sulla “forma del pensiero”: “Il pensiero è come l’acqua – ha detto – non ha forma, ma assume quella del contenuto”.

Il passo ulteriore fu “Repubblica”, completamente diversa dal settimanale, per acquirenti e “gesti d’acquisto”, la cui diffusione ha superato le 700.000 copie vendute. Si può vedere nell’escalation da 15.000 a 700.000 copie il passaggio da un’intelligenza di elite a un’intelligenza di massa? si è chiesto. Questa la sua risposta: nei confronti con la televisione si tratta pur sempre di piccoli numeri, se tutti i giornali non raggiungono il 35% della share televisivo, ma il linguaggio è diverso, rapidità e passaggio repentino da un tema all’altro nella Tv, con un effetto più effimero; il giornale invece può evidenziare la notizia con la grafica e il lettore può approfondirne la conoscenza riprendendolo in mano, riflettendo.

L’intelligenza di massa, secondo Scalfari, “non può essere vista come azione per portare tutti allo stesso livello, ma per fornire a tutti gli strumenti in grado di farli crescere”. Non è mai avvenuta neppure in passato una simile promozione, che va considerata velleitaria. C’era l’“agorà”, il teatro per una elite, il popolo era oppresso o schiavo. Una minoranza guidava la città anche quando la schiavitù fu abolita, e questo avvenne soltanto 200 anni fa. La massa non andava oltre la sussistenza, la lotta per la sopravvivenza prevaleva su tutto. Ma anche oggi che la situazione è radicalmente mutata “si può pensare all’intelligenza di massa soltanto con un’azione profonda di redistribuzione del reddito e della ricchezza a tutti i livelli”.

Finché non si saranno raggiunti risultati in questa direzione, ha aggiunto, dobbiamo salvaguardare il patrimonio culturale che ci è stato consegnato anche con mezzi artificiali, dato che non avviene in modo spontaneo; perché il teatro, ad esempio, non attira le masse, limitandoci ai tempi moderni ha 150-200 anni di storia recente, mentre per il cinema è diverso, ha solo sessant’anni di vita. Una rappresentazione teatrale come quella di “Ifigenia” va fatta vivere anche se attira poco pubblico – ha affermato con forza – “perché anche le minoranze hanno diritti che vanno tutelati”.

Si ha il diritto a quel tipo di spettacolo, che è autentica cultura, sebbene il privato non lo farebbe mai perché la scarsità di pubblico lo renderebbe antieconomico. Strehler faceva teatro con meno di 500 posti, dava Brecht anche se controcorrente e poteva farlo, per nostra fortuna, ha detto. Il necessario sostegno dei contributi statali non va visto come soggezione al potere pubblico ma come mezzo per assicurare il diritto delle minoranze alla cultura. E ha concluso, in modo un po’ sconsolato: “L’intelligenza di massa purtroppo si sviluppa anche con le cose scadenti, si spera che con gli anni o i secoli passi a un maggiore impegno”.

La puntualizzazione di Pilati dell’Antitrust e l’attacco di Escobar

Da Pilati, componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, è venuta una puntualizzazione tecnica, quasi un “break”. I contributi pubblici non sono ammessi perché violano il principio di parità nella concorrenza ma si ricorre all’“escamotage” di ammettere delle deroghe, cioè eccezioni giustificate da esigenze superiori. La cultura fa scattare la deroga, ma l’eccezione non deve stravolgere il sistema di regole: si deve trattare di cultura in senso stretto e gli aiuti devono essere distribuiti in modo omogeneo nel settore, commisurati ad obiettivi chiari, precisi e verificabili.

“Nel teatro – ha precisato – questo spesso non avviene, mancano gli obiettivi e si viola il principio di parità tra i soggetti, cosa che preoccupa il Garante della concorrenza”. La conservazione del patrimonio culturale, giustamente propugnata da Scalfari, riguarda pochi casi, e i finanziamenti al cinema in crisi negli ultimi trent’anni hanno distorto il mercato perché, raggiunto il risultato economico prima di andare nelle sale, non ci si preoccupa di mettere in atto tutte le iniziative promozionali e di mercato. In gran parte le riflessioni di Baricco sull’inutilità dei finanziamenti al teatro, sempre per Pilati, nascono da fatto che “la formazione delle idee, piuttosto che nel teatro, prima è avvenuta attraverso il cinema, poi è passata alla televisione; la crescita culturale, per quanto c’è stata, si è avuta con il cinema e la televisione, non con il teatro”.

L’attacco di Sergio Escobar, con il carisma datogli dalla direzione ventennale del prestigioso Piccolo Teatro di Milano, parte da lontano: “Mi preoccupa tutto ciò che ricorda l’influenza sulla cultura e sul pensiero della gente”, Baricco ragiona per paradossi e quando si entra in quel labirinto è difficile uscirne: “Come si può parlare di libero mercato al quale sottoporre le attività culturali se si ammette comunque che sono necessari i finanziamenti pubblici? E poi oggi è proprio il libero mercato a battere alle porte dello Stato. Perfino i liberali, ormai, si sono rassegnati a un sempre più penetrante intervento pubblico nell’economia, e nella cultura non se ne può fare a meno”.

L’intenzione di Baricco è positiva e così la sua provocazione – aggiunge – anche se la sua posizione sembra “bizzarra”: “Perché invece del teatro non attacca i finanziamenti all’editoria alla quale vanno oltre 700 milioni di euro, il doppio di quanto va al teatro? Solo la Mondadori ha avuto 29 milioni di euro nel 2007 per le attività editoriali, a fronte dei 19 milioni ricevuti da tutti i Teatri Stabili pubblici”. Ma c’è di più: “Alla Rai vanno fondi pubblici otto volte di più del teatro”.

In Francia ben 6 miliardi di euro sono destinati alla cultura, dei quali 500 milioni al cinema, mentre all’editoria la metà di questa cifra; negli Usa non c’è università senza un teatro. In Italia si assiste ad una dispersione in mille rivoli, sono ben seicento i soggetti che vengono finanziati nello spettacolo.

Si avverte l’esigenza indifferibile di abolire i finanziamenti senza riferimento a obiettivi precisi e verificabili, come abbiamo richiesto finora invano – ha detto Escobar – precisando: “Dall’istituzione del Fondo unico per lo spettacolo, nel 1984, chiediamo alla politica, ai governi, persone in carne ed ossa, di assumersi la responsabilità di finalizzare quei contributi e quel sostegno. Non si è fatto niente perché in venticinque anni sono cambiati quindici ministri, messi lì per punizione”.
Su questa base si è lanciato in una forte requisitoria contro gli errori e gli abusi, le assurdità e le irregolarità: per superare tutto ciò si dovrebbe voltare pagina e destinare i finanziamenti a chi fa veramente cultura realizzando gli obiettivi fissati. Il teatro è la sede culturale per eccellenza.

Poi la breve replica di Baricco. Cita una serie di anomalie nei finanziamenti pubblici alla cultura, in particolare ai Teatri Stabili. La sala si anima, un teatrante sfoga nel microfono la sua rabbia con un lungo monologo. Ma il tempo disponibile si è esaurito, il pubblico lascia la platea dell’Eliseo, il teatro si riappropria del suo spazio magico. Sta per andare in scena l’“Amleto” di Shakespeare…

Le altre posizioni nel dibattito sulla stampa

La discussione pubblica al Teatro Eliseo non ha esaurito il dibattito sulle questioni sollevate da Baricco, che si è svolto sulla carta stampata con l’intervento di molti protagonisti dello spettacolo.

Ne facciamo una rapida rassegna iniziando con la dura replica di Vincenzo Cerami, già ministro ombra per la cultura del Partito Democratico: “Ciò che lui auspica si sta già verificando. Lo Stato…ha già messo in ginocchio, con il taglio al Fondo unico dello spettacolo, la musica, il teatro, la danza, il cinema… già più di 400 teatri sono stati chiusi, e con loro molti centri di prestigio in tutti i settori della cultura, dagli istituti musicali ai Conservatori, alle biblioteche, alle piccole e medie aziende che lavorano nel settore”. Mentre nei principali paesi europei sono messe a disposizione della cultura risorse pubbliche “tre-quattro volte” più che da noi.

Per Cerami va respinta l’idea di aprire ai privati, “non c’è corsa a investire nella cultura, come lui crede. Scuole, università, teatri, musei, biblioteche, archivi non si guadagnano da vivere. Per compiere la loro missione civile, per aiutare, devono essere aiutati”. Però aggiunge che “esistono sprechi e che il denaro viene distribuito male”, e nel ritenere necessari gli aiuti pubblici “non mi riferisco a sovvenzionamenti a pioggia o discrezionali, ma a risorse da investire con oculatezza e spirito imprenditoriale”; “il futuro della nostra cultura deve entrare, al pari delle altre emergenze nazionali, nel ciclo delle grandi riforme che il paese aspetta e di cui si avverte un forte e urgente bisogno”. Sembra non contestare la diagnosi di Baricco sull’esigenza di rivedere il sistema, ma prende le distanze dall’idea di togliere l’aiuto pubblico al teatro per darlo a scuola e televisione.

L’editore Laterza ha difeso l’aiuto al teatro e alle altre forme di cultura che non potrebbero reggersi altrimenti, evidenziando “il ritorno per la collettività di una manifestazione culturale, che si aggiunge a elementi immateriali come il pluralismo delle idee, il senso della comunità, l’identità e la promozione del territorio”. Neppure lui è per il mantenimento dello “status quo”, e afferma che “per dare al teatro (come alla lirica o alla danza) un sostegno efficace, serve una discussione seria sul quanto e soprattutto sul come, con quali criteri e quali controlli. E non è affatto detto che la prova del mercato sia incompatibile con un ragionevole aiuto pubblico, ad esempio nella fase iniziale di un’attività”.

Gigi Proietti ribadisce la richiesta di una discussione su come rivedere il sistema: “Il teatro da solo non può farcela. La gestione dei teatri ha costi enormi. Ma parliamone. Baricco, apriamo un dibattito non dico con tre B ma almeno con una”.
Anche un uomo di teatro come Luca Barbareschi, pur se molto critico della tesi di Baricco, ammette che occorre cambiare: “Il sistema dello spettacolo in Italia non va rotto, come dice lui, va risistemato come in Francia, Germania, Inghilterra, ora perfino in America: l’intervento dello Stato ci vuole. Chi deve andar via è la politica che ha egemonizzato poltrone, denari, tutto”.

E il presidente dell’Eti Giuseppe Ferrazza: “Su alcuni punti mi trovo d’accordo con Baricco. Sono convinto che la diffusione della cultura deve essere a largo raggio”. Ma aggiunge: “Non sono d’accordo però a lasciare tutto in mano al mercato, non è possibile perché ci sono delle tipologie di teatro che vanno protette”; quelle – aggiungiamo – che Scalfari identifica in “Ifigenia” rivendicando come minoranza il diritto alla loro salvaguardia anche se alla maggioranza non interessano.

Per l’Agis, il presidente Alberto Francescone ha avanzato una richiesta: “Bisogna fare una riforma del settore ormai necessaria, ma prima vogliamo il ripristino del Fus ai livelli minimi del 2008.

Il presidente dell’Associazione imprese teatrali di produzione aderente all’Agis, Roberto Toni, è esplicito: “Per lo spettacolo l’equilibrio tra costi e ricavi non è quasi mai possibile, né qui ne altrove, lo sa bene Baricco”. E pone la domanda retorica: “La questione è: lo spettacolo è elemento fondante della cultura di un paese e della sua crescita civile? Se sì, lo Stato se ne faccia carico ridisegnando il sistema, selezionando i soggetti, definendo criteri e regole per investimenti mirati. Noi che il teatro facciamo, da qualche decennio, questo chiediamo con insistenza e non da oggi”, in linea con quanto dichiarato da Escobar alla stampa e ribadito nel dibattito all’Eliseo.

Dario Fo, con la sua autorità di Premio Nobel per la letteratura e uomo di teatro afferma: “Ci vogliono regole trasparenti, per rispetto anche del pubblico. Ma sul finanziamento non si discute: anzi in Italia la percentuale del Pil alla cultura è dieci volte inferiore alla media europea”.

Gabriele Lavia è molto aspro: Tuonare contro il sistema teatrale italiano… mi sembra come assestare il colpo di grazia ad una creatura agonizzante, che ha tanto bisogno di vivere”.

Ancora più aspro Nicola Piovani: “Una sciocchezza così non l’avevo mai sentita”, mentre Franca Valeri ironizza: “Che idea scherzosa!”

Severo il giudizio del regista Maurizio Scaparro: “Le premesse e le considerazioni di Baricco sono condivisibili, ma le conclusioni sono invece pericolose e forse devastanti. Per il teatro e non solo”.

