Censis-Ares, 1. La contraffazione e le azioni di contrasto

di Romano Maria Levante

A Roma un Convegno del Censis-Ares, tenutosi nella Sala capitolare del Senato,  dedicato al problema della contraffazione e dei falsi. Lo abbiamo seguito per voi.

Questa volta il nostro viaggio alla scoperta dei lati nascosti dell’economia ci ha fatto esplorare il mondo della contraffazione. Un mondo di cui tutti hanno avuto qualche percezione, ma senza immaginarne le dimensioni, l’estensione e l’articolazione. Merito della ricerca del Censis e dell’azienda farmaceutica Ares-Aico sul tema: “Il fenomeno della contraffazione nel mondo e le ricadute sul mercato italiano – Gli scenari e le strategie di contrasto”. E’ stato analizzato un settore sempre più consistente o, per meglio dire, invadente. I risultati sono stati presentati a Roma il 22 aprile 2009 nella Sala capitolare del Senato con un’ampia partecipazione dei soggetti interessati.

Qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entra un’azienda farmaceutica, dato che nell’esperienza corrente la contraffazione sembra prendere di mira soprattutto i prodotti di lusso dell’abbigliamento; ma l’azienda è da molti anni in prima linea nell’azione di contrasto per i medicinali, azione che ha avuto successo e i cui strumenti si vorrebbero mettere al servizio degli altri settori.

Dimensioni ed estensione del fenomeno

Per rendersi conto della vastità e dell’importanza del problema basti pensare che nel febbraio 2008 si è svolto a Dubai il terzo Congresso mondiale su contraffazione e pirateria con 1200 delegati provenienti da novanta paesi, nel quale si è constatato il continuo aumento del commercio illegale e l’utilizzo di metodi e strumenti sempre più efficaci per sfuggire ai controlli. La contraffazione rappresenta ormai il 7% del commercio mondiale, per un valore di 200 miliardi di dollari, cifra inferiore al totale perché non comprende i prodotti distribuiti entro i territori nazionali e via Internet.

Il continuo, tumultuoso sviluppo degli scambi internazionali portato dalla globalizzazione, come l’ingresso sul mercato di nuovi paesi, ha rappresentato un fattore di crescita anche di questo tipo di commercio fino a determinare effetti negativi perfino a livello macroeconomico, oltre che sui settori maggiormente investiti. A ciò va aggiunto il fatto che i contraccolpi non sono limitati al campo economico e commerciale, ma toccano la sicurezza dei consumatori per la non affidabilità dei prodotti contraffatti soprattutto nel farmaceutico e alimentare, nel meccanico e in qualche prodotto di abbigliamento. Non manca l’ulteriore ripercussione negativa di favorire la criminalità organizzata, un racket di trafficanti inseriti in una rete che opera sul piano internazionale.

In base a questi primi elementi non sfugge la necessità e insieme la complessità della lotta a un sistema ramificato nei diversi settori e paesi che di volta in volta sono produttori di merci contraffatte o consumatori e, in taluni casi, produttori e consumatori. E’ questa la situazione dell’Italia come produttore per l’esistenza di una vasta economia sommersa e per la presenza di marchi di eccellenza allettanti per la contraffazione; come consumatore per una certa propensione da parte della domanda verso alcune tipologie di beni contraffatti.

Quest’ultima tendenza finora non ha suscitato particolari preoccupazioni, se non sotto il profilo economico-commerciale; adesso l’allarme si è accentuato per le minacce alla sicurezza dei consumatori in settori come il farmaceutico, l’alimentare e l’elettromeccanico.

La contraffazione si manifesta in diversi modalità. In particolare riguarda i casi in cui a un prodotto sia stato apposto senza autorizzazione un marchio commerciale identico ad uno generalmente utilizzato per lo stesso tipo di prodotto, o un marchio che si confonde facilmente con l’originale; oppure quando venga modificata l’identità merceologica usando materiali e procedimenti diversi da quelli prescritti e con cui viene commercializzato: è il caso dell’abbigliamento e parti di ricambio, alimentare e farmaceutico.

Si parla invece di pirateria quando si introducono prodotti che riproducono, senza consenso del titolare del diritto, quelli protetti dai diritti sulla proprietà intellettuale: è il caso del “software” e dei mezzi audiovisivi, Dvd, Cd, cassette, ecc.

Le vie della contraffazione

Passando al “lato oscuro della globalizzazione”, come lo chiama la ricerca, viene evidenziata la “maggiore difficoltà dei controlli” causata dalla liberalizzazione degli scambi, il formarsi di “cartelli criminali a livello internazionale dediti ad ogni tipo di traffico”, “la diffusione delle tecnologie informatiche e digitali che hanno reso più semplice e meno costosa la riproduzione dei marchi e dei beni”. Ma alla base del fenomeno c’è soprattutto “la delocalizzazione della produzione, ovvero l’allocazione di parti o dell’intera produzione in paesi di nuova industrializzazione, soprattutto asiatici e dell’Est europeo”.
Fasi consistenti del processo avvengono, infatti, fuori dall’azienda madre, anche a distanza di migliaia di chilometri; e questo favorisce la cosiddetta “filiera del falso” che va dalle materie prime al “know how” e produzione, fino alla commercializzazione finale, situata in paesi diversi.

Ne consegue la disseminazione del “know how” originario che entra in possesso di un numero sempre maggiore di soggetti, in grado di realizzare merci del tutto identiche alle originali. In questa situazione avvengono fenomeni che spiegano i fatti altrimenti incomprensibili dinanzi agli occhi di tutti. Seguiamo sempre la ricerca: “La produzione di un bene falso, pertanto, può avvenire sia all’interno degli stessi laboratori che producono per le imprese legali, sottoforma di sovraproduzione degli ordinativi; oppure, più di frequente, può essere realizzata altrove, da parte degli stessi operai che hanno lavorato in passato o ancora come ‘faconer’ in laboratori che producono per l’impresa madre o, ancora, può essere fatta da individui che, semplicemente, entrano in possesso di un bene o cercano di riprodurlo”.

I percorsi vengono definiti “tortuosi”, cambiano più volte i documenti di trasporto, il vettore e spesso l’imballaggio, la merce va al consumo “attraverso canali diversi per due tipi di mercati, a seconda che i prodotti siano destinati a consumatori inconsapevoli o ad acquirenti consenzienti”.

Il primo è il “mercato primario della contraffazione”, che si avvale della catena distributiva legale con o senza il consenso interessato del commerciante.

Il secondo è il “mercato secondario della contraffazione”, che si avvale di canali “paralleli” a quelli ufficiali in cui “l’acquirente consapevole decide intenzionalmente di acquistare merce contraffatta ad un prezzo inferiore”; le sue dimensioni dipendono “in larga parte dalla differenza di prezzo del bene contraffatto rispetto a quello genuino, nonché dal tipo di prodotto”. E’ evidentemente bassa o nulla la domanda consapevole di beni contraffatti dove si richiedono rigidi standard di sicurezza (farmaceutici, alimentari, giocattoli), alta per gli altri prodotti (Cd e Dvd, abbigliamento).

In settori come quello del “lusso”, l’azione di contrasto è ostacolata dal fatto che “l’acquisto può essere legato alla volontà di possedere un oggetto di marca, alla volontà di emulazione” di una classe sociale alla quale si crede di “poter accedere senza sopportarne il costo”; e al fatto che spesso c’è la complicità dei commercianti regolari “nel vendere falsi a prezzo maggiorato o venderli a costi ridotti”. Da un’indagine effettuata nel 2006 negli Usa e in Canada è risultato che “i commercianti mischiano le merci contraffatte con quelle originali e puntano sul basso costo dei prodotti falsificati per attrarre la clientela. In questo modo i negozi al dettaglio hanno aumentato le vendite di vestiti, giocattoli, prodotti farmaceutici, bevande, tabacco, gioielli e profumi”.

La situazione in Italia

Il nostro paese è tra i più esposti dal lato della produzione e anche del consumo per i motivi prima accennati. Il mercato interno del “falso” nel 2008 ha “fatturato”, per così dire, 7 miliardi e 107 milioni di euro, senza considerare le “esportazioni”; di questi 2,6 miliardi di euro nell’abbigliamento e accessori, 1,6 miliardi nei Cd, Dvd e “software”, 1,1 miliardi negli alimentari. Sono stime riferite ai risultati delle operazioni delle forze dell’ordine, oltre 61.000 nel 2007, con 39.000 sequestri per 71 milioni di prodotti da parte della polizia e 17,5 milioni ad opera delle dogane, con oltre 14.300 persone denunciate, 21.300 multate e 1.522 arrestate.

Appare minima la contraffazione nel settore farmaceutico soprattutto per l’azione di contrasto che si avvale della “tracciabilità” dei medicinali mediante un procedimento realizzato in collaborazione con le aziende farmaceutiche e la partecipazione diretta dell’Ares-Aico, in prima fila nelle iniziative per la sicurezza; il risultato è il “bollino farmaceutico” che utilizza le tecniche antifalsificazione delle “carte valori” della Zecca. Nel Convegno, l’Ares-Aico ha illustrato anche il progetto SI.T.R.I.S. per l’estensione della “tracciabilità” di ogni fase agli altri settori investiti dalla contraffazione.

Questi elementi sono stati forniti dal direttore del Censis, Giuseppe Roma, e commentati dal presidente De Rita che ha rivendicato di avere scoperto in passato il sommerso, ma di aver dovuto constatare che si è fatto poco per combatterlo. Crede però che non subirà la stessa sorte la contraffazione, perché “ci invade ovunque ed entra nella nostra vita”, ha una rilevante importanza sociale ed alimenta la criminalità, per cui non si può fare a meno di combatterla con forza; il problema è che lo si può fare finora essenzialmente a livello nazionale, mentre è un “reato di globalizzazione” che richiede un’azione di contrasto su scala internazionale.

Per gli altri promotori della ricerca il presidente dell’Ares, Franco Staino, ha sottolineato l’allarme crescente dato dal fatto che la contraffazione “ha superato il livello artigianale di piccola serie per divenire una grande impresa multinazionale”. I principali requisiti per un’efficace azione di contrasto sono una legislazione adeguata e l’integrazione dei soggetti interessati. Va promossa un’azione di tipo anche culturale che possa portare a un sistema fornito delle tecnologie più avanzate come quelle utilizzate per la “tracciabilità” dei medicinali con il “bollino farmaceutico”.

“La caratteristica di questo sistema – secondo l’Ares – è quella di fornire al produttore, senza gravare sui processi produttivi, l’identificazione univoca ed unica dei dati di ciascun prodotto garantendolo in ogni passaggio distributivo fino al dettagliante,. oltre alla possibilità per il consumatore di accertare l’originalità del prodotto, prima e dopo l’acquisto, attraverso una semplice telefonata, un messaggio sms o via web”.

Confidando di poter arrivare a un simile risultato, per ora l’azione di contrasto si avvale dei normali mezzi a disposizione delle forze dell’ordine. Ne ha dato conto il col. Vittorio Di Sciullo, Comandante gruppo marchi, brevetti e proprietà industriale della Guardia di Finanza, che ha definito la contraffazione “reato plurioffensivo verso lo Stato, le imprese, il mercato, il consumatore”. Viene combattuta cercando di risalire lungo la filiera anche per recuperare i proventi della tassazione mancata. Si elabora una precisa strategia ai livelli più elevati e l’attuazione è affidata ai 700 reparti territoriali; in ogni provincia c’è un “gruppo tutela mercato di beni e servizi”. Le unità speciali si muovono sulla base delle direttive generali collegate alle strategie di contrasto.
La complessità di questa azione appare evidente dal fatto che passano per le dogane cinque milioni di operazioni all’anno, delle quali viene controllato il 5%; L’individuazione dei soggetti da controllare avviene attraverso i documenti di trasporto, la provenienza e destinazione e il canale di distribuzione, in contatto con gli organi competenti. Nel 2008 gli interventi sono stati 16.000, con 95 milioni di prodotti sequestrati, 32.000 denunce e 1300 arresti. “La contraffazione può minare la società civile – ha concluso il col. Di Sciullo – ci sono punte di eccellenza che vanno difese”.

E’ stato presentato da Teresa Alvaro, direttore area centrale per le tecnologie all’Agenzia delle Dogane, uno schema dei modi sempre più stringenti con cui si attuano le strategie di contrasto. Il “progetto Falstaff” è un sistema multimediale che utilizza strumenti tecnologici particolarmente avanzati, alimentato da Dogane, Associazioni di categoria, aziende e anche consumatori per il riconoscimento dei prodotti originali; il risultato è la segnalazione con un semaforo, di via libera o di stop per il controllo della merce all’ingresso in Italia. Si punta a “globalizzare la frontiera tecnologica della Dogana con la tracciabilità e rintracciabilità dei prodotti”.

Sul piano normativo, in materia doganale c’è l’armonizzazione a livello di Unione Europea comunitario, con l’Agenzia delle Dogane organo competente a intervenire alla frontiera. Normative specifiche riguardano i diversi settori interessati dalla contraffazione. La legislazione italiana risulta tra le più avanzate nella repressione, in materia penale si considera reato contro la fede pubblica con la reclusione che, tuttavia, nei casi più gravi non supera i tre anni; d’altra parte nel 2005 sono state inasprite le sanzioni per il consumatore consapevole della contraffazione, con la multa fino a 10.000 euro, “particolarmente gravosa e tale da scoraggiare l’effettiva comminazione della pena”.

Il disegno di legge sullo sviluppo prevede misure di innalzamento della pena per chi produce e distribuisce merce contraffatta con l’introduzione di aggravanti e la confisca dei beni riconducibili al reato; e l’abbassamento delle multe al consumatore forse perché, aggiungiamo, se è consapevole si tratta per lo più della forma di contraffazione che non è pericolosa per la sicurezza e la salute.

Se andiamo poi a guardare quello che la ricerca chiama “il quadro delle competenze”, troviamo una pluralità di istituzioni investite dell’azione di contrasto. Interessata a livello complessivo è la “Direzione generale per la lotta alla contraffazione” presso il Ministero dello sviluppo economico nel quale si prevede di istituire anche un “Consiglio nazionale anticontraffazione” con i soggetti pubblici e privati interessati. Questo Consiglio dovrà coordinare le competenze specifiche che vanno dal “Comitato nazionale antipirateria” e “Comitato per la tutela della proprietà intellettuale” presso la Presidenza del Consiglio dei ministri ai “Desk anticontraffazione” dell’Istituto Commercio Estero ai “Delegati per gli accordi sulla proprietà intellettuale” del Ministero Esteri alle “Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale” del Ministero Giustizia, all’“Ispettorato per il controllo della qualità dei prodotti agroalimentari” del Ministero politiche agricole, alla “Direzione generale farmaci e dispositivi medici”, “Agenzia italiana del farmaco” e “Dipartimento del farmaco” nell’ambito del Ministero Lavoro e Salute, fino alla “Direzione generale beni librari e diritto d’autore” del Ministero Beni culturali. Gli organismi direttamente impegnati nel contrasto sono i Carabinieri del Nas, “Nucleo antisofisticazioni”, e la Guardia di Finanza, nonché l’Agenzia delle Dogane con l’ “Ufficio antifrode centrale”.

Il Censis ha stimato, sulla base della tavola di Leontiev delle interdipendenze strutturali, la perdita derivante dalla contraffazione, perché le risorse impiegate dai consumatori si disperdono in canali clandestini e quindi si sottraggono al circuito economico ufficiale. La produzione aggiuntiva che si avrebbe se il fatturato dei beni contraffatti fosse riportato al mercato legale sarebbe dell’ordine di 18 miliardi di euro, con un valore aggiunto di 6 miliardi che corrisponde a un’occupazione di 130 mila unità; il gettito delle relative imposte sarebbe dell’ordine di 5 miliardi di euro, pari al 2,5% del totale di quelle corrispondenti. Naturalmente si tratta di stime basate su ipotesi di distribuzione secondo le interdipendenze dei settori interessati con il resto dell’economia; utili comunque per rendere la dimensione di un fenomeno certamente di notevole rilievo.

Le forme di contraffazione nei settori critici per la sicurezza dei consumatori

Piuttosto che soffermarci su questi dati, forniamo indicazioni sulle modalità della contraffazione nei tre settori considerati in modo specifico dalla ricerca ai fini della sicurezza dei consumatori.
Nell’alimentare avviene attraverso la commercializzazione di sostanze diverse dal dichiarato sostituendo il prodotto con un altro non conforme in contenuto e in valore. Nei primi 11 mesi del 2008 i Nas hanno sequestrato 8 milioni di prodotti confezionati per un valore di 150 milioni di euro.

Con l’“adulterazione” si sottraggono sostanze a un alimento (latte scremato venduto come intero), con l’“alterazione” se ne modificano i caratteri (lo “spunto” del vino), con la “sofisticazione” si sostituiscono i componenti con altri meno pregiati (olio di semi all’olio di oliva). Si tratta di “commercializzazione di prodotti di rango inferiore come se appartenessero ad un livello superiore”. Poi c’è la falsificazione dell’identità merceologica, dell’età e dell’origine geografica, facilitata dal fatto che le produzioni di cui è protetta l’origine rappresentano meno del 10% del fatturato del settore. Nel mercato estero c’è la forma insidiosa di contraffazione di tipo “imitativo”.

I rimedi proposti si dividono tra il potenziamento dell’intera filiera alimentare per una distribuzione capillare e controllata e l’irrigidimento di normative e controlli con informazione adeguata al consumatore.
Nei ricambi auto la contraffazione avviene attraverso la commercializzazione di prodotti spesso fatti di materiali scadenti o tecnologie non adeguate e senza controlli di qualità, con gravi rischi per i consumatori. La dimensione del fenomeno è ancora modesta (0,2% del totale), ma allarma il fatto che dal 2006 al 2007 i pezzi sequestrati siano decuplicati (da 13 mila a 133 mila).
In genere si ha la “violazione del marchio” che si manifesta o con prodotti che imitano nell’aspetto l’originale oppure con prodotti difformi facilmente riconoscibili; a queste pratiche si associa la contraffazione del “codice” o “certificato di omologazione” e della sua “dichiarazione di origine”.

L’interesse alla contraffazione si ha quando c’è una vasta domanda, è un ricambio di uso frequente, facile da riprodurre quindi a bassa tecnologia, con un processo produttivo poco costoso. La fonte prevalente di questi prodotti è la Cina, con altri paesi asiatici, mediante rilevanti movimenti di “container” e una serie di artifici per superare i controlli, ad esempio trasferendo in Italia l’ultima fase. La difficoltà nel riconoscere ai controlli i prodotti contraffatti richiederebbe l’introduzione in questo settore della “tracciatura” come per i medicinali. Il rischio per la salute, anzi per la vita, è assimilabile. L’estrema frammentazione del loro mercato di offerta in Italia accresce tali pericoli.

Nei farmaci si intende contraffatto, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “il farmaco la cui etichettatura è stata deliberatamente e fraudolentemente preparata con informazioni ingannevoli circa il contenuto e l’origine del prodotto”. Le situazioni sono molto diverse. Si va dai “falsi perfetti” identici in tutto, solo su canali illeciti spesso favoriti dalle stesse aziende madri, ai “falsi imperfetti” con farmaco somigliante ma meno principio attivo; dai “falsi solo in apparenza” – singolare definizione dei farmaci simili a quelli autentici ma senza principio attivo – ai “farmaci criminali” con sostanze nocive; ma pensiamo siano “criminali” anche quelli senza principio attivo per il danno, spesso irrimediabile, arrecato alla salute del paziente che crede di curarsi mentre ciò non avviene. Infine le patacche complete, farmaci diversi dagli originali e senza principi attivi.
Per una felice circostanza in Italia la contraffazione dei farmaci è pressoché inesistente, gli unici pericoli per il consumatore possono venire da Internet o dai canali clandestini, ma si tratterebbe di acquisti estremamente incauti. Peraltro il fatto che gran parte del costo è a carico del servizio sanitario nazionale e non del privato consumatore toglie interesse ad acquistare a prezzi più bassi.

La gravità dei rischi della contraffazione in questo campo ha portato al sistema di “tracciabilità” del farmaco con il “bollino farmaceutico” di cui si è detto, adesivo a prova di falso nato per impedire le frodi nei rimborsi permesse dai “fustelli” sulle scatole di medicinali, e perfezionato – in collaborazione tra Poligrafico-Zecca e l’Ares-Aico – lungo l’intera catena distributiva, secondo le direttive dell’Unione Europea ai fini dell’azione di contrasto ai medicinali contraffatti. E’ un sistema unico al mondo che richiede, a pieno regime, il collegamento alla banca dati dei farmaci anche di farmacisti e grossisti, oltre che delle aziende farmaceutiche e di distribuzione già inserite.

Ha dato atto di tutto questo il prossimo ministro per la Salute, attuale vice ministro Ferruccio Fazio, prospettando il rischio dei “falsi vaccini e falsi antibiotici”, un grave pericolo se si abbassa la guardia nel contrasto alla contraffazione e se i consumatori si affidano agli acquisti su Internet, dove il sistema di “tracciabilità” che protegge il consumatore nei canali ordinari non può operare. Dal 2003 c’è una nuova procedura e dal 2006 il sistema è attivo, la sua andata a regime fu prevista in tre anni, tenendo conto anche dello smaltimento delle scorte esistenti.

La “contraffazione legalizzata” nell’alimentare

Ma c’è un altro fenomeno rilevante, ed è stato messo a nudo dal deciso intervento al Convegno del presidente della Coldiretti. Sergio Marini ha mosso le acque scagliandosi contro quella che ha definito “contraffazione legale”, cioè consentita dalle norme vigenti. E qui non sono al lavoro gli oscuri trafficanti ma imprese regolari che si avvalgono dei varchi lasciati dalla normativa per operazioni non dissimili nei risultati dalla contraffazione ma ammesse.

