La Perdonanza a L’Aquila, ieri e oggi, un evento carico di valori nel segno del perdono

di Romano Maria Levante

L’”oggi” della Perdonanza è la grande manifestazione religiosa di larga presa popolare del 29 e 30 agosto 2021 che vince anche la pandemia del  Coronavirus, a stare alle numerose iniziative che fanno corona alla 727esima  edizione  del rito solenne con cui si celebra ogni anno la  “Bolla del Perdono” che papa Celestino V emise il 24 settembre 1294,  tre mesi prima di dimettersi  dall’alto soglio pontifico cui il Conclave  aveva portato in modo del tutto inatteso lui, noto come Pietro da Morrone. Ne abbiamo raccontato la storia nel “ieri” – il nostro resoconto del 2009 che riportiamo di seguito – ma vale la pena di tornarci con l’indignazione che si fa un imperdonabile torto a papa Celestino V se si dimentica il gravissimo comportamento del successore, un certo… Bonifacio VIII.

Fu eletto papa eccezionalmente un semplice monaco, e non  un porporato,  per l’inconcludenza del Conclave aperto a Perugia – scelta dopo dissidi se tenerlo a Roma o a Rieti – alla morte  di papa Niccolò IV il 4 aprile 1292 con soli 12 cardinali, ridotti ad 11 per la morte di uno di loro nella peste che fece sospendere il Conclave, e anche alla ripresa era inconcludente. Fino a quando addirittura irruppe nella sala dove era riunito il Sacro Collegio, con il figlio Carlo Martello, il re di Napoli Carlo d’Angiò che attendeva con impazienza il nuovo papa per vedersi avallato il Trattato in discussione con gli Aragonesi dopo che con i “vespri siciliani”  dell’11 marzo 1282 la situazione  andava stabilizzata. Fu respinta subito la sua ingerenza, però c’era stata….

Ora il gesto pur inammissibile del sovrano rendeva più urgente, anzi indifferibile,  l’elezione ma restava insanabile il contrasto tra i sostenitori e i contrari ai Colonna. L’eremita Pietro Angelerio – detto Piero da Morrone dal monte sopra Sulmona in cui si era ritirato – interpretando il malcontento popolare profetizzò “gravi castighi” se la paralisi del Conclave fosse proseguita: allora si pensò di eleggere lui,  il monaco eremita.

L’influente cardinale Benedetto Caetani appoggiò tale soluzione, lui e la Curia pensavano che lo avrebbero manovrato come volevano data  la  totale estraneità di un eremita ai gravi problemi del governo della Chiesa. Fu eletto il 5 luglio, l’annuncio gli fu dato da tre ecclesistici che nell’agosto andarono a incontrarlo nel suo eremo, trovarono “un uomo vecchio, attonito ed esitante per così grande novità”, con “una rozza tonaca”, ma lui dopo una resistenza iniziale finì per accettare.

Fu incoronato il 28 agosto 1294 nella basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila, e non si rivelò manovrabile anche perchè Carlo d’Angiò lo prese sotto la sua protezione, anche se interessata, e lui avallò subito il Trattato siciliano, lo nominò “maresciallo del Conclave” e seguì il suo consiglio di spostare la Curia a Napoli, al Castel Nuovo, con una piccola stanza per lui, dove si ritirava a meditare. Oltre alla Bolla del Perdono e al Giubileo con l’indulgenza plenaria aquilana, nominò 13 nuovi cardinali.

Ne seguì l’isolamento che, con i… consigli interessati di Benedetto Caetani, lo portò alle dimissioni il 13 dicembre 1294 motivandole  con “l’umiltà e la debolezza del mio corpo e la malignità della Plebe [di questa città], al fine di recuperare, con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta…” .

Chissà se il cardinale Caetani, che sembra fosse decisivo nello spingerlo al gesto e di certo nel considerare ammissibili le dimissioni, non abbia pensato di poterne essere il successore – non potendolo manovrare mentre si preparava alla successione, come aveva sperato – come poi avvenne realmente? Lo elessero in un Conclave di soli 10 giorni col nome di Bonifacio VIII, fu incoronato a Roma.  Da qui forse nasce l’ingenerosa invettiva dantesca contro Celestino V, messo tra gli ignavi nell’Antinferno  come “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, mentre non fu viltà ma coscienza dei propri limiti dopo aver voluto provare accettando la nomina e prendendo alcune  decisioni importanti.

Così torniamo alla “Bolla del Perdono” con la quale Celestino V istituì il primo vero Giubileo nella storia della Chiesa con indulgenza plenaria a tutti coloro che entrano in grazia di Dio nella basilica aquilana. Bonifacio VIII, che cancellò tutti i provvedimenti di Celestino,   non si sentì di annullarla, e sei anni dopo, nel 1300, fece un proprio Giubileo. Se rispettò questa sua pronuncia, non rispettò la sua persona, per usare un eufemismo, non permettendo che tornasse all’eremo – ritorno che era stato il motivo delle dimissioni – facendolo arrestare dopo che, accortosi che si tramava contro di lui, cercava di fuggire ma fu preso il 16 maggio 1295 e imprigionato nella rocca di Fumone, in un castello del papa suo successore in provincia di Frosinone, e questo per il timore che i francesi ne potessero fare un “antipapa” facendogli poi riprendere il seggio pontificio. Non riuscì a sopportare un carcere duro con ante vessazioni e sofferenze, aveva più di ottant’anni e gli fu fatale.

Sopraggiunse  la morte un anno dopo, il 18 maggio 1296, dopo uno sferzante vaticinio: “Otterrai il papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane”. Dante aveva ragione, Bonifacio VIII aveva meritato il fuoco eterno ma forse più per questo crimine che per le malversazioni sulle indulgenze per le quali, pur in vita, è atteso all’Inferno tra i simoniaci, o per le colpe politiche di cui si parla nel Purgatorio e per quelle religiose che gli imputa San Pietro nel Paradiso. Se Dante si fosse soffermato sulle circostanze del “gran rifiuto” di Celestino V forse le avrebbe riferite ai vili maneggi sin da allora del futuro Bonifacio VIII e non a una sua presunta “viltade”.

Rispetto a tutto questo, un’attenzione speciale andrebbe dedicata alle circostanze della morte del papa-eremita, e alla sua prigionia che fa pensare a quella di Tommaso Campanella, dalla “Città del Sole” alla fetida cella; per lui dall’eremo luminoso nei monti così amati al carcere nel buio della cupa torre. Invece è sceso l’oblio, ma forse è meglio così, l’indignazione sarebbe troppa e non farebbe onorare a dovere la “Bolla del perdono”. E’ venerato come san Pietro Celestino, canonizzato sin dal 5 maggio 1313, si celebra il 19 maggio nel giorno della morte, è patrono di Isernia terra natale, e compatrono dell’Aquila e di Ferentino, di Urbino e del Molise.

La  preparazione spirituale alla giornata dell’indulgenza plenaria avviene con  riti religiosi distinti per dare la  Perdonanza alle diverse categorie: giovani,  lavoratori, religiosi, forze armate, famiglie, malati, confraternite con la veglia dei giovani nella notte che segue l’apertura della Porta Santa.  La Perdonanza è imperniata sul valore del perdono, e forse per questo di Bonifacio VIII non si parla come si dovrebbe, ma come si può perdonare una tale infamia pepetrata da un successore di San Pietro che resta un marchio indelebile anche dopo sette secoli? La celebrazione religiosa si traduce in una festa popolare, all’insegna della perfetta letizia: meditazione e ricreazione.

Quest’anno il direttore artistico della parte musicale è stato il maestro Leonardo De Amicis, noto volto televisivo, nel Teatro del Perdono, davanti alla Basilica di Collemaggio si è avuto  il concerto di Gigi D’Alessio con Arisa e Clementino, mobilitati pure Roby Facchinetti e Irene Grandi, Orietta Berti e Renato Zero, Max Pezzali e Michele Zangrillo, Riccardo Cocciante e Simone Cristicchi con la sua canzone ispirata al 33° Canto del Paradiso: il canto con la musica è l’espressione più intensa dopo la preghiera. Oltre a questi spettacoli musicali, e altri con l’Orchesta Casella dell’Aquila, mostre di arte contemporanea, di pittura e di fotografia, nonché di arte sacra, con i simboli rituali della processione del venerdì santo; appuntamenti culturali – L’Aquila nella cultura ha le sue radici – tra cui il Premio Rotary-Perdonanza 2921 al presidente onorario dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini, e la presentazione della lavorazione del merletto aquilano.

Il “clou” è il corteo in costume nel giorno dell’apertura della Porta Santa alla quale è dedicato,  è stato condizionato dal rischio Covid per cui i  250 figuranti  non sono sfilati ma si sono disposti distanziati ai lati di viale Collemaggio,  ma un piccolo  corteo mobile c’è stato,  quello rituale con le autorità civili (sindaco Biondi dell’Aquila, presidente del Consiglio comunale e della Provincia,  rappresentante del Governo e Prefetto) e soprattutto con tre personaggi tradizionali, impersonati rispettivamente da Marianna Capulli, Federico Santilli e Marina Ciccone:  la Dama della Bolla che ha portato l’astuccio dove da secoli è tenuta la Bolla del Perdono di Celestino V per essere esposta nella giornata di apertura della Basilica per il Giubileo,  il Giovin Signore che ha recato il bastone di ulivo con cui il Cardinale Enrico Feroci ha picchiato sulla Porta Santa per farla aprire e dare avvio all’indulgenza celestiniana, che libera delle conseguenze che restano dei peccati anche se confessati, e la Dama della Croce che ha portato la croce del perdono indossata poi dal cardinale nell’apertura della Porta Santa,  opera dell’artista dell’Aquila Laura Caliendo. L’araldo cittadino ha portato il gonfalone storico dell’Aquila e il sindaco ha letto la Bolla del Perdono all’arrivo all’interno della Basilica di Collemaggio dove è stata celebrata la Santa Messa Stazionale prima dell’apertura la sera del 29 agosto della Porta Santa, che viene chiusa il 30 agosto dopo 24 ore di afflusso di fedeli per ricevere l’indulgenza plenaria.

Questo l’”oggi” della Perdonanza, nel “ieri” spicca la celebrazione nel pieno di un’altra emergenza, quella del terremoto  che il 6 aprile 2009 arrecò una ferita profonda, ancora lungi dall’essere del tutto rimarginata, alla città dell’Aquila.  Allora non ci fu nessuna manifestazione di contorno dell’apertura della Porta Santa dopo la rituale Santa Messa Stazionale di preparazione all’apertura nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio con l’abside scoperchiato per il crollo della copertura, seguimmo la messa  dall’esterno nello spazio antistante traformato in una platea per i fedeli, e poi sfilammo all’interno nel gesto propiziatorio dell’indulgenza.