Per Carlo Giuffrè “senza finanziamenti mancherebbe il pane”, mentre Paolo Poli commenta serafico: “Baricco dice quello che vuole e noi continuiamo a lavorare. Ho visto passare tante stagioni, buone o cattive. Spero di resistere anche a questa.

Un’adesione a Baricco viene da Riccardo Muti, che da sempre si batte per molti punti da lui sollevati: “In particolare la centralità della scuola fin dalla tenera età, il potenziamento dei programmi formativi che attraverso la televisione sono in grado di raggiungere anche le persone più lontane e isolate, e la formazione di giovani musicisti, sono tutti ambiti dove è necessario il sostegno delle istituzioni pubbliche. Così come ci vorrebbero più risorse private perché potrebbero ridare nuova linfa ad un mondo che ha davvero bisogno di una vera ‘rivoluzione mentale’.”

Salvatore Accardo entra ancora di più nello specifico musicale: “Baricco scrive giusto quando parla di dare soldi alle scuole: la musica va imparata e insegnata fin dai banchi di scuola. E’ vero che ci sono sprechi nei teatri con le loro produzioni faraoniche ma non è così, per esempio, per la musica da camera e le istituzioni concertistiche che andrebbero sostenute dallo Stato”.
Sul versante del cinema Paolo Sorrentino regista di “Il Divo” – film di qualità che non si sarebbe realizzato senza il contributo pubblico – ha affermato: “Concordo con Baricco quando dice che vanno cambiati gli obiettivi culturali per sostenere scuola e Tv. Ma devono cambiare anche le regole di questo sostegno, liberarlo dalla politica”.

Franco Zeffirelli interviene polemicamente: ”Bisogna finirla con queste elemosine di Stato ai teatri. Servono decisioni radicali… Negli Stati Uniti o in Inghilterra lo Stato non si occupa della cultura, che è gestita solo dai privati.. L’idea che il teatro e la cultura debbano essere gestiti dal privato e non dai governi io l’ho nel cuore da decenni… Misurarsi col mercato spingerebbe le varie sovrintendenze a fare spettacoli di successo…Per i teatri di prosa si può pensare a un supporto pubblico” anche se “chi decide se un testo vale la pena di finanziarlo o no? Gli assessori? E’ difficile…”. Poi cita l’esempio di successo del Metropolitan di New York: “Fornisce un servizio costante, non costa niente allo Stato e produce cultura eccome”.

Alcune considerazioni a margine del dibattito

Ci sembra che nessuna delle posizioni che abbiamo riportato difenda il sistema attuale, mentre molte respingono il proposito di eliminare i finanziamenti pubblici dalle varie forme di spettacolo, in primo luogo il teatro, per spostarli su scuola e televisione, lasciando operare il mercato e l’iniziativa privata. La diagnosi viene sottoscritta da tutti, nella terapia Baricco resta isolato, anche se Zeffirelli è dalla sua parte, pur se da una posizione del tutto autonoma: “Lo dico da decenni”.

Ma se è così vale la replica di Baricco affidata a “Repubblica”del 4 marzo 2009: “In qualsiasi sistema bloccato, che ha fissato le sue regole e tracciato dei confini, quel sistema è l’unica possibilità: tutto il resto è sogno”. E ancora più esplicitamente entrando nello specifico: “Fare il teatro lirico in un modo diverso da quello usato dallo Stato attualmente è impossibile fino a quando lo Stato farà il teatro lirico in quel modo con la scusa che in altri modi è impossibile”. Segue un altro esempio: “Nessuno può fare meglio dei Teatri Stabili in un mondo con i Teatri Stabili: ma nessuno può dire che questo sarebbe impossibile in un mondo senza Teatri Stabili”.

Osserviamo che una simile constatazione si può fare per altre fonti di spesa, tutte quelle che hanno una loro inerzia e si autoalimentano perdendo il riferimento non soltanto agli obiettivi, come denunciato da più voci, ma spesso anche alla ragion d’essere. In effetti, per rifondare il sistema, volendo mantenere i necessari contributi pubblici, non ci si può limitare a ridurre e spostare marginalmente le attuali sovvenzioni mantenendo il loro carattere “a pioggia”, ma si deve ripartire da zero. Come avveniva con il cosiddetto “zero base budget” che fu introdotto nel bilancio federale Usa dal presidente Carter. Sarebbe inutile effettuare tagli continuando a finanziare realtà compromesse, occorre azzerare tutto e ricostituire il sistema ex novo, con finanziamenti congrui conferiti secondo il “ranking”, una graduatoria basata sulla qualità dei programmi, finché la “cut off line” segna l’esaurimento delle risorse e l’esclusione di quelli di livello inferiore ai prescelti.

L’efficacia sarebbe garantita dalla riduzione drastica dei soggetti percettori e dal sostegno delle forme veramente efficaci di promozione culturale con verifica del raggiungimento degli obiettivi; perché anche per i finanziamenti degli anni successivi opererebbe lo “zero base budget” con il “ranking” e la “cut off line”, quindi gli esclusi potrebbero rifarsi, in una competizione che è garanzia di qualità. Per risolvere il problema di chi valuta i programmi e fa la graduatoria, aspetto determinante per l’efficacia del sistema – non certo gli “assessori” giustamente temuti da Zeffirelli come da Baricco – si potrebbe ricorrere a commissioni con dei garanti di livello internazionale.

Ma a parte questa proposta venuta a noi per associazione di idee con le tecniche di bilancio, ci chiediamo come mai Baricco, che identifica nella televisione il campo su cui concentrare le risorse perché lì si svolge la battaglia per la diffusione della cultura, essendo la comunicazione per eccellenza cui tutti hanno accesso, non la include tra i settori da sottoporre a una radicale revisione, quella dei due suoi esempi appena citati? Perché si fanno le bucce al teatro per evidenziare sprechi, inefficienze e mancato rispetto degli obiettivi culturali impliciti nei finanziamenti pubblici che riceve, e non le si fanno alla televisione, o meglio a quella parte della Tv, la Rai, che riceve un cospicuo finanziamento pubblico per svolgere un’opera di elevazione culturale? Quando è questa la legittimazione data dalla Corte costituzionale alla devoluzione ad essa del canone perché “diversa” dalle Tv commerciali a ragione dell’impegno culturale, canone che i cittadini sono obbligati a pagare come imposta? All’Eliseo il solo Escobar ha evocato il problema della Rai, l’“ombra di Banquo” del dibattito anche se l’“Amleto” e non il “Macbeth” è andato in scena subito dopo.

Ancora più espressamente ne ha parlato Giovanna Melandri, da poco responsabile per la cultura del Partito Democratico, che per questo citiamo in chiusura dopo aver aperto la rassegna delle posizioni con il precedente ministro ombra di tale partito, Cerami. Secondo la Melandri, la diagnosi di Baricco è corretta, non solo per le critiche al sistema su cui tanti hanno convenuto, ma anche perché “è nella scuola e davanti alla Tv che si forma la cittadinanza culturale, il pubblico”, ma la cura è sbagliata in quanto “colpisce il bersaglio sbagliato”. E prosegue: “Mi spiego: la scuola ha subito un taglio di 8 miliardi di risorse, quest’anno, in Tv abbiamo 1,5 miliardi di canone, che legittima il servizio pubblico, una tassa di scopo, quindi il bersaglio della critica di Baricco doveva essere la Gelmini e la Tv pubblica, la più grande industria culturale italiana che abbiamo trascurato nella sua totalità, concentrandoci solo su informazione e par condicio, quando non sappiamo cosa sia… devi leggere ai bordi dello schermo per capire se è Rai o Mediaset. E invece Baricco se l’è presa con il Fus, che con i suoi 360 milioni di euro aiuta, da solo, tutto il mondo della produzione culturale italiana”.

In questa conclusione della Melandri sentiamo riecheggiare le parole di Escobar all’Eliseo sull’enormità dei fondi alla Rai rispetto al teatro,il solo spettacolo colto con attori vivi e presenti senza mediazioni artificiali. Così ne ha parlato il grande coreografo del “teatro totale”, Micha Van Hoecke, alla presentazione del Festival della spiritualità ricordato all’inizio: “Se vado in chiesa è per cercare Dio, avere un rapporto con la divinità; se vado in teatro non c’è una luce che entra dall’esterno come in chiesa, le luci si abbassano, c’è qualcosa che parla alla mia coscienza, c’è un che di magico, sono seduto e devo viaggiare. Cos’è il senso di spiritualità che c’è nel teatro? Sono le persone che lo fanno vivere. C’è un’anima per queste serate”. Poi lo ha preso la commozione fino alle lacrime. Questo è il teatro da sostenere, la sua umanità e la sua spiritualità; la sua cultura.

E allora non possiamo non riproporre, scusandoci dell’autocitazione, quanto abbiamo prospettato di recente in questa Rivista su “La Rai, un servizio pubblico da rivedere”, portando la linea di Baricco alle logiche conseguenze sulla televisione, che resta l’elemento centrale della sua tesi. Il “ranking” dello “zero base budget” andrebbe applicato pure al palinsesto Rai, e la “cut off line” potrebbe davvero escluderne gran parte, così si renderebbero disponibili per la cultura nuove ingenti risorse!
Il nostro articolo appena citato lo abbiamo dato a Baricco sul palcoscenico dell’Eliseo, parlandogliene brevemente. Ci ha detto con un sorriso cortese: “Lo leggerò”. Restiamo in attesa.

Tag: Alessandro Baricco, Sergio Escobar

Censis, La crisi economica del 2008 e la provincia italiana

di Romano Maria Levante

Nel “Diario dell’inverno di crisi” del 7 marzo 2009, a distanza di un mese dalle dichiarazioni del presidente De Rita che abbiamo riportato come nota di speranza a conclusione del nostro precedente articolo in materia, il Censis ha riproposto notazioni controcorrente rispetto al clima catastrofico.

Non vengono negate le evidenze macroeconomiche, anzi sono citati l’aumento di cinque volte della cassa integrazione rispetto al mese precedente per il calo dell’occupazione, la previsione della Banca d’Italia di diminuzione del Pil del 2,6% nel 2009, il crollo dei consumi, la caduta delle Borse.
Ma non se ne traggono conclusioni distruttive, anzi si afferma che “una lettura indistinta della situazione, come quella oggi più diffusa, rischia di suscitare un disorientamento generalizzato e controproducente ai fini di un’auspicabile reazione collettiva”.

La crisi non è generalizzata ma “a mosaico”

Quanto ora riportato nasce dalla constatazione che “per il momento la crisi si presenta ‘a mosaico’, è concentrata soprattutto in alcuni focolai, ci sono, cioè, settori produttivi, territori e categorie di soggetti più esposti e sotto pressione di altri”. Constatazione che accade di fare nella vita di tutti i giorni. Il Censis fornisce dei dati che misurano fenomeni verificati “de visu”: nella stagione invernale sono cresciute le presenze in montagna del 6%, a febbraio sono state ordinate 220 mila nuove auto, il 4% in più che nello stesso mese dello scorso anno, i risparmiatori sono aumentati del 9,3%, la raccolta bancaria ha superato i valori precedenti raggiungendo 1.784 miliardi di euro.

Vuol dire che la crisi è di entità contenuta? Certamente no, sono in gravi difficoltà i gruppi di rilevanti dimensioni: le grandi banche, con le pesanti ripercussioni sul finanziamento dell’economia, le grandi imprese che mettono in cassa integrazione i lavoratori diretti e in più travolgono l’indotto di produzione e di lavoro. Tengono ancora le piccole realtà imprenditoriali, ma non ci si deve illudere, perché se la crisi va avanti si potrebbe avere un effetto domino, una “compressione a catena”.

Ecco la spiegazione di De Rita: “Fino a poco tempo fa ci rimproveravano di essere poco europei, con un’economia basata su piccole imprese, ci accusavano di essere afflitti da un egoismo diffuso. Ebbene, questo policentrismo ci sta salvando, o perlomeno sta attenuando l’impatto della crisi”.

Si tratta di una visione inguaribilmente ottimistica, ben accetta dinanzi alle cattive notizie che giungono ogni giorno? Oppure è una visione altrettanto realistica, da un punto di osservazione diverso, che non va sottovalutata né tanto meno ignorata? Non dobbiamo attendere la risposta dagli eventi, perché la validità dell’approccio del Censis sta nelle indicazioni per rispondere alla crisi con interventi mirati; le azioni intraprese su scala generale, indotte dall’emergenza, non sono in grado di cogliere e valorizzare i punti di forza su cui far leva né di isolare i punti di debolezza da attaccare per rimuovere le cause negative che accentuano la crisi frenando le possibilità di ripresa.