Si tratta, in particolare, della possibilità, nel settore alimentare, di porre etichette di “made in Italy” su produzioni industriali derivate da prodotti stranieri, basta compiere in Italia l’ultima operazione, anche se di entità molto limitata (come l’imbottigliamento o l’insacchettamento). Almeno cinque su sei produzioni, apparentemente italiane, derivano invece dalla trasformazione di prodotti stranieri.

E’ evidente, ha sottolineato Marini, che “l’origine deve essere la campagna dove si preleva il prodotto agricolo di base, e non lo stabilimento dove si compie solo un’operazione spesso marginale. Una normativa che ridefinisca l’origine non è distorsione della concorrenza, tutt’altro”.

Dello stesso tenore l’intervento del Ministro delle politiche agricole Luca Zaia, anch’egli impegnato a denunciare che in Italia, e soprattutto all’estero, ci si imbatte di continuo in produzioni che per l’etichetta sono italiane ma con il prodotto agricolo di base coltivato all’estero. Ha detto di battersi per la “tracciabilità completa dell’intero processo produttivo” al fine di certificarne l’origine; per definire regole comuni, in sede di Organizzazione mondiale del commercio, in grado di tutelare l’origine così definita; per misure da decidere in sede di “G8 agricoltura” atte a garantire la qualità anche ai fini della sicurezza alimentare”.

Le difficoltà nel contrasto a livello di consumatori

E’ una situazione in cui i “buoni”, cioè le imprese che per altri versi sono danneggiate dalla contraffazione, diventano “cattivi”, cioè creano essi stessi le condizioni per cui questa si determina. La percezione di tutto ciò non è estranea a quella che Giuseppe De Rita, nella presentazione della ricerca, ha definito “la poco diffusa consapevolezza da parte dell’opinione pubblica dei danni economici e sociali della contraffazione, che vengono considerati solo in concomitanza di episodi di cronaca eclatanti su cui si appuntano, di tanto in tanto, i riflettori dei media”.

Lo stesso Ministro dello sviluppo economico Claudio Scaiola, nel cui dicastero c’è la direzione generale dedicata alla lotta alla contraffazione, ha scritto a sua volta che questa è “vissuta dalla stragrande maggioranza della popolazione come un ‘fenomeno di costume’, un’ ‘infrazione veniale’, quasi un atto di solidarietà sociale nei confronti di soggetti bisognosi”. Come sono quelli utilizzati nella distribuzione e vendita clandestina.

Ne deriva che uno dei “fronti” della battaglia, sempre nelle parole del Ministro, è “la sensibilizzazione delle diverse fasce di consumatori, a partire dai più giovani”. Gli altri due fronti sono: “l’inasprimento e la rigida applicazione delle sanzioni”, coinvolgendo la Guardia di Finanza, le Dogane, le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato; “il rafforzamento della collaborazione a livello internazionale , per garantire la tutela del ‘made in Italy’ nel mondo”.

Occorrerà esplorare anche l’altra faccia della luna, della quale la “contraffazione legalizzata” negli alimentari è solo una piccola parte. E’ un fenomeno particolarmente complesso, ci ritorneremo presto.

Alessandro Baricco, Eugenio Scalfari, Sergio Escobar e la cultura, al Teatro Eliseo

di Romano Maria Levante

Abbiamo seguito per voi il dibattito al Teatro Eliseo di Roma.

Una maggioranza di uomini di teatro passionali e rumorosi, una sorta di fossa dei leoni per Alessandro Baricco era la platea del Teatro Eliseo, a Roma, il pomeriggio del 25 marzo 2009. Con lui sul palco un Eugenio Scalfari in gran forma, Antonio Pilati dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e uno scatenato Sergio Escobar, da vent’anni direttore del mitico Piccolo Teatro di Milano. Moderatore il padrone di casa Vincenzo Monaci presidente dell’Eliseo, che non si è fatto mancare qualche frecciata ad Escobar, immediatamente ricambiato. Il soggetto era stimolante: “Lo spettacolo è finito? Il futuro della cultura in Italia tra finanziamenti pubblici e iniziativa privata”, gli interpreti all’altezza, una vera “piece” teatrale dal vivo. Si attendevano scintille, e ci sono state tra gli uomini di teatro e Baricco; Scalfari ha riproposto pacatamente, ma con decisione, la propria tesi, mentre Escobar con la sua foga è riuscito a trascinare la platea.

Abbiamo potuto godere appieno dello stimolante incontro-dibattito, il terremoto non aveva ancora devastato la terra d’Abruzzo e i suoi giacimenti culturali, si poteva discutere dei modi migliori per finanziare e promuovere la cultura; ora l’emergenza è recuperare e salvare un patrimonio di valore inestimabile, fatto di chiese e monumenti, biblioteche e archivi, piccole abitazioni e palazzi, e del Teatro Stabile dell’Aquila diretto da Alessandro Gassman che, come Pamela Villoresi ha detto al Festival della spiritualità, ha fatto la storia del teatro italiano negli ultimi cinquant’anni, e alla cui rinascita gli artisti intendono partecipare fattivamente con il loro contributo e il loro sostegno. Per il resto, l’intero mondo della cultura si mobiliterà subito in questo immane compito, ne siano certi.

La tesi di Baricco

Esposta con tono sommesso, quasi una riflessione a voce alta, anzi sussurrata come è nel suo stile di affabulatore e fine dicitore, la sua linea di pensiero, di cui al lungo articolo su “Repubblica” del 24 febbraio 2009, è sembrata quasi ovvia, sul filo di un sillogismo. Perché è partito dalla constatazione che il sistema complessivo dell’uso del denaro pubblico a sostegno della cultura è in crisi, e ne ha potuto parlare come operatore culturale che lo conosce dall’interno; non è uno stato di sofferenza transitorio, quindi superabile, “il sistema non è più al passo dei tempi, vanno quindi trovate nuove strade per impiegare in modo più efficace le risorse”. Ma prima si devono capire le ragioni della crisi, il che vuol dire “misurarsi con i tempi nuovi e con le realtà che abbiamo sotto gli occhi e fingiamo di non vedere; in modo da individuare gli errori ed essere disponibili a correggerli entrando nella nuova dimensione dell’oggi”.

E allora è andato a vedere le origini dell’attuale sistema di sostegno e finanziamento pubblico, ed ha illustrato i tre principali obiettivi e le motivazioni che ne sono alla base. Il primo è stato l’esigenza di rompere il privilegio della cultura di una classe, la borghesia, perchè l’accesso fosse aperto a più vaste fasce di popolazione; negli anni ’50, in particolare, ci si dava da fare perché la cultura si diffondesse nel paese. Il secondo, la preoccupazione che il mercato ne abbassasse il livello, per cui era necessario un intervento pubblico a sostegno della qualità con finalità educative verso la popolazione. Il terzo, il desiderio di legittimarsi di una democrazia giovane, dando ai propri cittadini gli strumenti culturali per assumere le responsabilità e progredire sul piano della civiltà.

Una semplice verifica fa capire, secondo Baricco, che non sono stati raggiunti. L’allargamento dell’accesso alla cultura, se progressi sono stati fatti, non è dipeso dall’azione pubblica ma da fenomeni accaduti “nel campo aperto del mercato” e in “ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente”; l’obiettivo è stato mancato perché “chi oggi non accede alla vita culturale è raggiungibile soltanto attraverso due canali, la scuola e la televisione”, campi che invece vengono trascurati”. E’ stata creata l’anomalia di “sistemi di capacità minima dominati dal finanziamento pubblico che è diventato una sorta di proprietario unico, soprattutto nel teatro”. Le risorse dedicate alla cultura oltre che essere insufficienti sono indirizzate nella direzione sbagliata, quindi non sortiscono l’effetto sperato. E’ come se “inseguissimo i singoli quando si sono dispersi in mille direzioni”, invece di agire quando sono riuniti e pronti a recepire il messaggio. “Non c’è sintonia tra ciò che vogliamo e ciò che facciamo, e questo determina un notevole spreco di risorse”.

Ne deriva il fallimento degli altri due obiettivi, quello di un elevato livello qualitativo, impossibile senza concorrenza e per le scelte non certo qualificate della “filiera di intelligenze e saperi – così nell’articolo – che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico passando per i vari assessori”; e l’obiettivo della crescita culturale dei cittadini come legittimazione democratica, molto fragile se si sono sviluppati fenomeni deteriori ed ha “ceduto la grandiosa diga”, è stata “aggirata la grandiosa cerchia di mura” che si credeva di aver creato con i soldi dei contribuenti.

Si deve pensare a un “paesaggio diverso” con strumenti più efficaci e strategie adeguate. “La battaglia per la cultura si deve combattere nelle scuole e in televisione”, dove vanno destinate le risorse perché il loro impiego risulti efficace, ha ribadito. Nello stesso tempo vanno rimosse quelle posizioni di rendita che poggiano sui finanziamenti pubblici, come avviene nel teatro in modo da farlo uscire dal suo immobilismo e metterlo sul mercato in sintonia con i tempi. “Al mercato va restituita la cultura, gli operatori privati possono fare molto dove la mano pubblica ha fallito”, ha concluso: e non ci si deve scandalizzare se si può fare business con la cultura, anzi si deve promuovere questo processo incanalando risorse pubbliche per incentivarlo.

La posizione di Scalfari

Laddove Baricco è stato didascalico e consequenziale, sviluppando un discorso fatto di premesse e conclusioni, Scalfari è stato apodittico e pragmatico. Ha precisato la risposta uscita su “Repubblica” del 27 febbraio 2009 mettendo sul piatto il peso della sua esperienza di operatore culturale nel senso imprenditoriale del termine. E’ partito dalla tiratura di 15.000 copie di “Il Mondo”, negli anni ’60, molto limitata anche se al giornale veniva riconosciuta una particolare autorevolezza; per estenderla si passò negli anni ’70 all’“Espresso”, che in fasi successive giunse a 250.000 copie, nel segno di un liberalismo di sinistra vicino al socialismo nel solco del partito d’azione. Molte cose cambiarono, la diffusione aumentò soprattutto con il nuovo formato più ridotto, quello attuale da settimanale rispetto al precedente da quotidiano. Ci furono conseguenze sui contenuti, sulla “forma del pensiero”: “Il pensiero è come l’acqua – ha detto – non ha forma, ma assume quella del contenuto”.

Il passo ulteriore fu “Repubblica”, completamente diversa dal settimanale, per acquirenti e “gesti d’acquisto”, la cui diffusione ha superato le 700.000 copie vendute. Si può vedere nell’escalation da 15.000 a 700.000 copie il passaggio da un’intelligenza di elite a un’intelligenza di massa? si è chiesto. Questa la sua risposta: nei confronti con la televisione si tratta pur sempre di piccoli numeri, se tutti i giornali non raggiungono il 35% della share televisivo, ma il linguaggio è diverso, rapidità e passaggio repentino da un tema all’altro nella Tv, con un effetto più effimero; il giornale invece può evidenziare la notizia con la grafica e il lettore può approfondirne la conoscenza riprendendolo in mano, riflettendo.

L’intelligenza di massa, secondo Scalfari, “non può essere vista come azione per portare tutti allo stesso livello, ma per fornire a tutti gli strumenti in grado di farli crescere”. Non è mai avvenuta neppure in passato una simile promozione, che va considerata velleitaria. C’era l’“agorà”, il teatro per una elite, il popolo era oppresso o schiavo. Una minoranza guidava la città anche quando la schiavitù fu abolita, e questo avvenne soltanto 200 anni fa. La massa non andava oltre la sussistenza, la lotta per la sopravvivenza prevaleva su tutto. Ma anche oggi che la situazione è radicalmente mutata “si può pensare all’intelligenza di massa soltanto con un’azione profonda di redistribuzione del reddito e della ricchezza a tutti i livelli”.

Finché non si saranno raggiunti risultati in questa direzione, ha aggiunto, dobbiamo salvaguardare il patrimonio culturale che ci è stato consegnato anche con mezzi artificiali, dato che non avviene in modo spontaneo; perché il teatro, ad esempio, non attira le masse, limitandoci ai tempi moderni ha 150-200 anni di storia recente, mentre per il cinema è diverso, ha solo sessant’anni di vita. Una rappresentazione teatrale come quella di “Ifigenia” va fatta vivere anche se attira poco pubblico – ha affermato con forza – “perché anche le minoranze hanno diritti che vanno tutelati”.

Si ha il diritto a quel tipo di spettacolo, che è autentica cultura, sebbene il privato non lo farebbe mai perché la scarsità di pubblico lo renderebbe antieconomico. Strehler faceva teatro con meno di 500 posti, dava Brecht anche se controcorrente e poteva farlo, per nostra fortuna, ha detto. Il necessario sostegno dei contributi statali non va visto come soggezione al potere pubblico ma come mezzo per assicurare il diritto delle minoranze alla cultura. E ha concluso, in modo un po’ sconsolato: “L’intelligenza di massa purtroppo si sviluppa anche con le cose scadenti, si spera che con gli anni o i secoli passi a un maggiore impegno”.

La puntualizzazione di Pilati dell’Antitrust e l’attacco di Escobar

Da Pilati, componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, è venuta una puntualizzazione tecnica, quasi un “break”. I contributi pubblici non sono ammessi perché violano il principio di parità nella concorrenza ma si ricorre all’“escamotage” di ammettere delle deroghe, cioè eccezioni giustificate da esigenze superiori. La cultura fa scattare la deroga, ma l’eccezione non deve stravolgere il sistema di regole: si deve trattare di cultura in senso stretto e gli aiuti devono essere distribuiti in modo omogeneo nel settore, commisurati ad obiettivi chiari, precisi e verificabili.

“Nel teatro – ha precisato – questo spesso non avviene, mancano gli obiettivi e si viola il principio di parità tra i soggetti, cosa che preoccupa il Garante della concorrenza”. La conservazione del patrimonio culturale, giustamente propugnata da Scalfari, riguarda pochi casi, e i finanziamenti al cinema in crisi negli ultimi trent’anni hanno distorto il mercato perché, raggiunto il risultato economico prima di andare nelle sale, non ci si preoccupa di mettere in atto tutte le iniziative promozionali e di mercato. In gran parte le riflessioni di Baricco sull’inutilità dei finanziamenti al teatro, sempre per Pilati, nascono da fatto che “la formazione delle idee, piuttosto che nel teatro, prima è avvenuta attraverso il cinema, poi è passata alla televisione; la crescita culturale, per quanto c’è stata, si è avuta con il cinema e la televisione, non con il teatro”.

L’attacco di Sergio Escobar, con il carisma datogli dalla direzione ventennale del prestigioso Piccolo Teatro di Milano, parte da lontano: “Mi preoccupa tutto ciò che ricorda l’influenza sulla cultura e sul pensiero della gente”, Baricco ragiona per paradossi e quando si entra in quel labirinto è difficile uscirne: “Come si può parlare di libero mercato al quale sottoporre le attività culturali se si ammette comunque che sono necessari i finanziamenti pubblici? E poi oggi è proprio il libero mercato a battere alle porte dello Stato. Perfino i liberali, ormai, si sono rassegnati a un sempre più penetrante intervento pubblico nell’economia, e nella cultura non se ne può fare a meno”.

L’intenzione di Baricco è positiva e così la sua provocazione – aggiunge – anche se la sua posizione sembra “bizzarra”: “Perché invece del teatro non attacca i finanziamenti all’editoria alla quale vanno oltre 700 milioni di euro, il doppio di quanto va al teatro? Solo la Mondadori ha avuto 29 milioni di euro nel 2007 per le attività editoriali, a fronte dei 19 milioni ricevuti da tutti i Teatri Stabili pubblici”. Ma c’è di più: “Alla Rai vanno fondi pubblici otto volte di più del teatro”.

In Francia ben 6 miliardi di euro sono destinati alla cultura, dei quali 500 milioni al cinema, mentre all’editoria la metà di questa cifra; negli Usa non c’è università senza un teatro. In Italia si assiste ad una dispersione in mille rivoli, sono ben seicento i soggetti che vengono finanziati nello spettacolo.

Si avverte l’esigenza indifferibile di abolire i finanziamenti senza riferimento a obiettivi precisi e verificabili, come abbiamo richiesto finora invano – ha detto Escobar – precisando: “Dall’istituzione del Fondo unico per lo spettacolo, nel 1984, chiediamo alla politica, ai governi, persone in carne ed ossa, di assumersi la responsabilità di finalizzare quei contributi e quel sostegno. Non si è fatto niente perché in venticinque anni sono cambiati quindici ministri, messi lì per punizione”.
Su questa base si è lanciato in una forte requisitoria contro gli errori e gli abusi, le assurdità e le irregolarità: per superare tutto ciò si dovrebbe voltare pagina e destinare i finanziamenti a chi fa veramente cultura realizzando gli obiettivi fissati. Il teatro è la sede culturale per eccellenza.

Poi la breve replica di Baricco. Cita una serie di anomalie nei finanziamenti pubblici alla cultura, in particolare ai Teatri Stabili. La sala si anima, un teatrante sfoga nel microfono la sua rabbia con un lungo monologo. Ma il tempo disponibile si è esaurito, il pubblico lascia la platea dell’Eliseo, il teatro si riappropria del suo spazio magico. Sta per andare in scena l’“Amleto” di Shakespeare…

Le altre posizioni nel dibattito sulla stampa

La discussione pubblica al Teatro Eliseo non ha esaurito il dibattito sulle questioni sollevate da Baricco, che si è svolto sulla carta stampata con l’intervento di molti protagonisti dello spettacolo.

Ne facciamo una rapida rassegna iniziando con la dura replica di Vincenzo Cerami, già ministro ombra per la cultura del Partito Democratico: “Ciò che lui auspica si sta già verificando. Lo Stato…ha già messo in ginocchio, con il taglio al Fondo unico dello spettacolo, la musica, il teatro, la danza, il cinema… già più di 400 teatri sono stati chiusi, e con loro molti centri di prestigio in tutti i settori della cultura, dagli istituti musicali ai Conservatori, alle biblioteche, alle piccole e medie aziende che lavorano nel settore”. Mentre nei principali paesi europei sono messe a disposizione della cultura risorse pubbliche “tre-quattro volte” più che da noi.

Per Cerami va respinta l’idea di aprire ai privati, “non c’è corsa a investire nella cultura, come lui crede. Scuole, università, teatri, musei, biblioteche, archivi non si guadagnano da vivere. Per compiere la loro missione civile, per aiutare, devono essere aiutati”. Però aggiunge che “esistono sprechi e che il denaro viene distribuito male”, e nel ritenere necessari gli aiuti pubblici “non mi riferisco a sovvenzionamenti a pioggia o discrezionali, ma a risorse da investire con oculatezza e spirito imprenditoriale”; “il futuro della nostra cultura deve entrare, al pari delle altre emergenze nazionali, nel ciclo delle grandi riforme che il paese aspetta e di cui si avverte un forte e urgente bisogno”. Sembra non contestare la diagnosi di Baricco sull’esigenza di rivedere il sistema, ma prende le distanze dall’idea di togliere l’aiuto pubblico al teatro per darlo a scuola e televisione.

L’editore Laterza ha difeso l’aiuto al teatro e alle altre forme di cultura che non potrebbero reggersi altrimenti, evidenziando “il ritorno per la collettività di una manifestazione culturale, che si aggiunge a elementi immateriali come il pluralismo delle idee, il senso della comunità, l’identità e la promozione del territorio”. Neppure lui è per il mantenimento dello “status quo”, e afferma che “per dare al teatro (come alla lirica o alla danza) un sostegno efficace, serve una discussione seria sul quanto e soprattutto sul come, con quali criteri e quali controlli. E non è affatto detto che la prova del mercato sia incompatibile con un ragionevole aiuto pubblico, ad esempio nella fase iniziale di un’attività”.

Gigi Proietti ribadisce la richiesta di una discussione su come rivedere il sistema: “Il teatro da solo non può farcela. La gestione dei teatri ha costi enormi. Ma parliamone. Baricco, apriamo un dibattito non dico con tre B ma almeno con una”.
Anche un uomo di teatro come Luca Barbareschi, pur se molto critico della tesi di Baricco, ammette che occorre cambiare: “Il sistema dello spettacolo in Italia non va rotto, come dice lui, va risistemato come in Francia, Germania, Inghilterra, ora perfino in America: l’intervento dello Stato ci vuole. Chi deve andar via è la politica che ha egemonizzato poltrone, denari, tutto”.

E il presidente dell’Eti Giuseppe Ferrazza: “Su alcuni punti mi trovo d’accordo con Baricco. Sono convinto che la diffusione della cultura deve essere a largo raggio”. Ma aggiunge: “Non sono d’accordo però a lasciare tutto in mano al mercato, non è possibile perché ci sono delle tipologie di teatro che vanno protette”; quelle – aggiungiamo – che Scalfari identifica in “Ifigenia” rivendicando come minoranza il diritto alla loro salvaguardia anche se alla maggioranza non interessano.

Per l’Agis, il presidente Alberto Francescone ha avanzato una richiesta: “Bisogna fare una riforma del settore ormai necessaria, ma prima vogliamo il ripristino del Fus ai livelli minimi del 2008.

Il presidente dell’Associazione imprese teatrali di produzione aderente all’Agis, Roberto Toni, è esplicito: “Per lo spettacolo l’equilibrio tra costi e ricavi non è quasi mai possibile, né qui ne altrove, lo sa bene Baricco”. E pone la domanda retorica: “La questione è: lo spettacolo è elemento fondante della cultura di un paese e della sua crescita civile? Se sì, lo Stato se ne faccia carico ridisegnando il sistema, selezionando i soggetti, definendo criteri e regole per investimenti mirati. Noi che il teatro facciamo, da qualche decennio, questo chiediamo con insistenza e non da oggi”, in linea con quanto dichiarato da Escobar alla stampa e ribadito nel dibattito all’Eliseo.

Dario Fo, con la sua autorità di Premio Nobel per la letteratura e uomo di teatro afferma: “Ci vogliono regole trasparenti, per rispetto anche del pubblico. Ma sul finanziamento non si discute: anzi in Italia la percentuale del Pil alla cultura è dieci volte inferiore alla media europea”.