Nel 2009 c’eravamo, quest’anno non ci è stato possibile per un’emergenza personale, perciò riportiamo la cronaca di 12 anni fa per dare  un’idea di massima della della celebrazione “come eravamo”. E’ il nostro “ieri e oggi” dedicato a un rito così antico e coinvolgente, incluso dal 2019 dall’Unesco nel Patrimonio dell’Umanità.

Perdonanza 2009, un pellegrinaggio per ricordare e riflettere

di

Romano Maria Levante

– 3 settembre 2009  Postato in: Cultura tradizionale, Culturalia, Storia

L’idea del simbolo della rinascita dopo un viaggio tra miserie e nobiltà dell’essere umano

Non è un “executive summary”, tutt’altro, ci accingiamo a fare un reportage molto particolare, di un pellegrinaggio celestiniano dal quale sono nate riflessioni che riportano in primo piano la figura del grande monaco eremita; e ci hanno fatto pensare al potere salvifico dell’arte. Però l’esigenza profonda, e l’idea che ne è scaturita, dobbiamo esprimerle subito, in apertura; poi se ne vedrà la maturazione nel corso del servizio, fino alla conclusione che ne esplicita ulteriormente il significato.

L’esigenza profonda è di manifestare la volontà di rinascita in termini che riportino all’innocenza primigenia, in modo da volare sopra tutto quanto è avvenuto e ricominciare; l’idea conseguente è che con l’arte si può creare la raffigurazione simbolica di questo ritrovare slancio e innocenza.

E allora un’immagine ci prende all’improvviso, la scultura che rappresentò l’Italia all’Expo’ di Siviglia del 1992, una grande aquila cavalcata da un bimbo felice. La sua forza evocativa ci sembra prorompente, non si perde nei tempi lontani della classicità e non è neppure frutto di correnti artistiche contemporanee. E’ il colpo di genio di un’artista popolare che ha dimostrato cosa sia trovare in sé la forza per sconfiggere il tempo e rinascere in una nuova vita che dalla precedente ricava forza e stimoli e non ripiegamenti sofferti. Non solo, ma è un “pezzo unico” di una produzione scultorea ispirata alla bellezza che con quest’opera ha realizzato qualcosa di superiore, quasi volesse dare alle altre sculture una guida e un’ispirazione suprema.

Il titolo è “Vivere insieme”, opera di Gina Lollobrigida, in una delle sue tante vite di artista: per quest’opera e per le sue doti artistiche il presidente della Repubblica francese Francois Mitterand la insignì della Legion d’onore e la definì “artista di valore”.

La proponiamo quale simbolo e sigillo di questa rinascita nell’innocenza primigenia e nella voglia di crescere: un simbolo forte, alto e nobile del nuovo inizio nella bellezza e nella speranza.

Il nuovo “gran rifiuto” celestiniano”

Un altro “gran rifiuto” celestiniano, a più di 700 anni dal primo e più grande, ha segnato l’inizio del nostro pellegrinaggio ideale. Perché non si può certo paragonare la rinuncia al soglio pontificio con la rinuncia a partecipare a un rito, sia pure così altamente simbolico in un momento come questo per L’Aquila, qual è la “Perdonanza”. Questo rifiuto però, proprio per il momento, le circostanze e il modo in cui si è verificato ha toccato la gente, ha fatto rivivere ancora di più vicende lontanissime nel tempo. Che non furono edificanti, come non lo sono state quelle attuali. E non dalla parte di chi ha fatto il rifiuto, ma di chi lo ha portato a ciò con atteggiamenti discutibili degni di miglior causa.

Nessuna “viltade” ci fu allora, nessuna oggi, piuttosto vicende di spessore incommensurabilmente diverso come lo è il rifiuto, e soprattutto incommensurabilmente diverse per le conseguenze. Ma la storia la prima volta si manifesta in tragedia, la seconda si ripete in farsa. Così è stato per la “sostituzione”: non per la figura istituzionale e personale del sostituto, autorevole e rispettabile oltre ogni dire, oltre che pienamente legittimata a presenziare in proprio, per la sua opera fattiva e la sua “abruzzesità”; ma perché lo si è svilito a controfigura di chi era tanto atteso e non poteva mancare.

Doveva esserci non solo per il ruolo istituzionale, e non è chi non veda come un Presidente del Consiglio abbia un rango diverso dal proprio sottosegretario, sempre in termini di cerimoniale, e questo conta se la mettiamo sul piano formale.

Se consideriamo invece la sostanza dei fatti pensiamo che il più meritevole di partecipare in prima fila all’abbraccio popolare cittadino a quasi cinque mesi dalla tragedia del sisma fosse chi immediatamente ha capito la gravità e l’importanza di essere presente con una assiduità mai verificatasi finora nei purtroppo ripetuti fenomeni tellurici, dal Friuli all’Irpinia, per non parlare del Belice e di altri luoghi dove ancora attendono; ricordiamo tutti il pronto annullamento del viaggio a Mosca e degli impegni seguenti, la mobilitazione personale, lo spostamento del G8 a L’Aquila per porla al centro del mondo, mossa coraggiosa ai limiti dell’azzardo, i continui viaggi nel capoluogo abruzzese per coordinare, stimolare, controllare che i lavori per la ricostruzione procedano spediti, il rapido avvio di alloggi non proprio di fortuna.

Diciamo questo senza alcun riferimento né allusione politica, i fatti non hanno colore ma lasciano il segno, e non si può ignorare che ci siano stati e il segno sia rimasto. Nel vedere i quartieri che stanno sorgendo a Bazzano, a Coppito, a Castelnuovo è impossibile non attribuirne il merito non politico ma operativo a chi certe cose le sa fare per averle fatte, con altre modalità ma con la stessa carica innovativa. Qui l’innovazione è che non si tratta di “container” ma di palazzine a tre piani, almeno cinque appartamenti a piano, collocate su piattaforme in cemento armato che possono scorrere per assorbire eventuali onde sismiche in stantuffi posti su pilastri che sembrano grosse palafitte.

E non è un volo pindarico parlare di “onda sismica”. Un gentile capitano della locale Polizia provinciale, nel mostrarci la distruzione del piccolo centro storico di Roio, ci ha detto di aver visto l’onda sismica mentre stava all’aperto; sembrava che le case fossero sollevate da un’onda terrestre che poi le ha riportate a terra con sconquasso, un’immagine che ci ha ricordato il disegno di de Chirico “Termopili” del 1937, con un palazzo su un’onda marina. Il genio civile dovrà rivedere i suoi criteri, ci ha detto, i tetti in cemento armato sopra le vecchie murature sono stati deleteri, eppure questo era finora lo standard antisismico adottato in queste zone e non solo.

Sopra tale basamento, le pareti in legno o altro materiale con analoghe caratteristiche antisismiche come ferro e prefabbricato infrangibile, case quindi sicure e indistruttibili. Le abbiamo viste nei tre grandi cantieri, in uno abbiamo contato una ventina di palazzine, con ridenti finestre di diverso colore, sono quasi terminate. Una goccia nel mare? Certo, ma una goccia che si vede; e si sente, lo sentiranno in positivo le famiglie che ci abiteranno e poi, almeno a Coppito, gli universitari che vi risiederanno nel nuovo “campus” previsto nella zona. Un rimedio provvisorio per gli “sfollati” che si tradurrà in un apporto prezioso alla comunità locale quando le loro abitazioni saranno ripristinate.

Dopo aver visto tutto questo, il “gran rifiuto” del 2009 appare ancora più inspiegabile logicamente, mentre lo diventa entrando nella logica della rinuncia celestiniana originata da sottili maneggi.

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La storia di Celestino V tra i maneggi e gli intrighi di ieri

La rinuncia di Celestino V non fu tanto o solo conseguenza di un ripensamento personale quanto di un’intricata situazione più politica che religiosa tutta all’interno della Chiesa di allora e del Collegio cardinalizio, composto da pochi ma potenti prelati, in numero di dodici, tra i quali il decano Latino Malabranca e Benedetto Caetani di una famiglia laziale molto influente. Vale la pena di rievocarla per sommi capi, perché ci sembra molto istruttiva oltre che edificante per il santo eremita.

Morto papa Niccolò IV il 4 aprile 1292, il Conclave non riuscì ad eleggere il successore, anche per un’epidemia di peste che uccise il cardinale francese Cholet, e dopo un anno arrivò a stento ad accordarsi sulla sede, che fu Perugia; la frattura tra i sostenitori dei Colonna e gli altri cardinali fece prolungare la Sede vacante con crescente malcontento popolare, ma non fu questo l’acceleratore bensì l’intervento di Carlo Martello a Perugia nella sala del Conclave per giungere a una nomina che avrebbe dato l’avallo pontificio all’imminente trattato in corso tra angioini e aragonesi.

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Pur protestando sdegnati per l’indebita irruzione, gli undici cardinali rimasti decisero di accelerare i tempi con una pur faticosa convergenza sul nome proposto dal decano, il monaco eremita Pietro Angeleri da Morrone, noto per la sua vita ascetica e per aver fondato un proprio ordine monastico che aveva difeso al secondo concilio di Lione dove si era recato a piedi nel 1273 lasciando l’eremo dov’era dal 1239, una grotta nel Monte Morrone sopra Sulmona, impedendone lo scioglimento. L’unanimità per una soluzione indilazionabile dopo 27 mesi di sede vacante, tra le attese della gente e delle potenti monarchie, fu raggiunta su di lui come papa di transizione, per la tarda età, quasi ottant’anni, molti a quei tempi, e per l’inesperienza che credevano consentisse di manovrarlo.

Il netto rifiuto iniziale del monaco, raggiunto nella sua grotta sui monti della Maiella da tre vescovi, si trasformò in una riluttante accettazione per dovere di obbedienza. Carlo d’Angiò in persona lo accompagnò a L’Aquila dove aveva convocato il Sacro Collegio e dove fu incoronato nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio. Tra i primi suoi atti, oltre al trasferimento della curia a Napoli, in Castel Nuovo, dove per sé tenne una piccola semplice stanza per pregare e meditare, ci fu l’emissione della Bolla del Perdono con cui fu istituita la “Perdonanza”, il prototipo del Giubileo che fu introdotto in seguito, con indulgenza plenaria a Collemaggio; e il Concistoro del 18 settembre con la nomina di 13 nuovi cardinali, che raddoppiarono il Collegio cardinalizio, tra i quali nessun romano. E chissà che non fu questo uno dei motivi delle vicende successive!