Analizzeremo meglio il policentrismo “a mosaico” dopo aver richiamato l’effetto di appiattimento della globalizzazione, ad esso si deve se “il Paese non è allo sbando ma procede verso una razionale distribuzione dei rischi”.

Minacce e opportunità nella dimensione globale

Iniziamo col ricordare che la crisi non è nata dall’economia, che è la struttura, ma dalla finanza che è la sovrastruttura, e si è poi riversata sull’economia. Il tutto è avvenuto a livello globale, a partire dal “credit crunch” innescato da quel grande paese che sono gli Stati Uniti, e lo sono nel bene e nel male, tanto debordanti appaiono le dimensioni dei successi passati come dei fallimenti attuali. Si diceva “è un’americanata” quando qualcosa era spropositata, inusuale e improponibile al nostro livello; ora le americanate vengono da noi, ripetiamo nel bene e nel male, e quando lo sono nel male non piove ma diluvia, anzi arriva il diluvio universale, non c’è mare agitato ma maremoto, anzi lo tsunami finanziario, e ora anche economico e produttivo.

Perciò dobbiamo trovare isole a cui ancorarci, picchi su cui attestarci, aree difendibili in cui trincerarci. Non vi sono zone protette con la globalizzazione, c’è l’omologazione, ma ognuno vi porta caratteristiche e peculiarità che non vengono spianate se non nei fattori sovrastrutturali, e la finanza è tra questi, perché restano gli elementi identitari e differenziali da valorizzare.

La globalizzazione, dunque, ha causato la diffusione endemica per cui la crisi da americana è diventata internazionale, quindi nazionale. L’Italia ne è colpita in modo pesante, come pesanti sono le ripercussioni sul piano produttivo e occupazionale. Ma quando vogliamo misurare questa crisi non dobbiamo fermarci alle quotazioni azionarie che, con le dimensioni inusitate dei crolli su tutti i mercati, riflettono aspettative negative e comportamenti amplificati dal clima depressivo diffusosi a livello globale; oltre che da eclatanti episodi negativi, i fallimenti avvenuti o annunciati di grandi istituti bancari e assicurativi e di megaimprese di scala mondiale, in particolare in quel settore-arcipelago che è l’automobile.

Pur nella loro gravità non riflettono, tuttavia, un collasso generalizzato dei cosiddetti “fondamentali”, i fattori cioè che attengono alla tenuta del tessuto produttivo sul piano dell’efficienza e della competitività; altrimenti non si verificherebbero all’unisono per tutti i settori, i titoli, le piazze borsistiche. Anche perché i ripetuti crolli si associano a condizioni mai come adesso favorevoli per l’economia: tassi di interesse tendenti allo zero, inflazione praticamente scomparsa, costi delle materie prime e delle fonti di energia bassissimi, il petrolio costa meno di un terzo di un anno fa, e potremmo aggiungerne altri. E’ vero che i livelli “favorevoli” sono dovuti alla situazione gravemente “sfavorevole” dell’economia e della finanza, ma sussistono; e allora cosa manca per la ripresa produttiva se i fondamentali ci sono?

Manca la domanda di consumo, è la ovvia notazione, tanto che i paesi fanno il possibile per riavviarla. Ma a questo c’è il rimedio keynesiano del “deficit spending”, che ha consentito di superare le crisi congiunturali, pur se a costo di un aumento dell’indebitamento. Un “deficit spending” interno focalizzato su grandi interventi infrastrutturali, come fu la “Tennessee Valley Authority” nel New Deal della Grande depressione Usa; per noi si è parlato persino del Ponte sullo Stretto di Messina tra le altre grandi opere, si faranno davvero?

Ma il “deficit spending” si potrebbe adottare altresì a livello internazionale, con un piano Marshall per l’Africa, l’America Latina e le altre aree sottosviluppate dell’Asia e del pianeta. C’è un elemento nuovo che potrebbe favorire le iniziative in tali paesi: l’“Information Economy Report 2007-08” dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, ha segnalato che negli ultimi tempi il “digital divide”, cioè il divario nelle tecnologie di comunicazione e informazione dei paesi sottosviluppati, si sta restringendo soprattutto grazie ai telefoni cellulari e alla disponibilità crescente di Internet, sebbene sia ancora modesta. Gli abbonati ai servizi di telefonia cellulare sono almeno triplicati negli ultimi cinque anni nei paesi in via di sviluppo e ora rappresentano circa il 58% del totale degli abbonati nel mondo: “In Africa, dove l’aumento in termini di numero di abbonati alla telefonia mobile e di penetrazione è stato il maggiore, questa tecnologia può migliorare la vita economica dell’intera popolazione”, si legge nel rapporto. Si afferma inoltre che “i cellulari sono il principale strumento di comunicazione per le piccole imprese nei paesi in via di sviluppo, riducendo i costi e aumentando la velocità delle transazioni”, perché “la telefonia mobile fornisce informazioni di mercato, e ne migliora il reddito, a varie comunità”.

Inserendo le aree arretrate nel circuito dello sviluppo si supererebbe l’incubo degli economisti classici, cioè lo “stato stazionario”, e non è detto che non si sia innestato nella crisi creata dalle dissennate follie finanziarie consentite dalla “deregulation” selvaggia sui mercati. Lo stato stazionario è la situazione che si crea nelle economie opulente con i consumi saturi, per cui l’aumento del reddito si lega al sempre più scarso aumento della popolazione e alla scoperta di nuove terre. Le nuove terre scoperte corrispondono alla conquista del West che diede avvio al miracolo americano; il nuovo Far West per l’economia globale saranno le vaste aree di povertà del pianeta, che potranno compensare i minori consumi delle aree opulente, incapaci di svilupparsi all’infinito.

Come finanziare un tale Piano Marshall? Alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale non mancano gli strumenti, tanto più che la crisi finanziaria si può superare soltanto con misure reali in grado di collegare di nuovo finanza e moneta al lavoro e al reddito; dopo l’impazzimento dei derivati e dei “future”, degli “hedge funds” e dei titoli tossici con i quali ci si è illusi di produrre denaro attraverso denaro senza l’intermediazione del lavoro e della produzione. In questo la globalizzazione può essere un antidoto, come è stata causa dell’epidemia divenuta pandemia; in questo sono insostituibili le misure internazionali e nazionali e le decisioni a livello multilaterale che non dovranno più essere prese nel G8 ma nel G20 divenuto finalmente realtà.

Il ruolo dell’eccellenza nella dimensione territoriale

Se questo può essere un effetto positivo della globalizzazione a livello mondiale, sul piano nazionale c’è l’altra dimensione che si sta rivelando decisiva nella crisi: il “mosaico” a livello locale che consente di resistere, evitando il contagio e mobilitando le energie degli individui e della società.

E’ la dimensione territoriale individuata dal Censis, che si colloca tra quella nazionale della macroeconomia infettata dalla globalizzazione e quella privata della microeconomia troppo debole per resistere; le ultime due sono le uniche dimensioni nelle quali viene in genere misurata e letta l’economia, astraendosi dal fattore forse fondamentale, un’astrazione dannosa perché porta a misure generalizzate e non calate sulle specifiche realtà territoriali.

Afferma il Censis: “Il messaggio diffuso, che attraversa anche i media e le dichiarazioni istituzionali, è di grande apprensione per la congiuntura economica. Me è un messaggio che contiene, più o meno implicitamente, un invito al disimpegno, poiché sembrerebbe che nessun comportamento individuale possa modificare la situazione attuale, anzi proprio la modifica dei comportamenti potrebbe innescare una spirale di crisi ancora peggiore”. Invece “nel territorio risiede uno dei fattori caratterizzanti l’ultima vincente metamorfosi nazionale che, negli anni della modernizzazione industriale (gli ormai lontani anni 60 e 70) ha completamente mutato la struttura produttiva del paese, formato una nuova classe dirigente, ricostruito e dato coesione a un diverso sistema di aggregazioni sociali”.

Quali sono, dunque, gli elementi di punta di un territorio “eccellente”? La ristrutturazione produttiva, che sarà richiesta ancora di più per la crisi, dovrà far leva su realtà locali diverse dagli ambiti amministrativi; e il Censis ha identificato ampie regioni urbane dette “big cities” considerandole “potenziali fattori per una seconda decisiva metamorfosi della società italiana”.

Il territorio è un valore per lo sviluppo dell’“economia dell’accoglienza”, forse sottovalutato per l’enorme abbondanza di capitale territoriale che porta a trascurare realtà meritevoli di maggiore considerazione perché potenziali fattori di sviluppo. Si pensi al paesaggio e ai beni culturali che formano un tutt’uno se gestiti convenientemente insieme alle tradizioni, fattore trainante notevole. E’ vero che nel territorio, pur con la sua forte identità, non vanno trascurati i fattori di competitività interna ed internazionale; ma la sua valorizzazione deve essere il frutto di azioni che s’innestano su un terreno fertile e tanto più suscettibile di sviluppo quanto più viene dissodato e coltivato con cura. E qui le suscettività locali vanno potenziate ed esaltate.

Come valorizzarle? Innanzitutto dando ai poli territoriali una dimensione adeguata, promuovendo le complementarità e le convergenze in modo da creare fattori di concentrazione e reti di interconnessioni. Poi con un’organizzazione efficiente, che richiede l’adesione della comunità ai beni collettivi come cosa comune, unita all’azione per reperire le risorse necessarie, favorita da tale adesione. In questo va stimolata la formazione di una cultura collettiva che, basandosi sulle risorse esistenti sul piano delle preesistenze paesaggistiche e artistiche, ambientali e architettoniche, abbia la capacità di mobilitarne di nuove in vista di un ritorno economico non solo possibile, ma si può dire molto probabile sulla base delle esperienze vissute. Il federalismo fiscale potrebbe fare la differenza se orientato in direzione della crescita, con la drastica eliminazione di ogni spreco e inefficienza attraverso la responsabilizzazione nelle entrate, premessa di quella nelle spese.
Naturalmente la polarizzazione territoriale deve riguardare l’offerta qualificata, ma per la domanda occorre rivolgersi agli ambiti più vasti, nazionali e soprattutto internazionali, valorizzando specificità e identità come fattori competitivi e mai come elementi di esclusione e di arroccamento.

In questo quadro il campanilismo e gli egoismi locali, che hanno già rallentato l’unificazione del paese – il Censis ricorda che fummo definiti “pura espressione geografica” piuttosto che Nazione – possono compromettere l’azione da svolgere a livello territoriale per resistere alla crisi. Occorre invece avere strategie comuni che soddisfino o medino i diversi interessi e delle “leadership” di prestigio che possano svolgere un effetto trainante senza creare posizioni dominanti, perché inserite in un sistema che opera in modo corale.

L’ultimo requisito per la valorizzazione del territorio è il non essere monosettoriali ma sapere integrare diverse vocazioni, e in questo senso va orientata l’individuazione degli ambiti territoriali da promuovere.
Con le suddette condizioni si realizza l’“eccellenza”. Non è una previsione ma una constatazione, perché è il risultato della ricerca sul campo mediante la quale il Censis ha esplorato le aree che hanno saputo utilizzare tali ingredienti, le ha individuate e misurate con criteri e metodi appropriati.

I territori definiti di “eccellenza” sono quelli che “si preparano a reagire per primi alla crisi” e producono un quarto del Pil nazionale; comprendono 1759 comuni con circa 15 milioni di abitanti, ogni comprensorio raggruppa in media 13 comuni e 450 kmq di superficie, con circa 100.000 abitanti. Ne sono stati individuati 161, classificati per fasce, di essi 71 sono aree produttive, 65 aree di accoglienza e 25 poli dell’innovazione e della logistica.

I fattori identitari legati al territorio sono meno vulnerabili e rappresentano un ancoraggio rispetto agli elementi volatili della globalizzazione. Essi sono, sotto il profilo produttivo una produzione di qualità meno esposta ai prodotti globali, sotto il profilo dell’accoglienza il capitale culturale e paesaggistico come veicolo della produzione del reddito, sotto il profilo tecnologico la qualità innovativa.

Per l’“eccellenza produttiva”, in particolare, conta la riconoscibilità della vocazione settoriale, la capacità organizzativa della produzione, la proiezione esterna e soprattutto internazionale; per l’“eccellenza nell’accoglienza” l’esistenza di una politica di manutenzione e tutela del paesaggio e valorizzazione delle qualità ambientali, la presenza di iniziative pubbliche e private per le produzioni tipiche e la cultura locale, la diffusione di una cultura amministrativa e imprenditoriale volta a migliorare l’organizzazione e i servizi turistici, un livello adeguato di accessibilità del territorio; per l’“eccellenza tecnologica” l’essere realtà d’avanguardia aperte al contesto internazionale, cioè centri pubblici e privati per la ricerca scientifica e tecnologica e per la sanità di qualità, l’alta formazione nei settori innovativi, le attrezzature per l’attività fieristica e la logistica.