Gabriele Lavia è molto aspro: Tuonare contro il sistema teatrale italiano… mi sembra come assestare il colpo di grazia ad una creatura agonizzante, che ha tanto bisogno di vivere”.

Ancora più aspro Nicola Piovani: “Una sciocchezza così non l’avevo mai sentita”, mentre Franca Valeri ironizza: “Che idea scherzosa!”

Severo il giudizio del regista Maurizio Scaparro: “Le premesse e le considerazioni di Baricco sono condivisibili, ma le conclusioni sono invece pericolose e forse devastanti. Per il teatro e non solo”.

Per Carlo Giuffrè “senza finanziamenti mancherebbe il pane”, mentre Paolo Poli commenta serafico: “Baricco dice quello che vuole e noi continuiamo a lavorare. Ho visto passare tante stagioni, buone o cattive. Spero di resistere anche a questa.

Un’adesione a Baricco viene da Riccardo Muti, che da sempre si batte per molti punti da lui sollevati: “In particolare la centralità della scuola fin dalla tenera età, il potenziamento dei programmi formativi che attraverso la televisione sono in grado di raggiungere anche le persone più lontane e isolate, e la formazione di giovani musicisti, sono tutti ambiti dove è necessario il sostegno delle istituzioni pubbliche. Così come ci vorrebbero più risorse private perché potrebbero ridare nuova linfa ad un mondo che ha davvero bisogno di una vera ‘rivoluzione mentale’.”

Salvatore Accardo entra ancora di più nello specifico musicale: “Baricco scrive giusto quando parla di dare soldi alle scuole: la musica va imparata e insegnata fin dai banchi di scuola. E’ vero che ci sono sprechi nei teatri con le loro produzioni faraoniche ma non è così, per esempio, per la musica da camera e le istituzioni concertistiche che andrebbero sostenute dallo Stato”.
Sul versante del cinema Paolo Sorrentino regista di “Il Divo” – film di qualità che non si sarebbe realizzato senza il contributo pubblico – ha affermato: “Concordo con Baricco quando dice che vanno cambiati gli obiettivi culturali per sostenere scuola e Tv. Ma devono cambiare anche le regole di questo sostegno, liberarlo dalla politica”.

Franco Zeffirelli interviene polemicamente: ”Bisogna finirla con queste elemosine di Stato ai teatri. Servono decisioni radicali… Negli Stati Uniti o in Inghilterra lo Stato non si occupa della cultura, che è gestita solo dai privati.. L’idea che il teatro e la cultura debbano essere gestiti dal privato e non dai governi io l’ho nel cuore da decenni… Misurarsi col mercato spingerebbe le varie sovrintendenze a fare spettacoli di successo…Per i teatri di prosa si può pensare a un supporto pubblico” anche se “chi decide se un testo vale la pena di finanziarlo o no? Gli assessori? E’ difficile…”. Poi cita l’esempio di successo del Metropolitan di New York: “Fornisce un servizio costante, non costa niente allo Stato e produce cultura eccome”.

Alcune considerazioni a margine del dibattito

Ci sembra che nessuna delle posizioni che abbiamo riportato difenda il sistema attuale, mentre molte respingono il proposito di eliminare i finanziamenti pubblici dalle varie forme di spettacolo, in primo luogo il teatro, per spostarli su scuola e televisione, lasciando operare il mercato e l’iniziativa privata. La diagnosi viene sottoscritta da tutti, nella terapia Baricco resta isolato, anche se Zeffirelli è dalla sua parte, pur se da una posizione del tutto autonoma: “Lo dico da decenni”.

Ma se è così vale la replica di Baricco affidata a “Repubblica”del 4 marzo 2009: “In qualsiasi sistema bloccato, che ha fissato le sue regole e tracciato dei confini, quel sistema è l’unica possibilità: tutto il resto è sogno”. E ancora più esplicitamente entrando nello specifico: “Fare il teatro lirico in un modo diverso da quello usato dallo Stato attualmente è impossibile fino a quando lo Stato farà il teatro lirico in quel modo con la scusa che in altri modi è impossibile”. Segue un altro esempio: “Nessuno può fare meglio dei Teatri Stabili in un mondo con i Teatri Stabili: ma nessuno può dire che questo sarebbe impossibile in un mondo senza Teatri Stabili”.

Osserviamo che una simile constatazione si può fare per altre fonti di spesa, tutte quelle che hanno una loro inerzia e si autoalimentano perdendo il riferimento non soltanto agli obiettivi, come denunciato da più voci, ma spesso anche alla ragion d’essere. In effetti, per rifondare il sistema, volendo mantenere i necessari contributi pubblici, non ci si può limitare a ridurre e spostare marginalmente le attuali sovvenzioni mantenendo il loro carattere “a pioggia”, ma si deve ripartire da zero. Come avveniva con il cosiddetto “zero base budget” che fu introdotto nel bilancio federale Usa dal presidente Carter. Sarebbe inutile effettuare tagli continuando a finanziare realtà compromesse, occorre azzerare tutto e ricostituire il sistema ex novo, con finanziamenti congrui conferiti secondo il “ranking”, una graduatoria basata sulla qualità dei programmi, finché la “cut off line” segna l’esaurimento delle risorse e l’esclusione di quelli di livello inferiore ai prescelti.

L’efficacia sarebbe garantita dalla riduzione drastica dei soggetti percettori e dal sostegno delle forme veramente efficaci di promozione culturale con verifica del raggiungimento degli obiettivi; perché anche per i finanziamenti degli anni successivi opererebbe lo “zero base budget” con il “ranking” e la “cut off line”, quindi gli esclusi potrebbero rifarsi, in una competizione che è garanzia di qualità. Per risolvere il problema di chi valuta i programmi e fa la graduatoria, aspetto determinante per l’efficacia del sistema – non certo gli “assessori” giustamente temuti da Zeffirelli come da Baricco – si potrebbe ricorrere a commissioni con dei garanti di livello internazionale.

Ma a parte questa proposta venuta a noi per associazione di idee con le tecniche di bilancio, ci chiediamo come mai Baricco, che identifica nella televisione il campo su cui concentrare le risorse perché lì si svolge la battaglia per la diffusione della cultura, essendo la comunicazione per eccellenza cui tutti hanno accesso, non la include tra i settori da sottoporre a una radicale revisione, quella dei due suoi esempi appena citati? Perché si fanno le bucce al teatro per evidenziare sprechi, inefficienze e mancato rispetto degli obiettivi culturali impliciti nei finanziamenti pubblici che riceve, e non le si fanno alla televisione, o meglio a quella parte della Tv, la Rai, che riceve un cospicuo finanziamento pubblico per svolgere un’opera di elevazione culturale? Quando è questa la legittimazione data dalla Corte costituzionale alla devoluzione ad essa del canone perché “diversa” dalle Tv commerciali a ragione dell’impegno culturale, canone che i cittadini sono obbligati a pagare come imposta? All’Eliseo il solo Escobar ha evocato il problema della Rai, l’“ombra di Banquo” del dibattito anche se l’“Amleto” e non il “Macbeth” è andato in scena subito dopo.

Ancora più espressamente ne ha parlato Giovanna Melandri, da poco responsabile per la cultura del Partito Democratico, che per questo citiamo in chiusura dopo aver aperto la rassegna delle posizioni con il precedente ministro ombra di tale partito, Cerami. Secondo la Melandri, la diagnosi di Baricco è corretta, non solo per le critiche al sistema su cui tanti hanno convenuto, ma anche perché “è nella scuola e davanti alla Tv che si forma la cittadinanza culturale, il pubblico”, ma la cura è sbagliata in quanto “colpisce il bersaglio sbagliato”. E prosegue: “Mi spiego: la scuola ha subito un taglio di 8 miliardi di risorse, quest’anno, in Tv abbiamo 1,5 miliardi di canone, che legittima il servizio pubblico, una tassa di scopo, quindi il bersaglio della critica di Baricco doveva essere la Gelmini e la Tv pubblica, la più grande industria culturale italiana che abbiamo trascurato nella sua totalità, concentrandoci solo su informazione e par condicio, quando non sappiamo cosa sia… devi leggere ai bordi dello schermo per capire se è Rai o Mediaset. E invece Baricco se l’è presa con il Fus, che con i suoi 360 milioni di euro aiuta, da solo, tutto il mondo della produzione culturale italiana”.

In questa conclusione della Melandri sentiamo riecheggiare le parole di Escobar all’Eliseo sull’enormità dei fondi alla Rai rispetto al teatro,il solo spettacolo colto con attori vivi e presenti senza mediazioni artificiali. Così ne ha parlato il grande coreografo del “teatro totale”, Micha Van Hoecke, alla presentazione del Festival della spiritualità ricordato all’inizio: “Se vado in chiesa è per cercare Dio, avere un rapporto con la divinità; se vado in teatro non c’è una luce che entra dall’esterno come in chiesa, le luci si abbassano, c’è qualcosa che parla alla mia coscienza, c’è un che di magico, sono seduto e devo viaggiare. Cos’è il senso di spiritualità che c’è nel teatro? Sono le persone che lo fanno vivere. C’è un’anima per queste serate”. Poi lo ha preso la commozione fino alle lacrime. Questo è il teatro da sostenere, la sua umanità e la sua spiritualità; la sua cultura.

E allora non possiamo non riproporre, scusandoci dell’autocitazione, quanto abbiamo prospettato di recente in questa Rivista su “La Rai, un servizio pubblico da rivedere”, portando la linea di Baricco alle logiche conseguenze sulla televisione, che resta l’elemento centrale della sua tesi. Il “ranking” dello “zero base budget” andrebbe applicato pure al palinsesto Rai, e la “cut off line” potrebbe davvero escluderne gran parte, così si renderebbero disponibili per la cultura nuove ingenti risorse!
Il nostro articolo appena citato lo abbiamo dato a Baricco sul palcoscenico dell’Eliseo, parlandogliene brevemente. Ci ha detto con un sorriso cortese: “Lo leggerò”. Restiamo in attesa.

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Censis, La crisi economica del 2008 e la provincia italiana

di Romano Maria Levante

Nel “Diario dell’inverno di crisi” del 7 marzo 2009, a distanza di un mese dalle dichiarazioni del presidente De Rita che abbiamo riportato come nota di speranza a conclusione del nostro precedente articolo in materia, il Censis ha riproposto notazioni controcorrente rispetto al clima catastrofico.

Non vengono negate le evidenze macroeconomiche, anzi sono citati l’aumento di cinque volte della cassa integrazione rispetto al mese precedente per il calo dell’occupazione, la previsione della Banca d’Italia di diminuzione del Pil del 2,6% nel 2009, il crollo dei consumi, la caduta delle Borse.
Ma non se ne traggono conclusioni distruttive, anzi si afferma che “una lettura indistinta della situazione, come quella oggi più diffusa, rischia di suscitare un disorientamento generalizzato e controproducente ai fini di un’auspicabile reazione collettiva”.

La crisi non è generalizzata ma “a mosaico”

Quanto ora riportato nasce dalla constatazione che “per il momento la crisi si presenta ‘a mosaico’, è concentrata soprattutto in alcuni focolai, ci sono, cioè, settori produttivi, territori e categorie di soggetti più esposti e sotto pressione di altri”. Constatazione che accade di fare nella vita di tutti i giorni. Il Censis fornisce dei dati che misurano fenomeni verificati “de visu”: nella stagione invernale sono cresciute le presenze in montagna del 6%, a febbraio sono state ordinate 220 mila nuove auto, il 4% in più che nello stesso mese dello scorso anno, i risparmiatori sono aumentati del 9,3%, la raccolta bancaria ha superato i valori precedenti raggiungendo 1.784 miliardi di euro.

Vuol dire che la crisi è di entità contenuta? Certamente no, sono in gravi difficoltà i gruppi di rilevanti dimensioni: le grandi banche, con le pesanti ripercussioni sul finanziamento dell’economia, le grandi imprese che mettono in cassa integrazione i lavoratori diretti e in più travolgono l’indotto di produzione e di lavoro. Tengono ancora le piccole realtà imprenditoriali, ma non ci si deve illudere, perché se la crisi va avanti si potrebbe avere un effetto domino, una “compressione a catena”.

Ecco la spiegazione di De Rita: “Fino a poco tempo fa ci rimproveravano di essere poco europei, con un’economia basata su piccole imprese, ci accusavano di essere afflitti da un egoismo diffuso. Ebbene, questo policentrismo ci sta salvando, o perlomeno sta attenuando l’impatto della crisi”.

Si tratta di una visione inguaribilmente ottimistica, ben accetta dinanzi alle cattive notizie che giungono ogni giorno? Oppure è una visione altrettanto realistica, da un punto di osservazione diverso, che non va sottovalutata né tanto meno ignorata? Non dobbiamo attendere la risposta dagli eventi, perché la validità dell’approccio del Censis sta nelle indicazioni per rispondere alla crisi con interventi mirati; le azioni intraprese su scala generale, indotte dall’emergenza, non sono in grado di cogliere e valorizzare i punti di forza su cui far leva né di isolare i punti di debolezza da attaccare per rimuovere le cause negative che accentuano la crisi frenando le possibilità di ripresa.

Analizzeremo meglio il policentrismo “a mosaico” dopo aver richiamato l’effetto di appiattimento della globalizzazione, ad esso si deve se “il Paese non è allo sbando ma procede verso una razionale distribuzione dei rischi”.

Minacce e opportunità nella dimensione globale

Iniziamo col ricordare che la crisi non è nata dall’economia, che è la struttura, ma dalla finanza che è la sovrastruttura, e si è poi riversata sull’economia. Il tutto è avvenuto a livello globale, a partire dal “credit crunch” innescato da quel grande paese che sono gli Stati Uniti, e lo sono nel bene e nel male, tanto debordanti appaiono le dimensioni dei successi passati come dei fallimenti attuali. Si diceva “è un’americanata” quando qualcosa era spropositata, inusuale e improponibile al nostro livello; ora le americanate vengono da noi, ripetiamo nel bene e nel male, e quando lo sono nel male non piove ma diluvia, anzi arriva il diluvio universale, non c’è mare agitato ma maremoto, anzi lo tsunami finanziario, e ora anche economico e produttivo.

Perciò dobbiamo trovare isole a cui ancorarci, picchi su cui attestarci, aree difendibili in cui trincerarci. Non vi sono zone protette con la globalizzazione, c’è l’omologazione, ma ognuno vi porta caratteristiche e peculiarità che non vengono spianate se non nei fattori sovrastrutturali, e la finanza è tra questi, perché restano gli elementi identitari e differenziali da valorizzare.

La globalizzazione, dunque, ha causato la diffusione endemica per cui la crisi da americana è diventata internazionale, quindi nazionale. L’Italia ne è colpita in modo pesante, come pesanti sono le ripercussioni sul piano produttivo e occupazionale. Ma quando vogliamo misurare questa crisi non dobbiamo fermarci alle quotazioni azionarie che, con le dimensioni inusitate dei crolli su tutti i mercati, riflettono aspettative negative e comportamenti amplificati dal clima depressivo diffusosi a livello globale; oltre che da eclatanti episodi negativi, i fallimenti avvenuti o annunciati di grandi istituti bancari e assicurativi e di megaimprese di scala mondiale, in particolare in quel settore-arcipelago che è l’automobile.

Pur nella loro gravità non riflettono, tuttavia, un collasso generalizzato dei cosiddetti “fondamentali”, i fattori cioè che attengono alla tenuta del tessuto produttivo sul piano dell’efficienza e della competitività; altrimenti non si verificherebbero all’unisono per tutti i settori, i titoli, le piazze borsistiche. Anche perché i ripetuti crolli si associano a condizioni mai come adesso favorevoli per l’economia: tassi di interesse tendenti allo zero, inflazione praticamente scomparsa, costi delle materie prime e delle fonti di energia bassissimi, il petrolio costa meno di un terzo di un anno fa, e potremmo aggiungerne altri. E’ vero che i livelli “favorevoli” sono dovuti alla situazione gravemente “sfavorevole” dell’economia e della finanza, ma sussistono; e allora cosa manca per la ripresa produttiva se i fondamentali ci sono?

Manca la domanda di consumo, è la ovvia notazione, tanto che i paesi fanno il possibile per riavviarla. Ma a questo c’è il rimedio keynesiano del “deficit spending”, che ha consentito di superare le crisi congiunturali, pur se a costo di un aumento dell’indebitamento. Un “deficit spending” interno focalizzato su grandi interventi infrastrutturali, come fu la “Tennessee Valley Authority” nel New Deal della Grande depressione Usa; per noi si è parlato persino del Ponte sullo Stretto di Messina tra le altre grandi opere, si faranno davvero?

Ma il “deficit spending” si potrebbe adottare altresì a livello internazionale, con un piano Marshall per l’Africa, l’America Latina e le altre aree sottosviluppate dell’Asia e del pianeta. C’è un elemento nuovo che potrebbe favorire le iniziative in tali paesi: l’“Information Economy Report 2007-08” dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, ha segnalato che negli ultimi tempi il “digital divide”, cioè il divario nelle tecnologie di comunicazione e informazione dei paesi sottosviluppati, si sta restringendo soprattutto grazie ai telefoni cellulari e alla disponibilità crescente di Internet, sebbene sia ancora modesta. Gli abbonati ai servizi di telefonia cellulare sono almeno triplicati negli ultimi cinque anni nei paesi in via di sviluppo e ora rappresentano circa il 58% del totale degli abbonati nel mondo: “In Africa, dove l’aumento in termini di numero di abbonati alla telefonia mobile e di penetrazione è stato il maggiore, questa tecnologia può migliorare la vita economica dell’intera popolazione”, si legge nel rapporto. Si afferma inoltre che “i cellulari sono il principale strumento di comunicazione per le piccole imprese nei paesi in via di sviluppo, riducendo i costi e aumentando la velocità delle transazioni”, perché “la telefonia mobile fornisce informazioni di mercato, e ne migliora il reddito, a varie comunità”.

Inserendo le aree arretrate nel circuito dello sviluppo si supererebbe l’incubo degli economisti classici, cioè lo “stato stazionario”, e non è detto che non si sia innestato nella crisi creata dalle dissennate follie finanziarie consentite dalla “deregulation” selvaggia sui mercati. Lo stato stazionario è la situazione che si crea nelle economie opulente con i consumi saturi, per cui l’aumento del reddito si lega al sempre più scarso aumento della popolazione e alla scoperta di nuove terre. Le nuove terre scoperte corrispondono alla conquista del West che diede avvio al miracolo americano; il nuovo Far West per l’economia globale saranno le vaste aree di povertà del pianeta, che potranno compensare i minori consumi delle aree opulente, incapaci di svilupparsi all’infinito.

Come finanziare un tale Piano Marshall? Alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale non mancano gli strumenti, tanto più che la crisi finanziaria si può superare soltanto con misure reali in grado di collegare di nuovo finanza e moneta al lavoro e al reddito; dopo l’impazzimento dei derivati e dei “future”, degli “hedge funds” e dei titoli tossici con i quali ci si è illusi di produrre denaro attraverso denaro senza l’intermediazione del lavoro e della produzione. In questo la globalizzazione può essere un antidoto, come è stata causa dell’epidemia divenuta pandemia; in questo sono insostituibili le misure internazionali e nazionali e le decisioni a livello multilaterale che non dovranno più essere prese nel G8 ma nel G20 divenuto finalmente realtà.

Il ruolo dell’eccellenza nella dimensione territoriale

Se questo può essere un effetto positivo della globalizzazione a livello mondiale, sul piano nazionale c’è l’altra dimensione che si sta rivelando decisiva nella crisi: il “mosaico” a livello locale che consente di resistere, evitando il contagio e mobilitando le energie degli individui e della società.

E’ la dimensione territoriale individuata dal Censis, che si colloca tra quella nazionale della macroeconomia infettata dalla globalizzazione e quella privata della microeconomia troppo debole per resistere; le ultime due sono le uniche dimensioni nelle quali viene in genere misurata e letta l’economia, astraendosi dal fattore forse fondamentale, un’astrazione dannosa perché porta a misure generalizzate e non calate sulle specifiche realtà territoriali.

Afferma il Censis: “Il messaggio diffuso, che attraversa anche i media e le dichiarazioni istituzionali, è di grande apprensione per la congiuntura economica. Me è un messaggio che contiene, più o meno implicitamente, un invito al disimpegno, poiché sembrerebbe che nessun comportamento individuale possa modificare la situazione attuale, anzi proprio la modifica dei comportamenti potrebbe innescare una spirale di crisi ancora peggiore”. Invece “nel territorio risiede uno dei fattori caratterizzanti l’ultima vincente metamorfosi nazionale che, negli anni della modernizzazione industriale (gli ormai lontani anni 60 e 70) ha completamente mutato la struttura produttiva del paese, formato una nuova classe dirigente, ricostruito e dato coesione a un diverso sistema di aggregazioni sociali”.

Quali sono, dunque, gli elementi di punta di un territorio “eccellente”? La ristrutturazione produttiva, che sarà richiesta ancora di più per la crisi, dovrà far leva su realtà locali diverse dagli ambiti amministrativi; e il Censis ha identificato ampie regioni urbane dette “big cities” considerandole “potenziali fattori per una seconda decisiva metamorfosi della società italiana”.

Il territorio è un valore per lo sviluppo dell’“economia dell’accoglienza”, forse sottovalutato per l’enorme abbondanza di capitale territoriale che porta a trascurare realtà meritevoli di maggiore considerazione perché potenziali fattori di sviluppo. Si pensi al paesaggio e ai beni culturali che formano un tutt’uno se gestiti convenientemente insieme alle tradizioni, fattore trainante notevole. E’ vero che nel territorio, pur con la sua forte identità, non vanno trascurati i fattori di competitività interna ed internazionale; ma la sua valorizzazione deve essere il frutto di azioni che s’innestano su un terreno fertile e tanto più suscettibile di sviluppo quanto più viene dissodato e coltivato con cura. E qui le suscettività locali vanno potenziate ed esaltate.