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Ma i maneggi cardinalizi ricominciarono presto a dispiegarsi, questa volta in direzione opposta, dalle pressioni per accettare a quelle per rinunciare, il tutto nel volgere di meno di quattro mesi. Fu Caetani, laziale di Anagni, grande nemico dei Colonna, a preparare la bolla che consentiva l’abdicazione, pensando a se stesso, come aveva pensato a se stesso nel favorire l’elezione del monaco eremita in vista di una sua successione più avanti nel tempo. I tempi stringevano, il nuovo papa poteva consolidarsi con l’appoggio di Carlo D’Angiò su consiglio del quale si era trasferito a Napoli sotto la sua protezione; potevano rafforzarsi le correnti opposte a quelle allora prevalenti.

Papa Celestino V il 13 dicembre 1294 lesse la bolla che contemplava l’abdicazione per gravi motivi e subito dopo pronunciò la formula della rinuncia al Soglio Pontificio. Bastarono solo undici giorni per eleggere Benedetto Caetani, a 59 anni, che prese il nome di Bonifacio VIII. Dante lo mette all’inferno pur ancora vivente, ma non capisce che Celestino V non fece il “gran rifiuto” per “viltade”, bensì fu vittima del porporato che aggiunse la morte del frate eremita alle sue altre colpe.

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Gli eventi corrono sempre più rapidamente e in modo imprevedibile. Eletto papa, Caetani tira fuori il peggio di sé, come prima era stato astuto e forse infido consigliere ora diventa spietato aguzzino dello stesso soggetto tornato a fare il monaco eremita. Come prima cosa annulla le bolle del predecessore, salvo appropriarsi dell’idea della Perdonanza per farne il Giubileo.

Teme che i cardinali filo-francesi, sostenuti da Carlo d’Angiò, il quale aveva tentato invano di dissuadere Celestino V dal dimettersi, lo rimettessero sul seggio papale con uno scisma; perciò ordina di prenderlo sotto controllo per sottrarlo ai francesi e, dopo che lui tentò la fuga verso oriente, il 16 maggio 1295, cinque mesi dopo la rinuncia al papato, lo fa catturare dal Contestabile del Regno di Napoli e rinchiudere nella rocca di Fumone, in Ciociaria. Il regime carcerario molto severo, con vessazioni di ogni tipo – c’è il mistero di un chiodo nel cranio – tanto più che aveva oltrepassato la soglia di ottant’anni, gli fu fatale, morì nella rocca il 19 maggio 1296, dopo un anno di carcere duro.

La riabilitazione non si fece attendere troppo, la Chiesa commette anche gravi errori, ma ha la forza di riconoscerli nel tempo, spesso biblico e a volte terreno, come nel caso di Celestino V; dopo una vicenda che non fa onore ai protagonisti, anzi li condanna elevando una spanna in alto nell’empireo dei Santi questo autentico martire della Chiesa. L’artefice della completa riabilitazione che portò al riconoscimento della sua santità fu papa Clemente V, successore di Bonifacio VIII e a lui ostile, il quale canonizzò Celestino nel 1305, e per la spinta della devozione popolare, lo fece traslare dal monastero di Sant’Antonio a Fermentino alla basilica di Collemaggio, sede della sua incoronazione.

Le confuse vicende odierne

Difficile tornare alle miserie dell’attualità dopo la trista grandezza dei misfatti di ieri, ma dobbiamo farlo. Anche oggi si parla di una divisione all’interno della Chiesa in due “partiti”, che non devono eleggere il pontefice ma sono portatori di diverse politiche, e sono agguerriti “mutatis mutandis”.

Tutto questo avrebbe portato ai messaggi inequivocabili che hanno bloccato l’intento esplicitamente enunciato di partecipare. E non intendiamo dire che ci sia stato un complotto sabotatore né qualcosa di riprovevole in assoluto, ma che può diventare disdicevole nello specifico in base alle circostanze.

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Cosa si è verificato, dunque? Le notizie confuse che circolavano tra la gente in attesa dell’arrivo del corteo sul sagrato posteriore della basilica di Santa Maria di Collemaggio parlavano di incompatibilità tra lo status di divorziato e la possibilità di accedere alla Porta santa; circostanza questa che avrebbe bloccato l’intento di partecipare alla sua apertura, il clou della “Perdonanza”, all’illustre “penitente”; si crede sia tale, avendo dichiarato “non sono un santo”, come tutti del resto. Al termine, invece, notizie dirette hanno attribuito lo stop inatteso alla ritorsione delle autorità ecclesiastiche rispetto agli attacchi del giornale di famiglia al direttore del giornale dei Vescovi.

Non vogliamo crederci, ci ha sorpreso anche la cena mancata tra i due grandi protagonisti, considerata un surrogato riparatore rispetto alla partecipazione diretta; meglio che non ci sia stata un’inaccettabile pezza diplomatica ad uno strappo che ha impedito un atto di partecipazione personale con una forte spiritualità; alla “Perdonanza” si partecipa per autentiche, intime motivazioni che attengono al profilo interiore di ciascuno e alla sua sincera immedesimazione.

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Perché la figura di Perdonanza 2009, un pellegrinaggio per ricordare e riflettere non per propria scelta, ma per maneggi e intrighi, e per questi rimosso, poi arrestato, incarcerato fino a morirne, giganteggia come martire della Chiesa, lo abbiamo detto; precisiamo nel senso di essere stata vittima di uno dei peggiori momenti della grande istituzione, quello che portò al soglio pontificio Bonifacio VIII, il Benedetto Caetani al centro dell’intrigo. Ed è un ricorso storico che il corpo di Aldo Moro, vittima dei nostri tempi, fu trovato nella strada romana dove c’è il palazzo di famiglia, Via Caetani, che inizia in Via delle Botteghe Oscure, che fu sede del PCI, ed è vicina a piazza del Gesù, che fu sede della DC.

Il corteo cittadino e il rito religioso

Questo aleggiava nella mente e nel cuore nell’attesa del grande rito religioso nella spianata dietro la Basilica di Collemaggio, da lui voluta e nella quale fu incoronato, per così dire, papa, e traslato dopo gli anni del martirio e della tumulazione provvisoria in Ciociaria. E dove, in meno di quattro mesi di pontificato, diede vita addirittura al giubileo celestiniano con l’indulgenza plenaria legata al passaggio attraverso la Porta santa attraversata con purezza di cuore e innocenza d’animo.

E’ stato questo il momento finale, culminato nel rito solenne celebrato su un grande palco con il fondale raffigurante la facciata della Basilica. Facevano corona i più alti dignitari, i vescovi con le loro mitrie, i sacerdoti con le loro cotte bianche, la “schola cantorum” con i suoi cori suggestivi che sono stati la persistente colonna sonora, dopo il corteo cittadino con la sfilata nei costumi dell’epoca.

Un serpente variopinto ha attraversato la parte agibile della città, partito da piazza Palazzo per piazza Duomo, poi passato a lato della Villa comunale e quindi approdato a Collemaggio: tutti i colori, tutte le fogge nell’abbigliamento, nobili e paggi, madonne e cavalieri, armigeri con i loro elmi e i loro archi, in un compunto pellegrinaggio. In testa i primi cittadini, della Regione, Provincia e Comune, nonché tanti sindaci e parlamentari, presenti, crediamo, non soltanto per l’istituzione ma anche per se stessi; dopo la pressione di momenti tragici e sconvolgenti ci voleva questo bagno di spiritualità e di riconciliazione, con il mondo della fede, tra la folla di concittadini di tutte le epoche.

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Il rito si svolge con grande solennità, officiante il porporato venuto da Roma, il numero due del Vaticano cardinal Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità Benedetto XVI, del quale porta la personale benedizione; lui stesso officiò le tristi esequie alle 300 vittime le cui bare nella grande spianata di Coppito sotto la scritta “Recisa non recedit”sono ancora nei cuori di ognuno.

Alla metà del rito anche il cielo corrusco sembra riflettere le contraddizioni del momento: fulmini e tuoni e insieme un arcobaleno che si apre sulla vallata alle spalle della spianata, punteggiata di paesi e case sparse immersi nel verde quasi fosse una coltre protettiva. Tuoni e fulmini vengono da lontano, dopo quelli di Roma giunti non in senso meteorologico; ma l’arcobaleno è qui, sembra di toccarlo mentre la messa prosegue, altro bel segno. Ed è questo che conta, c’è la partecipazione popolare, c’è la vita, sono lontani i passi felpati nelle anticamere che hanno scandito la vigilia.

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Le brevi parole dell’Arcivescovo di L’Aquila Giuseppe Molinari scuotono l’assemblea. Parla del sisma come di “santa provocazione”, che può rimettere in discussione convincimenti profondi: “E’ difficile la fede nel tempo del terremoto, è difficile la fede per chi ha perduto la casa e forse anche le persone care”. Un brivido corre tra la gente: “E’ una fede difficile ma possibile, ed è l’unica nostra salvezza”.

L’omelia del cardinal Bertone inizia ricordando “quelle scene di sofferenza e di morte”, unite alla “dignità di quelle esequie dinanzi al mondo”. Il tono si fa pastorale: “Gesù crocifisso non vi abbandona, non lascerà senza risposta le vostre domande. La risposta di Dio passa attraverso la solidarietà degli uomini, che non può limitarsi all’emergenza ma deve essere un progetto stabile nel tempo”. E sollecita a “mantenere le promesse che sono state fatte ai cittadini”.

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Ma le parole non riescono a far dimenticare che si è consumato qualcosa di ingiusto per la ricorrenza che dà avvio all’anno celestiniano. Quale avvio poteva essere migliore se al corteo, al rito e all’attraversamento della Porta santa avesse partecipato anche colui che è divenuto il “convitato di pietra”, assente ma da tutti nominato, la cui presenza avrebbe suggellato nel modo giusto un periodo intensamente vissuto da lui stesso in unione con l’intera cittadinanza?

Se non è per l’offesa al direttore del giornale dei vescovi – “ultronea”, direbbero i giuristi, rispetto alla circostanza che con tale questione non ha nulla a che fare ponendosi su un piano ben diverso e superiore – è per qualcosa che sarebbe non meno grave, vale a dire la discriminazione personale in base ad una arbitraria valutazione che nessuno si può arrogare.