Sulla ubicazione di questi territori e sul loro grado di eccellenza le classifiche del Censis sono precise, illustrate da apposite cartine.
Per la produzione, dei 71 territori “eccellenti” 39 sono al Nord, 24 al Centro e solo 8 al Sud; per l’accoglienza, dei 65 territori selezionati 22 sono al Nord, 20 al Centro e 23 al Sud; per l’innovazione, 18 al Nord, 4 al Centro e 3 al Sud. Ci limitiamo a evidenziare che il Gran Sasso figura sia tra le aree di eccellenza nell’accoglienza, insieme al Parco nazionale d’Abruzzo, sia tra i luoghi di eccellenza nell’innovazione con i Laboratori. Nell’eccellenza produttiva l’Abruzzo è presente con la Val Vibrata a Teramo e Casoli a Chieti, inoltre con San Benedetto del Tronto e Ascoli Piceno riferite anche a Teramo.

Considerazioni conclusive sulla crisi

Rispetto alla crisi – osserva il Censis sulla base dell’indagine svolta tra il 22 gennaio e il 4 febbraio 2009 presso testimoni privilegiati nei territori – “nella gran parte delle realtà analizzate prevale presso gli attori locali la sensazione di essere di fronte ad una congiuntura negativa che si sta facendo sentire solo in termini di calo dei consumi. Non producendo significativi effetti sul tessuto produttivo e occupazionale locale”. E aggiunge: “A ben vedere, esiste presso i protagonisti del territorio una fiducia diffusa rispetto alle capacità di ripresa che nasce dalla consapevolezza di come il tessuto locale sia in definitiva sempre in grado di tirare fuori il meglio, anche nei momenti peggiori”.

Non che sottovalutino la crisi e il suo probabile aggravamento; ma hanno già definito con razionalità le spese da ridurre, e sono quelle non essenziali, per cui non la temono e si preparano a resistere senza reazioni scomposte. “Del resto – prosegue il Censis – guardando ai comportamenti che prevalgono quotidianamente, l’indagine ci parla più di un aggiustamento della capacità di spesa delle famiglie, che non di reazioni di fronte a situazioni emergenziali”; in altri termini, “comportamenti di carattere cautelativo, orientati ad un maggiore risparmio da parte delle famiglie, dall’altro maggiore razionalità ed equilibrio, tramite il ridimensionamento dei consumi e del tenore di vita”. E, ancora più esplicitamente: “La sensazione che emerge guardando i dati è che presso gli attori locali prevalga comunque la fiducia verso la capacità di risposta di un sistema locale, che poggia su basi solide, e che negli ultimi anni ha dato prova di sapersi adattare e muovere nei nuovi scenari globali, mostrando come la piccola dimensione sia per molti versi la più adatta a fronteggiare i cambiamenti repentini cui sono esposte le società odierne”.

In questo quadro, presentato a Mantova il 13 febbraio 2009, non sorprende la conclusione di De Rita basata sul più recente “Diario dell’inverno della crisi” dello scorso 7 marzo, citato all’inizio: “L’idea che gli italiani stiano danzando sul Titanic è sbagliata. Denotano invece una grande capacità di rispondere alla situazione avversa”. Nel loro “freddo pragmatismo” sono aiutati, oltre che dalla dimensione locale nella quale vi sono le isole territoriali di eccellenza, dalla loro tradizionale capacità di risparmio; per merito della quale, aggiungiamo noi, al record mondiale negativo dell’elevatissimo debito pubblico corrisponde quello positivo di un indebitamento privato delle famiglie molto contenuto.

Inoltre il tanto bistrattato familismo costituisce una protezione provvidenziale dalla endemica carenza di servizi, dal precariato diffuso e dagli insufficienti ammortizzatori sociali, deficienze che con la crisi rischiano di accentuarsi e senza la rete familiare potrebbero esplodere sul piano sociale.

Almeno per ora, dunque, teniamoci i “bamboccioni” e la residuale “famiglia patriarcale” di fatto. E impegniamoci, nei rispettivi ambiti territoriali, a valorizzare i fattori positivi per raggiungere o consolidare l’eccellenza. Affinché la terra dove viviamo, per l’azione che si riuscirà a svolgere sul piano individuale e collettivo, possa meritarsi l’appellativo coniato dal Censis: “Sua eccellenza il territorio”.

Alemanno e Darida, confronto a Roma tra i Sindaci

di Romano Maria Levante

“Ieri e oggi. Due sindaci a confronto, Alemanno e Darida”. Questo l’invitante manifesto che ci ha indotto a recarci nel tardo pomeriggio dell’11 marzo 2009 al teatro San Raffaele nel quartiere del Trullo alla periferia di Roma, perché il confronto tra ieri e oggi non va lasciato soltanto allo spettacolo televisivo, nel quale abbondano le rivisitazioni in bianco e nero della giovane età dei personaggi.

C’è stato poi un altro motivo di interesse, la presenza di Paolo Gatti, neo assessore alla Pubblica Istruzione e al Lavoro della Regione Abruzzo, già assessore al Comune di Teramo, il più votato alle recenti elezioni regionali, e di Pasquale De Luca, l’attivo Consigliere comunale di Roma che ogni anno organizza nella Capitale un incontro all’insegna dell’“orgoglio teramano”. Poter toccare con mano il nesso tra Roma e l’Abruzzo, Teramo in particolare, nel contatto con tali autorevoli protagonisti ci è parsa un’occasione da non perdere.

E’ stato il consigliere De Luca, di cui conoscevamo l’ardente “teramanità”, che ha ricordato anche alla platea, a stupirci con la sua profonda “romanità”. Ha gestito l’incontro ripercorrendo la storia amministrativa della città, ma anche immergendosi nei problemi della gente del quartiere, situato all’estrema periferia non lontano da Corviale, la “casa lunga un chilometro” dell’“edilizia ideologica” dei primi anni ’70 che è stata evocata.

Il ieri di Corviale era un progetto ambizioso di socializzazione in un palazzo che al suo interno riproduceva un paese, i negozi e i servizi, la passeggiata e la vita associata; poi la cattiva frequentazione e il degrado hanno travolto le migliori intenzioni, l’oggi è sospeso nell’attesa di una migliore qualità della vita, c’è anche una Tv interna. Il ieri dell’Ara Pacis era un contenitore da rinnovare a misura dello scrigno prezioso, l’oggi è la teca smisurata di Mayer nella quale c’è di tutto e di più, che sovrasta lo scrigno e l’adiacente chiesetta. Il ieri del quartiere erano i presidi di sicurezza e socialità, l’oggi è la loro faticosa ricostituzione.

Il confronto tra i due sindaci di ieri e di oggi fa tornare indietro di quarant’anni, Alemanno lo è oggi, Darida lo è stato dal 1969 al 1976, in un’altra Roma e soprattutto in un altro mondo. Ed è un fatto culturale viverlo in un teatro esaurito, anche nei posti in piedi. Perché si percepiscono umori e passioni, timori e volontà, di un pubblico che partecipa, in testa a tutti la preoccupazione per la sicurezza e l’immigrazione.

La sicurezza

E’ stato sottolineato da Darida che anche nella sua sindacatura questo problema era preminente, ma nasceva dal terrorismo e quindi riguardava la politica e le istituzioni; inoltre era un portato della lotta violenta tra gli opposti estremismi, e ha ricordato con commozione gli episodi di sangue di quel periodo. Tornando ancora più indietro nel tempo, ha rivolto un commosso pensiero alla memoria del giovane democristiano romano, Gervasio Federici, pugnalato e ucciso dall’opposta parte politica tra l’11 e il 12ottobre del 1947, mentre attaccava manifesti all’Esquilino, come faceva anche il giovane Darida. Forse l’essere stato, per così dire, sfiorato dalla violenza politica lo ha portato, da Sindaco, a rendere omaggio alle vittime anche se si trattava di assumere posizioni scomode e isolate, come fu per la barbara uccisione dei fratelli Mattei, bruciati nella loro abitazione per un odio ideologico incontrollato.

Ma la gente comune, che non faceva attivismo politico, non si sentiva minacciata a differenza di oggi, anche se questo possa sembrare un paradosso, perché negli “anni di piombo” erano i politici, magistrati, forze dell’ordine, giornalisti a trovarsi sotto tiro. E poi vi erano le minacce internazionali, la guerra fredda che però non era avvertita sulla pelle di ciascuno.

Nonostante non ci sia più tutto questo, oggi l’insicurezza è diffusa, ne ha parlato Alemanno ricordando l’impegno a rimuoverne le cause più evidenti, come i campi abusivi e l’assenza di presidi adeguati sul territorio; l’annuncio del ripristino di una caserma dei carabinieri nel quartiere ha suscitato un’ovazione fragorosa, che ci ha sorpreso per la sua spontaneità e intensità.

L’immigrazione

Un altro fenomeno che ha connotati apparentemente comuni, ma effetti molto diversi, è quello dell’immigrazione. Roma all’inizio degli anni ’60 ha visto raddoppiare la popolazione da 1,5 a 3 milioni di abitanti, con cambiamenti radicali nel suo assetto. E’ stato come “avere addosso un’altra città” delle dimensioni di quella preesistente. Si trattava di immigrazione interna, l’esodo dal Sud non aveva come meta solo il Nord ma anche la Capitale, con i problemi conseguenti dati dalla crescita fuori controllo delle periferie e delle borgate dove si dovevano portare i servizi essenziali, che non si vedono quando ci sono, ha sottolineato Darida, ma si sente la loro necessità quando mancano. I problemi maggiori erano il lavoro e l’abitazione. Il sindaco di allora ha tenuto a sottolineare che, nonostante fosse della stessa parte politica, non ebbe dal governo nazionale il minimo aiuto, neppure per l’Anno Santo del 1975, anzi si prese i rimproveri del Vaticano “dati a nuora perché suocera intenda”; mentre nell’ultimo Anno Santo del 2000 l’impegno del governo a sostegno della Capitale è stato ingente. Ha detto che così si toglieva un altro “sassolino dalla scarpa”.

Nell’anno di Alemanno l’immigrazione è dall’estero con tutti i problemi connessi che rispetto all’emigrazione interna contemplano l’emergenza della sicurezza. L’impegno del Sindaco a garantire il rispetto delle regole e della legalità da parte degli immigrati, pena l’espulsione immediata di chi non è in regola, è stato osannato; e ha citato l’azione per eliminare entro il 2009 i campi nomadi abusivi e attrezzare aree di permanenza con i servizi, l’assistenza e una sorveglianza adeguata.

La politica e i cittadini

Ma l’aspetto che ha marcato forse di più la differenza tra ieri e oggi riguarda il personale politico nell’Amministrazione e nelle Istituzioni e il contatto con i cittadini e i loro problemi. Intanto ieri c’era una forte instabilità politica, le maggioranze erano risicate e ballerine con il passaggio dei socialisti da una parte all’altra, lo ha ricordato Darida la cui amministrazione cadde per questo motivo. Inoltre il Sindaco era impegnato con il Consiglio comunale molto di più di quanto avvenga oggi dopo le riforme che lo hanno alleggerito di compiti che aveva in precedenza.

C’era l’“assedio” dell’opposizione, non solo nelle aree consiliari ma nella Piazza del Campidoglio. Darida lo affrontava “uscendo dalle mura, andando tra la gente, ascoltando tutti, aprendosi al dialogo”. Spesso non si potevano esaudire le richieste, ma era importante conoscerle, e poi c’era da salire la scala della Banca d’Italia, una sorta di “scala santa” ha detto, dato che il Comune era “indebitato fino al collo”: “Roma la città del dialogo” fu il suo slogan. Ciò era possibile perché il personale politico “si era fatte le ossa” nel contatto con la gente sul territorio iniziando dai livelli inferiori e ascendendo gradatamente nel suo “cursus honorum”. Oggi questo non avviene, si bruciano le tappe e viene meno la gavetta; forse perché, abbiamo osservato, il professionismo politico ai pregi ha unito tanti difetti.