Come valorizzarle? Innanzitutto dando ai poli territoriali una dimensione adeguata, promuovendo le complementarità e le convergenze in modo da creare fattori di concentrazione e reti di interconnessioni. Poi con un’organizzazione efficiente, che richiede l’adesione della comunità ai beni collettivi come cosa comune, unita all’azione per reperire le risorse necessarie, favorita da tale adesione. In questo va stimolata la formazione di una cultura collettiva che, basandosi sulle risorse esistenti sul piano delle preesistenze paesaggistiche e artistiche, ambientali e architettoniche, abbia la capacità di mobilitarne di nuove in vista di un ritorno economico non solo possibile, ma si può dire molto probabile sulla base delle esperienze vissute. Il federalismo fiscale potrebbe fare la differenza se orientato in direzione della crescita, con la drastica eliminazione di ogni spreco e inefficienza attraverso la responsabilizzazione nelle entrate, premessa di quella nelle spese.
Naturalmente la polarizzazione territoriale deve riguardare l’offerta qualificata, ma per la domanda occorre rivolgersi agli ambiti più vasti, nazionali e soprattutto internazionali, valorizzando specificità e identità come fattori competitivi e mai come elementi di esclusione e di arroccamento.

In questo quadro il campanilismo e gli egoismi locali, che hanno già rallentato l’unificazione del paese – il Censis ricorda che fummo definiti “pura espressione geografica” piuttosto che Nazione – possono compromettere l’azione da svolgere a livello territoriale per resistere alla crisi. Occorre invece avere strategie comuni che soddisfino o medino i diversi interessi e delle “leadership” di prestigio che possano svolgere un effetto trainante senza creare posizioni dominanti, perché inserite in un sistema che opera in modo corale.

L’ultimo requisito per la valorizzazione del territorio è il non essere monosettoriali ma sapere integrare diverse vocazioni, e in questo senso va orientata l’individuazione degli ambiti territoriali da promuovere.
Con le suddette condizioni si realizza l’“eccellenza”. Non è una previsione ma una constatazione, perché è il risultato della ricerca sul campo mediante la quale il Censis ha esplorato le aree che hanno saputo utilizzare tali ingredienti, le ha individuate e misurate con criteri e metodi appropriati.

I territori definiti di “eccellenza” sono quelli che “si preparano a reagire per primi alla crisi” e producono un quarto del Pil nazionale; comprendono 1759 comuni con circa 15 milioni di abitanti, ogni comprensorio raggruppa in media 13 comuni e 450 kmq di superficie, con circa 100.000 abitanti. Ne sono stati individuati 161, classificati per fasce, di essi 71 sono aree produttive, 65 aree di accoglienza e 25 poli dell’innovazione e della logistica.

I fattori identitari legati al territorio sono meno vulnerabili e rappresentano un ancoraggio rispetto agli elementi volatili della globalizzazione. Essi sono, sotto il profilo produttivo una produzione di qualità meno esposta ai prodotti globali, sotto il profilo dell’accoglienza il capitale culturale e paesaggistico come veicolo della produzione del reddito, sotto il profilo tecnologico la qualità innovativa.

Per l’“eccellenza produttiva”, in particolare, conta la riconoscibilità della vocazione settoriale, la capacità organizzativa della produzione, la proiezione esterna e soprattutto internazionale; per l’“eccellenza nell’accoglienza” l’esistenza di una politica di manutenzione e tutela del paesaggio e valorizzazione delle qualità ambientali, la presenza di iniziative pubbliche e private per le produzioni tipiche e la cultura locale, la diffusione di una cultura amministrativa e imprenditoriale volta a migliorare l’organizzazione e i servizi turistici, un livello adeguato di accessibilità del territorio; per l’“eccellenza tecnologica” l’essere realtà d’avanguardia aperte al contesto internazionale, cioè centri pubblici e privati per la ricerca scientifica e tecnologica e per la sanità di qualità, l’alta formazione nei settori innovativi, le attrezzature per l’attività fieristica e la logistica.

Sulla ubicazione di questi territori e sul loro grado di eccellenza le classifiche del Censis sono precise, illustrate da apposite cartine.
Per la produzione, dei 71 territori “eccellenti” 39 sono al Nord, 24 al Centro e solo 8 al Sud; per l’accoglienza, dei 65 territori selezionati 22 sono al Nord, 20 al Centro e 23 al Sud; per l’innovazione, 18 al Nord, 4 al Centro e 3 al Sud. Ci limitiamo a evidenziare che il Gran Sasso figura sia tra le aree di eccellenza nell’accoglienza, insieme al Parco nazionale d’Abruzzo, sia tra i luoghi di eccellenza nell’innovazione con i Laboratori. Nell’eccellenza produttiva l’Abruzzo è presente con la Val Vibrata a Teramo e Casoli a Chieti, inoltre con San Benedetto del Tronto e Ascoli Piceno riferite anche a Teramo.

Considerazioni conclusive sulla crisi

Rispetto alla crisi – osserva il Censis sulla base dell’indagine svolta tra il 22 gennaio e il 4 febbraio 2009 presso testimoni privilegiati nei territori – “nella gran parte delle realtà analizzate prevale presso gli attori locali la sensazione di essere di fronte ad una congiuntura negativa che si sta facendo sentire solo in termini di calo dei consumi. Non producendo significativi effetti sul tessuto produttivo e occupazionale locale”. E aggiunge: “A ben vedere, esiste presso i protagonisti del territorio una fiducia diffusa rispetto alle capacità di ripresa che nasce dalla consapevolezza di come il tessuto locale sia in definitiva sempre in grado di tirare fuori il meglio, anche nei momenti peggiori”.

Non che sottovalutino la crisi e il suo probabile aggravamento; ma hanno già definito con razionalità le spese da ridurre, e sono quelle non essenziali, per cui non la temono e si preparano a resistere senza reazioni scomposte. “Del resto – prosegue il Censis – guardando ai comportamenti che prevalgono quotidianamente, l’indagine ci parla più di un aggiustamento della capacità di spesa delle famiglie, che non di reazioni di fronte a situazioni emergenziali”; in altri termini, “comportamenti di carattere cautelativo, orientati ad un maggiore risparmio da parte delle famiglie, dall’altro maggiore razionalità ed equilibrio, tramite il ridimensionamento dei consumi e del tenore di vita”. E, ancora più esplicitamente: “La sensazione che emerge guardando i dati è che presso gli attori locali prevalga comunque la fiducia verso la capacità di risposta di un sistema locale, che poggia su basi solide, e che negli ultimi anni ha dato prova di sapersi adattare e muovere nei nuovi scenari globali, mostrando come la piccola dimensione sia per molti versi la più adatta a fronteggiare i cambiamenti repentini cui sono esposte le società odierne”.

In questo quadro, presentato a Mantova il 13 febbraio 2009, non sorprende la conclusione di De Rita basata sul più recente “Diario dell’inverno della crisi” dello scorso 7 marzo, citato all’inizio: “L’idea che gli italiani stiano danzando sul Titanic è sbagliata. Denotano invece una grande capacità di rispondere alla situazione avversa”. Nel loro “freddo pragmatismo” sono aiutati, oltre che dalla dimensione locale nella quale vi sono le isole territoriali di eccellenza, dalla loro tradizionale capacità di risparmio; per merito della quale, aggiungiamo noi, al record mondiale negativo dell’elevatissimo debito pubblico corrisponde quello positivo di un indebitamento privato delle famiglie molto contenuto.

Inoltre il tanto bistrattato familismo costituisce una protezione provvidenziale dalla endemica carenza di servizi, dal precariato diffuso e dagli insufficienti ammortizzatori sociali, deficienze che con la crisi rischiano di accentuarsi e senza la rete familiare potrebbero esplodere sul piano sociale.

Almeno per ora, dunque, teniamoci i “bamboccioni” e la residuale “famiglia patriarcale” di fatto. E impegniamoci, nei rispettivi ambiti territoriali, a valorizzare i fattori positivi per raggiungere o consolidare l’eccellenza. Affinché la terra dove viviamo, per l’azione che si riuscirà a svolgere sul piano individuale e collettivo, possa meritarsi l’appellativo coniato dal Censis: “Sua eccellenza il territorio”.

Alemanno e Darida, confronto a Roma tra i Sindaci

di Romano Maria Levante

“Ieri e oggi. Due sindaci a confronto, Alemanno e Darida”. Questo l’invitante manifesto che ci ha indotto a recarci nel tardo pomeriggio dell’11 marzo 2009 al teatro San Raffaele nel quartiere del Trullo alla periferia di Roma, perché il confronto tra ieri e oggi non va lasciato soltanto allo spettacolo televisivo, nel quale abbondano le rivisitazioni in bianco e nero della giovane età dei personaggi.

C’è stato poi un altro motivo di interesse, la presenza di Paolo Gatti, neo assessore alla Pubblica Istruzione e al Lavoro della Regione Abruzzo, già assessore al Comune di Teramo, il più votato alle recenti elezioni regionali, e di Pasquale De Luca, l’attivo Consigliere comunale di Roma che ogni anno organizza nella Capitale un incontro all’insegna dell’“orgoglio teramano”. Poter toccare con mano il nesso tra Roma e l’Abruzzo, Teramo in particolare, nel contatto con tali autorevoli protagonisti ci è parsa un’occasione da non perdere.

E’ stato il consigliere De Luca, di cui conoscevamo l’ardente “teramanità”, che ha ricordato anche alla platea, a stupirci con la sua profonda “romanità”. Ha gestito l’incontro ripercorrendo la storia amministrativa della città, ma anche immergendosi nei problemi della gente del quartiere, situato all’estrema periferia non lontano da Corviale, la “casa lunga un chilometro” dell’“edilizia ideologica” dei primi anni ’70 che è stata evocata.

Il ieri di Corviale era un progetto ambizioso di socializzazione in un palazzo che al suo interno riproduceva un paese, i negozi e i servizi, la passeggiata e la vita associata; poi la cattiva frequentazione e il degrado hanno travolto le migliori intenzioni, l’oggi è sospeso nell’attesa di una migliore qualità della vita, c’è anche una Tv interna. Il ieri dell’Ara Pacis era un contenitore da rinnovare a misura dello scrigno prezioso, l’oggi è la teca smisurata di Mayer nella quale c’è di tutto e di più, che sovrasta lo scrigno e l’adiacente chiesetta. Il ieri del quartiere erano i presidi di sicurezza e socialità, l’oggi è la loro faticosa ricostituzione.

Il confronto tra i due sindaci di ieri e di oggi fa tornare indietro di quarant’anni, Alemanno lo è oggi, Darida lo è stato dal 1969 al 1976, in un’altra Roma e soprattutto in un altro mondo. Ed è un fatto culturale viverlo in un teatro esaurito, anche nei posti in piedi. Perché si percepiscono umori e passioni, timori e volontà, di un pubblico che partecipa, in testa a tutti la preoccupazione per la sicurezza e l’immigrazione.

La sicurezza

E’ stato sottolineato da Darida che anche nella sua sindacatura questo problema era preminente, ma nasceva dal terrorismo e quindi riguardava la politica e le istituzioni; inoltre era un portato della lotta violenta tra gli opposti estremismi, e ha ricordato con commozione gli episodi di sangue di quel periodo. Tornando ancora più indietro nel tempo, ha rivolto un commosso pensiero alla memoria del giovane democristiano romano, Gervasio Federici, pugnalato e ucciso dall’opposta parte politica tra l’11 e il 12ottobre del 1947, mentre attaccava manifesti all’Esquilino, come faceva anche il giovane Darida. Forse l’essere stato, per così dire, sfiorato dalla violenza politica lo ha portato, da Sindaco, a rendere omaggio alle vittime anche se si trattava di assumere posizioni scomode e isolate, come fu per la barbara uccisione dei fratelli Mattei, bruciati nella loro abitazione per un odio ideologico incontrollato.

Ma la gente comune, che non faceva attivismo politico, non si sentiva minacciata a differenza di oggi, anche se questo possa sembrare un paradosso, perché negli “anni di piombo” erano i politici, magistrati, forze dell’ordine, giornalisti a trovarsi sotto tiro. E poi vi erano le minacce internazionali, la guerra fredda che però non era avvertita sulla pelle di ciascuno.

Nonostante non ci sia più tutto questo, oggi l’insicurezza è diffusa, ne ha parlato Alemanno ricordando l’impegno a rimuoverne le cause più evidenti, come i campi abusivi e l’assenza di presidi adeguati sul territorio; l’annuncio del ripristino di una caserma dei carabinieri nel quartiere ha suscitato un’ovazione fragorosa, che ci ha sorpreso per la sua spontaneità e intensità.

L’immigrazione

Un altro fenomeno che ha connotati apparentemente comuni, ma effetti molto diversi, è quello dell’immigrazione. Roma all’inizio degli anni ’60 ha visto raddoppiare la popolazione da 1,5 a 3 milioni di abitanti, con cambiamenti radicali nel suo assetto. E’ stato come “avere addosso un’altra città” delle dimensioni di quella preesistente. Si trattava di immigrazione interna, l’esodo dal Sud non aveva come meta solo il Nord ma anche la Capitale, con i problemi conseguenti dati dalla crescita fuori controllo delle periferie e delle borgate dove si dovevano portare i servizi essenziali, che non si vedono quando ci sono, ha sottolineato Darida, ma si sente la loro necessità quando mancano. I problemi maggiori erano il lavoro e l’abitazione. Il sindaco di allora ha tenuto a sottolineare che, nonostante fosse della stessa parte politica, non ebbe dal governo nazionale il minimo aiuto, neppure per l’Anno Santo del 1975, anzi si prese i rimproveri del Vaticano “dati a nuora perché suocera intenda”; mentre nell’ultimo Anno Santo del 2000 l’impegno del governo a sostegno della Capitale è stato ingente. Ha detto che così si toglieva un altro “sassolino dalla scarpa”.

Nell’anno di Alemanno l’immigrazione è dall’estero con tutti i problemi connessi che rispetto all’emigrazione interna contemplano l’emergenza della sicurezza. L’impegno del Sindaco a garantire il rispetto delle regole e della legalità da parte degli immigrati, pena l’espulsione immediata di chi non è in regola, è stato osannato; e ha citato l’azione per eliminare entro il 2009 i campi nomadi abusivi e attrezzare aree di permanenza con i servizi, l’assistenza e una sorveglianza adeguata.

La politica e i cittadini

Ma l’aspetto che ha marcato forse di più la differenza tra ieri e oggi riguarda il personale politico nell’Amministrazione e nelle Istituzioni e il contatto con i cittadini e i loro problemi. Intanto ieri c’era una forte instabilità politica, le maggioranze erano risicate e ballerine con il passaggio dei socialisti da una parte all’altra, lo ha ricordato Darida la cui amministrazione cadde per questo motivo. Inoltre il Sindaco era impegnato con il Consiglio comunale molto di più di quanto avvenga oggi dopo le riforme che lo hanno alleggerito di compiti che aveva in precedenza.

C’era l’“assedio” dell’opposizione, non solo nelle aree consiliari ma nella Piazza del Campidoglio. Darida lo affrontava “uscendo dalle mura, andando tra la gente, ascoltando tutti, aprendosi al dialogo”. Spesso non si potevano esaudire le richieste, ma era importante conoscerle, e poi c’era da salire la scala della Banca d’Italia, una sorta di “scala santa” ha detto, dato che il Comune era “indebitato fino al collo”: “Roma la città del dialogo” fu il suo slogan. Ciò era possibile perché il personale politico “si era fatte le ossa” nel contatto con la gente sul territorio iniziando dai livelli inferiori e ascendendo gradatamente nel suo “cursus honorum”. Oggi questo non avviene, si bruciano le tappe e viene meno la gavetta; forse perché, abbiamo osservato, il professionismo politico ai pregi ha unito tanti difetti.

Nell’anno di Alemanno nulla di tutto questo. Le manifestazioni e delegazioni ci sono, ma il quadro politico è molto diverso. L’Amministrazione è stabile, per la legge elettorale che dà un vero potere al Sindaco non esposto agli umori del Consiglio, ci sono i Municipi che gestiscono il territorio, le mediazioni politiche sono ben diverse e meno defatiganti. Perciò il Sindaco ha potuto presentare con piglio decisionista la sua “strategia della sicurezza e della riqualificazione del territorio” come base per dare avvio a un “unico grande ciclo di sviluppo” con al centro la valorizzazione dell’identità romana ad ogni livello della città. Si deve “costruire il futuro risolvendo tutti i problemi del territorio, dalla sicurezza alla vivibilità fino all’arredo urbano, nella prospettiva dell’identità romana, nei valori degli individui, delle famiglie e dell’intera comunità”. Per concludere: “Ci si dovrà sentire a Roma anche nelle più lontane periferie”.

Una po’ d’Abruzzo

In tanta “romanità” ci siamo sentiti di chiedere un commento sul “ieri e oggi” al neo assessore regionale abruzzese Paolo Gatti. Il passaggio dall’assessorato al Comune di Teramo di ieri a quello della Regione Abruzzo di oggi ha rappresentato un salto da una realtà consolidata e sotto controllo a una situazione tutta da esplorare. Ma il primo problema emerso in modo prepotente è la situazione critica nei conti regionali, il bilancio è dissestato oltre il prevedibile. Il sovrapporsi della crisi generale a quella regionale aggrava ulteriormente il quadro d’insieme perché con l’indebitamento a livelli record e le entrate ridotte mancano le risorse quando ce n’è più bisogno.

L’assessore cita la linea del presidente Gianni Chiodi improntata al rigore e alla selettività nella spesa. Nel suo assessorato si sta concentrando sui problemi del lavoro e della formazione, una vera emergenza; ma può già dire che nell’istruzione la carenza di risorse si farà sentire. Gli ricordiamo gli sprechi dati dal moltiplicarsi di sedi universitarie distaccate in comuni anche piccoli, è un problema che ha ben presente, andrà risolto non più solo per scelta razionale ma anche per necessità; l’assessore non si nasconde comunque le difficoltà, fin da ora immagina le resistenze che dovrà affrontare.

Cerchiamo di introdurre una nota positiva sottolineando che tra i 161 “territori di eccellenza” individuati dal Censis nella ricerca presentata il 13 febbraio 2009, figura il Gran Sasso per ben due volte, tra le eccellenze nell’“accoglienza” e quelle “tecnologiche”, e la Val Vibrata di Teramo, insieme a Casoli, tra le eccellenze “produttive”. Anche qui l’assessore mostra il suo realismo: mentre il Gran Sasso, per la natura e il Laboratorio di fisica, non viene colpito dalla crisi, per la Val Vibrata i problemi sono gravi: la vocazione tessile l’ha esposta alla pressione dei prodotti importati a bassissimi costi e poi alla crisi produttiva, e oggi vi è emergenza occupazionale anche se nella ricerca del Censis figura tra i territori di eccellenza.
Un “ieri e oggi” molto ravvicinato questo, purtroppo di segno negativo.

Vogliamo concludere comunque in modo positivo, e lo facciamo ricordando l’intervento dello stesso assessore Gatti in apertura della manifestazione, allorché ha sottolineato la contiguità dell’Abruzzo con la Capitale e ha auspicato un avvicinamento sempre maggiore tra le due regioni anche sotto l’aspetto dell’imprenditoria e del lavoro. Se son rose fioriranno, ma non si può dire quando: “La primavera tarda ad arrivare”, cantava Franco Battiato nel 1991 nel suo accorato “Povera Patria”. Un “ieri e oggi” simbolico anche questo.

Tag: Gianni Chiodi, Paolo Gatti, politica, territorio

Bellini e Picasso, tra sacro e profano, tra il Quirinale e il Vittoriano

di Romano Maria Levante

Da Giovanni Bellini a Picasso in un “itinerario” tra il Quirinale e il Vittoriano.

Capita spesso di passare dall’uno all’altro dei palazzi romani più rappresentativi, ma non è frequente trovarvi in mostra espressioni artistiche coeve agli edifici che le ospitano. E’ accaduto di recente passando dal Quirinale, anzi dalle sue Scuderie, con la mostra di Giovanni Bellini che si è conclusa, al Vittoriano, presso l’Altare della Patria con la mostra di un Picasso molto speciale aperta fino all’8 febbraio 2009; artista, quest’ultimo, al quale pochi giorni fa “Repubblica” ha dedicato una pagina dal titolo “’Picasso le nuit’. Parigi insonne per una mostra”. Il salto nel tempo è notevole, dal Cinquecento al Novecento, e lo è anche quello nel mondo dell’arte: dalle immagini sacre del pittore detto il “Giambellino”, che Roberto Longhi ha definito “un genio creatore sublime”, alla pittura rivoluzionaria di Picasso, “l’Arlecchino dell’arte”, come lo definisce la mostra. Facciamo questo viaggio nella macchina del tempo per registrare le emozioni che suscita un simile accostamento di epoche e di stili attraverso l’arte di due grandissimi pittori.

Il Sacro

Cominciamo con Bellini. Il critico d’arte parla del rinnovamento nelle forme espressive e nei contenuti di cui fu artefice, di una pittura che crea uno stile compiutamente “italiano” coniugando il primo rinascimento fiorentino e l’esperienza lombarda con la luce, il realismo, i particolari dell’arte veneziana, in una unificazione del linguaggio pittorico antesignana dell’idioma parlato.

Il tutto rappresentando con grande intensità la forza dei sentimenti e la natura.
Il vostro cronista d’arte si immerge nelle sue sacre rappresentazioni cercando di verificare dal vivo se l’impatto visivo ed emotivo è quello ora descritto.
Si deve dire subito che l’artista riesce a far sentire il contenuto più profondo del nostro credo religioso, la discesa della Divinità sulla terra, la sua presenza tra gli uomini, nella natura.

Ecco che le immagini sacre hanno una collocazione terrena ben precisa, a differenza di molte astrazioni classiche che, ad eccezione di Giotto, le ponevano in una sorta di empireo indefinito. Innanzitutto dalle Madonne e dai Crocifissi di Bellini traspare un’intensa umanità, per le espressioni dei volti, la positura delle figure: struggente è il viso della Madonna i cui occhi non guardano il Bambino raffigurato in una sorta di maturità pensosa, quasi per il presagio della tragedia della Passione; un incrocio di sentimenti che umanizza il sacro.