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Nel senso che non si può mettere in dubbio la libertà di partecipare all’evento celestiniano con il corteo, il rito fino all’attraversamento della Porta santa; a nessuno è stato chiesto il “passaporto” della santità o della purezza, ad essa si lega l’effetto di indulgenza plenaria legato alle condizioni poste dalla Chiesa, confessione e comunione, non la legittimazione a partecipare, se non andiamo errati e abbiamo capito bene, d’altra parte nessuno si è fermato sulla soglia. Dopo di che l’effetto salvifico è inconoscibile, e chissà se l’innocenza d’animo non possa surrogare positivamente l’atto rituale ora evocato! Questa la riflessione che abbiamo fatto personalmente passando nella Porta santa come tutti gli altri.

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Detto questo, entrare nella Basilica a gruppi di quaranta subito dopo le autorità è stato emozionante. Vedere l’abside completamente scoperchiato, con le macerie rimaste a terra e il cielo aperto al di sopra ha fatto tornare la mente alle più fosche immagini della guerra, che sono quelle dei templi bombardati perché è una violenza fatta allo spirito e al cuore di ognuno, oltre che all’arte, alla storia e alla fede. Poi le colonne tutte strette in “imbraghi” per rinforzarne la tenuta in attesa degli interventi di consolidamento, gli archi sottesi nelle due navate tutti sorretti da incastellature di tubi d’acciaio, sembrava un ferito incerottato e rappezzato con chiodi, ingessature e sostegni artificiali.

Una considerazione ci è venuta spontanea nel vedere distrutta la volta dell’abside, abbiano ripensato alla coraggiosa decisione che fu presa dal soprintendente, all’atto dell’ultimo restauro, di abbattere le voltine barocche nelle lunghe navate della Basilica in modo da riportarla all’austerità originaria, tolti gli orpelli e i fregi che vi erano stati sovrapposti, in un lavoro meritorio che ce la restituì in tutta la sua francescana, o meglio celestiniana, suggestione.

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Furono lasciate queste voltine barocche soltanto nell’abside per mantenere la memoria di come era apparsa per un lungo periodo della sua lunga esistenza quasi millenaria. Forse è un segno del destino che siano crollate, è ora di riportare anche quella parte della basilica alla sua veste originaria, se ne vede la bellezza nei grandi squarci.

Il bimbo felice sulla grande aquila in volo nel futuro

Lasciamo la basilica con nel cuore le emozioni che ci ha dato una “Perdonanza” così particolare, stretta fra contraddizioni anche laceranti – e non sono solo quelle che abbiamo evocato, ma anche i problemi oggettivi che restano aperti – però con un riferimento forte per un nuovo inizio.

Si può ricominciare tornando all’età dell’innocenza perché è scevra dei fardelli che si accumulano e pesano sul cuore con i condizionamenti che recano con sé. Non ci devono essere remore e ritardi nella ricostruzione, l’ammonimento è venuto anche dall’omelia, le nuove “cittadelle” provvisorie ma dignitose prendono corpo, ma quante ce ne vorranno!

E come sarà ben più lunga e faticosa la ricostruzione del centro storico “bombardato”, com’era e dov’era, cioè dove sono oggi le macerie e i palazzi disastrati dal sisma. Un immenso lavoro da compiere e immense risorse da trovare con la solidarietà invocata dal cardinale e, se necessario, con la tassa di scopo che a suo tempo richiese il Sindaco di L’Aquila, oggi commosso lettore della Bolla della Perdonanza di Celestino V.

La ricostruzione del centro storico monumentale è ben più difficile della costruzione di “new town” prefabbricate, è evidente, è una sfida da superare dopo aver vinto quella dell’emergenza.

Ma tutto si può fare se si ricostruisce nella gente la voglia di andare avanti, di crescere. Le popolazioni colpite hanno mostrato grande dignità, anche questo è stato ricordato nell’omelia. Ora non basta più, occorre una mobilitazione di energie del tipo di quella che il Paese riuscì a produrre con la ricostruzione dopo la tragedia bellica.

E allora avviene che tutto il corpo economico e sociale viene preso in una straordinaria palingenesi che sovverte i ritmi usuali, li accelera in modo impensabile, fa bruciare le tappe e raggiungere traguardi che sembrerebbero preclusi. I più rapidi progressi sono avvenuti storicamente dopo eventi distruttivi proprio perché si mobilitano energie nascoste e sorprendenti che non si sapeva neppure di avere. E’ stato così per la stagione del “miracolo economico” italiano e per altri eventi che hanno messo alla frusta le capacità, potrà e dovrà essere così nella tragedia che ha sconvolto L’Aquila.

Un nuovo slancio dovrà percorrere questa terra: il suo simbolo, dalle grandi ali, il nobile profilo e lo sguardo verso l’infinito dovrà essere scolpito in ogni iniziativa come segno di solidità, forza, lungimiranza. Il senso della crescita e della speranza dovrà accompagnare questo simbolo, e ci pare possa essere espresso nel bimbo felice che con la massima rapidità traduce da potenza in atto quanto è in lui, nel suo Dna, nella sua volontà e forza interiore. Aquila e bimbo felice, espressioni di uno stesso anelito di rinascita e di crescita nella fierezza e nella dignità, nell’innocenza primigenia.

Vedere il bimbo felice a cavallo della grande aquila nella scultura che ha rappresentato l’Italia a Siviglia nel 1992 ha materializzato questi nostri pensieri attraverso le vie dell’arte – che sono ben evocate dalla mostra a Coppito delle opere salvate dalla distruzione del terremoto – su come l’arte può esprimere tutto questo con la sua capacità di nobilitare la materia e mobilitare le sensibilità. Trovare che l’opera è della diva nazionale degli anni cinquanta, la quale ha saputo rinascere ad una nuova vita artistica vincendo le ingiurie del tempo alla sua bellezza, è stata una scoperta per noi rivelatrice: si può rinascere e ricrearsi un futuro, basta volerlo e mobilitare il talento, perpetuare la bellezza nell’arte, e lo fanno le sculture della diva divenuta artista.

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Di bellezza ha scritto anche l’Arcivescovo Molinari immedesimandosi in Celestino V fino a mettergli in bocca queste parole: “E la bellezza che non morirà mai. Ricordalo sempre, amatissimo popolo dell’Aquila. E con l’aiuto di questo Dio, Signore del tempo e della storia, riprendi subito il tuo cammino, per una storia nuova, piena di Bellezza e di Speranza”.

La conclusione l’abbiamo posta in apertura, e la ripetiamo ora, al termine. La scultura “Vivere insieme” la proponiamo quale simbolo e sigillo di questa rinascita nell’innocenza primigenia e nella voglia di crescere: un simbolo forte, alto e nobile del nuovo inizio nella bellezza e nella speranza.

Foto

Le immagini riguardano tutte, meno l’ultima, la Perdonanza 2021, anche quelle inserite nell’articolo del 2009, il “ieri”, che sostituiscono le fotografie dell’articolo originario da noi scattate 11 anni fa nell’interno della Basilica di Santa Maria di Collemaggio con i vistosi segno del sisma nel soffitto dell’abside e nelle colonne in una integrazione che abbiamo sentito come vitale e virtuosa. In chiusura, la scultura di Gina Lollobrigida, “Vivere insieme”, nella quale il ragazzo felice in groppa a un’aquila ci sembra incarnare la volontà di riscatto della città. Questi immagini sono tratte da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta. Indichiamo di seguito tali siti, precisando che le immagini inserite sono a mero titolo illustrativo, senza alcun intento economico, commerciale o pubblicitario e che, qualora non ne fosse gradita la pubblicazione, verrebbero subito rimosse su semplice richiesta, anche mediante una nota all’articolo. Le immagini mostrano, senza bisogno di didascalie, le varie fasi della celebrazione celestiniana del 2021, dalla Basilica di Santa Maria di Collemaggio e dai cartelli alla presentazione dei partecipanti, al Corteo, ai portatori dei simboli, fino al loro arrivo alla basilica, dalla Porta Santa prima dell’aperura e dopo il rituale battito del Vescovo alla Porta Santacon il bastone portato in corteo, fino a un’immagine dell’interno; infine la “Bolla del perdono” di papa Celestino V e, in chiusura, la scultura “Vivere insieme” di Gina Lollobrigida – citata nell’articolo – che nel bambino felice con le braccia levate al cielo in groppa all’aquila impersona la rinascita della città dalla catastrofe del terremoto del 2009, fin da allora proponemmo che tale scultura, che ha avuto prestigiosi riconoscimenti internazionali, divenisse simbolo della città. I siti web da cui sono state tratte le immagini sono, nell’ordine di inserimento delle immagini nel testo: perdonanza-celestiniana.i, ilcapoluogo.it, abruzzoweb.it, ilcapoluogo.it, ilcentro.it, raicultura.it, rete8.it, turimoitalianonews.it, unesco.beniculturali.it, unesco.beniculturali.it, virtuquotidiane.it, ilcapoluogo.it, comunelaquila.it, ilcentro.it, radiolaquila.it, abruzzonews.eu, ilcentro.it, newstown.it, unesco.beniculturali.it, laquilablog.it, ilmessaggero.it, templarioggi.it, voxmilitiae.it, rete8.it, gds.it, turismoitalianonews.it, laquilablog.it, laquilablog.it, virtuquotidiane.it, laquilablog.it, arteculturaoggi.it.

ll Rebus dell’estate ‘82, quasi 40 anni dopo…

di Romano Maria Levante

Quanto segue lo scrivevamo nel 1982, in una vacanza tra il mare – con gli scogli e la foresta umbra di Pugnochiuso nel promontorio del Gargano e la montagna – con le rocce, i boschi e i prati di Pietracamela nel Gran Sasso d’Italia.Trascorsi quasi 40 anni, dopo la celebrazione nell’articolo di ieri della vittoria all’Europeo 2020 posticipato a causa della pandemia, ripubblichiamo l’articolo di allora nel quale ci sono riflessioni sugli insegnamenti da trarre dalla vittoria valide tuttora, riguardando aspetti che non abbiamo toccato nel nostro precedente articolo in cui abbiamo considerato quelli più evidenti della vittoria attuale. All’articolo che segue è collegato il Rebus enigmistico vero e proprio, la cui soluzione viene lasciata ai lettori che potranno “postarla” nei commenti: diciamo solo che nel testo sono contenuti tutti gli elementi riassunti nel Rebus, un divertimento per chi ama cimentarsi nel risolvere i giochi enigmistici. Si tratta del “Rebus dell’estate ‘82” , sull’intreccio sport-politica, con le vignette corredate dalle lettere di prammatica: appena dopo il testo dell’articolo, e i due commenti del 2010: il Rebus di 68 parole con 78 vignette d’autore in 5 pagine fitte.