Nell’anno di Alemanno nulla di tutto questo. Le manifestazioni e delegazioni ci sono, ma il quadro politico è molto diverso. L’Amministrazione è stabile, per la legge elettorale che dà un vero potere al Sindaco non esposto agli umori del Consiglio, ci sono i Municipi che gestiscono il territorio, le mediazioni politiche sono ben diverse e meno defatiganti. Perciò il Sindaco ha potuto presentare con piglio decisionista la sua “strategia della sicurezza e della riqualificazione del territorio” come base per dare avvio a un “unico grande ciclo di sviluppo” con al centro la valorizzazione dell’identità romana ad ogni livello della città. Si deve “costruire il futuro risolvendo tutti i problemi del territorio, dalla sicurezza alla vivibilità fino all’arredo urbano, nella prospettiva dell’identità romana, nei valori degli individui, delle famiglie e dell’intera comunità”. Per concludere: “Ci si dovrà sentire a Roma anche nelle più lontane periferie”.

Una po’ d’Abruzzo

In tanta “romanità” ci siamo sentiti di chiedere un commento sul “ieri e oggi” al neo assessore regionale abruzzese Paolo Gatti. Il passaggio dall’assessorato al Comune di Teramo di ieri a quello della Regione Abruzzo di oggi ha rappresentato un salto da una realtà consolidata e sotto controllo a una situazione tutta da esplorare. Ma il primo problema emerso in modo prepotente è la situazione critica nei conti regionali, il bilancio è dissestato oltre il prevedibile. Il sovrapporsi della crisi generale a quella regionale aggrava ulteriormente il quadro d’insieme perché con l’indebitamento a livelli record e le entrate ridotte mancano le risorse quando ce n’è più bisogno.

L’assessore cita la linea del presidente Gianni Chiodi improntata al rigore e alla selettività nella spesa. Nel suo assessorato si sta concentrando sui problemi del lavoro e della formazione, una vera emergenza; ma può già dire che nell’istruzione la carenza di risorse si farà sentire. Gli ricordiamo gli sprechi dati dal moltiplicarsi di sedi universitarie distaccate in comuni anche piccoli, è un problema che ha ben presente, andrà risolto non più solo per scelta razionale ma anche per necessità; l’assessore non si nasconde comunque le difficoltà, fin da ora immagina le resistenze che dovrà affrontare.

Cerchiamo di introdurre una nota positiva sottolineando che tra i 161 “territori di eccellenza” individuati dal Censis nella ricerca presentata il 13 febbraio 2009, figura il Gran Sasso per ben due volte, tra le eccellenze nell’“accoglienza” e quelle “tecnologiche”, e la Val Vibrata di Teramo, insieme a Casoli, tra le eccellenze “produttive”. Anche qui l’assessore mostra il suo realismo: mentre il Gran Sasso, per la natura e il Laboratorio di fisica, non viene colpito dalla crisi, per la Val Vibrata i problemi sono gravi: la vocazione tessile l’ha esposta alla pressione dei prodotti importati a bassissimi costi e poi alla crisi produttiva, e oggi vi è emergenza occupazionale anche se nella ricerca del Censis figura tra i territori di eccellenza.
Un “ieri e oggi” molto ravvicinato questo, purtroppo di segno negativo.

Vogliamo concludere comunque in modo positivo, e lo facciamo ricordando l’intervento dello stesso assessore Gatti in apertura della manifestazione, allorché ha sottolineato la contiguità dell’Abruzzo con la Capitale e ha auspicato un avvicinamento sempre maggiore tra le due regioni anche sotto l’aspetto dell’imprenditoria e del lavoro. Se son rose fioriranno, ma non si può dire quando: “La primavera tarda ad arrivare”, cantava Franco Battiato nel 1991 nel suo accorato “Povera Patria”. Un “ieri e oggi” simbolico anche questo.

Tag: Gianni Chiodi, Paolo Gatti, politica, territorio

Bellini e Picasso, tra sacro e profano, tra il Quirinale e il Vittoriano

di Romano Maria Levante

Da Giovanni Bellini a Picasso in un “itinerario” tra il Quirinale e il Vittoriano.

Capita spesso di passare dall’uno all’altro dei palazzi romani più rappresentativi, ma non è frequente trovarvi in mostra espressioni artistiche coeve agli edifici che le ospitano. E’ accaduto di recente passando dal Quirinale, anzi dalle sue Scuderie, con la mostra di Giovanni Bellini che si è conclusa, al Vittoriano, presso l’Altare della Patria con la mostra di un Picasso molto speciale aperta fino all’8 febbraio 2009; artista, quest’ultimo, al quale pochi giorni fa “Repubblica” ha dedicato una pagina dal titolo “’Picasso le nuit’. Parigi insonne per una mostra”. Il salto nel tempo è notevole, dal Cinquecento al Novecento, e lo è anche quello nel mondo dell’arte: dalle immagini sacre del pittore detto il “Giambellino”, che Roberto Longhi ha definito “un genio creatore sublime”, alla pittura rivoluzionaria di Picasso, “l’Arlecchino dell’arte”, come lo definisce la mostra. Facciamo questo viaggio nella macchina del tempo per registrare le emozioni che suscita un simile accostamento di epoche e di stili attraverso l’arte di due grandissimi pittori.

Il Sacro

Cominciamo con Bellini. Il critico d’arte parla del rinnovamento nelle forme espressive e nei contenuti di cui fu artefice, di una pittura che crea uno stile compiutamente “italiano” coniugando il primo rinascimento fiorentino e l’esperienza lombarda con la luce, il realismo, i particolari dell’arte veneziana, in una unificazione del linguaggio pittorico antesignana dell’idioma parlato.

Il tutto rappresentando con grande intensità la forza dei sentimenti e la natura.
Il vostro cronista d’arte si immerge nelle sue sacre rappresentazioni cercando di verificare dal vivo se l’impatto visivo ed emotivo è quello ora descritto.
Si deve dire subito che l’artista riesce a far sentire il contenuto più profondo del nostro credo religioso, la discesa della Divinità sulla terra, la sua presenza tra gli uomini, nella natura.

Ecco che le immagini sacre hanno una collocazione terrena ben precisa, a differenza di molte astrazioni classiche che, ad eccezione di Giotto, le ponevano in una sorta di empireo indefinito. Innanzitutto dalle Madonne e dai Crocifissi di Bellini traspare un’intensa umanità, per le espressioni dei volti, la positura delle figure: struggente è il viso della Madonna i cui occhi non guardano il Bambino raffigurato in una sorta di maturità pensosa, quasi per il presagio della tragedia della Passione; un incrocio di sentimenti che umanizza il sacro.

E poi l’umanità diventa dominante per l’inserimento delle immagini nel vivo della natura, uno spettacolo di colori, di paesaggi, di raffigurazioni; una natura che è vera, reale; la ricca vegetazione e le tante specie d’erba sono riconoscibili come lo sono i borghi medioevali che fanno da sfondo alla scena. Sempre Longhi, che lo ha definito “uno dei grandi poeti d’Italia”, parla di “accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia e il manto della natura”, dove spiccano “le chiostre dei monti e le absidi antiche, le grotte di pastori e le terrazze cittadine, le chiese color tortora del patriarcato e il chiuso delle greggi, le rocche medievali e le rocce friabili degli Euganei”.

Queste raffigurazioni di paesaggi di autentica marca italica coinvolgono emotivamente quando ci si trova dinanzi alla “Pala di Pesaro” con l’Incoronazione della Vergine e alle diverse immagini di“Madonna con bambino”, alla “Trasfigurazione” e alla “Pietà”, al “Battesimo di Cristo” e al “Crocifisso con cimitero ebraico”, alle “Crocifissioni” e alle “Resurrezioni”.

La natura, dunque, è protagonista del Sacro accanto ai sentimenti, quasi che l’artista abbia voluto trasferire l’idea del Presepio, corale partecipazione terrena all’evento miracoloso, in ogni scena; del resto incarnazione e redenzione sono l’autentico sigillo del Cristianesimo che lo distingue da tutte le altre fedi.

Le sole eccezioni restano le rarissime opere sui fondi scuri, un nero profondo su cui si stagliano le figure umane per dare più forza ai primi piani: il “Cristo morto con quattro angeli”, il “Compianto sul Cristo morto” e soprattutto la “Presentazione al Tempio”, una sorta di “Quarto stato” sacro con le figure color pastello schierate in modo composto quasi a voler marcare una presenza costante e non effimera, superiore eppure familiare.

E anche il “Padre Eterno” – Dio che raramente troviamo raffigurato nell’arte dove abbondano invece Cristo, la Madonna e il Bambino – Bellini lo rende familiare nelle due raffigurazioni con le braccia aperte come le aprono i fedeli e il sacerdote nella recita del Padre Nostro durante la Messa.

La lunga fila – cinquecento persone in paziente attesa per entrare nella mostra – testimonia la percezione che di questo ha la gente, hanno tanti giovani. Non è solo la riaffermazione del valore del Sacro, così significativa oggi dinanzi alla sfida dei “bus atei” con i messaggi “Dio non esiste… non ne hai bisogno”,“Dio non esiste…goditi la vita”; è anche e soprattutto il trionfo dell’Arte.

Il Profano

Il breve tragitto dal Quirinale al Vittoriano fa decantare le immagini sacre di Bellini esposte alle Scuderie, intrise di sentimenti e immerse nella natura, e apre gli occhi e la mente all’impatto modernista di Picasso.

Fori e Mercati traianei, con la Colonna Traiana, sono lì a farci dimenticare le Madonne e i Crocifissi. Ma c’è una particolarità di Bellini che ci portiamo dietro, la sua continua evoluzione: da bizantino e gotico seguì le tracce di Mantegna, poi di Piero della Francesca e di Antonello da Messina, quindi del Giorgione, restando però sempre se stesso con la sua straordinaria intensità espressiva.

Ci tornerà in mente ripercorrendo l’arte di Picasso nel periodo che va dal 1917 al 1937, a cavallo di una molteplicità di stili, anche da lui creati, ai quali ha impresso la propria impronta. Ma il suo percorso non è segnato dall’abbandono degli stili precedenti bensì dalla loro compresenza come segno della totale padronanza dell’arte pittorica al punto di voler marcare la perenne validità di ogni forma espressiva. In arte, diceva, non vi è progresso né evoluzione, l’esempio del passato è efficace quanto la modernità, e può essere ripreso senza per forza divenire accademia.

In questo Picasso è “L’Arlecchino dell’arte”, e non solo perché si identificava in lui e aveva il vezzo di riprodurlo in tanti modi (“seduto”, “musicista” “con donna e collana”, “su tavolozza”, e in molti “ritratti”); le pezze variopinte dell’abito della marionetta non sono le frammentazioni dei piani e dei volumi nelle opere cubiste, o le figurazioni espressioniste, surrealiste, astratte ed anche neo-classiche, bensì la compresenza senza imbarazzi di queste forme artistiche apparentemente antitetiche. In questo modo può offrire lo stesso soggetto in stili diversi presentandoci, pirandellianamente, tanti artisti in uno solo.

La mostra ne fa il proprio sigillo sin dalla prima sala affiancando due ritratti, accomunati dall’identica dimensione ma di stili opposti, tra i quali sembrano intercorrere decenni, mentre sono stati dipinti a distanza di pochi mesi: sono del 1917 la cubista coloratissima “L’italiana” del maggio seguita in autunno dal figurativo neo-classicista “Arlecchino” dalle tenui tinte pastello; al primo stile appartengono anche “Mandolino musicista” e “Mandolino e chitarra” del 1924, “Due donne di fronte a una finestra” del 1927 e “Pittore e modella” del 1928, “Grande nudo in poltrona rossa” del 1929; al secondo stile “Donna che legge” del 1920 e “Studi” del 1920-22, “La corsa” del 1922 e “Uomo con la pipa” del 1923, e infine le cento incisioni della “Suite Vollard” del 1930-33.

Si resta frastornati non tanto dall’eterogeneità delle forme pittoriche giustapposte nella mostra, quanto dalla loro contemporaneità. In questo Roma è stato un passaggio importante, e con essa Napoli (su una sua cartolina “ad Olga” del 21 aprile 1917 si legge “ti scrivo dal ristorante dove abbiamo pranzato con i… russi, cantiamo canzoni napoletane e siamo molto felici”) e Pompei (dove fu molto colpito dalle pitture parietali).

Sui due mesi del 1917 trascorsi nella città eterna – dove conosce la futura moglie Olga Khokhlova, una stella dei Balletti russi per i quali lavorò – ci si sofferma con una ricca esposizione non solo pittorica ma anche documentaria che fa capire più di ogni illustrazione critica quel mondo e quel sentire.

La vivace comunanza di vita con Jean Cocteau, Igor Stravinsky, Guillaume Apollinaire, fa capire come fossero profonde le motivazioni interiori e gli stimoli culturali nel progredire della sua arte. Le vestigia della romanità gli fanno sentire la vitalità persistente dell’arte del passato, lo convincono che le forme artistiche non sono mai estinte né superate, ma devono sopravvivere, essere riproposte.