E poi l’umanità diventa dominante per l’inserimento delle immagini nel vivo della natura, uno spettacolo di colori, di paesaggi, di raffigurazioni; una natura che è vera, reale; la ricca vegetazione e le tante specie d’erba sono riconoscibili come lo sono i borghi medioevali che fanno da sfondo alla scena. Sempre Longhi, che lo ha definito “uno dei grandi poeti d’Italia”, parla di “accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia e il manto della natura”, dove spiccano “le chiostre dei monti e le absidi antiche, le grotte di pastori e le terrazze cittadine, le chiese color tortora del patriarcato e il chiuso delle greggi, le rocche medievali e le rocce friabili degli Euganei”.

Queste raffigurazioni di paesaggi di autentica marca italica coinvolgono emotivamente quando ci si trova dinanzi alla “Pala di Pesaro” con l’Incoronazione della Vergine e alle diverse immagini di“Madonna con bambino”, alla “Trasfigurazione” e alla “Pietà”, al “Battesimo di Cristo” e al “Crocifisso con cimitero ebraico”, alle “Crocifissioni” e alle “Resurrezioni”.

La natura, dunque, è protagonista del Sacro accanto ai sentimenti, quasi che l’artista abbia voluto trasferire l’idea del Presepio, corale partecipazione terrena all’evento miracoloso, in ogni scena; del resto incarnazione e redenzione sono l’autentico sigillo del Cristianesimo che lo distingue da tutte le altre fedi.

Le sole eccezioni restano le rarissime opere sui fondi scuri, un nero profondo su cui si stagliano le figure umane per dare più forza ai primi piani: il “Cristo morto con quattro angeli”, il “Compianto sul Cristo morto” e soprattutto la “Presentazione al Tempio”, una sorta di “Quarto stato” sacro con le figure color pastello schierate in modo composto quasi a voler marcare una presenza costante e non effimera, superiore eppure familiare.

E anche il “Padre Eterno” – Dio che raramente troviamo raffigurato nell’arte dove abbondano invece Cristo, la Madonna e il Bambino – Bellini lo rende familiare nelle due raffigurazioni con le braccia aperte come le aprono i fedeli e il sacerdote nella recita del Padre Nostro durante la Messa.

La lunga fila – cinquecento persone in paziente attesa per entrare nella mostra – testimonia la percezione che di questo ha la gente, hanno tanti giovani. Non è solo la riaffermazione del valore del Sacro, così significativa oggi dinanzi alla sfida dei “bus atei” con i messaggi “Dio non esiste… non ne hai bisogno”,“Dio non esiste…goditi la vita”; è anche e soprattutto il trionfo dell’Arte.

Il Profano

Il breve tragitto dal Quirinale al Vittoriano fa decantare le immagini sacre di Bellini esposte alle Scuderie, intrise di sentimenti e immerse nella natura, e apre gli occhi e la mente all’impatto modernista di Picasso.

Fori e Mercati traianei, con la Colonna Traiana, sono lì a farci dimenticare le Madonne e i Crocifissi. Ma c’è una particolarità di Bellini che ci portiamo dietro, la sua continua evoluzione: da bizantino e gotico seguì le tracce di Mantegna, poi di Piero della Francesca e di Antonello da Messina, quindi del Giorgione, restando però sempre se stesso con la sua straordinaria intensità espressiva.

Ci tornerà in mente ripercorrendo l’arte di Picasso nel periodo che va dal 1917 al 1937, a cavallo di una molteplicità di stili, anche da lui creati, ai quali ha impresso la propria impronta. Ma il suo percorso non è segnato dall’abbandono degli stili precedenti bensì dalla loro compresenza come segno della totale padronanza dell’arte pittorica al punto di voler marcare la perenne validità di ogni forma espressiva. In arte, diceva, non vi è progresso né evoluzione, l’esempio del passato è efficace quanto la modernità, e può essere ripreso senza per forza divenire accademia.

In questo Picasso è “L’Arlecchino dell’arte”, e non solo perché si identificava in lui e aveva il vezzo di riprodurlo in tanti modi (“seduto”, “musicista” “con donna e collana”, “su tavolozza”, e in molti “ritratti”); le pezze variopinte dell’abito della marionetta non sono le frammentazioni dei piani e dei volumi nelle opere cubiste, o le figurazioni espressioniste, surrealiste, astratte ed anche neo-classiche, bensì la compresenza senza imbarazzi di queste forme artistiche apparentemente antitetiche. In questo modo può offrire lo stesso soggetto in stili diversi presentandoci, pirandellianamente, tanti artisti in uno solo.

La mostra ne fa il proprio sigillo sin dalla prima sala affiancando due ritratti, accomunati dall’identica dimensione ma di stili opposti, tra i quali sembrano intercorrere decenni, mentre sono stati dipinti a distanza di pochi mesi: sono del 1917 la cubista coloratissima “L’italiana” del maggio seguita in autunno dal figurativo neo-classicista “Arlecchino” dalle tenui tinte pastello; al primo stile appartengono anche “Mandolino musicista” e “Mandolino e chitarra” del 1924, “Due donne di fronte a una finestra” del 1927 e “Pittore e modella” del 1928, “Grande nudo in poltrona rossa” del 1929; al secondo stile “Donna che legge” del 1920 e “Studi” del 1920-22, “La corsa” del 1922 e “Uomo con la pipa” del 1923, e infine le cento incisioni della “Suite Vollard” del 1930-33.

Si resta frastornati non tanto dall’eterogeneità delle forme pittoriche giustapposte nella mostra, quanto dalla loro contemporaneità. In questo Roma è stato un passaggio importante, e con essa Napoli (su una sua cartolina “ad Olga” del 21 aprile 1917 si legge “ti scrivo dal ristorante dove abbiamo pranzato con i… russi, cantiamo canzoni napoletane e siamo molto felici”) e Pompei (dove fu molto colpito dalle pitture parietali).

Sui due mesi del 1917 trascorsi nella città eterna – dove conosce la futura moglie Olga Khokhlova, una stella dei Balletti russi per i quali lavorò – ci si sofferma con una ricca esposizione non solo pittorica ma anche documentaria che fa capire più di ogni illustrazione critica quel mondo e quel sentire.

La vivace comunanza di vita con Jean Cocteau, Igor Stravinsky, Guillaume Apollinaire, fa capire come fossero profonde le motivazioni interiori e gli stimoli culturali nel progredire della sua arte. Le vestigia della romanità gli fanno sentire la vitalità persistente dell’arte del passato, lo convincono che le forme artistiche non sono mai estinte né superate, ma devono sopravvivere, essere riproposte.

Così, quando al neo-classicismo e al cubismo succedono l’espressionismo, il surrealismo e, più oltre, forme di astrattismo, in lui non sostituiscono gli altri stili ma si affiancano ad essi, come provano le citate cento incisioni neo-classiche della “Suite Vollard” dei primi anni ’30, nelle cui forme si possono intravedere addirittura tratti michelangioleschi. E non fu una scelta indolore, dovette subire accuse di “tradimento” del cubismo.
Passando ai ritratti, colpiscono i visi di donna dipinti nel 1937, alcuni sereni e composti, altri disperati, come le due “Donna che piange” e le due “Donna che piange con fazzoletto”. Tutti hanno la tipica forma cubista con gli occhi, il naso, la bocca decentrati, l’opposto del figurativo, anch’esso picassiano, presente nelle stesse sale; ma qui le figure non proiettano sulla tela soltanto il movimento, bensì la quiete nelle prime e soprattutto la sofferenza, resa atroce dalla deformazione, nelle seconde.

Dinanzi a queste immagini ripensiamo a una notazione che ci ha colpito, l’ammirazione di Picasso per i volti di Raffaello; e ci piace pensare che i visi asimmetrici, per usare un eufemismo, hanno come matrice rivissuta dalla sua arte quegli ovali perfetti, quelle ogive geometriche che sono astrazione massima e insieme rappresentazione vera della femminilità nella sua intrinseca armonia.

I visitatori si muovono nelle sale spostandosi da una parte all’altra per confrontare le figure, tornando sui propri passi e commentando la compresenza nel tempo dei diversi stili. E’ un’eccitazione partecipativa ben diversa dall’assorta contemplazione in un silenzio religioso (è il caso di dirlo) che avevamo riscontrato nella mostra su Bellini.

Condividiamo con un vicino le espressioni di ammirazione di Picasso per Raffaello: “Quale che sia il piacere che posso provare dal seguire le linee tormentate di Michelangelo, mi lascio guidare con serenità da quelle di Raffaello, pulite, pulite, sicure come in pieno cielo, come se non ci fossero ostacoli per loro. Non è Leonardo da Vinci che ha inventato l’aviazione ma Raffaello”. Il vicino ricambia ricordandoci le ben note parole dell’artista: “Quando ero un bambino disegnavo come Michelangelo, ho impiegato tutta una vita a liberarmi per imparare a disegnare come un bambino”. Intorno osservazioni e commenti, stupori ed emozioni.

Ma la mostra tematica copre il periodo tra le due guerre, caratterizzato dalla presenza violenta di una realtà politica sempre più minacciosa che precipita nello scontro bellico, e ne dà conto con opere che esprimono sofferenza. Di qui, dopo un ritorno al ritratto in cui Picasso passa da uno stile all’altro, l’evocazione dei drammi in atto e all’orizzonte, con le tragedie della guerra civile spagnola e le sciagure incombenti dell’hitlerismo e dello stalinismo.

I lavori e i quadri preparatori del capolavoro Guernica – come i tormentati “Testa di toro”, “Testa di cavallo” e “Il Minotauro” che ne anticipano la forte efficacia espressiva – ne sono la prova.

Sono eloquenti, per l’evoluzione e insieme la persistenza della forma artistica, i tre taccuini (del 1922, 1927, 1934) “sfogliati” dalla tecnologia per il visitatore, ognuno dei quali marca uno stile, dal figurativo più ortodosso al cubista estremo con una forma intermedia che, però, non lo è nel tempo.

Altra prova questa del rifiuto di ogni superamento stilistico per riaffermare l’universalità dell’arte intesa come compresenza di stili e anche di ingredienti, di contenuti.

“L’artista – diceva Picasso – è un ricettacolo di emozioni venute da ogni parte: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una figura che passa, da una tela di ragno. Perciò l’artista non deve distinguere fra le cose. Per esse non esistono quarti di nobiltà”. La nobiltà, ci permettiamo di concludere, è nell’artista.

Tag: Giovanni Bellini, Pablo Picasso, Quirinale, Vittoriano

Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma

di Romano Maria Levante

– 2 febbraio 2009 – Postato in: scultori

Un viaggio nell’arte e nella vita dell’artista abruzzese.

Le celebrazioni sono spesso un fatto rituale, legato al calendario più che al ricordo. Non è così per Venanzo Crocetti, il grande scultore abruzzese che a sei anni dalla morte viene ricordato martedì 3 febbraio 2009 con una cerimonia che si muove come ogni anno sull’asse TeramoRoma, il suo percorso di vita. La partecipazione del Vescovo di Teramo Michele Seccia, presso il Museo Crocetti sulla via Cassia a Roma, ne fa rimarcare la componente religiosa, mentre la visione culturale del prof. Enrico Crispolti ne sottolinea i valori artistici. C’è anche il videoart di Agostinelli sul suo senso dell’umano.

Venanzo Crocetti

Importante è tenerne vivo il ricordo, e su questo il Presidente della Fondazione intitolata a Crocetti, Antonio Tancredi, mette tutto il suo impegno di mecenate moderno: dalle celebrazioni nazionali alla promozione internazionale, come quella nel grande Ermitage di San Pietroburgo, fino alla riscoperta di opere come il busto di marmo di D’Annunzio del 1940, tradotto in bronzo nel settantennale della morte del Poeta ed esposto in permanenza a Teramo con le sue grandi sculture monumentali.

Per il cronista tenerne vivo il ricordo significa ripercorrere i momenti e i motivi salienti del suo itinerario artistico e umano cercando di decifrarne le motivazioni e i contenuti più profondi, con l’occhio che guarda non solo per vedere ma anche e soprattutto per capire.

Il nostro viaggio nel mondo di Crocetti inizia a Roma dinanzi alla “Porta dei Sacramenti” della Basilica di San Pietro, con gli otto pannelli ben distinti ma uniti da un nesso interiore, quello che lega la posa ieratica del celebrante alla figura del penitente nel quale sentiamo vibrare l’emozione.

E’ questo forse il punto più alto raggiunto dall’artista approdato a Roma dalla provincia abruzzese che ne ha nutrito e ispirato le precoci manifestazioni giovanili, dai primi schizzi sui muri delle case e sul selciato nelle vie del paese con il carbone, il cui segno robusto ritroviamo nella produzione di disegni, in un carboncino che ricorda questi inizi. E tanti dei temi ricorrenti si nutrono dei ricordi d’infanzia, dal pescatore, alla lavandaia, agli animali da cortile e non solo, che popolavano le sue giornate, alle figurine da presepio che si dilettava a modellare.

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La “Porta dei Sacramenti” di San Pietro

Lo sottolinea il critico d’arte Enzo Carli ricordando “il carattere ancora arcaico e pastorale che allora conservavano quei luoghi” collocati in “quel dolcissimo lembo della terra d’Abruzzo, forse la più bella e la più ‘sconosciuta’ regione d’Italia, tra le montagne del Gran Sasso e il mare, che ha come centri più importanti Teramo e Giulianova”, quest’ultimo paese natale del Maestro.

Tra l’inizio e il culmine della parabola artistica si muove tutto il suo mondo, la sua scultura improntata alla classicità: anche nelle raffigurazioni all’insegna del realismo vi è una compostezza, un’astrazione superiore legata a una forma plastica che rappresenta l’architettura ideale della figura. Ma sono significativi anche i casi ben diversi in cui Crocetti – osserva ancora Carli – “conferisce ai suoi ritratti… una tensione psichica, o un moto fisico o, meglio, fisionomico che sommuova la compostezza – non, si intenda, la freddezza o l’immobilità – dei loro lineamenti”.

Un altro critico, Floriano De Santi, dà un’ulteriore interpretazione della sua classicità: “E’ classica l’arte che compendia nella rappresentazione della forma una concezione globale del mondo, un’esperienza storica dello spazio e del tempo, del naturale e dell’umano, di cui si concede che mutino secondo i momenti e i luoghi, gli aspetti contingenti, ma non la sostanza o la struttura, cioè la storia intesa come coscienza del valore e ordine degli eventi”. E cita esempi precisi: “Così dimostrano, ‘ad evidentiam’, capolavori crocettiani quali ‘Gazzella ferita’ del 1934, ‘Giovane con l’agnello’ del 1942, ‘Bagnante che si asciuga’ del 1955, ‘Donna al fiume’ del 1969, ‘Maria Magdala’ del 1980-81 ed ‘Equilibrio armonico di una ballerina’ del 1990”.

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Giovane Cavaiiere della Pace

E se l’arte è lo specchio della vita, in essa non potevano non riflettersi i contrasti dovuti a un’infelicità che ha accompagnato il successo sin dall’età giovanile: un successo venuto subito, quasi a compensare la tragedia familiare che lo ha visto restare orfano di madre a dieci anni e perdere il padre due anni dopo, per essere affidato alle cure dello zio paterno, muratore a Portorecanati.

E’ stata forse la reazione orgogliosa della propria volontà che gli ha fatto moltiplicare le forze e le iniziative facendo leva su un talento innato e su una grande determinazione pur dietro un pudico riserbo, tanto da far dire a Carlo Ludovico Ragghianti: “Non si riscontrano nella formazione e nel percorso di Crocetti dibattiti o crisi. Una spontaneità felice, oltre ogni difficoltà e talvolta divieto di vita specie nella prima età, ha presieduto alle origini artistiche dello scultore, chiaramente un predestinato che fin dalla pubertà ha inseguito con tensione ininterrotta, e si direbbe con serenità, la finalità scoperta fin dalla vocazione”. L’arte, dunque, come suprema rasserenatrice della vita.

E’ straordinario il suo cursus honorum, dalla prima esposizione nel 1930 a soli 17 anni, ai prestigiosi Premi a lui conferiti, alla presenza stabile nelle Quadriennali di Roma e nelle Biennali di Venezia, alle Presidenze e alle Cattedre di scultura nelle più importanti Accademie nazionali, alle grandi committenze; le sue opere si trovano nelle principali gallerie in Italia e all’estero.

“Gazzella ferita”

Questo è divenuto il mondo di Venanzo Crocetti. La sua dimensione internazionale unita al significato simbolico delle opere monumentali si può riassumere nei tour itineranti del “Giovane Cavaliere della Pace”. E’ stato esposto al Parlamento europeo di Strasburgo e al Palazzo dell’ONU di New York, e soprattutto al Museo di arte contemporanea di Hiroshima, oltre che all’Ermitage di San Pietroburgo e al Tretiacov di Mosca: cioè ovunque si volesse dare una rappresentazione plastica ed eloquente di un valore così alto come il sogno di sempre degli individui e delle nazioni. Finora irrealizzato ma mai abbandonato.

A Roma, nello studio del Maestro

Andiamo a visitare lo studio d’artista di Crocetti, è uno dei due poli della sua vita e della sua arte. Si trova sulla via Cassia, alla periferia di Roma, nei pressi della Tomba di Nerone, incorporato nella grande costruzione del Museo Crocetti; anch’essa realizzata in vita dall’artista con un’iniziativa che colpisce per il notevole impegno e la coraggiosa lungimiranza. Ci attira subito la porta d’ingresso, un bassorilievo di figure al lavoro con i segni della fatica umana. E’ risplendente nella sua patina dorata, come la “Porta dei Sacramenti”, ma invece della compostezza ieratica c’è un’agitazione febbrile.

Entriamo nel Museo come se visitassimo un mausoleo, andiamo alla ricerca dello studio come si cerca la cripta. Ebbene, non ha nulla del mausoleo, è come se l’artista ne fosse uscito solo momentaneamente, lasciando gli attrezzi e gli strumenti inattivi, ma pronti a ricominciare, in un apparente disordine nel quale bozzetti, disegni, pannelli si succedono in un happening creativo. Attira la nostra attenzione una scala per accedere alla sommità del bassorilievo in gesso recante un Angelo, la Madonna e un bambino in piedi; perché sembra un’opera in fieri alla quale manca soltanto la fusione finale per divenire capolavoro, mentre il bozzetto della “Porta dei Sacramenti” fa bella mostra di sé.

“Leonessa”

Si disvela dinanzi a noi il miracolo della creazione artistica per mezzo di quegli attrezzi, di quegli arnesi, nella collocazione casuale e insieme oculata delle suppellettili, degli oggetti personali e di quelli comuni ad ogni abitazione. Perché fuori dallo studio, dopo il vetro divisorio che consente di vederne l’interno, ci sono le opere d’arte dello scultore.

Nelle cinque sale per l’esposizione permanente del Museo, distribuite su due piani, incontriamo una folla di figure, che animano una foresta incantata più che pietrificata, dove le ballerine si mescolano agli animali e agli altri soggetti dell’iconografia di Crocetti.

Guardiamo allora i suoi animali, un filone seguito dai grandi artisti che lo hanno preceduto, senza cercare influssi e tanto meno derivazioni. Colpisce il fremito che promana dalle sculture, scattanti e vitali, dalla “Gazzella ferita”, alla “Leonessa”, ai tanti “Cavalli”, nelle loro espressioni più dinamiche, alcuni scavati come i ronzini disegnati da Salvador Dalì nelle illustrazioni del Don Chisciotte di Cervantes, laddove Marino li raffigurava fermi, quasi bloccati e comunque accomunati alla sorte tragica del cavaliere. In Crocetti nervi e muscoli sono in tensione, i corpi arcuati, le zampe protese, aggrovigliate, e anche l’immobilità sembra pervasa, si direbbe squassata, da un’irrequietezza indomabile.

“Maria di Magdala”

Ragghianti ha così commentato: “Crocetti nella composizione di figure, negli animali e specie nei cavalli infondeva un fluido continuo e incalzante, la strofe plastica si diramava come un organismo accelerato dal moto e ritmato dal respiro, e così mosso destinato a serbare per sempre l’originaria pulsante dinamica”.

Ma sono le figure umane a catturare ora la nostra attenzione, così imponenti e statuarie, ben diverse dalle figure animali. Soltanto la “Maddalena” nelle sue diverse raffigurazioni (del 1973-76 e del 1985) mostra la stessa vitalità nervosa, tutta raccolta e schiacciata come le fiere sono raccolte e pronte a scattare. Una Maddalena scarmigliata come una Erinni, che trasmette angoscia, sofferenza, disperazione, mentre le figure femminili, soprattutto le modelle, esprimono compostezza e stabilità, oltre che dolcezza, con il dinamismo represso delle danzatrici calato in un clima di assoluta serenità. E’ il tema prediletto, nel Museo notiamo almeno una diecina di queste figure, dalla “Fanciulla al fiume” del ‘34 alla “Ragazza seduta” del ‘46, dalla “Modella in riposo” del ‘64 alla “Modella che riordina i capelli” dell’’85, dalla “Maternità” del ’98 alle tante ballerine.

In tutte vi è una costante, l’equilibrio e la calma. Si sente una forza tranquilla; e soprattutto si è soggiogati dalla grandiosità. Le dimensioni, che sovrastano la statura umana fino a superare costantemente i due metri, sono tali da suggerire questa qualifica: anch’esse sono una costante della sua produzione in bronzo, resta il carattere monumentale anche nelle opere che non hanno tale destinazione. E’ un segno anche questo della sua classicità, del bisogno di rispettare canoni millenari verificati in una colta ricerca di studioso oltre che di artista.