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Il Rebus dell’estate ‘82

“E’ il giorno più bello per me e per l’Italia da quando sono Presidente della Repubblica” ha detto Pertini a Madrid l’11 luglio, il giorno della vittoria degli azzurri al Mundial. E, tornato a Roma con i “suoi ragazzi” campioni del mondo, ha ripetuto: “La vostra vittoria mi ha regalato uno dei momenti più belli della mia vita, certo il più bello dei quattro anni tormentati della mia presidenza”.

Dopo meno di un mese, il 7 agosto, sorpreso dall’improvvisa crisi in Val Gardena, osservava amaramente: “Ho avuto un anno movimentato. Invece neppure una settimana mi hanno lasciato in pace. Domani parto per Roma”. Ed il 9, nel dare inizio alle consultazioni, aggiungeva: “Stavo così bene nella mia Selva di Val Gardena, l’ho lasciata con l’angoscia e l’amarezza nell’animo”.

Due “ritorni” a Roma diversi, due atteggiamenti opposti verso i protagonisti delle vicende calcistica e politica che li hanno determinati. Forse l’abisso che li separa – e la vicinanza nel tempo lo fa rimarcare maggiormente – e la loro personificazione in chi incarna il carattere ed i sentimenti più autentici degli italiani, danno una risposta ai tanti perché i sociologi, psicologi, politologi si sono posti dinanzi all’“euforia contagiosa fino all’autoesaltazione collettiva” – per dirla con Ronchey – seguita alla vittoria calcistica.

Non crediamo che ci si debba spingere in interpretazioni sofisticate sui concetti di patria o sul senso di “appartenenza” né che si debba elucubrare troppo sul significato della riscoperta del tricolore. Ha detto Tardelli, uno dei grandi protagonisti del trionfo azzurro, in un’intervista del 14 luglio: “Mi chiedono tutti: che cosa provi ad essere campione del mondo. Dico: niente. Una strana freddezza, una lucidità, un’assenza di emozione. Come se fosse una cosa vecchia, risaputa, come se fosse niente”.

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Prosegue Tardelli: ” Mi chiedono: che cosa significa questo titolo. No, qui c’è da parlare. Che significa l’ho capito. Due giorni di felicità ad un paese infelice. E’ poco, è molto, fate voi. Ho capito questo, riflettendo sulle prime pagine dei giornali politici: c’eravamo noi, le nostre facce, facce con occhi da matti, matti di gioia, al posto dei brigatisti, della scala mobile, degli scandali delle banche, delle crisi di governo, della Polonia, del dollaro, delle guerre. Per due giorni abbiamo spazzato tutte quelle cose brutte, per due giorni anche chi non conosceva il calcio ha parlato d’altro, ha parlato di calcio.

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Ed ha ribadito Paolo Rossi, lui ch’è stato il trionfatore del Mundial, in un’intervista del 4 agosto, quindi ormai a mente fredda: “Cosa ha fatto la Nazionale? Anche presi in mezzo alla tempesta, io e gli altri ci siamo resi conto, con gioia e spavento, che una squadra di calcio può regalare due giorni di felicità a un paese che chiede felicità, perché non ne ha tanta”.

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Del resto, “Italia facci sognare” è stato lo striscione fortunato che da Vigo ha accompagnato l’avventura mondiale. E le vicende della repentina crisi politica hanno confermato che gli italiani hanno colto l’unica occasione di evasione onirica che si è loro offerta, il sogno di un’incredibile coesione nazionale.

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Ha scritto Alberto Ronchey il 13 luglio a proposito delle “regole del gioco” presenti al Mundial e altrove: “Oltre la soddisfazione e l’entusiasmo per i gratificanti spettacoli e gli eccitanti successi sui campi verdi del massimo sport popolare, c’è stato forse un ‘transfert’ liberatorio, un sollievo dal pessimo stato d’animo che ormai prevale nella ‘penisola dove gli italiani vivono disordinatamente accampati’ , originato dalla coscienza di un oscuro divario tra i talenti nazionali e le prolungate frustrazioni di una società sgranata, spesso disorganizzata, piuttosto infelice. Forse la consapevolezza d’una diffusa inefficienza quotidiana come alienazione collettiva s’è scaricata nell’efficienza agonistica, percepita come compensazione simbolica del basso grado di coesione e costruttività comune, inesplicabile e immeritato nell’opinione dei più”.

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Ronchey ne trae le conclusioni: “Perché dunque si vince una gara difficile ma effimera padroneggiando con destrezza le ‘regole del gioco’, mentre si perde in tante altre cose? E perché non sarebbe possibile adottare in tutte quelle altre cose la severa disciplina praticata nel gioco, riconoscendo che ogni opera implica l’accettazione di una qualche severa regola e insieme competenza tecnica, perseveranza, coordinamento, addestramento, con quella fatica che non è ingrata quando viene condotta al suo fine?”

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Lo ha confermato Tardelli nell’intervista citata: “Essere i primi non solo nel calcio. Una parola… No, in fondo non è difficile. Basta essere seri, amici, compatti, basta unirsi e lottare tutti insieme come abbiamo fatto noi a Vigo… Abbiamo insegnato che nel calcio si vince lottando, che è necessario il carattere, la coesione morale, la voglia di soffrire”.

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E non solo nel calcio, ma in qualunque “campo”, anche se non ha il manto erboso e la folla plaudente. Qui viene il difficile, ma non l’impossibile per una società come la nostra. “Su scala nazionale e nelle attività quotidiane – scrive sempre Ronchey – una simile disciplina postula tuttavia l’organizzazione e il ripudio di quella ‘sregolatezza dei particolarismi’ che certo in Italia discende anche da circostanze storiche disgraziate e da incresciose tradizioni, ma che in tempi recenti ha subito l’innesto d’una pervasiva istigazione all’autoindulgenza e alla dissipazione permissiva. Alcune generazioni, fra l’altro, sono state pressoché vampirizzate dalle pedagogie che opponevano un’assoluta libertà ‘ludica’, ossia una giocosità come pretesa naturalità istintiva o persino come sfrenatezza, a ciò che si definiva l’organizzazione ‘repressiva’”.

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Perché riteniamo che non sia impossibile in Italia ciò che altri paesi riescono a realizzare, e non solo nel calcio? Usiamo le parole di Carlo De Benedetti, tratte dalla sua intervista sulle Partecipazioni statali del 18 luglio: “Il recupero, pur in settori e tempi difficilissimi, di aziende come Olivetti, Pirelli e Fiat, dimostra che la tesi che in Italia non è possibile gestire con successo società di grandi dimensioni è una sciocchezza, divulgata da tanti pseudo studiosi ed utili idioti, non dissimile da quella che gli italiani non sanno giocare al calcio per insuperabili limiti razziali. Poi viene fuori questa nuova magnifica gioventù dei Bergomi, dei Tardelli, degli Oriali, e tutte le teorie razziali saltano in aria”.

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Ed ecco cosa la conclusione sulpiano politico ed economico: “Ma bisogna dare spazio ai mille Bearzot che vivono e lavorano silenziosamente in questo magnifico paese. Non perché siano dei geni, ma perché sono dei professionisti veri e quindi sono intellettualmente indipendenti e quindi lavorano seriamente.

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Con un’ultima frecciata alla politica: “Dopo la memorabile partita con la Germania un uomo politico ha commentato alla televisione che sarebbe deleterio se la nazionale di calcio venisse gestita con i criteri della lottizzazione partitica. Ma è altrettanto deleterio che altre attività vengono gestite con i criteri della lottizzazione partitica, e tra queste le partecipazioni statali il cui compito istituzionale non è quello di soddisfare questo o quel signore delle tessere, ma di produrre cose e servizi nel modo più efficiente ed efficace possibile al servizio del paese, al servizio della gente”.

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Ma non sono solo i problemi di impegno costruttivo e solidale – le “regole del gioco” di Ronchey – e di professionalità – il rifiuto della lottizzazione dei partiti di De Benedetti – a condizionare le possibilità della “nazione” Italia. Ci sia consentita – dopo l’ampia carrellata di citazioni che ha inteso riprodurre la corale partecipazione all’evento ed alcuni flash delle riflessioni che ne sono scaturite – un’autocitazione per indicare un altro requisito essenziale che da tempo manca alla nostra classe di governo.

Nel commentare – all’inizio di giugno – la relazione del Governatore della Banca d’Italia su questa rivista, facevamo un parallelo che è stato di buon auspicio per l’avventura della nazionale italiana: “Ben venga che nelle partite ‘non truccate’ della vicenda economica e di quella calcistica se qualcuno fa dei cross – ci riferivamo allusivamente ai ‘cross del Governatore’ – ci sia chi sappia raccoglierli e metterli in rete. E’ una carenza della nostra compagine governativa come della nazionale di calcio che deve essere colmata se si vogliono raggiungere i traguardi sperati: nella competizione del ‘sistema Italia’ con gli altri paesi, come nel Mundial spagnolo. Questo deve essere ormai un imperativo categorico di fronte ai duri impegni che l’Italia deve affrontare”.

E fare un’inconcludente “melina” invece di affrontare i problemi con un’iniziativa audace e decisa alla lunga non paga, come non paga nel gioco del calcio. Dall’Italia di Paolo Rossi è venuto l’esempio di come si può diventare campioni del mondo nel calcio, come dalle iniziative di tante piccole imprese – i “mille Bearzot” di De Benedetti – si è avuta la dimostrazione che si può battere qualsiasi concorrente sul terreno tecnico, produttivo, economico. Ma la classe politica ha fatto quel salto di qualità che altri settori della vita e del costume nazionale hanno dimostrato di poter realizzare?

Il miracoloso recupero della maggioranza e il compromesso sulla scala mobile raggiunti mentre all’aspra vicenda politica e parlamentare facevano da contrappunto le ultime trionfali partite della nazionale, anche sull’onda dei suoi esaltanti successi, avevano evitato la crisi profilatasi agli inizi di luglio; tanto che Pertini, partendo il 31 per la Val Gardena poteva dire: “Parto per le vacanze sereno, è tutto tranquillo”. Ma una settimana dopo – proprio all’indomani del vertice dei segretari della maggioranza concluso con un accordo, anche se tormentato – si è avuta l’inaspettata crisi d’agosto per una sortita dei “franchi tiratori” su un decreto fiscale.