Così, quando al neo-classicismo e al cubismo succedono l’espressionismo, il surrealismo e, più oltre, forme di astrattismo, in lui non sostituiscono gli altri stili ma si affiancano ad essi, come provano le citate cento incisioni neo-classiche della “Suite Vollard” dei primi anni ’30, nelle cui forme si possono intravedere addirittura tratti michelangioleschi. E non fu una scelta indolore, dovette subire accuse di “tradimento” del cubismo.
Passando ai ritratti, colpiscono i visi di donna dipinti nel 1937, alcuni sereni e composti, altri disperati, come le due “Donna che piange” e le due “Donna che piange con fazzoletto”. Tutti hanno la tipica forma cubista con gli occhi, il naso, la bocca decentrati, l’opposto del figurativo, anch’esso picassiano, presente nelle stesse sale; ma qui le figure non proiettano sulla tela soltanto il movimento, bensì la quiete nelle prime e soprattutto la sofferenza, resa atroce dalla deformazione, nelle seconde.

Dinanzi a queste immagini ripensiamo a una notazione che ci ha colpito, l’ammirazione di Picasso per i volti di Raffaello; e ci piace pensare che i visi asimmetrici, per usare un eufemismo, hanno come matrice rivissuta dalla sua arte quegli ovali perfetti, quelle ogive geometriche che sono astrazione massima e insieme rappresentazione vera della femminilità nella sua intrinseca armonia.

I visitatori si muovono nelle sale spostandosi da una parte all’altra per confrontare le figure, tornando sui propri passi e commentando la compresenza nel tempo dei diversi stili. E’ un’eccitazione partecipativa ben diversa dall’assorta contemplazione in un silenzio religioso (è il caso di dirlo) che avevamo riscontrato nella mostra su Bellini.

Condividiamo con un vicino le espressioni di ammirazione di Picasso per Raffaello: “Quale che sia il piacere che posso provare dal seguire le linee tormentate di Michelangelo, mi lascio guidare con serenità da quelle di Raffaello, pulite, pulite, sicure come in pieno cielo, come se non ci fossero ostacoli per loro. Non è Leonardo da Vinci che ha inventato l’aviazione ma Raffaello”. Il vicino ricambia ricordandoci le ben note parole dell’artista: “Quando ero un bambino disegnavo come Michelangelo, ho impiegato tutta una vita a liberarmi per imparare a disegnare come un bambino”. Intorno osservazioni e commenti, stupori ed emozioni.

Ma la mostra tematica copre il periodo tra le due guerre, caratterizzato dalla presenza violenta di una realtà politica sempre più minacciosa che precipita nello scontro bellico, e ne dà conto con opere che esprimono sofferenza. Di qui, dopo un ritorno al ritratto in cui Picasso passa da uno stile all’altro, l’evocazione dei drammi in atto e all’orizzonte, con le tragedie della guerra civile spagnola e le sciagure incombenti dell’hitlerismo e dello stalinismo.

I lavori e i quadri preparatori del capolavoro Guernica – come i tormentati “Testa di toro”, “Testa di cavallo” e “Il Minotauro” che ne anticipano la forte efficacia espressiva – ne sono la prova.

Sono eloquenti, per l’evoluzione e insieme la persistenza della forma artistica, i tre taccuini (del 1922, 1927, 1934) “sfogliati” dalla tecnologia per il visitatore, ognuno dei quali marca uno stile, dal figurativo più ortodosso al cubista estremo con una forma intermedia che, però, non lo è nel tempo.

Altra prova questa del rifiuto di ogni superamento stilistico per riaffermare l’universalità dell’arte intesa come compresenza di stili e anche di ingredienti, di contenuti.

“L’artista – diceva Picasso – è un ricettacolo di emozioni venute da ogni parte: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una figura che passa, da una tela di ragno. Perciò l’artista non deve distinguere fra le cose. Per esse non esistono quarti di nobiltà”. La nobiltà, ci permettiamo di concludere, è nell’artista.

Tag: Giovanni Bellini, Pablo Picasso, Quirinale, Vittoriano

Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma

di Romano Maria Levante

– 2 febbraio 2009 – Postato in: scultori

Un viaggio nell’arte e nella vita dell’artista abruzzese.

Le celebrazioni sono spesso un fatto rituale, legato al calendario più che al ricordo. Non è così per Venanzo Crocetti, il grande scultore abruzzese che a sei anni dalla morte viene ricordato martedì 3 febbraio 2009 con una cerimonia che si muove come ogni anno sull’asse TeramoRoma, il suo percorso di vita. La partecipazione del Vescovo di Teramo Michele Seccia, presso il Museo Crocetti sulla via Cassia a Roma, ne fa rimarcare la componente religiosa, mentre la visione culturale del prof. Enrico Crispolti ne sottolinea i valori artistici. C’è anche il videoart di Agostinelli sul suo senso dell’umano.

Venanzo Crocetti

Importante è tenerne vivo il ricordo, e su questo il Presidente della Fondazione intitolata a Crocetti, Antonio Tancredi, mette tutto il suo impegno di mecenate moderno: dalle celebrazioni nazionali alla promozione internazionale, come quella nel grande Ermitage di San Pietroburgo, fino alla riscoperta di opere come il busto di marmo di D’Annunzio del 1940, tradotto in bronzo nel settantennale della morte del Poeta ed esposto in permanenza a Teramo con le sue grandi sculture monumentali.

Per il cronista tenerne vivo il ricordo significa ripercorrere i momenti e i motivi salienti del suo itinerario artistico e umano cercando di decifrarne le motivazioni e i contenuti più profondi, con l’occhio che guarda non solo per vedere ma anche e soprattutto per capire.

Il nostro viaggio nel mondo di Crocetti inizia a Roma dinanzi alla “Porta dei Sacramenti” della Basilica di San Pietro, con gli otto pannelli ben distinti ma uniti da un nesso interiore, quello che lega la posa ieratica del celebrante alla figura del penitente nel quale sentiamo vibrare l’emozione.

E’ questo forse il punto più alto raggiunto dall’artista approdato a Roma dalla provincia abruzzese che ne ha nutrito e ispirato le precoci manifestazioni giovanili, dai primi schizzi sui muri delle case e sul selciato nelle vie del paese con il carbone, il cui segno robusto ritroviamo nella produzione di disegni, in un carboncino che ricorda questi inizi. E tanti dei temi ricorrenti si nutrono dei ricordi d’infanzia, dal pescatore, alla lavandaia, agli animali da cortile e non solo, che popolavano le sue giornate, alle figurine da presepio che si dilettava a modellare.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Porta-san-pietro-CROCETTI.jpg
La “Porta dei Sacramenti” di San Pietro

Lo sottolinea il critico d’arte Enzo Carli ricordando “il carattere ancora arcaico e pastorale che allora conservavano quei luoghi” collocati in “quel dolcissimo lembo della terra d’Abruzzo, forse la più bella e la più ‘sconosciuta’ regione d’Italia, tra le montagne del Gran Sasso e il mare, che ha come centri più importanti Teramo e Giulianova”, quest’ultimo paese natale del Maestro.

Tra l’inizio e il culmine della parabola artistica si muove tutto il suo mondo, la sua scultura improntata alla classicità: anche nelle raffigurazioni all’insegna del realismo vi è una compostezza, un’astrazione superiore legata a una forma plastica che rappresenta l’architettura ideale della figura. Ma sono significativi anche i casi ben diversi in cui Crocetti – osserva ancora Carli – “conferisce ai suoi ritratti… una tensione psichica, o un moto fisico o, meglio, fisionomico che sommuova la compostezza – non, si intenda, la freddezza o l’immobilità – dei loro lineamenti”.

Un altro critico, Floriano De Santi, dà un’ulteriore interpretazione della sua classicità: “E’ classica l’arte che compendia nella rappresentazione della forma una concezione globale del mondo, un’esperienza storica dello spazio e del tempo, del naturale e dell’umano, di cui si concede che mutino secondo i momenti e i luoghi, gli aspetti contingenti, ma non la sostanza o la struttura, cioè la storia intesa come coscienza del valore e ordine degli eventi”. E cita esempi precisi: “Così dimostrano, ‘ad evidentiam’, capolavori crocettiani quali ‘Gazzella ferita’ del 1934, ‘Giovane con l’agnello’ del 1942, ‘Bagnante che si asciuga’ del 1955, ‘Donna al fiume’ del 1969, ‘Maria Magdala’ del 1980-81 ed ‘Equilibrio armonico di una ballerina’ del 1990”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 1611154960804_CavaliereGeneve-RAI-CULTURA.jpg
Giovane Cavaiiere della Pace

E se l’arte è lo specchio della vita, in essa non potevano non riflettersi i contrasti dovuti a un’infelicità che ha accompagnato il successo sin dall’età giovanile: un successo venuto subito, quasi a compensare la tragedia familiare che lo ha visto restare orfano di madre a dieci anni e perdere il padre due anni dopo, per essere affidato alle cure dello zio paterno, muratore a Portorecanati.

E’ stata forse la reazione orgogliosa della propria volontà che gli ha fatto moltiplicare le forze e le iniziative facendo leva su un talento innato e su una grande determinazione pur dietro un pudico riserbo, tanto da far dire a Carlo Ludovico Ragghianti: “Non si riscontrano nella formazione e nel percorso di Crocetti dibattiti o crisi. Una spontaneità felice, oltre ogni difficoltà e talvolta divieto di vita specie nella prima età, ha presieduto alle origini artistiche dello scultore, chiaramente un predestinato che fin dalla pubertà ha inseguito con tensione ininterrotta, e si direbbe con serenità, la finalità scoperta fin dalla vocazione”. L’arte, dunque, come suprema rasserenatrice della vita.

E’ straordinario il suo cursus honorum, dalla prima esposizione nel 1930 a soli 17 anni, ai prestigiosi Premi a lui conferiti, alla presenza stabile nelle Quadriennali di Roma e nelle Biennali di Venezia, alle Presidenze e alle Cattedre di scultura nelle più importanti Accademie nazionali, alle grandi committenze; le sue opere si trovano nelle principali gallerie in Italia e all’estero.

“Gazzella ferita”

Questo è divenuto il mondo di Venanzo Crocetti. La sua dimensione internazionale unita al significato simbolico delle opere monumentali si può riassumere nei tour itineranti del “Giovane Cavaliere della Pace”. E’ stato esposto al Parlamento europeo di Strasburgo e al Palazzo dell’ONU di New York, e soprattutto al Museo di arte contemporanea di Hiroshima, oltre che all’Ermitage di San Pietroburgo e al Tretiacov di Mosca: cioè ovunque si volesse dare una rappresentazione plastica ed eloquente di un valore così alto come il sogno di sempre degli individui e delle nazioni. Finora irrealizzato ma mai abbandonato.

A Roma, nello studio del Maestro

Andiamo a visitare lo studio d’artista di Crocetti, è uno dei due poli della sua vita e della sua arte. Si trova sulla via Cassia, alla periferia di Roma, nei pressi della Tomba di Nerone, incorporato nella grande costruzione del Museo Crocetti; anch’essa realizzata in vita dall’artista con un’iniziativa che colpisce per il notevole impegno e la coraggiosa lungimiranza. Ci attira subito la porta d’ingresso, un bassorilievo di figure al lavoro con i segni della fatica umana. E’ risplendente nella sua patina dorata, come la “Porta dei Sacramenti”, ma invece della compostezza ieratica c’è un’agitazione febbrile.

Entriamo nel Museo come se visitassimo un mausoleo, andiamo alla ricerca dello studio come si cerca la cripta. Ebbene, non ha nulla del mausoleo, è come se l’artista ne fosse uscito solo momentaneamente, lasciando gli attrezzi e gli strumenti inattivi, ma pronti a ricominciare, in un apparente disordine nel quale bozzetti, disegni, pannelli si succedono in un happening creativo. Attira la nostra attenzione una scala per accedere alla sommità del bassorilievo in gesso recante un Angelo, la Madonna e un bambino in piedi; perché sembra un’opera in fieri alla quale manca soltanto la fusione finale per divenire capolavoro, mentre il bozzetto della “Porta dei Sacramenti” fa bella mostra di sé.

“Leonessa”

Si disvela dinanzi a noi il miracolo della creazione artistica per mezzo di quegli attrezzi, di quegli arnesi, nella collocazione casuale e insieme oculata delle suppellettili, degli oggetti personali e di quelli comuni ad ogni abitazione. Perché fuori dallo studio, dopo il vetro divisorio che consente di vederne l’interno, ci sono le opere d’arte dello scultore.