“Ballerina

Si avverte una sensualità naturale, in quei corpi con i seni nudi nel segno di un’innocenza primigenia da paradiso terrestre. La bellezza muliebre viene celebrata come nell’antichità classica e nel Rinascimento, e torna anche per questo verso la classicità di Crocetti, la sua collocazione in una posizione certamente elevata tra i grandi maestri. Sembra che le ballerine di Degas abbiano preso forma e ci guardino dall’alto irraggiungibili, chiuse nella loro corazza di carne e insieme aperte mentre roteano i loro corpi e le loro vesti taglienti come lamine all’aria, alla natura: insomma alla vita in un’altra dimensione.

Secondo Fortunato Bellonzi prorompe la “femminilità che sopporta il peso del proprio fiore”, la “carne che già dimette le promesse acerbe, e che pare liberarsi della veste come di una costrizione” e si vede come “il timbro elegiaco marchi intimamente la carnalità abbandonata”; nondimeno “negli atti dei volti e delle membra dominano una compostezza austera, che attribuiresti al sentimento di un destino oscuro e vagamente minaccioso, e un riconoscimento costante della creatura e del suo vitalismo prorompente negli anni giovani ”. C’è come non mai la sintesi tra classicità e realismo propria dell’arte del Maestro.

Ed è in un’altra dimensione che ci sentiamo proiettati dinanzi al “Giovane Cavaliere della Pace”, grande composizione nella quale si ricongiungono i motivi di compostezza della figura umana con quelli di vitalità nell’animale, questa volta il più nobile e amato dall’artista. Ammiriamo nel giovane cavaliere che si china ad accarezzare il collo del cavallo, il cui muso sfiora il terreno per brucarne l’erba, il simbolo del valore altissimo celebrato nei posti emblematici del mondo. Vederlo nel suo Museo ci proietta nella dimensione cosmopolita che ha permesso all’artista di diffondere, attraverso quest’opera monumentale fortemente evocativa, un messaggio di fraternità universale.

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“Maternità” in Piazza Orsini a Teramo

A Teramo, tra le sculture all’aperto di Crocetti

Dall’universo mondo alla provincia abruzzese il passo è breve seguendo le orme di Crocetti. Torniamo alle origini, alla terra che ha visto i suoi primi disegni: a Teramo da dove partì per Roma. Siamo dinanzi al Municipio, a Piazza Orsini, un angolo discreto a misura d’uomo, un gioiello di arte per gli edifici che la circondano, in primis il Duomo e il Vescovado, e un lascito storico per le vicende che l’hanno attraversata.

La statua della “Maternità”, con lo splendido nudo di donna mentre solleva un bambino, che invece è vestito, è una figura solare posta all’aperto sotto gli occhi dei suoi concittadini. Ci riporta alle ballerine, alla sensualità naturale e primigenia, alla seduzione innocente. Un’ardita associazione di idee ci richiama la “Madonnina del Gran Sasso”, diversissima a prima vista per il pesante mantello che le copre anche il capo mentre il bambino ha il petto nudo, ma simile nel gesto spontaneo di protendere il piccolo in alto, quasi in un’esibizione orgogliosa.

Superiamo il Duomo quattrocentesco, romanico con segni gotici, dal campanile svettante, sappiamo che l’interno – di recente restaurato – .è di una sobrietà esemplare che ispira raccoglimento, illuminato dallo sfolgorante “Paliotto d’argento” di Nicola da Guardiagrele. C’è un bel portale d’ingresso e sul retro una scalinata che ha al culmine un secondo portale con l’“Annunciazione” di Crocetti , le cui grandi figure si stagliano nel bassorilievo guardando dall’alto ì giovani, numerosi nella città sede universitaria, che si affollano in quello che è diventato il loro luogo di raduno.

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“Maternità”

E’ stata l’ultima opera incompiuta di Crocetti, completata con una colomba in alto da Silvio Mastrodascio, scultore venuto dalla montagna di Cerqueto mentre il nostro veniva dalla marina di Giulianova, provenienze nelle quali ci sembra di rivedere il camoscio con coda di sirena, marchio e iconografia della regione.

Risaliamo il Corso cittadino in questo pellegrinaggio ideale, la nostra meta è un’opera particolarmente complessa dalla motivazione superiore alla pur elevata ispirazione artistica, in quanto investe sentimenti profondi quanto sofferti impressi nella storia e nella vita di una intera comunità. Il “Monumento ai Caduti di tutte le guerre”, realizzato tra il 1960 e il 1968, non è solo un gruppo di sculture imponenti che superano i quattro metri d’altezza; è un set a cielo aperto con l’immagine di raggiunta serenità data dal “Giovane Cavaliere della Pace” al centro e di inquieta sofferenza nelle figure ai lati, che rappresentano rispettivamente i “Caduti della Terra”, i “Caduti del Mare”, i “Caduti del Cielo”.

“Monumento ai Caduti di tutte le guerre”, a Teramo (particolare)

Nelle loro immagini poste in verticale, scavate e allungate fino ad apparire innaturali, non vi è la compostezza delle ballerine né la serenità del Cavaliere, tutt’altro; un fremito nervoso scuote i corpi protesi in pose estreme come lo è il momento nel quale sono colti, sul confine sottile tra l’eroismo e il sacrificio, la sublimazione di sé per una causa superiore.

Una composizione “en plein air”, un vero Mausoleo, in cui le figure, distinte e lontane l’una dall’altra, ricompongono l’unitarietà del contenuto e del messaggio da qualunque angolo di visuale, in un tutt’uno con l’ambiente circostante, i tigli che le fanno corona, le colline che la sovrastano, il Gran Sasso che le fa da sfondo.

E qui, tornando sui nostri passi per un breve tragitto, entriamo in contatto con un’altra cospicua presenza dell’artista nella sua terra, inusuale perché non si tratta di un monumento pubblico o di un’esposizione privata.

Ci siamo passati vicino senza fermarci, la nostra meta era il Monumento ai Caduti, ma ora possiamo ammirare quella che ci piace chiamare la “piccola Loggia dei Lanzi”, l’esposizione nella terrazza-giardino della Banca di Teramo che domina la strada cui si accede dal livello superiore. Antonio Tancredi, presidente della Banca oltre che della Fondazione e realizzatore di questo Museo a cielo aperto, ci parla dei contenuti umani delle sue opere, che sono universali, come “la passione e l’amore, la gioia e il dolore, la contemplazione illuminata e l’esaltazione della vita”.

“Annunciazione”, porta posteriore del Duomo di Teramo

Alcune esprimono “lo smarrimento e l’umiltà e altre l’eleganza e la forza e altre ancora la dolcezza e la prepotenza. In tutte le figure sono impressi i modi di essere dei sentimenti e delle interiorità che si incontrano nel mondo”.

E ci rivela i contenuti umani dello scultore, suo sodale di vita, che chiamava “monaco della scultura” perché “in tutta la sua vita ha sempre cercato il lavoro, in silenzio e solitudine”. In definitiva, “un artista che non conosce pause per feste o per ferie, che non ammette distrazioni, neanche le più lecite, perché queste opere sono la sua famiglia, i suoi figli, tutto il suo mondo”. Colpiti da queste parole alziamo gli occhi alla grande scultura che ci sovrasta.

E’ il “Giovane Cavaliere della Pace”, ancora lui! Lo avevamo visto a Roma e poi a Teramo al centro del “Monumento ai Caduti”, ma qui c’è qualcosa di diverso. Notiamo il serto d’alloro sul capo che mancava nelle altre sue incarnazioni, se così si può dire, e non è un particolare secondario. Perché il viso proteso incoronato dal serto, con gli occhi febbrili, ci ricorda il giovane intenso protagonista del suggestivo film “L’attimo fuggente” nelle scene culminati della rappresentazione teatrale. Con questa preziosa variante sul tema l’artista è riuscito a precorrere i tempi, a fare del suo Cavaliere un simbolo anche per la gioventù, nella febbrile inquietudine che si affianca al sentimento di pace. A questo punto è riduttivo parlare di grandiosità delle sue opere. Si può parlare di grandezza.

Studio dell’artista alla casa-Museo Crocetti a Roma

Tag: Roma, Venanzo Crocetti

Auschwitz-Birkenau, “la morte dell’uomo”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante 

Il giorno della memoria nel 65° anniversario della liberazione di Auschwitz il 27 gennaio 1945 si inaugura al Complesso del Vittoriano a Roma la grande mostra , aperta fino al 21 marzo 2010, su “AuschwitzBirkenau”, i campi di sterminio per la “soluzione finale” con il genocidio degli ebrei, nell’orrore degli eccidi e nel degrado umano, in base a documenti, reperti, fotografie e video.“La morte dell’uomo” è la risposta che ci ha dato Bruno Vespa, in esclusiva per Abruzzo Cultura, alla nostra richiesta di fornire, lui curatore della mostra insieme a Marcello Pezzetti, una definizione che la riassumesse, quasi dovesse fare il titolo di “Porta a Porta”. Conosciuta la nostra provenienza ce l’ha data con molta cortesia, dopo un attimo di riflessione.

Abbiamo cominciato dalla fine, l’incontro con Vespa è stato nell’intrattenimento dopo la visita alla mostra su Auschwitz-Birkenau e la presentazione con le autorità, una celebrazione sobria e toccante. Ospiti d’onore, anzi veri protagonisti circondati di attenzioni e di affetto, tre sopravvissuti, tra cui il premio Nobel Elie Wiesel.

Un aggettivo e un sostantivo simboli della memoria

Due parole si ritrovano nel messaggio del Presidente della Camera Gianfranco Fini e in quello del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, che da un anno presiede il Comitato di Coordinamento per le Celebrazioni in ricordo della Shoah. Le parole sono: un aggettivo, “vivido”, un sostantivo, “monito”. Il primo si riferisce al ricordo e alle testimonianze, è vivo e livido insieme; il secondo è per il presente e il futuro, non dimenticare perché l’orrore non si ripeta.

Vivida è la testimonianza piena di sgomento per “tutti gli atti disumani” il cui ricordo, è sempre Fini, “non cesserà mai di indignarci e di turbare le nostre anime”. Atti consegnati alla cronaca prima, tanto erano visibili, alla storia poi, tanto sono laceranti, dinanzi alla vista, ha ricordato Letta, di “milioni di oggetti personali quando non di frammenti di corpi umani accatastati; volti e corpi di uomini, donne e bambini, deturpati e annientati solo perché ebrei, sinti o rom o politicamente non omologati”.

Il monito per Fini viene dalla coscienza del passato per garantire il futuro contro simili barbarie: “Considero, infatti, la memoria collettiva una conquista morale e civile per ogni Paese autenticamente democratico”. Gianni Letta si è posto in una dimensione problematica e sofferta: “Tutto ciò ad opera di persone considerate normali, comuni, e sotto gli occhi di un’umanità che non vedeva , non capiva”. In questa agghiacciante “normalità” il monito viene dalla “banalità del male” che “individua nella sospensione :della facoltà di pensare la causa del progressivo cedimento da parte di persone, del tutto normali, a compiere atti altrimenti inconfessabili, visti esclusivamente in funzione di un progetto criminale di cui non si è stati capaci di percepire la gravità”.

L’inferno e il buco nero, il monito per l’umanità intera

Evocare il “sonno della ragione” sarebbe troppo poco, viene evocato l’ “inferno”, lo fanno Gianni Alemanno e Sandro Bondi, le autorità che hanno parlato nell’inaugurazione, gli altri sono stati presenti e i loro interventi all’apertura sono messaggi scritti. Il Sindaco di Roma lo annuncia agli studenti romani che vanno a visitare quei campi di sterminio: “Ragazzi, sappiate che sarà un viaggio verso l’inferno. Andrete nel punto più buio dell’animo umano, un sorta di viaggio dantesco”.

Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali , ricordando i 1.022 ebrei romani deportati ad Auschwitz il 18 ottobre 1943, di cui solo 17 fecero ritorno, dice: che “persero la vita in quell’inferno al quale tutti noi dobbiamo avere il coraggio di volgere lo sguardo per non doverci un giorno ritrovare a riviverlo.

Il “buco nero nella storia del XX secolo” per Alemanno è “una discesa nel lato oscuro dell’umanità”, per Vespa è la rimozione fatta da una generazione per difetto di conoscenza, la mostra colmerà il vuoto. Dinanzi alle omissioni di allora l’umanità, per Bondi, “si interroga su quel silenzio, sull’impotenza di Dio” e conclude che “la risposta alle ideologie del male risiede in noi, nell’essere capaci di una conversione, un rinnovamento interno per costruire una società più umana”.

Marcello Pezzetti, curatore con Vespa della mostra, dà all’esposizione una funzione pratica: “Comprendendo i processi che dalle prime persecuzioni hanno condotto poi alla sopraffazione violenta e allo sterminio, si imparerà a riconoscere i germi dell’intolleranza al loro primo manifestarsi, onde combatterli e impedirne lo sviluppo prima che sia troppo tardi”.

Il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna sottolinea che “tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e le altre categorie giudicate ‘inferiori’, ma contro tutta l’umanità”. E conclude dicendo che Auschwitz è stato “uno spartiacque della storia. Dopo Auschwitz l’Europa è completamente cambiata, ora è retta da quei principi e quel valori che Auschwitz cercò di annientare. Il monito è per l’umanità intera”.

Il rastrellamento

Uno sguardo d’insieme alla mostra

Tutto questo si è svolto nella sala monumentale del Vittoriano, anche le parole scritte sembrano riecheggiare tra quelle colonne con i capitelli dalle volute ioniche, la platea per gli invitati e la piccola galleria per la stampa, la solenne scalinata e la quadriga con la vittoria alata dietro agli oratori che si sono succeduti a un microfono isolato, una presenza sobria e spartana come dovuto.

Parole, quelle scritte e quelle dette, che si sostanziano nelle testimonianze quanto mai vivide esposte in mostra, nelle immagini agghiaccianti che rappresentano quel monito che più di uno ha evocato. Negli ambienti dell’esposizione il monito viene dai documenti, spesso di fonte tedesca, dagli oggetti, come le lugubri divise rigate del lager, dalle lettere ricolme di tenerezza e dai tremendi elenchi di internati di una burocrazia dell’orrore; c’è anche un frammento del ghetto di Varsavia.

La visita alla mostra

Si visita la mostra in un’atmosfera tesa, tra video e filmati, si guardano le immagini, fotografie e disegni, agghiaccianti nella loro spaventosa evidenza. Ci colpiscono i disegni sulla “selezione”, fatta separatamente per donne e uomini, all’aperto, quei corpi nudi appena abbozzati sembrano ancora più inermi e indifesi nei pochi tratti che li delineano, torna subito alla memoria “se questo è un uomo”; e il tarlo dell’anima che ha fatto soccombere il sopravvissuto Primo Levi schiacciato molti anni dopo da un peso, rinnovatosi con la visita al lager, che il tempo non aveva alleggerito.

Ripensavamo al suo dramma perché, anche se in forme e con esiti diversi lo hanno vissuto tanti, forse tutti i sopravvissuti venendone fuori. Si sono rinchiusi in se stessi perché troppo grande era l’orrore per essere comunicato; c’era addirittura il timore di non essere creduti. E questo silenzio ha reso temerari i revisionisti, fino a cercare di accreditare il negazionismo, ne ha parlato Bruno Vespa.

Fino a quando si è aperta la fontana dei ricordi, il tabù è stato superato, il revisionismo-negazionismo schiacciato dall’evidenza della realtà provata e testimoniata direttamente.

L’ultima sezione della mostra è dedicata ai processi per Auschwitz, svoltisi dopo il processo di Norimberga ai più alti gerarchi per i crimini di guerra insiti nella loro responsabilità complessiva. E’ l’approdo, la dolente nemesi che giunge purtroppo tardi, quando milioni di vite sono state schiacciate, un milione nel solo campo di Auschwitz, con duecentomila bambini la cui vita è stata spenta il giorno del loro arrivo al lager.

Sono sconvolgenti quegli occhi che sembrano guardarci dalla fotografie esposte alle pareti, la “vita è bella” in un cupo bianco e nero senza finzione cinematografica è davanti a noi. Alla bestialità della guerra si aggiunge l’infamia inenarrabile dell’olocausto, il genocidio di un popolo da eliminare nell’aberrazione dell’inferiorità o superiorità razziale.

La mostra non fa salti, Ci fa ripercorrere le tappe di un itinerario allucinante per la lucida follia che lo pervade in quella “sospensione della facoltà di pensare” di cui ha parlato Gianni Letta. Birkenau, oltre Auschwitz, viene preso come espressione criminale di un disegno consapevole definito nei suoi particolari non come obnubilazione temporanea e folle. Aveva un ruolo ben preciso nel meccanismo perverso della “Shoah” nazista.

In sette sezioni, ulteriormente ripartite al loro interno, si attraversa il museo degli orrori dell’Europa prima metà del novecento. C’è il cosiddetto “sistema concentrazionario” con i suoi campi da lavoro e le sue regole, viene descritta la nascita di Auschwitz.

Dalla persecuzione degli ebrei nella Germania nazista ai ghetti polacchi, inizia lo sterminio prima in Unione Sovietica, poi in Polonia; oltre a quello degli ebrei il “destino parallelo dei sinti e dei rom”. Il piano Auschwitz-Birkenau è lo strumento perverso per realizzare l’obiettivo aberrante. A seguito del piano tali campi diventano i terminali delle deportazioni di ebrei dall’Europa e anche dall’Italia.

Nella mostra si vede come fosse pianificato lo sterminio: dalla selezione al massacro nelle camere a gas, fino al trasporto dei corpi e al saccheggio dei beni delle vittime.

La vita nel lager e le condizioni di lavoro sono ben documentate con scritti e immagini: dopo l’immatricolazione la quarantena e l’inserimento nella vita del campo, con il lavoro; poi le selezioni interne e i criminali esperimenti medici. Particolare attenzione va ai bambini e ai giovani presenti nel campo, dove ci sono anche le altre categorie perseguitate. E poi l’“arrivano i nostri”: evacuazione, liquidazione e liberazione del campo, fino alla scoperta dei crimini contro i tentativi di occultarli, infine i processi di Auschwitz. Siamo tornati al punto dal quale avevamo iniziato il giro.

Gli aguzzini nazisti

Una ricorrenza per la memoria di tutti noi e dell’umanità intera

Abbiamo raccontato la cerimonia ma non la mostra, della quale abbiamo indicato soltanto i contenuti per fugaci accenni. Lo faremo in modo più meditato di quanto consentito in una serata d’inaugurazione, ripercorrendo il museo degli orrori che rappresenta e cercando di leggere nella lucida follia che lo ha architettato le tracce del disegno delirante e del meccanismo infernale.

Oggi la cerimonia è stata un’intensa immersione in una tragedia epocale resa insostenibile dai visi dei bambini che sgranano gli occhi nelle immagini esposte. Erano così, pensiamo, i visi dei tre sopravvissuti presenti,quegli occhi potrebbero essere del Premio Nobel Elie Wiesel che tutti riveriscono. Si sente un tuffo al cuore, i morsi della memoria sono laceranti, scavano dentro.

Però per questa sera l’ingresso dell’inferno può bastare, il viaggio dantesco nella mostra lo faremo un’altra volta e lo racconteremo come sempre. Possiamo uscire a riveder le stelle. E certo, la terrazza del Vittoriano ce le presenta con la vista mozzafiato unica al mondo.

Sono le ore 20, ha smesso di piovere, attraversiamo la grande terrazza, possiamo dinanzi all’ascensore trasparente che porta in vetta al Vittoriano. Scendiamo a Piazza Venezia, non c’è più la fila davanti al palazzo per “Il Potere e la Grazia”, la grande mostra ha chiuso i battenti per questa sera.

Ci affrettiamo a tornare a casa per scrivere il servizio. Vogliamo essere sulla rivista quando sorgerà il sole del sessantacinquesimo anniversario della “liberazione” di Auschwitz, il 27 gennaio 2010.

Sentiamo il dovere di celebrare, con la solennità che merita, una ricorrenza così importante per la memoria di tutti noi e dell’umanità intera.

Tag: Bruno Vespa, Gianni Letta, Roma

4 Comments

Claudio Vespa

Postato marzo 22, 2010 alle 3:23 PM

Ogni volta che si ricordano questi eventi della Storia dell’Uomo mi tornano alla mente alcune parole scritte da un ragazzo ebreo fatto prigioniero nei campi di sterminio, rivolgendosi alla madre :
anche se il mare fosse d’inchiostro ed il cielo di carta non basterebbero a descrivere l’angoscia ed il dolore che sto provando…….

  1. Laformiotodidac

Postato gennaio 27, 2010 alle 8:30 PM

Ricci :

I ricci/
Del giorno/
Cadute a vostro piedi/
Carezzano/
Le notti/
Delle nostre memorie bruciate./

Auschwitz 3 settembre 1941, Polonia.
Di Anick Roschi

  • Francesca

Postato gennaio 27, 2010 alle 7:48 PM

la guerra e stata terribile io ho sentito le storie di Luigi Bozzato e sono terribili perfino lui piangeva a forza di parlare di quella ssua bruttissima esperienza nei campi di concentramento. ora luigi bozzato e morto a Ponte Longo il luogo in cui abitava e è morto l anno scorso 2009 . mi dispiace per tutto questo e anche luigi e spero che non si ripeta mai più questa guerra. bruttissima e stata … ciao

  • Nemo profeta

Postato gennaio 27, 2010 alle 3:42 PM

Cerchiamo di non dimenticare:
Il genocidio del popolo Palestinese ad opera dei Nazi-Israeliani;
I milioni di anticomunisti massacrati dall’Unione Sovietica;
I 70 milioni di europei morti nella seconda guerra mondiale;
I cittadini di Dresda bruciati vivi dalle bombe al fosforo;
I milioni di Giapponesi arsi dalle radiazioni atomiche;
Lo sterminio dei Kurdi;
I bambini Iracheni e Afghani vittime innocenti delle guerre democratiche;
Le migliaia di Storici imprigionati nelle galere di tutta Europa, a causa della loro ricerca sulla verità Olocaustica.
Io non dimentico!