Non è spirato un mese dal trionfo mondiale che la partitocrazia ha dunque dimostrato la sua capacità insuperabile nel fare “autogol” imprevedibili quanto imparabili. C’è voluto il diabolico marchingegno del ritiro della “delegazione” socialista al governo per vanificare la strenua difesa di Pertini alla porta governativa; creando così il precedente paradossale di una crisi extraparlamentare ma nata in Parlamento, quindi sottratta a quei meccanismi di verifica e di responsabilizzazione – sfiducia palese e motivata ecc. – che rappresentavano una sia pure fragile garanzia di governabilità e servivano a riaffermare almeno una parvenza di sovranità del Parlamento dinanzi all’invadenza partitocratica.

Ed anche se, nello stesso mese di agosto, la crisi è stata risolta sulla base del “decalogo istituzionale” di Spadolini, il senso di instabilità e di precarietà è ormai radicato di nuovo nella nazione e si attende solo il prossimo “casus belli” all’interno della maggioranza. Del resto il reincarico è stato subito definito “minestra riscaldata”, anche se con i nuovi ingredienti della riforma istituzionale, i quali, a loro volta, appaiono – come è stato già detto – “aria fritta” e diventano la mina vagante innescata nel nuovo governo, che di nuovo ha solo il nome essendo rimasti composizione e programma economico del tutto immodificati.

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Si è così consumato nel breve spazio dell’estate ’82 l’intreccio entusiasmante tra calcio e grande politica che aveva avuto in Pertini e Spadolini dei protagonisti d’eccezione a fianco della squadra azzurra e che poteva portare ad una rigenerazione della politica così come il calcio ha vissuto la sua trionfale rigenerazione dopo lo scandalo delle “scommesse”; e Dio sa quanti e quali scandali la politica ha da farsi perdonare! Ed è stato subito disilluso Spadolini che aveva tratto auspici per ritrovare anche nel governo “un’intesa collegiale ed un gioco collettivo che sembravano irrimediabilmente smarriti” come era riuscito alla nazionale.

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“Come capitano della squadra di calcio che si chiama governo – aveva detto ricevendo a palazzo Chigi i campioni del mondo – che in questi 40 giorni ha avuto anch’essa alcuni difficili gironi da superare, e che ha ancora molte partite dure da giocare, io vedo, caro Bearzot, caro Zoff, in questa vittoriosa coesione, fatta di comportamenti individuali riservati e determinati, un augurio anche per la mia squadra”.

Invece tutto si è concluso con l’“amarezza e l’angoscia” di Pertini di cui parlavamo all’inizio. Quest’irripetibile occasione, che avrebbe potuto far avvicinare il tricolore anche al mondo della politica, è stata bruciata, l’Italia della politica non fa sognare gli italiani, anzi li risveglia bruscamente ad una ben più misera realtà. E pure se si avranno ancora nuove occasioni per il tripudio del tricolore, ci sarà sempre l’amarezza per il modo brutale con cui il sogno è finito.

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Anche se nulla è perduto per la parte sana del paese che vive e lavora con la serietà delle tradizioni – il tripudio di un popolo e di tricolori in tutti i continenti ha ricordato che siamo in una terra di emigrazione, di sacrifici e di sofferenze – e per la quale la seconda parte dell’augurio di Spadolini certo non andrà dispersa come è invece subito avvenuto per la prima parte: “E questo augurio – ha proseguito il Presidente – vale, cari amici, per tutti gli italiani che lavorano e che studiano e che, dalla vostra impresa davanti a tutto il mondo, hanno tratto anche l’esempio ed il monito della serietà e del sacrificio, esempio e monito che resteranno al di là della felicità di queste notti d’estate”.

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Di questo intreccio tra calcio e politica, in cui le due “squadre” di Bearzot e di Spadolini hanno fatto vivere opposte e sensazionali vicende – dal trionfo sportivo alla crisi politica – nell’indimenticabile e per tanti versi irripetibile estate ’82, proponiamo un’inconsueta visualizzazione enigmistica in cui tutto si mescola e tutto “si tiene” in una “torre di babele” gioiosa e amara: in carattere con il clima estivo, l’eccezionalità degli eventi che abbiamo vissuto, la partecipazione corale, le pazze iniziative di tripudio che ha scatenato la vittoria.

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Del resto, non si può negare che l’estate ’82 per molti versi, calcistici e sportivi, di costume e politici resterà a lungo un rebus: tutto da risolvere. La soluzione del “nostro” rebus, invece, seguirà le classiche regole enigmistiche: è rimandata soltanto “al prossimo numero”.

Romano M. Levante

Pugnochiuso, 11 luglio 1982
Pietracamela, 23 agosto 1982

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Commenti in occasione della ripubblicazione in occasione dei mondiali del 2010:

1 Commento

  1. Marco Ciriello – Vancouver – Columbia Britannica – Canada

Postato giugno 20, 2010 alle 1:40 AM

Ho letto questo articolo poco prima di vedere la partita dell’Italia contro la Nuova Zelanda ai mondiali del 2010.

L’effetto e’ stato estremamente stimolante e la mia mente, nel corso della gara, ha oscillato tra le emozioni che gli eventi mi davano, ed osservazioni razionali sulle caratteristiche socio/culturali di un fenomeno come quello calcistico rispetto a quelle che sono correlate alle attività’politiche.

E’ nobile la domanda sul perché non si possa operare nella vita esprimendo le stesse qualità’, motivazioni che, nel migliore dei casi, guidano le azioni in campo. Ne elenco alcune: la coesione tra i membri di una squadra, il fine comune ultimo, il risultato chiaro (che può’ essere verificato ogni volta), la prestazione dei membri della squadra fatta senza intermediari e direttamente osservabile che, si deve aggiungere, può’ essere giudicata in tempi reali (quindi la possibilità di aggiustamenti sia delle strategie che in eventuale sostituzione dei giocatori). Prima della gara, inoltre, avviene uno studio di un piano d’azione che e’ compiuto da un allenatore, il quale e’ responsabile del risultato e che, in caso di sconfitta, viene licenziato (questione che richiederebbe chiarimenti che vanno al di là’ degli scopi immediate di questo commento). Il tutto e’ osservato dalla stragrande maggioranza dei cittadini i quali, anche se non partecipano direttamente alla preparazione delle strategie, certamente si coinvolgono nella realtà’ calcistica prima, durante e dopo la partite. Questo costante vaglio ed osservazione induce ad una maggiore responsabilizzazione di coloro che prendono le decisioni ultime. In un clima del genere la delusione originata da un risultato negativo non crea pessimismo o frustrazione dovuto al senso d’impotenza derivato dal non poter partecipare, dal continuo subire. Se si commettono errori, si può ricominciare di nuovo. Nel caso della sconfitta si può’ pensare all’incompetenza, all’incapacità’, alla poca destrezza, ma non si pensa alla malafede ed all’intenzione di fare del male agli altri per un proprio tornaconto. In una partita sarebbe illogico operare per se stessi contro il bene comune, perché’ i due fattori coincidono. La vittoria, cioè’ il bene comune, aumenta il valore dei singoli componenti del gruppo: quindi aumenta anche il valore personale.

E la Politica? L’articolo di Romano Maria Levante e’ molto interessante perché’ getta il “seme” che, attraverso riflessioni successive, può’ permetter d’individuare una chiave di lettura dei “malanni sociali e Culturali” la quale indirizzi verso una loro soluzione. Alla fine se, attraverso un’analisi comparativa, si individuassero elementi positivi in alcuni sistemi, la domanda fondamentale sarebbe: come tali elementi o caratteristiche positive possano essere applicate ad altri sistemi che al momento non sono poi così’ ben pensati?

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2. Antonio Caprini

Postato luglio 5, 2010 alle 4:08 PM Propongo di girare il Rebus a tutti i giornalisti sportivi italiani. Finito il tempo di Gianni Brera, anche questo settore del giornalismo lascia molto a desiderare. Si guardi, per citare l’ultimo esempio, alle favorite del Mondiale sudafricano: Brasile e Argentina in pole position. Bene, anzi male. Malissimo oseremmo dire. Il Brasile, anche con Melo (che solo in Italia poteva giocare), ha dimostrato che la sua straordinaria cultura calcistica ha fatto un grande passo indietro: è ferma al Brasile di 20 anni fa. Quanto all’Argentina, resta la prima impressione del giornalista di Repubblica che, alcuni minuti dopo la disfatta con i teutonici tedeschi (auguri!) ha scritto: “E’ solo un’accozzaglia di talenti, senza un gioco”. Ecco cosa fa la politica sportiva: inserisce Maradona come trainer, ben sapendo che in cambio ci saranno sponsor e soldi. Poi, al primo vero big match, ne prendono 4. Dai Maradona, studia e leggi Gianni Brera!

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Il REBUS DELL’ESTATE ’82 in 78 VIGNETTE PER 68 PAROLE

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Info

L’articolo, con annesso il Rebus enigmistico, è stato pubblicato a stampa nel numero di settembre 1982 del mensile di politica, economia e cultura “Realtà del Mezzogiorno” diretto dal prof. Guido Macera; è stato ripubblicato, con riferimento ai Mondiali del 2010, nel sito “on line” “cultura.inabruzzo.it”, non più raggiungibile.

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Le immagini sono state tratte dai siti “on line” – indicati al termine – di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta. Si precisa che non vi è alcuna finalità di tipo economico nè di natura pubblicitaria, ma un intento meramente illustrativo; qualora, tuttavia, la pubblicazione non fosse gradita, basterà una richiesta del titolare non consenziente – comunicata nella parte dei commenti o in altro modo – e si provvederà subito alla rimozione dell’immagine che verrà indicata. Le prime 15 immagini riguardano i mondiali del 1982 cui si riferisce l’articolo e il Rebus enigmistico; seguono 15 immagini della vittoria nei mondiali del 2006, per completare la rievocazione con l’altro grande successo degli azzurri, concluso il 9 luglio, 2 giorni di differenza – a parte gli anni – rispetto agli altri due successi. In entrambe le sequenze, dopo l’apertura nel momento “clou” con la Coppa levata in alto, scene di esultanza dei calciatori, quindi condivisione della Coppa, fino ai festeggiamenti e alla formazione delle due squadre di azzurri, nella rievocazione del 1982 l’isolito particolare del ritorno in aereo con il presidente Pertini; in chiusura un’immagine simbolo dei tifosi azzurri con il tricolore. Ecco i siti fonte delle immagini – ai cui titolari si rinnova la gratitudine e la disponibilità a eliminare quelle la cui pubblicazione non fosse gradita – nell’ordine in cui le immagini sono inserite nel testo: per il 1982 : tg24.sky.it, calciofanpage.it, corriere.it, ngonews.it, calciofanpage.it, storiefuorigioco.altavista.org, gazzetta.it, curiosando708090.altavista.org, oassport.it, storiedicalcio.altavista.it, it.wikipedia.org, tg24.sky.it, archive.org, gaslinosvalkvwordpass.com, corriere.it; per il 2006 : lastampa.it, calciotoday.it, ildolomiti.it, youmedia.fanpage.it, bighe.net, eurosport.it, tg24.sky.it, vivoperlei.calciomercato.com, tg24.sky.it, ilmessaggero.it, repubblica.it, stylecorriere.it, asromaultras.org, coppadelmondo2006blog.sport.it, gazzetta.it; infine: ipersoap.com.