Nelle cinque sale per l’esposizione permanente del Museo, distribuite su due piani, incontriamo una folla di figure, che animano una foresta incantata più che pietrificata, dove le ballerine si mescolano agli animali e agli altri soggetti dell’iconografia di Crocetti.

Guardiamo allora i suoi animali, un filone seguito dai grandi artisti che lo hanno preceduto, senza cercare influssi e tanto meno derivazioni. Colpisce il fremito che promana dalle sculture, scattanti e vitali, dalla “Gazzella ferita”, alla “Leonessa”, ai tanti “Cavalli”, nelle loro espressioni più dinamiche, alcuni scavati come i ronzini disegnati da Salvador Dalì nelle illustrazioni del Don Chisciotte di Cervantes, laddove Marino li raffigurava fermi, quasi bloccati e comunque accomunati alla sorte tragica del cavaliere. In Crocetti nervi e muscoli sono in tensione, i corpi arcuati, le zampe protese, aggrovigliate, e anche l’immobilità sembra pervasa, si direbbe squassata, da un’irrequietezza indomabile.

“Maria di Magdala”

Ragghianti ha così commentato: “Crocetti nella composizione di figure, negli animali e specie nei cavalli infondeva un fluido continuo e incalzante, la strofe plastica si diramava come un organismo accelerato dal moto e ritmato dal respiro, e così mosso destinato a serbare per sempre l’originaria pulsante dinamica”.

Ma sono le figure umane a catturare ora la nostra attenzione, così imponenti e statuarie, ben diverse dalle figure animali. Soltanto la “Maddalena” nelle sue diverse raffigurazioni (del 1973-76 e del 1985) mostra la stessa vitalità nervosa, tutta raccolta e schiacciata come le fiere sono raccolte e pronte a scattare. Una Maddalena scarmigliata come una Erinni, che trasmette angoscia, sofferenza, disperazione, mentre le figure femminili, soprattutto le modelle, esprimono compostezza e stabilità, oltre che dolcezza, con il dinamismo represso delle danzatrici calato in un clima di assoluta serenità. E’ il tema prediletto, nel Museo notiamo almeno una diecina di queste figure, dalla “Fanciulla al fiume” del ‘34 alla “Ragazza seduta” del ‘46, dalla “Modella in riposo” del ‘64 alla “Modella che riordina i capelli” dell’’85, dalla “Maternità” del ’98 alle tante ballerine.

In tutte vi è una costante, l’equilibrio e la calma. Si sente una forza tranquilla; e soprattutto si è soggiogati dalla grandiosità. Le dimensioni, che sovrastano la statura umana fino a superare costantemente i due metri, sono tali da suggerire questa qualifica: anch’esse sono una costante della sua produzione in bronzo, resta il carattere monumentale anche nelle opere che non hanno tale destinazione. E’ un segno anche questo della sua classicità, del bisogno di rispettare canoni millenari verificati in una colta ricerca di studioso oltre che di artista.

“Ballerina

Si avverte una sensualità naturale, in quei corpi con i seni nudi nel segno di un’innocenza primigenia da paradiso terrestre. La bellezza muliebre viene celebrata come nell’antichità classica e nel Rinascimento, e torna anche per questo verso la classicità di Crocetti, la sua collocazione in una posizione certamente elevata tra i grandi maestri. Sembra che le ballerine di Degas abbiano preso forma e ci guardino dall’alto irraggiungibili, chiuse nella loro corazza di carne e insieme aperte mentre roteano i loro corpi e le loro vesti taglienti come lamine all’aria, alla natura: insomma alla vita in un’altra dimensione.

Secondo Fortunato Bellonzi prorompe la “femminilità che sopporta il peso del proprio fiore”, la “carne che già dimette le promesse acerbe, e che pare liberarsi della veste come di una costrizione” e si vede come “il timbro elegiaco marchi intimamente la carnalità abbandonata”; nondimeno “negli atti dei volti e delle membra dominano una compostezza austera, che attribuiresti al sentimento di un destino oscuro e vagamente minaccioso, e un riconoscimento costante della creatura e del suo vitalismo prorompente negli anni giovani ”. C’è come non mai la sintesi tra classicità e realismo propria dell’arte del Maestro.

Ed è in un’altra dimensione che ci sentiamo proiettati dinanzi al “Giovane Cavaliere della Pace”, grande composizione nella quale si ricongiungono i motivi di compostezza della figura umana con quelli di vitalità nell’animale, questa volta il più nobile e amato dall’artista. Ammiriamo nel giovane cavaliere che si china ad accarezzare il collo del cavallo, il cui muso sfiora il terreno per brucarne l’erba, il simbolo del valore altissimo celebrato nei posti emblematici del mondo. Vederlo nel suo Museo ci proietta nella dimensione cosmopolita che ha permesso all’artista di diffondere, attraverso quest’opera monumentale fortemente evocativa, un messaggio di fraternità universale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è maternita-wikipedia.org_.jpg
“Maternità” in Piazza Orsini a Teramo

A Teramo, tra le sculture all’aperto di Crocetti

Dall’universo mondo alla provincia abruzzese il passo è breve seguendo le orme di Crocetti. Torniamo alle origini, alla terra che ha visto i suoi primi disegni: a Teramo da dove partì per Roma. Siamo dinanzi al Municipio, a Piazza Orsini, un angolo discreto a misura d’uomo, un gioiello di arte per gli edifici che la circondano, in primis il Duomo e il Vescovado, e un lascito storico per le vicende che l’hanno attraversata.

La statua della “Maternità”, con lo splendido nudo di donna mentre solleva un bambino, che invece è vestito, è una figura solare posta all’aperto sotto gli occhi dei suoi concittadini. Ci riporta alle ballerine, alla sensualità naturale e primigenia, alla seduzione innocente. Un’ardita associazione di idee ci richiama la “Madonnina del Gran Sasso”, diversissima a prima vista per il pesante mantello che le copre anche il capo mentre il bambino ha il petto nudo, ma simile nel gesto spontaneo di protendere il piccolo in alto, quasi in un’esibizione orgogliosa.

Superiamo il Duomo quattrocentesco, romanico con segni gotici, dal campanile svettante, sappiamo che l’interno – di recente restaurato – .è di una sobrietà esemplare che ispira raccoglimento, illuminato dallo sfolgorante “Paliotto d’argento” di Nicola da Guardiagrele. C’è un bel portale d’ingresso e sul retro una scalinata che ha al culmine un secondo portale con l’“Annunciazione” di Crocetti , le cui grandi figure si stagliano nel bassorilievo guardando dall’alto ì giovani, numerosi nella città sede universitaria, che si affollano in quello che è diventato il loro luogo di raduno.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Maternita-CROCETTI.jpg
“Maternità”

E’ stata l’ultima opera incompiuta di Crocetti, completata con una colomba in alto da Silvio Mastrodascio, scultore venuto dalla montagna di Cerqueto mentre il nostro veniva dalla marina di Giulianova, provenienze nelle quali ci sembra di rivedere il camoscio con coda di sirena, marchio e iconografia della regione.

Risaliamo il Corso cittadino in questo pellegrinaggio ideale, la nostra meta è un’opera particolarmente complessa dalla motivazione superiore alla pur elevata ispirazione artistica, in quanto investe sentimenti profondi quanto sofferti impressi nella storia e nella vita di una intera comunità. Il “Monumento ai Caduti di tutte le guerre”, realizzato tra il 1960 e il 1968, non è solo un gruppo di sculture imponenti che superano i quattro metri d’altezza; è un set a cielo aperto con l’immagine di raggiunta serenità data dal “Giovane Cavaliere della Pace” al centro e di inquieta sofferenza nelle figure ai lati, che rappresentano rispettivamente i “Caduti della Terra”, i “Caduti del Mare”, i “Caduti del Cielo”.

“Monumento ai Caduti di tutte le guerre”, a Teramo (particolare)

Nelle loro immagini poste in verticale, scavate e allungate fino ad apparire innaturali, non vi è la compostezza delle ballerine né la serenità del Cavaliere, tutt’altro; un fremito nervoso scuote i corpi protesi in pose estreme come lo è il momento nel quale sono colti, sul confine sottile tra l’eroismo e il sacrificio, la sublimazione di sé per una causa superiore.

Una composizione “en plein air”, un vero Mausoleo, in cui le figure, distinte e lontane l’una dall’altra, ricompongono l’unitarietà del contenuto e del messaggio da qualunque angolo di visuale, in un tutt’uno con l’ambiente circostante, i tigli che le fanno corona, le colline che la sovrastano, il Gran Sasso che le fa da sfondo.

E qui, tornando sui nostri passi per un breve tragitto, entriamo in contatto con un’altra cospicua presenza dell’artista nella sua terra, inusuale perché non si tratta di un monumento pubblico o di un’esposizione privata.

Ci siamo passati vicino senza fermarci, la nostra meta era il Monumento ai Caduti, ma ora possiamo ammirare quella che ci piace chiamare la “piccola Loggia dei Lanzi”, l’esposizione nella terrazza-giardino della Banca di Teramo che domina la strada cui si accede dal livello superiore. Antonio Tancredi, presidente della Banca oltre che della Fondazione e realizzatore di questo Museo a cielo aperto, ci parla dei contenuti umani delle sue opere, che sono universali, come “la passione e l’amore, la gioia e il dolore, la contemplazione illuminata e l’esaltazione della vita”.

“Annunciazione”, porta posteriore del Duomo di Teramo

Alcune esprimono “lo smarrimento e l’umiltà e altre l’eleganza e la forza e altre ancora la dolcezza e la prepotenza. In tutte le figure sono impressi i modi di essere dei sentimenti e delle interiorità che si incontrano nel mondo”.

E ci rivela i contenuti umani dello scultore, suo sodale di vita, che chiamava “monaco della scultura” perché “in tutta la sua vita ha sempre cercato il lavoro, in silenzio e solitudine”. In definitiva, “un artista che non conosce pause per feste o per ferie, che non ammette distrazioni, neanche le più lecite, perché queste opere sono la sua famiglia, i suoi figli, tutto il suo mondo”. Colpiti da queste parole alziamo gli occhi alla grande scultura che ci sovrasta.

E’ il “Giovane Cavaliere della Pace”, ancora lui! Lo avevamo visto a Roma e poi a Teramo al centro del “Monumento ai Caduti”, ma qui c’è qualcosa di diverso. Notiamo il serto d’alloro sul capo che mancava nelle altre sue incarnazioni, se così si può dire, e non è un particolare secondario. Perché il viso proteso incoronato dal serto, con gli occhi febbrili, ci ricorda il giovane intenso protagonista del suggestivo film “L’attimo fuggente” nelle scene culminati della rappresentazione teatrale. Con questa preziosa variante sul tema l’artista è riuscito a precorrere i tempi, a fare del suo Cavaliere un simbolo anche per la gioventù, nella febbrile inquietudine che si affianca al sentimento di pace. A questo punto è riduttivo parlare di grandiosità delle sue opere. Si può parlare di grandezza.

Studio dell’artista alla casa-Museo Crocetti a Roma

Tag: Roma, Venanzo Crocetti

Auschwitz-Birkenau, “la morte dell’uomo”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante 

Il giorno della memoria nel 65° anniversario della liberazione di Auschwitz il 27 gennaio 1945 si inaugura al Complesso del Vittoriano a Roma la grande mostra , aperta fino al 21 marzo 2010, su “AuschwitzBirkenau”, i campi di sterminio per la “soluzione finale” con il genocidio degli ebrei, nell’orrore degli eccidi e nel degrado umano, in base a documenti, reperti, fotografie e video.“La morte dell’uomo” è la risposta che ci ha dato Bruno Vespa, in esclusiva per Abruzzo Cultura, alla nostra richiesta di fornire, lui curatore della mostra insieme a Marcello Pezzetti, una definizione che la riassumesse, quasi dovesse fare il titolo di “Porta a Porta”. Conosciuta la nostra provenienza ce l’ha data con molta cortesia, dopo un attimo di riflessione.

Abbiamo cominciato dalla fine, l’incontro con Vespa è stato nell’intrattenimento dopo la visita alla mostra su Auschwitz-Birkenau e la presentazione con le autorità, una celebrazione sobria e toccante. Ospiti d’onore, anzi veri protagonisti circondati di attenzioni e di affetto, tre sopravvissuti, tra cui il premio Nobel Elie Wiesel.