Mario Sironi in mostra al Museo Crocetti di Roma

di Romano Maria Levante

da cultura.inabruzo.it, 26 gennaio 2009

Ci siamo recati alla mostra di Mario Sironi – come molti dei visitatori che hanno affollato l’inaugurazione la sera del 24 gennaio 2009 a Roma presso il Museo Venanzo Crocetti sulla via Cassia – nel ricordo dell’importante esposizione di quindici anni fa alla Galleria nazionale di arte moderna.

Avevamo negli occhi i grandi dipinti, ci erano rimasti impressi non solo la grandiosità ma anche la forza penetrativa e l’uso del colore, al quale era affidata la rappresentazione delle forme e del movimento; e poi la solitudine degli ambienti industriali, come l’incombente “Gazometro” con le ciminiere sotto un cielo opprimente, sorretti da una razionalità che ne marcava l’alienazione.

Abbiamo ritrovato tutto questo nelle parole di Renato Miracco, curatore della mostra, il quale ha sottolineato i caratteri della monumentalità e della socialità comunicativa di un artista che si rivolge alle masse per confrontarsi con loro al di là delle ideologie; in lui il pensiero, l’idea si fanno tratto, immagine, figura per poter comunicare e, in un certo senso, anche insegnare.

Ma volgendo gli occhi alle opere esposte nelle due pareti parallele si aveva un’immagine ben diversa. Dimensioni molto ridotte, un ripiegamento dell’artista su se stesso in una parete, una esteriorità pubblicitaria apparentemente scevra di veri contenuti nell’altra.

In parte il mistero è stato chiarito dalle parole successive di Miracco e poi di Sonia Costantini, che ha collaborato all’organizzazione della mostra, allorché ne è emersa la peculiarità: forse un limite per coloro che non conoscono l’artista, certamente un pregio per coloro che ora ne possono scoprire aspetti reconditi; gli uni e gli altri portati a rivedere le opere monumentali per confrontare con esse quanto appreso nell’inaugurazione ma soprattutto per leggerle o rileggerle alla luce di quanto acquisito dalla visione delle opere esposte. Anche perché la stessa forma espositiva ne ha facilitato l’interpretazione a chi non è critico d’arte ma semplice cronista o a chi è un normale visitatore.

I piccoli disegni della parete destra della sala sono all’insegna di un’introspezione che rivela la profondità dell’anima dell’artista. E fanno ricordare la sua vita che ha avuto momenti difficili, la depressione superata con la partecipazione al movimento Futurista da lui reinterpretato affidandosi più al colore che alla forma, l’adesione al movimento Novecento, che lo vide tra i fondatori, il contrasto profondo tra il suo senso di libertà e l’esaltazione celebrativa del regime fascista da lui vissuta rielaborando le figure del regime e alimentandosi alla fonte della civiltà italica per ricavarne realizzazioni moderne e innovative. Una vita di impegni nei movimenti e di contrasti, che fa capire quanto siano profondi i sentimenti di sofferenza percepibili alla base e nel cuore di quei disegni.

Tutto l’opposto le illustrazioni, anch’esse di piccola dimensione, che fronteggiano i disegni nella parete opposta: immagini di un futurismo che sembra tutto esteriore, in linea con la sua destinazione pubblicitaria che non vuole insegnare o trasmettere valori, bensì solo sorprendere. Ma dopo la prima impressione irrompe una sensazione diversa, indotta non dall’analisi critica delle immagini ma da quello che comunicano indipendentemente da valutazioni colte o solo erudite.

Così, in questi manifesti, dall’introspezione dei disegni si passa all’abbandono onirico, dall’interno dell’animo al volo planetario, con un senso di liberazione e insieme di libertà che prendono nell’intimo. E avviene il miracolo, le piccole dimensioni si aprono in spazi immensi, nei quali minuscole figure umane si confrontano con l’universo per immergersi in esso, come gli omini di Chagall su scala ben diversa; si sente la monumentalità che prescinde dal formato in quanto attiene a canoni ben superiori.

Torniamo ai disegni, li guardiamo con maggiore attenzione per capire meglio la profondità di un animo inquieto. Ci colpiscono le figure umane, il tratto pesante di matita, carboncino e inchiostro che ne marca i tratti psicologici in un’introversione spesso angosciosa: così “Testa futurista” del 1913, “Ritratto di donna”, “Donna con bambino”e “Studio di figura” della metà degli anni ’30 e, soprattutto, “Nudo” e “Testa” del 1940. Invece “Studio di figura per vetrata” e “’L’Atleta”, del 1932-33, trasmettono un’immagine di forza tranquilla, espressione però di stampo ideologico e non di matrice personale, ispirata dalla mistica di regime.

Vediamo poi le figure umane inserite nell’ambiente, come lo straordinario “Paesaggio con figure” del 1923-24, giustamente posto a copertina del bel catalogo, con l’uomo curvo o al lavoro schiacciato dalla realtà industriale; e lo “Studio per vetrata”, del 1932, anche qui nelle rappresentazioni congiunte del lavoro e della pausa sofferta, con la fatica di vivere in un ambiente opprimente; infine lo “Studio per composizione murale” del 1937-38. L’ambiente, e spesso il paesaggio, racchiude le condizioni del vivere umano, e quindi diventa specchio deformante della condizione esistenziale e della sua stessa anima.

Del paesaggio urbano e industriale qui non troviamo le grandi architetture, alle quali l’artista legò la sua pittura in quanto potevano aiutarlo a stabilire rapporti tra l’uomo e l’ambiente e consentirgli di intervenire, attraverso la modifica delle forme ambientali esteriori, sull’edificazione della persona nella sua profonda umanità. In una visione, per usare le parole di Miracco, “che accoglie ‘il tutto’ come ‘anima’, ‘atmosfera’, ‘natura’, ‘Genio Locii’ e dove l’impianto architettonico è chiamato a servire il risveglio della coscienza umana”.

Non troviamo le grandi architetture, dunque, ma riconosciamo le periferie nel loro squallore ordinato, di un ordine che appare un’intromissione dell’ideologia politica nella sfera dell’individuo e della società. Si respira un clima da pittura metafisica, però non classicheggiante ma vissuta, anzi sofferta. Ecco di nuovo l’alienazione anche senza le figure umane, di cui abbiamo sentito l’angoscia, in “Paesaggio umano con aereo e fabbrica” del 1923-24 e soprattutto nelle due “Periferia”: quella del 1914 dal clima rarefatto di volumi delineati da un tratto sottile di inchiostro, quella del 1926 invece con l’oppressione delle linee violente di una matita e un carboncino molto marcati.

Le due “Composizione metafisica” del 1917 e del 1922 portano la crisi esistenziale a livello di dissociazione, si potrebbe parlare di scomposizione, effetto distruttivo dell’alienazione.
A questo punto avvertiamo il bisogno di tornare ancora sull’altra parete, per uscire dal buio dell’angoscia personale e dall’alienazione delle periferie squallide e solitarie e immergerci negli immensi spazi che ci offrono le sue illustrazioni pubblicitarie, che ora sentiamo ancora di più come spazi di liberazione e di sogno, di vita vera.

E non fa nulla se in questi spazi ci si imbatte in aerei, automobili, scritte gigantesche di una grande marca di automobili, che sono gli oggetti immediati del messaggio, perché quello che ci trasmette è sempre e comunque un messaggio di libertà.

Irrompono su di noi i bozzetti per copertine e manifesti, diventano ali su cui lasciarsi trasportare in alto, lontani dall’angoscia esistenziale delle periferie urbane e industriali che ancora oggi incombe ed opprime. Ali e aerei colorati o senza colore non mancano, e neppure una cavalcata su una sorta di via lattea cosparsa di monete, un’eruzione di vulcano liberatoria, l’omino sovrastato ma non oppresso, tutt’altro, da una sorta di campana, cattedrali portate in spalla da una figura umana, evidentemente superomistica, infine una gigantesca nota musicale. Quanto basta per elevare l’animo in più spirabil aere. Anche se gli elmi dei soldati, il moschetto con vanga e piccone di “L’Italia imperiale”, il possente lavoratore con martello e l’intera gamma di veicoli del “Popolo d’Italia”, per finire con i sei impettiti suonatori di chiarine di “Gerarchia”, la Rivista politica diretta da Benito Mussolini, ci ricordano le opere per il regime, peraltro sempre concepite e realizzate con dignità formale e di contenuti pur nel loro intento laudatorio.

La visita alla mostra termina qui, ed è stato un viaggio suggestivo. La nostra visione di cronisti delle opere esposte giunge alle stesse conclusioni del critico, possiamo fare nostre le parole di Miracco che “vi è la definizione di un ‘dentro’ e un ‘fuori’, di un vicino e di un lontano… e noi percepiamo una ferita, una lacerazione che apre verso il ‘dentro’ e verso il ‘fuori’: la cicatrice è presente, visibile, anzi deve essere percepibile perché testimonia una volontà dell’artista di essere partecipe alla sua vita, alla sua sofferenza, alla sua volontà di scavare e, maieuticamente, portare alla luce”.

Per questo ci appare molto appropriato il riferimento fatto da Antonio Tancredi – Presidente della Banca di Teramo e della Fondazione Venanzo Crocetti, che ha organizzato la mostra e la terrà aperta fino al 2 marzo – al lontano incontro tra Sironi e Crocetti alla I Quadriennale di Roma: “Egli restò ammirato delle opere esposte dall’artista sardo e me ne parlava con grande rispetto” ha detto Tancredi. E ha ricordato anche che Sironi entrò in contrasto con il potente segretario del partito fascista e Ras di Cremona Farinacci, cosa che gli costò “la esclusione dalle successive biennali di Venezia e la perdita della titolarità della rubrica di critica d’arte su ‘Il Popolo d’Italia’”!

A parte quest’ultima non secondaria notazione, che pone in una luce diversa anche il suo rapporto con il fascismo, ci appare significativo, anzi confortante sotto il profilo umano, che l’incontro di allora tra due solitudini – ricordato da Tancredi – abbia visto ora i disegni e le illustrazioni di Sironi ospitati tra le monumentali sculture di Crocetti a chiusura del 2008 a Teramo presso la Banca organizzatrice e, ad apertura del 2009, a Roma tra quelle esposte permanentemente nel Museo dedicato al grande scultore abruzzese, autore di una delle porte della basilica di San Pietro.

Un altro merito, questo, degli organizzatori e di Romana Sironi, la nipote che ha messo a disposizione opere anche inedite, consentendo questa inattesa riscoperta di un artista che ha potuto ripetere il percorso di Crocetti, dall’Abruzzo alla Capitale, ospite del suo grande estimatore.

Il calcio, Kakà e Paperon de Paperoni

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 21 gennaio 2009

La vicenda dell’“offerta indecente” per l’attaccante del Milan Kakà – 105 milioni di euro per la società; 15 milioni di euro netti all’anno per 5 anni più un “bonus” di 10 milioni di euro per il giocatore, cifre da raddoppiare al lordo delle imposte – è soltanto l’ultimo episodio, anche se il più eclatante, di una anomalia non più tollerabile.

Il suo finale strappalacrime, con la rinuncia di giocatore e società alla marea di petrodollari (petroeuro nella circostanza), già trasformato in favola edificante, non deve nasconderne i lati inquietanti.

E sorprende come un’organizzazione come quella calcistica nazionale e internazionale – che non solo impegna capitali molto ingenti ma alimenta la passione di sterminate masse di appassionati – abbia al suo interno una contraddizione così stridente.

Perché le offerte indecenti – al di là dell’offesa che arrecano a valori e principi sacrosanti per cui dovrebbero porre una vera e propria “questione morale” e suscitare la ribellione in primo luogo dei veri sportivi – contraddicono la radice stessa del “gioco più bello del mondo”, l’essenza della competizione ad armi pari.

Quella citata si potrebbe definire un’offerta “disneyana”, perché fa scendere in campo i “paperoni”, al di fuori di ogni logica economica e soprattutto di ogni spirito sportivo, ma non vogliamo offendere l’indimenticato personaggio dei famosi cartoons.

Anche perché non si tratta soltanto dello sceicco di Abu Dhabi, il cui staterello naviga, sì, su un mare di petrolio, ma con le “coste” straripanti di masse disperate, i cui leader le aizzano contro l’eroica nazione israeliana edificata dal lavoro e dai sacrifici dei reduci dalla Shoah, senza rivendicare con altrettanta veemenza la redistribuzione delle risorse petrolifere che questi “paperoni” dilapidano. Sarà la tutela americana, saranno forme autarchiche di garanzia e di copertura comprate con i petrodollari a consentirlo, ne viene una minaccia ai valori dello sport e anche della morale.

Ma non sono solo questi i “paperoni”, anzi sono gli ultimi arrivati. Ci sono stati prima gli oligarchi russi, ai quali Eltzin ha regalato, in una privatizzazione da operetta, fette dei giganti petroliferi dell’impero sovietico al momento della sua dissoluzione; anche loro hanno setacciato il mondo calcistico requisendo con disponibilità finanziarie illimitate i migliori giocatori concentrandoli nelle squadre prescelte come il sultano sceglieva la concubina preferita.

Gli uni e gli altri operano nella democratica Inghilterra, la terra puritana dell’Esercito della salvezza. Per le suffragette di quest’organizzazione sarebbe l’occasione di una crociata ben più giustificata delle campagne moralizzatrici da quattro soldi (è il caso di dirlo).

Anche l’Italia non scherza. I “paperoni” nostrani lucrano spesso su rendite di posizione protette dalla concorrenza operando – se vogliamo restare nella “capitale morale” dove vi sono gli esempi più eclatanti – vuoi nel monopolio di fatto della televisione commerciale vuoi in comparti petroliferi che accordi vantaggiosi isolano dalla competizione internazionale.

La loro maggiore dignità, se così si può dire, è che le offerte indecenti, peraltro più moderate di quella ricordata all’inizio, le fanno per la squadra del cuore, all’insegna di una tradizione, e di una passione sportiva, che li riscatta solo in parte nelle motivazioni, ma non negli effetti perversi. Solo in parte, perché così si distruggono le basi stesse della competizione: una doverosa, accettabile parità sostanziale delle posizioni di partenza che è il cuore dello sport.

E’ vero che ogni campionato inizia con le squadre allineate ai nastri a zero punti, poi vinca il migliore: tre punti la vittoria, un punto il pareggio e zero punti la sconfitta, e questo è uguale per tutte le squadre, metropolitane e provinciali, come uguali per tutti sono le regole del gioco e così è, o dovrebbe essere, per l’arbitraggio.

Ma l’uguaglianza finisce qui, ed è tutta apparente. Alla disparità abissale dei bacini di utenza che dava già vantaggi consistenti alle squadre metropolitane, con i grandi stadi e i cospicui incassi, si è aggiunta quella del merchandising, delle sponsorizzazioni sulle maglie, e soprattutto dei diritti televisivi da nababbi la cui iniquità patente solo recentemente è stata attenuata, e per un non imminente futuro.

A tutto questo si sono aggiunti i nostri “paperoni”, che come azionisti di riferimento immettono cospicue iniezioni di capitali nei bilanci delle società privilegiate per rastrellare i campioni e campioncini appena emergono dai vivai o dagli acquisti indovinati delle squadre provinciali. E’ una vera e propria razzia che si riproduce non solo nel mercato calcistico di inizio campionato ma nella tradizionale riapertura a metà campionato, altra distorsione antisportiva.

Mentre per un simulacro di parità, pur se molto parziale dati i fattori appena accennati, tali interventi di capitali esterni al bilancio societario in senso stretto dovrebbero essere assolutamente proibiti.

Soltanto dai bilanci societari dell’annata calcistica senza apporti privilegiati di nessuna natura, ovviamente neppure di azionisti “paperoni”, dovrebbero essere tratte le risorse per gli acquisti dei calciatori, e già le grandi squadre sarebbero avvantaggiate per quanto già detto.

Le inibizioni alla campagna acquisti operano nel caso di bilanci in rosso, ma solo se la società non ha un sultano “paperone” che l’ha scelta come favorita ed è lasciata a se stessa, come sarebbe doveroso per tutte.

Il calcio dovrebbe imparare dalla “formula uno” automobilistica, il che è tutto dire non essendo certo un modello di virtù e di continenza. Ma cerca di preservare l’interesse della competizione in tutti i modi, anche con meccanismi coercitivi e inibitori come i limiti all’uso dell’elettronica e di altri ritrovati quando un team se ne avvantaggia, gli pneumatici unificati per non dare vantaggi a chi “indovina” le mescole giuste, addirittura la proposta per ora rientrata del motore unico; e anche con i frequenti mutamenti delle regole per le qualificazioni, con i giri secchi o multipli, i serbatoi delle prove sigillati per la gara, l’impiego dello stesso motore in gare successive ed altro ancora.

Perché il calcio non cerca anch’esso di preservare lealtà e interesse delle competizioni evitando che si accrescano in modo iniquo e patologico le disparità per effetto dei meccanismi perversi che sono sotto gli occhi di tutti? e non si tratta solo della “sudditanza psicologica” arbitrale o di “calciopoli”, sono ben più profonde e radicate le intollerabili distorsioni sopra accennate.

La ragione di questa inerzia autolesionistica può trovarsi nel fatto che finora la passione dei tifosi ha dato l’illusione che tutto potesse perpetuarsi immutato, come avviene per i regimi nei quali alle stridenti ingiustizie che gridano vendetta agli occhi di Dio non si pone rimedio in quanto accrescono il potere dei dominanti privilegiati e comunque non portano al “redde rationem”.

Ma qualche segnale forte sta emergendo. E non si tratta della conclusione “patriottica” della vicenda dato che l’offerta indecente del “paperone” d’oltre confine è stata respinta dal “paperone” nostrano (e, va detto a suo merito, anche dal calciatore senza chiedere contropartite); anche perché l’encomiabile quanto inedita affermazione del primo momento, secondo cui i bilanci societari debbono reggersi da soli senza ricapitalizzazioni di comodo di azionisti opulenti, è stata presto dimenticata.

Il segnale forte è un fenomeno dinanzi agli occhi di tutti: gli stadi vuoti. E come le urne vuote – è recente l’assenza di metà degli elettori nelle elezioni regionali abruzzesi – sono un acuto segnale d’allarme per la “casta” dei politici al quale non possono restare indifferenti, così dinanzi agli stadi vuoti anche i “paperoni” ancora intenti a distorcere con i loro facili denari ogni lealtà e correttezza sportiva, dovranno cominciare a riflettere. Confortano anche le eccezioni costituite da squadre provinciali che pur nell’esemplare rigore amministrativo ottengono risultati sportivi eccellenti e rompono così lo strapotere antisportivo delle grandi.

E’ la rivincita dello sport autentico da incoraggiare introducendo regole ferree che impediscano i patti leonini delle ricapitalizzazioni di comodo del “paperone” di turno e rendano la competizione più leale, paritaria e quindi più avvincente. La “formula uno”, pur nel suo esibizionismo, ci dà l’esempio.

Contributi all’editoria, giornali politici e vari, Tremonti li dimezza, resisterà?

di Romano Maria Levante

 Un bel regalo di Natale del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, e gliene diamo atto, con la stessa franchezza con cui lo abbiamo criticato per i tagli alla cultura e, più in generale, per i tagli “orizzontali”, peraltro in qualche caso giustificati dall’idiosincrasia di tutti a “tirare la cinghia”. Per cui ogni spesa diventa necessaria e indispensabile, anche per giornaletti dal contenuto ineffabile e dalla diffusione semiclandestina e non riuscendo a porre priorità, la “decimazione” diventa l’unico sistema risolutivo; anche se le eccezioni sarebbero doverose, come la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma che con 1,6 milioni di euro di contributo annuo non può neppure acquistare i libri in uscita. La citazione delle immagini richiamo l’assidua promozione culturale del 2010, si vedrà il perché.

Per la Festa degli Innamorati il 14 febbraio

L’insensatezza dei contributi ai giornali più o meno “politici” o affini

Anche questa volta crediamo che la nostra voce sarà “fuori dal coro”, come quando abbiamo denunciato lo scandalo per la “lista della vergogna”, ripubblicando per tre volte su questa rivista l’elenco dei contributi milionari (in euro) a una pletora di giornali e giornaletti immeritevoli di tale manna. Le vacche magre dell’attuale crisi economica hanno fatto il miracolo, almeno per ora, la manna si è dimezzata con il taglio del 50 per cento imposto dal decreto “milleproroghe”. Ancora poco per rimediare allo scandalo, che richiederebbe l’azzeramento, ma sarebbe già qualcosa.

Parliamo al condizionale in quanto temiamo che, come avvenne lo scorso anno al varo definitivo della legge finanziaria, l’atto di coraggio del Ministro fu provvisorio o apparente, tipo “scherzi a parte”: la provvidenza – è il caso di chiamarla così anche se non è divina ma molto “umana” nel senso di Paolo Villaggio – venne ripristinata nelle circostanze che abbiamo raccontato a suo tempo, non certo commendevoli. Questo temiamo possa avvenire nella conversione in legge del decreto. E non ci stupiremmo se già qualcosa fosse cambiato, la bonaccia sopravvenuta alimenta ogni sospetto.

E’ in azione l’invadente intellighentia di sinistra che ben si sposa con certo avanguardismo di destra, l’una e l’altro profumatamente finanziati dallo Stato che invece ignora bellamente quanto attiene alla cultura. Quando si cita la Costituzione per giustificare, anzi considerare doverosi gli indegni finanziamenti a certa informazione politica o cooperativa, più o meno fantasma, non si considera che la carta fondante della Repubblica si limita a proclamare un diritto senza accollarsene gli oneri, come per ogni altro diritto di libertà: da quello di soggiorno e riunione (artt. 16 e 17) a quello di associazione e fede religiosa (artt. 18 e 19). Questo e non altro recita infatti l’articolo che viene citato per quanto riguarda l’informazione : “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21).