La “notte magica” dell’11 luglio 2021, il bis dell’11 luglio 1982,,,

di Romano Maria Levante

“Notte magica” questa dell’11 luglio 2021 per la strepitosa vittoria dell’Italia agli Europei di calcio a Londra,  che ci riporta per intensità emotiva e per significati reconditi alla “notte magica” dell’11 luglio 1982  allorché l’Italia tutta festeggiò, come fa ora,  l’altrettanto strepitosa vittoria ai Mondiali di calcio a Madrid.  Manca un anno al quarantennale,  sarà nel 2022 e speriamo di celebrarlo con un risultato altrettanto prestigioso al prossimo mondiale; intanto lo anticipiamo, per così dire, con una “licenza” speculare a quella che, a causa della pandemia, ha posticipato di un anno la manifestazione, che pure mantiene il titolo  di “Europei 2020”. E cosa c’è di meglio di un evento esaltante come quello che abbiamo vissuto per celebrare, insieme alla splendida realtà odierna, il ricordo di un  momento di esultanza popolare, ripetuto solo con la nuova vittoria ai mondiali del 2006?

“Per aspera ad astra”

Dei tanti motivi alla base della strepitosa vittoria agli Europei di calcio alcuni sono diversi dai  successi del passato, sono stati superati difficili ostacoli, per di più del tutto inediti.

Il primo motivo di difficoltà è stata la  “ricostruzione” dalle “macerie” dell’eliminazione dalla fase eliminatoria dei Mondiali del 2018, che neppure il più smodato ottimista avrebbe immaginato sfociasse, soltanto tre  anni dopo, nel trionfo in un Europeo  che quanto a livello, difficoltà e prestigio si avvicina  al Mondiale, in cui si aggiungono, a parità di valore calcistico, le squadre sud-americane; un trofeo, quello dell’Europeo che – a differenza del Mondiale, vinto 4 volte, anche nel 2006 – l’Italia non conquistava da ben 53 anni, con l’unico successo nel 1968!  

L’altra principale difficoltà è stata dover giocare  la finale decisiva in trasferta mentre l’avversario giocava in casa, nello stadio di Wembley a Londra con 59.000 inglesi dei 70.000 spettatori nel grande catino gremito nonostamte la pandemia, in delirio per la squadra di casa; e questo per di più dopo oltre un anno di partite a porte chiuse, o con pochi spettatori come negli ultimi incontri degli Europei, il che significa un impatto emotivo ben superiore alla normale “trasferta”, pur essa sempre incidente sul risultato.

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Nella fase cruciale  dell’eliminazione diretta, si è aggiunto il grave infortunio al calciatore segnalatosi nel girone  iniziale come determinante negli affondi sulla fascia sinistra, che aveva privato la squadra italiana di un elemento fondamentale. Il difensore-attaccante Spinazzola ha assistito alla finale tra i compagni in panchina con la maglia n. 4 e le stampelle che hanno fatto pensare a un Enrico Toti redivivo mentre le protendeva in alto nell’unirsi alla festa dei compagni. All’inizio della partita, il goal a freddo dopo 2 minuti creava un handicap che la rendeva più in salita, una missione ancora più… impossibile.

Il protagonista, con la “sua” squadra, Roberto Mancini

Come è stato possibile raggiungere il massimo risultato  in un situazione così svantaggiata? Da profani non azzardiamo una risposta ma indichiamo dei fatti: la ricostruzione dalle “macerie” ha un nome, Roberto Mancini,  che ha portato al successo la “missione impossibile”. E lo ha fatto, a parte la sperimentata maestria tecnica,  facendo leva sullo spirito di squadra di un gruppo che ha ricostituito dalle fondamenta con anziani fidati e giovani motivati, i quali lo hanno seguito in una coesione ottenuta anche facendo ruotare i componenti nelle partite in modo che tutti si sentissero titolari e nessuno riserva, e caricadoli anche a dovere. A tal fine ha chiamato il suo partner calcistico di una vita, Gianluca Vialli, il quale al carisma sportivo ha aggiunto l’esempio della sua vicenda umana, un ritratto del coraggio che insegna come si deve lottare; e lo slancio con cui si sono stretti in un lungo abbraccio con le lacrime che rigavano i loro volti in un pianto liberatorio è stato il sigillo più alto della nobiltà dei valori condivisi. Un pianto di gioia nella commozione, che li ha ripagati della cocente delusione di 29 anni prima, proprio a Wembley, allorchè la loro squadra, la Sampdoria, fu sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni, allora il pianto fu di delusione e rabbia per il sogno svanito.

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Ed ecco cosa ha detto Vialli alla squadra nella preparazione due giorni prima della partita decisiva, diversi siti nel riportarlo lo hanno definito “il discorso da brividi”. E’ una citazione di Franklin Delano Roosevelt, il presidente-coraggio degli USA in un momento decisivo: “Non è colui che critica a contare, né colui che indica quando gli altri inciampano o che commenta come una certa azione si sarebbe dovuta compiere meglio. L’onore spetta all’uomo nell’arena. L’uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e mancanze”; e non si è fermato qui, ha concluso: “L’uomo che dedica tutto se stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una causa giusta. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato. Quest’uomo non avrà mai un posto accanto a quelle anime mediocri che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta”. Dunque non è solo la loro rivincita rispetto a 29 anni prima – la Coppa Europa della Nazionale vinta rispetto alla Coppa dei Campioni della Sampdoria persa – a muovere un simile abbraccio, ma soprattutto la condivisione di un successo cui ha contribuito anche questo appello ai più alti valori umani ben al di là di quelli sportivi.

Per tornare al protagonista primo, Roberto Mancini, va sottolineato lo straordinario attaccamento ai colori nazionali non mostrato allo stesso modo da altri pur grandi allenatori. Basterebbe ricordare che festeggiò la prestigiosa vittoria nella Premier League  da allenatore del Manchester City – ottenuta nei minuti finali dell’ultima partita del campionato britannico – unendosi all’esultanza con il giro del campo avendo al collo vistosamente il tricolore, incurante delle possibili reazioni scioviniste degli inglesi che gremivano gli spalti. E se fu un gesto simbolico, la prova pratica dell’attaccamento ai nostri colori si è avuta con la rinuncia ai molti milioni di euro che gli erano dovuti dalla squadra che allenava, lo Zenit di Mosca, per divenire Commissario tecnico della nostra nazionale: precisamente nel 2018 rinunciò a 24 milioni di euro lordi per i due anni di contratto rimanenti fino al 2020, e a 500 mila euro per la stagione allora in corso, mentre il compenso della FIGC al Commissario tecnico era di 2 milioni di euro. In un mondo di professionisti divenuti mercenari era già un esempio di una ben diversa scala di valori.

Si può capire quali e quante motivazioni ha saputo trasmettere ai suoi giocatori, e lo si è visto dal canto corale dell’inno nazionale, con l’intensità espressa negli occhi e nelle voci.

“Sono felice di avere dato una gioia e una speranza agli italiani dopo un periodo così difficile. Dedico la Coppa a tutti gli italiani, in particolare a quelli che risiedono all’estero. Ancora non siamo consapevoli di quello che abbiamo fatto”, ha detto lui stsso entrando al Quirinale: e non c’è nulla di rituale nell’omaggio, nasce dalla convinzione profonda che sente come una missione, tanto che ha rinnovato fino al 2026 senza lucrare i ben più remunerati incarichi di club, come del resto aveva fatto all’inizio. Si deve dare atto a Billy Costacurta, il superpremiato difensore del Milan, di aver visto giusto quando, incaricato dalla Federazione, è riuscito a portare alla guida della Nazionale, di cui è stato un punto di forza per tanti anni, il più meritevole perchè oltre ad essere vincente ha dimostrato l’attaccamento ai colori dell’Italia.

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I vertici istituzionali agli azzurri: le parole di Mattarella e di Draghi

Anche l’accoglienza al Quirinale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha avuto nulla di rituale, con la gigantografia dell’arco di trionfo dell’esultanza a Wembley e le sue parole a nome di tutti gli italiani che hanno toccato i tasti del riconoscimento sportivo e del valore civile e umano; ha accomunato anche il tennista Berrettini pure se sconfitto – ma unico finalista italiano in 150 anni di storia del torneo di Wimbledon – con l’onore delle armi dal n. 1 del mondo.

“Complimenti – ha detto – siete stati accompagnati, in queste sette partite, dall’affetto degli italiani. Ne siete stati circondati. Li avete ricambiati rappresentando bene l’Italia e rendendo onore allo Sport”, e lo ha spiegato: “Anzitutto per il gioco che avete espresso. Non avete cercato soltanto di vincere, avete vinto esprimendo un magnifico gioco. Questo ha reso onore allo sport naturalmente. E questo è ciò che ha fatto divertire. Anzitutto voi, sicuramente, ma anche tutti quelli che vi guardavano, e non soltanto dall’Italia”.

Ha “espresso un ringraziamento a Roberto Mancini” spiegandone i motivi: “La fiducia che ha sempre manifestato sin dall’inizio del suo impegno alla guida della Nazionale; la rivoluzione che ha introdotto nell’impostazione del gioco; l’accurata preparazione di ogni partita, che si è vista per chi avesse un po’ di dimestichezza con il gioco del calcio”.

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Poi l’incontro degli azzurri a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Mario Draghi che ha rivolto loro parole semplici e intense, parole vere. Ha detto “ci avete fatto emozionare, commuovere. gioire, abbracciare”, fotografando così l’interno delle case di tutti gli italiani, essendo preclusi per precauzione rispetto alla pandemia i maxischermi all’aperto. Parlava anche di sè, infatti ha aggiunto: “Io sono stato sempre molto orgoglioso di essere italiano, ma questa volta abbiamo festeggiato insieme la vostra vittoria, e quello di cui ci avete reso orgogliosi è di essere uniti in questa celebrazione in nome dell’Italia”. Non si poteva rendere meglio il passaggio dal piano personale al livello collettivo, anzi al livello nazionale – non della nazionale di calcio ma della Nazione – sensazione che abbiamo provato anche noi come, crediamo, tutti gli italiani.