Un aggettivo e un sostantivo simboli della memoria

Due parole si ritrovano nel messaggio del Presidente della Camera Gianfranco Fini e in quello del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, che da un anno presiede il Comitato di Coordinamento per le Celebrazioni in ricordo della Shoah. Le parole sono: un aggettivo, “vivido”, un sostantivo, “monito”. Il primo si riferisce al ricordo e alle testimonianze, è vivo e livido insieme; il secondo è per il presente e il futuro, non dimenticare perché l’orrore non si ripeta.

Vivida è la testimonianza piena di sgomento per “tutti gli atti disumani” il cui ricordo, è sempre Fini, “non cesserà mai di indignarci e di turbare le nostre anime”. Atti consegnati alla cronaca prima, tanto erano visibili, alla storia poi, tanto sono laceranti, dinanzi alla vista, ha ricordato Letta, di “milioni di oggetti personali quando non di frammenti di corpi umani accatastati; volti e corpi di uomini, donne e bambini, deturpati e annientati solo perché ebrei, sinti o rom o politicamente non omologati”.

Il monito per Fini viene dalla coscienza del passato per garantire il futuro contro simili barbarie: “Considero, infatti, la memoria collettiva una conquista morale e civile per ogni Paese autenticamente democratico”. Gianni Letta si è posto in una dimensione problematica e sofferta: “Tutto ciò ad opera di persone considerate normali, comuni, e sotto gli occhi di un’umanità che non vedeva , non capiva”. In questa agghiacciante “normalità” il monito viene dalla “banalità del male” che “individua nella sospensione :della facoltà di pensare la causa del progressivo cedimento da parte di persone, del tutto normali, a compiere atti altrimenti inconfessabili, visti esclusivamente in funzione di un progetto criminale di cui non si è stati capaci di percepire la gravità”.

L’inferno e il buco nero, il monito per l’umanità intera

Evocare il “sonno della ragione” sarebbe troppo poco, viene evocato l’ “inferno”, lo fanno Gianni Alemanno e Sandro Bondi, le autorità che hanno parlato nell’inaugurazione, gli altri sono stati presenti e i loro interventi all’apertura sono messaggi scritti. Il Sindaco di Roma lo annuncia agli studenti romani che vanno a visitare quei campi di sterminio: “Ragazzi, sappiate che sarà un viaggio verso l’inferno. Andrete nel punto più buio dell’animo umano, un sorta di viaggio dantesco”.

Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali , ricordando i 1.022 ebrei romani deportati ad Auschwitz il 18 ottobre 1943, di cui solo 17 fecero ritorno, dice: che “persero la vita in quell’inferno al quale tutti noi dobbiamo avere il coraggio di volgere lo sguardo per non doverci un giorno ritrovare a riviverlo.

Il “buco nero nella storia del XX secolo” per Alemanno è “una discesa nel lato oscuro dell’umanità”, per Vespa è la rimozione fatta da una generazione per difetto di conoscenza, la mostra colmerà il vuoto. Dinanzi alle omissioni di allora l’umanità, per Bondi, “si interroga su quel silenzio, sull’impotenza di Dio” e conclude che “la risposta alle ideologie del male risiede in noi, nell’essere capaci di una conversione, un rinnovamento interno per costruire una società più umana”.

Marcello Pezzetti, curatore con Vespa della mostra, dà all’esposizione una funzione pratica: “Comprendendo i processi che dalle prime persecuzioni hanno condotto poi alla sopraffazione violenta e allo sterminio, si imparerà a riconoscere i germi dell’intolleranza al loro primo manifestarsi, onde combatterli e impedirne lo sviluppo prima che sia troppo tardi”.

Il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna sottolinea che “tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e le altre categorie giudicate ‘inferiori’, ma contro tutta l’umanità”. E conclude dicendo che Auschwitz è stato “uno spartiacque della storia. Dopo Auschwitz l’Europa è completamente cambiata, ora è retta da quei principi e quel valori che Auschwitz cercò di annientare. Il monito è per l’umanità intera”.

Il rastrellamento

Uno sguardo d’insieme alla mostra

Tutto questo si è svolto nella sala monumentale del Vittoriano, anche le parole scritte sembrano riecheggiare tra quelle colonne con i capitelli dalle volute ioniche, la platea per gli invitati e la piccola galleria per la stampa, la solenne scalinata e la quadriga con la vittoria alata dietro agli oratori che si sono succeduti a un microfono isolato, una presenza sobria e spartana come dovuto.

Parole, quelle scritte e quelle dette, che si sostanziano nelle testimonianze quanto mai vivide esposte in mostra, nelle immagini agghiaccianti che rappresentano quel monito che più di uno ha evocato. Negli ambienti dell’esposizione il monito viene dai documenti, spesso di fonte tedesca, dagli oggetti, come le lugubri divise rigate del lager, dalle lettere ricolme di tenerezza e dai tremendi elenchi di internati di una burocrazia dell’orrore; c’è anche un frammento del ghetto di Varsavia.

La visita alla mostra

Si visita la mostra in un’atmosfera tesa, tra video e filmati, si guardano le immagini, fotografie e disegni, agghiaccianti nella loro spaventosa evidenza. Ci colpiscono i disegni sulla “selezione”, fatta separatamente per donne e uomini, all’aperto, quei corpi nudi appena abbozzati sembrano ancora più inermi e indifesi nei pochi tratti che li delineano, torna subito alla memoria “se questo è un uomo”; e il tarlo dell’anima che ha fatto soccombere il sopravvissuto Primo Levi schiacciato molti anni dopo da un peso, rinnovatosi con la visita al lager, che il tempo non aveva alleggerito.

Ripensavamo al suo dramma perché, anche se in forme e con esiti diversi lo hanno vissuto tanti, forse tutti i sopravvissuti venendone fuori. Si sono rinchiusi in se stessi perché troppo grande era l’orrore per essere comunicato; c’era addirittura il timore di non essere creduti. E questo silenzio ha reso temerari i revisionisti, fino a cercare di accreditare il negazionismo, ne ha parlato Bruno Vespa.

Fino a quando si è aperta la fontana dei ricordi, il tabù è stato superato, il revisionismo-negazionismo schiacciato dall’evidenza della realtà provata e testimoniata direttamente.

L’ultima sezione della mostra è dedicata ai processi per Auschwitz, svoltisi dopo il processo di Norimberga ai più alti gerarchi per i crimini di guerra insiti nella loro responsabilità complessiva. E’ l’approdo, la dolente nemesi che giunge purtroppo tardi, quando milioni di vite sono state schiacciate, un milione nel solo campo di Auschwitz, con duecentomila bambini la cui vita è stata spenta il giorno del loro arrivo al lager.

Sono sconvolgenti quegli occhi che sembrano guardarci dalla fotografie esposte alle pareti, la “vita è bella” in un cupo bianco e nero senza finzione cinematografica è davanti a noi. Alla bestialità della guerra si aggiunge l’infamia inenarrabile dell’olocausto, il genocidio di un popolo da eliminare nell’aberrazione dell’inferiorità o superiorità razziale.

La mostra non fa salti, Ci fa ripercorrere le tappe di un itinerario allucinante per la lucida follia che lo pervade in quella “sospensione della facoltà di pensare” di cui ha parlato Gianni Letta. Birkenau, oltre Auschwitz, viene preso come espressione criminale di un disegno consapevole definito nei suoi particolari non come obnubilazione temporanea e folle. Aveva un ruolo ben preciso nel meccanismo perverso della “Shoah” nazista.

In sette sezioni, ulteriormente ripartite al loro interno, si attraversa il museo degli orrori dell’Europa prima metà del novecento. C’è il cosiddetto “sistema concentrazionario” con i suoi campi da lavoro e le sue regole, viene descritta la nascita di Auschwitz.

Dalla persecuzione degli ebrei nella Germania nazista ai ghetti polacchi, inizia lo sterminio prima in Unione Sovietica, poi in Polonia; oltre a quello degli ebrei il “destino parallelo dei sinti e dei rom”. Il piano Auschwitz-Birkenau è lo strumento perverso per realizzare l’obiettivo aberrante. A seguito del piano tali campi diventano i terminali delle deportazioni di ebrei dall’Europa e anche dall’Italia.

Nella mostra si vede come fosse pianificato lo sterminio: dalla selezione al massacro nelle camere a gas, fino al trasporto dei corpi e al saccheggio dei beni delle vittime.

La vita nel lager e le condizioni di lavoro sono ben documentate con scritti e immagini: dopo l’immatricolazione la quarantena e l’inserimento nella vita del campo, con il lavoro; poi le selezioni interne e i criminali esperimenti medici. Particolare attenzione va ai bambini e ai giovani presenti nel campo, dove ci sono anche le altre categorie perseguitate. E poi l’“arrivano i nostri”: evacuazione, liquidazione e liberazione del campo, fino alla scoperta dei crimini contro i tentativi di occultarli, infine i processi di Auschwitz. Siamo tornati al punto dal quale avevamo iniziato il giro.

Gli aguzzini nazisti

Una ricorrenza per la memoria di tutti noi e dell’umanità intera

Abbiamo raccontato la cerimonia ma non la mostra, della quale abbiamo indicato soltanto i contenuti per fugaci accenni. Lo faremo in modo più meditato di quanto consentito in una serata d’inaugurazione, ripercorrendo il museo degli orrori che rappresenta e cercando di leggere nella lucida follia che lo ha architettato le tracce del disegno delirante e del meccanismo infernale.

Oggi la cerimonia è stata un’intensa immersione in una tragedia epocale resa insostenibile dai visi dei bambini che sgranano gli occhi nelle immagini esposte. Erano così, pensiamo, i visi dei tre sopravvissuti presenti,quegli occhi potrebbero essere del Premio Nobel Elie Wiesel che tutti riveriscono. Si sente un tuffo al cuore, i morsi della memoria sono laceranti, scavano dentro.

Però per questa sera l’ingresso dell’inferno può bastare, il viaggio dantesco nella mostra lo faremo un’altra volta e lo racconteremo come sempre. Possiamo uscire a riveder le stelle. E certo, la terrazza del Vittoriano ce le presenta con la vista mozzafiato unica al mondo.

Sono le ore 20, ha smesso di piovere, attraversiamo la grande terrazza, possiamo dinanzi all’ascensore trasparente che porta in vetta al Vittoriano. Scendiamo a Piazza Venezia, non c’è più la fila davanti al palazzo per “Il Potere e la Grazia”, la grande mostra ha chiuso i battenti per questa sera.

Ci affrettiamo a tornare a casa per scrivere il servizio. Vogliamo essere sulla rivista quando sorgerà il sole del sessantacinquesimo anniversario della “liberazione” di Auschwitz, il 27 gennaio 2010.

Sentiamo il dovere di celebrare, con la solennità che merita, una ricorrenza così importante per la memoria di tutti noi e dell’umanità intera.

Tag: Bruno Vespa, Gianni Letta, Roma

4 Comments

Claudio Vespa

Postato marzo 22, 2010 alle 3:23 PM

Ogni volta che si ricordano questi eventi della Storia dell’Uomo mi tornano alla mente alcune parole scritte da un ragazzo ebreo fatto prigioniero nei campi di sterminio, rivolgendosi alla madre :
anche se il mare fosse d’inchiostro ed il cielo di carta non basterebbero a descrivere l’angoscia ed il dolore che sto provando…….

  1. Laformiotodidac

Postato gennaio 27, 2010 alle 8:30 PM

Ricci :

I ricci/
Del giorno/
Cadute a vostro piedi/
Carezzano/
Le notti/
Delle nostre memorie bruciate./

Auschwitz 3 settembre 1941, Polonia.
Di Anick Roschi

  • Francesca

Postato gennaio 27, 2010 alle 7:48 PM

la guerra e stata terribile io ho sentito le storie di Luigi Bozzato e sono terribili perfino lui piangeva a forza di parlare di quella ssua bruttissima esperienza nei campi di concentramento. ora luigi bozzato e morto a Ponte Longo il luogo in cui abitava e è morto l anno scorso 2009 . mi dispiace per tutto questo e anche luigi e spero che non si ripeta mai più questa guerra. bruttissima e stata … ciao

  • Nemo profeta

Postato gennaio 27, 2010 alle 3:42 PM

Cerchiamo di non dimenticare:
Il genocidio del popolo Palestinese ad opera dei Nazi-Israeliani;
I milioni di anticomunisti massacrati dall’Unione Sovietica;
I 70 milioni di europei morti nella seconda guerra mondiale;
I cittadini di Dresda bruciati vivi dalle bombe al fosforo;
I milioni di Giapponesi arsi dalle radiazioni atomiche;
Lo sterminio dei Kurdi;
I bambini Iracheni e Afghani vittime innocenti delle guerre democratiche;
Le migliaia di Storici imprigionati nelle galere di tutta Europa, a causa della loro ricerca sulla verità Olocaustica.
Io non dimentico!