Per la Festa della Donna l’8 marzo

Ma non si parla mai dell’informazione culturale, neppure quando si condannano i tagli alla cultura; e spesso con le lacrime di coccodrillo di coloro che drenano immeritatamente risorse pubbliche e rivendicano addirittura di avere un “diritto soggettivo” ai contributi statali: è un’informazione che non ha alcun sostegno, a differenza di quella politica riccamente foraggiata sebbene i “rimborsi elettorali”, che vanno ai partiti contigui, siano ben superiori alle spese sostenute per le consultazioni popolari, quindi lascino ampi margini per alimentare la stampa politica vera. Anche l’informazione di varia umanità, dal “cavallo” al “motocross” riceve cospicui contributi statali.

L’informazione culturale è quella che, anche attraverso gli approfondimenti, dà contenuto a quanto proclama solennemente la Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura… tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” (art. 9). Riconoscere un diritto è molto meno impegnativo di promuovere e tutelare; ebbene, mentre al mero diritto si dà un contenuto cogente in termini di sostegno per l’informazione politica e varia, si ignora la promozione e la tutela, sebbene sia ben più forte e impegnativa, che milita a favore dell’informazione culturale.

Per la Festa del Lavoro il 1° maggio

Lo scandalo dei contributi gonfiati per le tirature taroccate con rese abnormi

Quotidiani di partito, il conto è salato”, si intitolava il servizio di Marco Gambaro il 3 luglio 2009 su “il Fatto Quotidiano”:“Per ogni copia venduta di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro…. Sopravvivono solo grazie ai contributi pubblici. Che però dovrebbero incentivarli a trovare nuove forme di diffusione, più adatte alle loro caratteristiche. Come gli abbonamenti o i siti internet”.

L’articolo era illustrato da un “collage” bipartisan con le testate di l’Unità, Liberazione e Il Manifesto di sinistra, Secolo d’Italia, Il Foglio, La Padania di destra,in più Il Riformista e Avvenire, politico il primo, di ispirazione religioso il secondo, un vero campionario. E conteneva un’interessante considerazione: “Rivolgendosi prevalentemente a una categoria di addetti ai lavori quali i militanti e il ceto politico, esprimono una discussione endogena che poca relazione ha con il contesto informativo dei cittadini comuni”. Cosa che, da un lato li rende “estremamente deboli sotto il profilo diffusionale e pubblicitario”; dall’altro, aggiungiamo noi, ne riduce di molto l’efficacia per il pluralismo politico restando dei mondi chiusi in se stessi, delle monadi impenetrabili.

L’interesse si accresce dinanzi ai dati delle rese e delle copie vendute, dalla cui somma si ottiene la tiratura sulla quale sono stati commisurati tutti i contributi finora erogati, da ritenersi “in fraudem legis” intendendo lo spirito più che la lettera della norma. Seguiamo la ricostruzione di Gambaro: “Nel 2007, Il Manifesto e l’Unità hanno avuto livelli di resa, la differenza tra copie tirate e vendute in rapporto alle copie tirate, rispettivamente del 60 e del 73 per cento. Avvenire apparentemente restituisce meno copie, ma se si tolgono i 70 mila abbonamenti, la resa sale al 56 per cento. Per Liberazione e Secolo d’Italia (dati Fieg dai bilanci) le vendite risultano rispettivamente di 8 mila e 3 mila copie giornaliere, mentre le rese sono in ambedue i casi dell’87 per cento”.

Per la Festa di Primavera

Si precisa che “ le prime tre testate nazionali hanno una resa del 21,9 per cento”, il che comprova l’anomalia di rese così alte che non portano a ridurre la tiratura come sarebbe logico e giusto: “In altre parole – commenta il giornalista – per ogni copia venduta ai lettori di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro”. Uno spreco indicibile per gonfiare in modo abnorme i contributi per cui al danno economico si aggiunge quello del consumo inutile di carta, quindi di alberi. Per questo, dato che nella grande maggioranza il numero dei lettori è così esiguo e la qualità del contenuto così scadente da non recare danno al pubblico la chiusura, se si devono mantenere giornalisti e poligrafici converrebbe pagarli per restare a casa o per fare altro, come fu per il Sulcis, oppure utilizzare gli ammortizzatori sociali essendo lavoratori uguali a tutti gli altri.

Il passaggio dalle tiratura taroccate ai contributi gonfiati è stato finora automatico e il divario rispetto alle vendite effettive dato dalle rese misura la vera e propria distrazione di fondi pubblici che avviene con il meccanismo perverso sopra descritto. Innanzitutto citiamo i “legittimati” a ricevere contributi: quotidiani organi di partito, quotidiani editi da cooperative di giornalisti e quotidiani editi da cooperative ed enti morali, prima bastava che ci fossero due parlamentari, poi si è passati al requisito di cooperative, ma sembra possano essere formate da azionisti non lavoratori, il che ripropone una mappa di abusi soltanto aggiornata. Lasciando da parte questo aspetto pur importante, ecco come conclude la ricognizione Gambaro: “ Se si escludono i due quotidiani con tirature maggiori, che nel 2006 hanno ricevuto oltre 13 milioni di euro, le altre testate ricevono mediamente da 46 centesimi a 1 euro per copia venduta, un livello pari al prezzo di copertina, e si arriva a oltre 2 euro per copia venduta per alcune testate con vendite particolarmente basse”.

Per la Settimana della Cultura

Lo scandalo in cifre e la prova in video dell’insostenibilità

Dalla tabella che documenta questo scandalo rileviamo che il record dell’assurdo è per Secolo d’Italia con 3,60 euro di contributo pubblico per copia venduta, seguito da Europa con 2,74 euro per copia, uno scandalo bipartisan al quale con valori meno vistosi concorrono Il Riformista e La Padania, 1,16 e 0.86 euro rispettivamente di contributo per copia venduta; Il Foglio con 0,70 e Il Manifesto e Liberazione seguono a ruota con una media di circa 0,50 euro per copia cadauno.

Considerando che il prezzo di un quotidiano nel 2006, anno della rilevazione, era universalmente di 1 euro – ora in qualche caso è di 1,20 – pensare che Secolo d’Italia ha ricevuto dallo Stato 3,60 euro per copia venduta ed Europa 2,74 euro fa inorridire; gli altri dati riportati fanno ugualmente rabbrividire, e non diciamo altro per carità di patria. Si tratta di giornali politici, cioè con una carica ideologica che li legittima, e un retroterra di militanti, oltre ai rimborsi elettorali ai loro partiti.

Si potrebbe pensare a questo punto che se è la politica a legittimare, i movimenti non rappresentati in parlamento, quindi esclusi dai rimborsi elettorali, dovrebbero essere sostenuti dal contributo pubblico per garantire l’espressione delle rispettive opinioni. Non è così, non possono avere la pretesa di essere “mantenuti” dallo Stato, come non lo può pretendere nessuna impresa e attività nonostante si proclami che “l’iniziativa economica privata è libera” (art. 41); né il lavoratore cui “la Repubblica riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art. 4) e perfino “una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera dignitosa” (art. 36).

D’altra parte, lo stesso Fabio Fazio lo ha dimostrato, naturalmente senza volerlo, allorché nella trasmissione televisiva cult “Vieni via con me” ha letto lo sterminato elenco di movimenti politici o presunti tali, invocando platealmente una sedia per la stanchezza derivante dall’interminabile lettura. Lo ha fatto per motivi ben diversi da quelli per i quali lo citiamo – precisamente per mostrare l’impraticabilità del “diritto di replica” – ma lo ha fatto; e quanto dimostrato visivamente non può essere a senso unico, è la prova che è insostenibile la pretesa al mantenimento da parte della finanza pubblica dei giornali di opinione politica, pur se la Costituzione ne garantisce la libera espressione, come fa per gli individui e le associazioni, senza per questo doverli finanziare.

Analogo discorso va fatto per i giornali e giornaletti di “varia umanità”, dalle cronache locali ai contenuti più vari e improbabili; e anche quelli con una propria validità, che attiene ad esempio ai campi dell’economia o delle professioni, non si capisce perché gravino sulla finanza pubblica.

Per “Ottobre piovono libri”

Il ruolo dell’informazione per la cultura nella strategia di valorizzazione dei beni culturali

Diverso il discorso da fare sulla cultura, perché non ha un supporto di militanti come avviene per i movimenti politici, né delle professioni come avviene per altri, mentre ha bisogno di divulgazione per valorizzare beni ed attività che sono un patrimonio di grande valore civile ed economico per l’intera società. L’informazione culturale svolge un servizio dal quale lo Stato e i soggetti pubblici e privati anche imprenditoriali che operano nel campo della cultura hanno un ritorno considerevole.

Lo riconosce Mario Resca, direttore generale per la valorizzazione dei beni culturali, che di continuo sottolinea il valore decisivo della comunicazione ai fini della valorizzazione e mette in pratica questa sua convinzione impegnandosi direttamente nelle azioni conseguenti; nel contempo sottolinea il valore decisivo di tale valorizzazione per la crescita economica del paese, trattandosi di un campo nel quale l’Italia ha risorse straordinarie la cui messa a frutto a livello economico dipende dall’allargamento della visibilità data la crescente competizione nel turismo internazionale.

Resca cita al riguardo le molteplici iniziative attraverso le reti informatiche fino ai Bancomat, e quelle pubblicitarie, peraltro onerose, dagli spot ai cartelloni: tutti ricorderanno quelli sul Colosseo, il David e il Cenacolo portati via “se non li visiti”, ne abbiamo dato conto riproducendoli; come abbiamo fatto per le iniziative promozionali nelle ricorrenze di qualunque tipo: dalla Festa per gli Innamorati alla Festa della Donna, dalla Festa di Primavera alla Festa del Lavoro, dalla Settimana della cultura a Ottobre piovono libri, dalla Notte dei Musei alle “Domeniche in bianco” ei i “Primi martedì del mese”, e a quanto l’inventiva del direttore generale del Ministero per i Beni culturali ha proposto: sempre chiedendo all’informazione culturale di dare ampia divulgazione a tali attività promozionali vitali per il Paese. E’ stato fatto e daremo tra poco i risultati positivi anche economici.

Un “memento” è nelle immagini che illustrano questo servizio, tutte in apertura di ampi servizi su questa rivista; per molte iniziative abbiamo fatto il lancio anche nelle due riviste consorelle www.amalarte.com e www.archeorivista.it con servizi altrettanto ampi di contenuto diverso.

Le iniziative richiamate sono inquadrate nella strategia già accennata di Resca – su cui insistono in primis il ministro Bondi e il sottosegretario Giro – imperniata sulla diffusione della conoscenza del patrimonio culturale per il progresso civile oltre che per lo sviluppo economico del Paese.

Per “La Notte dei Musei”

L’apporto del giornalismo on line, informazione e approfondimento

I comunicati stampa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali si sono moltiplicati per sottolineare la ripresa delle visite ai musei nell’ultimo anno, il 15 per cento di incremento dopo un trend in diminuzione nel quale le flessioni si accumulavano con relativa discesa del nostro paese nella graduatoria europea dell’attrattiva turistica; anche gli incassi in netto aumento, dell’8% circa.

Resca ha vinto la sfida ritenuta ardita soprattutto dai concessionari: con le giornate e i week end nonché le serate di apertura gratuita si è avuto un forte trascinamento, la promozione ha fatto aumentare anche i visitatori a pagamento, che sono tornati nei musei conosciuti per la gratuità.

L’ultimo comunicato sottolinea il grande successo nel giorno dell’Epifania 2011, il numero dei visitatori nei primi 30 siti statali è cresciuto del 51% e gli incassi del 37%: tra gli altri il Colosseo rispettivamente + 30 e +25%, le Terme di Caracalla + 52 e +58%, Castel Sant’Angelo + 56 e +41% per restare a Roma; a Pompei addirittura + 85 e + 72%, rispettivamente aumento di visitatori e incassi tra l’Epifania 2010 e quella 2009.

Sono siti da noi considerati con ampi servizi di approfondimento, al pari delle iniziative promozionali ricordate da Resca come base dei risultati ai quali siamo lieti di aver contribuito.

Infatti tutto questo è stato possibile con l’apporto del giornalismo culturale a stampa e su Internet, al quale, ripetiamo, il Ministero, e Resca in particolare, hanno dedicato notevole attenzione con sollecitazioni continue finora raccolte da una mobilitazione informativa senza precedenti; lo stesso potrà avvenire nel 2011, si è già detto che nel nuovo anno proseguirà l’intensa azione promozionale.

La passione per il giornalismo e per la cultura ha prodotto questo miracolo, nell’epoca del mercantilismo mercenario, al quale Roberto Saviano diede motivazioni che non solo non ci convinsero ma suscitarono in noi una reazione impulsiva; e lo scrivemmo contrapponendo alla venalità che veniva teorizzata mortificando il volontariato culturale, la “classe” di Benigni.

Indro Montanelli, che abbiamo evocato a suo tempo dopo un sogno rivelatore, con le sue parole “lo farei anche gratis” riferite al giornalismo, alimenta e motiva l’impegno disinteressato. Ma non si può far leva in modo indefinito e indeterminato sull’abnegazione e sullo spirito di missione culturale; quando questo non avviene per la passione politica sebbene non produca un ritorno comparabile per il Paese, in termini di progresso civile e di sviluppo economico e neppure per le altre forme più disparate e marginali di giornalismo pur esse sostenute e foraggiate a dismisura.

Per il terzo anello e gli ipogei del Colosseo accessibili al pubblico

Vogliamo dare conto in particolare delle nostre tre riviste on line consorelle – oltre a www. abruzzocultura.it , www.amalarte. com e www.archeorivista. it, i cui servizi sono ben posizionati su Google e Google News– nelle quali non ci siamo limitati all’informazione di massima, in qualche misura obbligata per riviste sulla materia, ma abbiamo dato conto dei dettagli e svolto una funzione di approfondimento in cui risiede, in definitiva, la sostanza della cultura. E tutto questo senza alcun contributo pubblico, e neppure privato, sempre con l’iniziativa e la generosità del titolare e con la milizia giornalistica e culturale assolutamente volontaria di redattori e collaboratori.

Le nostre riviste, che hanno dato sempre ampio risalto alle iniziative del Ministero, lo hanno fatto all’insegna di un volontariato culturale che stride rumorosamente con quanto avviene per l’informazione politica e di “varia umanità”; e per noi non si è trattato soltanto di informazione, ma anche e soprattutto di approfondimento, a largo raggio: dalle citate iniziative del Ministero alle mostre d’arte, in particolare quelle dalle quali viene un ritorno economico con gli incassi derivanti dall’afflusso di visitatori certamente accresciuto dalla divulgazione. Un approfondimento, sulle tre riviste citate, attraverso servizi tematici equivalenti a dei veri e propri saggi, agili e documentati, ma nei quali si adotta il linguaggio del pubblico, non quello dei critici buono solo per gli addetti ai lavori, come ormai viene raccomandato in ogni presentazione di mostre dalle autorità culturali..

Ebbene, lo ribadiamo e figura nel logo a margine “questa rivista non riceve denaro pubblico” – neppure un euro, perciò è cancellato – sebbene nella Costituzione ci sia l’impegno a promuovere la cultura, ben più cogente del riconoscimento del diritto all’espressione libera del pensiero cui si appellano la foraggiatissima informazione politica e non solo per difendere l’indifendibile.

Per la Villa dei Quintili accessibile al pubblico

La prima parte della lista dei contributi erogati nel 2009 e un appuntamento

Il tema sollevato degli abnormi contributi all’informazione politica rispetto alla totale assenza per l’informazione e l’approfondimento culturale va analizzato ancora, e lo faremo al più presto.

Intanto cominciamo a pubblicare la lista dei contributi erogati nell’ultimo anno disponibile: i dati sono del Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ci si accede attraverso il portale del governo, sono erogazioni del 2009 riferite al 2008. E’ una visione sconcertante, però anche illuminante. Per noi non è una sorpresa, ne abbiamo pubblicato uno stralcio per ben tre volte, tuttavia rivedendola ancora, per di più aggiornata al 2009, abbiamo ugualmente avuto un sobbalzo: è stato l’anno della crisi e dei primi dolorosi tagli.

Non servono commenti, ciascuno potrà giudicare; anzi, cominciare a giudicare perchè è solo la prima parte, un assaggio. Il seguito ben più sostanzioso con i giornali di partito, prossimamente, alla conclusione del servizio, la cui lettura ci auguriamo venga stimolata dal quadro non proprio edificante di come si dilapidano le risorse pubbliche negate invece alla cultura. Per il seguito della storia diamo appuntamento ai lettori ricordando che i dati in milioni di euro, per una conversione immediata, sono miliardi raddoppiati con riferimento alle vecchie lire. Buona lettura e a presto.

CONTRIBUTI EROGATI ALLA STAMPA NEL 2009 (ANNO DI RIFERIMENTO 2008) Dati aggiornati al 7 maggio 2010

(I dati contengono: IMPRESA – TESTATA – IMPORTO IN EURO)

Contributi per quotidiani editi da cooperative di giornalisti (Art. 3 comma 2 legge 250/1990)

  • AREA Agenzia Coop a r.l. A.R.E.A 1.012.255,52
  • International Press Coop a r.l. Avanti (L’) 2.530.638,81
  • Dossier Coop Inform. e P.R. a r. l Buongiorno Campania 1.090.019,89
  • Grafic Edit. Coop Giornalisti a r.l. Cittadino oggi/ Corriere Nazionale 2.338.600,00
  • Giornali Associati Coop Edit. a r.l. Corriere (di Forlì) 2.530.638.81
  • 19 luglio Coop a r.l. Corriere giorno Puglia e Lucania 2.163.626,56
  • Edilazio 92 scrl Corriere Laziale (Il) 1.904.503,29
  • Giornalisti e Poligrafici Coop a r.l. Corriere Mercantile (Il) 2.530.638,81
  • Nuova Informazione Coop a r.l. Cronaca (La) 2.497.670,96
  • Libra Editrice Soc. Coop Cronache di Napoli 996.491,54
  • Dire scrl Dire 1.012.255,52
  • Editoriale ’91 scrl Giornale di Calabria(Il) 413.587,66
  • Agenzia Grtv Soc. Coop Grtv Press 367.190,40
  • Giornalisti e Poligrafici Ass. Coop a r.l Italia Sera 832.491,19
  • Linea Soc Coop a.r.l. Linea 2.380.932,89
  • Manifesto (Il) Coop. Ed.ce a r.l. Manifesto (Il) 4.049.022,10
  • Stampa Democratica 95 scrl Metropolis 1.636.944,72
  • Ediz. Giornali Quotidiani Coop a r.l. Nuova Gazzetta di Caserta 722.670,85
  • Ed.le Giornalisti Associati srcl Nuovo Corriere Bari Sera 1.302.299,32
  • Centro stampa regionale scarl Ore 12 478.253,83
  • Progetto 3000 Comunicaz. Coop a r.l. Paese Nuovo 549.864,22
  • Effe Coop Editoriale s.p.a. Provincia Quotidiano 2.530.638,81
  • Soc Coop Essepi arl Puglia 373.825,46
  • Rinascita Soc. Coop a r.l. Rinascita 2.530.638,81
  • I Romanisti Soc Coop Romanista 13.019,62
  • Pagine Sannite Coop a r.l. Sannio Quotidiano (Il) 1.726.598,29
  • Verità (La) Ed.le scarl Verità (La) 1.727.516,84
  • Impegno Sociale Soc. Coop. Voce (La) 482.651,64
  • Vidiemme Coop. Giornalistica a r.l. Voce di Mantova 1.440.667,78
  • Coopress Coop. Giornalistica Voce Nuova (Regioni & Ragioni) 1.974.084,15

Contributi per quotidiani editi da imprese editrici la cui maggioranza del capitale sia detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali (art. 3 comma 2 bis legge 250/1990)

  • Avvenire Nuova Ed.le Italiana spa Avvenire 6.174.758,70
  • Laudese Edile srl Cittadino (Il) 2.530.638,81
  • Conquiste del Lavoro srl Conquiste del Lavoro 3.289.851,60
  • Edizioni Proposta Sud srl Corriere, quotidiano dell’Irpinia 292.182,96
  • Editoriale srl Corriere di Como 1.479.800,78
  • Editoriale Argo Cronaca Qui.it 3.745.345,44
  • Editrice Europa Oggi srl Discussione (La) 2.530.638,81
  • T & P Editori esl Domani (Il) 1.326.837,06
  • Editoriale Bologna srl Domani (Il) (Il domani di Bologna) 1.585.525,48
  • Gruppo Editoriale Umbria 1819 srl Giornale dell’Umbria 1.965.758,36
  • Toscana Soc. di Edizioni spa Giornale Nuovo della Toscana 2.530.638,81
  • Italia Oggi Ed. Erinne srl Italia Oggi 5.263.728,72
  • 2000 Editoriale srl Nuovo Corriere (di Firenze) 2.530.638,81
  • L’Approdo srl Otto Pagine 1.158.993,91
  • Ediservice srl Quotidiano di Sicilia 1.666.581,67
  • Bm Italiana Ed.le srl Scuola Snals 1.716.689,68
  • La Voce srl Editrice Voce di Romagna 2.530.638,81

Contributi per quotidiani italiani editi e diffusi all’estero (art. 3 comma 2 ter legge 250/1990)

  • Oggi Gruppo Ed.le America Oggi 2.530.638,81
  • Italmedia scrl Corriere Canadese 2.834.315,47
  • Porps International inc. Gente d’Italia 583.147,80
  • S.E.I. Pty ltd Globo (Il) 2.111.131,14
  • La Voce d’Italia Voce d’Italia 272.148,34

Contributi per quotidiani editi in lingua francese, ladina, slovena e tedesca nelle regioni autonome Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige (art. 3 comma 2 ter legge 250/1990)

  • Die Neue Sudtiroler Tageszeitung srl Die Neue Sudtiroler Tageszeitung 866.571,63
  • Athesiadruck srl Dolomiten 1.568.996,06
  • Pr. A. E. Promozione Attività Ed.le srl Primorski Dnevnik 1.897.979,11
  • Pr. A. E. Promozione Attività Ed.le srl Primorski Dnevnik (L. 278/91) 1.032.913,80