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Draghi lo ha motivato così: “Lo sport segna la storia delle nazioni, ogni generazione ha i suoi ricordi, ed oggi siete voi ad essere entrati nella Storia”. Ma alla storia si aggiunge la stretta attualità: “Ci avete messo al centro dell’Europa”, e significa tanto, ma tanto, anche in termini molto concreti, sul piano politico, economico e sociale, per oggi e per domani.

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Gaber, Battiato e Cotugno, non sono solo canzonette...

Draghi con la sua confessione aperta e sincera ha risposto alla domanda che poneva Giorgio Gaber nel suo teatro-canzone. Sulla Patria: “Mi scusi presidente/ non è colpa mia/ se quando sento Patria/ non so che cosa sia/… sull’appartenenza : “Mi scusi presidente, se arrivo all’impudenza/ di dire che non sento/ alcuna appartenenza,/ e tranne Garibaldi/ e altri eroi gloriosi/ non vedo alcun motivo/ per essereorgogliosi”… finanche sul calcio: “Mi scusi presidente,/ lo so che non gioite/ se il grido Italia, Italia/ c’è solo alle partite” .

Nelle parole di Draghi la gioia di “questa” partita che ha fatto sentire la Patria, l’appartenenza, il perchè essere orgogliosi. Motivi espressi con passione da Gaber, che concludeva così la sua riflessione accorata: “Io non mi sento italiano/ ma per fortuna o purtroppo/ per fortuna o purtroppo/ per fortuna/ per fortuna lo sono”.

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E gli ha fatto eco Franco Battiato nel finale di “Povera Patria/schiacciata dagli abusi del potere..” con la ripresa volitiva: “non cambierà, non cambierà/ sì che cambierà/ vedrai che cambierà”. Fino all’orgogliosa appertenenza di Toto Cotugno: “Lasciatemi cantare/ perchè ne sono fiero/ sono un italiano/ un italiano vero”.

Qualcuno potrebbe dire con Bennato “sono solo canzonette”, come dell’Europeo “sono solo calci al pallone”, ma Draghi ha già risposto che “lo sport segna la storia delle Nazioni”.

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E sull’appartenenza proviamo lo stesso sentimento che fece dire a Fabrizio Quattrocchi, mentre cercava di toglieva la benda con uno scatto di ribellione prima di essere barbaramente giustiziato da parte dei terroristi iracheni nel 2004: “Adesso vi faccio vedere come muore un italiano”. Abbiamo visto da ogni azzurro “come lotta un italiano” con lo spirito di squadra e la motivazione giusta – “tutti volevano tirare i rigori” ha rivelato Evani, vice di Mancini, “e allora ho capito che avremmo vinto” – e la competizione sportiva è lo specchio della vita, il riferimento obbligato di tante metafore. Quattrocchi ha avuto meritatamente la Medaglia d’oro al valor civile, sugli azzurri sono piovute le giuste onorificenze: di Grand’Ufficiale al presidente della FIGC Gravina e al Commissario tecnico Mancini, di Commendatore al Team manager Oriali e al Capo delegazione Vialli, di Ufficiale al capitano Chiellini, di Cavaliere a tutti gli altri senza eccezioni. Un en plein!

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Il bagno di folla degli azzurri

Il bagno di folla nel Bus scoperto non poteva che essere la conclusione trionfale di un percorso di impegno e sofferenza, di ansie e di speranze, nella “missione impossibile” di vincere gli Europei di calcio, andata a buon fine, e anche quest’ultimo passaggio non è stato scontato. All’inizio il tragitto per Quirinale e Campidoglio è avvenuto su un pullman chiuso, banale nella sua normalità a parte una piccola fascia tricolore, e ciononostante ci sono voluti i motociclisti per aprire il varco tra la folla, 2 chilometri percorsi in mezz’ora.

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A questo punto le restrizioni agli assembramenti hanno dovuto cedere, a Palazzo Chigi è stato accolto il pressante appello di Chiellini e Bonucci, i “leader” dei calciatori, per un apposito Bus scoperto, “lo dobbiamo ai tifosi” ha detto Bonucci. E ha fatto bene la Federcalcio a rispondere piccata all’accusa del Prefetto di aver disatteso il rifiuto dell’autorizzazione chiesto ma non concesso. I giocatori e la delegazione non sarebbero venuti a Roma senza l’invito dei presidenti della Repubblica e del Consiglio, ma essendo stata comunicata l’ora si era creato inevitabilmente l’assembramento, tanto che il pullman ccperto e chiuso alla vista, facilmente identificato, aveva impiegato mezz’ora a percorrere due chilometri, quindi la frittata era già fatta, coperto o scoperto creava assembramenti nè le forze dell’ordine li potevano impedire; come non avevano impedito gli assembramenti nella notte della vittoria nelle città d’Italia e a Roma, e dov’era il Prefetto? Impegnato a respingere la richiesta della parata sull’apposito Bus scoperto non aveva evitato affatto gli altri assembramenti ugualmente a rischio contagio, ed era inevitabile accogliere la richiesta degli azzurri perchè comunque la gente che aveva invaso il centro nella loro attesa – e non solo i tifosi – si sarebbe stretta ancora intorno al pullman chiuso, come prima delle due cerimonie con i Presidenti , al Quirinale e a Palazzo Chigi, percorso anch’esso ineludibile.

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Così c’è stato il finale in bellezza, per le vie del centro di Roma con il gruppo di calciatori, Commissario tecnico e staff – c’era anche il tennista Berrerttini – a rispondere alla folla brandendo la coppa e partecipando dall’alto del veicolo all’esultanza collettiva. Finale in bellezza, del resto il presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio, Gabriele Gravina, aveva detto intervenendo al Quirinale: “Siete la grande bellezza, non solo nel gioco, ma nei valori”, citando la coesione e lo spirito di squadra, che è un valore a livello nazionale.

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Ci fermiamo a questi pochi accenni senza entrare minimamente nei valori di fondo, se non con due rapide sottolineature: la prima è che risulta confermata la capacità italica di moltiplicare le energie nelle situazioni di emergenza, ne abbiamo citato alcune sportive, aggiungiamo il contesto generale tormentato dalla pandemia che ha richiesto energie aggiuntive di tutti i tipi; la seconda è  che speriamo sia confermata anche l’incidenza del fenomeno calcistico nella vita della nazione, vita economica compresa, per cui questo risultato potrebbe essere la molla per risalire la china e risorgere anche a livello generale, come si è riusciti a fare per il calcio che rappresenta una stimolante metafora della vita.

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La metafora del calcio

E come metafora il calcio non scherza: dalle piccole vicende dei rigori con i campioni che li sbagliano e, anche quando ne segnano uno decisivo, come Jorginho nella semifinale, sbagliano il secondo altrettanto decisivo nella finale; e con lui Belotti, altro specialista, stessa micidiale alternanza, ed è stato il primo a saltare al collo per gratitudine al portiere Donnarumma che ha rimediato; per non parlare dei due inglesi fatti entrare in modo rocambolesco all’ultimo istante dei supplementari proprio per tirare i rigori e li sbagliano entrambi. Per essere poi investiti da un’ondata di insulti razzisti dei tifosi inglesi sui “social” in contraddizione con l’inginocchiarsi della loro squadra, imitata da quella italiana per “solidarietà”, come nella partita con il Belgio, mentre in quella con la Spagna no, ma c’è stata ugualmente una condivisione, pur se di altro tipo, ” A far l’amore comincia tu…”, musica in omaggio a Raffaella Carrà, intonata durante il riscaldamento prima della partita.

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Si è vista anche la presunzione arrogante degli inglesi che in modo antisportivo si sono tolti la medaglia d’argento dopo che il “loro” pubblico, 59.000 spettatori, aveva lasciato lo stadio in modo miserevole per non assistere alla premiazione con le medaglie d’oro e la Coppa date alla squadra che con umiltà e compattezza li aveva dominati pur con la doccia fredda del goal al 2°minuto. La loro “curva”, dove sono stati battuti i rigori, non è riuscita a intimidire con i fischi assordanti tre azzurri che hanno fatto centro e Gigio Donnarumma, il portiere assurto ad eroe della serata, con le due grandi parate in orizzontale che hanno contribuito al premio di “Migliore giocatore del torneo”, raranente dato a un portiere.

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Fischiare l’inno nazionale italiano da parte del pubblico di ultras inglesi è stato un pessimo inizio, come l’assenza del principe William alla premiazione una pessima conclusione. A caldo tutto si può capire anche se non giustificare, ma in questo caso anche a mente lucida si è scesi nell’irragionevolzza più eclatante: una petizione volta a ripetere la partita per presunti inesistenti favori arbitrali da chi li aveva avuti per il rigore decisivo, anch’esso inesistente, nella semifinale con la Danimarca; e ancora più – data l’autorevolezza della fonte, “The Economist” – la pretesa di annullare la vittoria perchè la squadra italiana è “l’unica tra le concorrenti che non include un solo giocatore di colore”: quasi ci fossero le “quote” etniche nel calcio, e non fosse stato per entrare nel gruppo il giovanissimo Kean, e un certo Balotelli non avesse deciso con due goal la semifinale degli Europei contro la Germania il 28 giugno 2012 togliendosi poi la maglia per mostrare i muscoli da culturista.

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Forse i tifosi inglesi non conoscono la canzome “Bisogna saper perdere”, eppure chi l’ha cantata al Festival di San Remo del 1967 funestato dalla morte di Luigi Tenco, con i Rokes, Shel Shapiro, è nato proprio a Londra….Tutto questo aumenta i meriti degli azzurri e accresce la soddisfazione per l’esito vittorioso che ci fa irridere a queste miserie non solo sul piano sportivo. Evocare la “perfida Albione” andrebbe censurato con sdegno, se qualcuno si azzardasse a farlo, ma viene la tentazione di definirla “perfida Brexit”!

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“Per aspera ad astra”, dunque, è anche e soprattutto il tragitto che deve compiere la comunità nazionale con la pandemia non ancora esaurita, sull’esempio e lo stimolo di quanto è avvenuto mirabilmente su un campo così difficile come quello di Wembley. Ed è questo che tutti hanno avvertito riprendendo speranza e fiducia, sentendosi di nuovo comunità e non più le monadi isolate nei forzati “lockdown”: da individui a squadra, da frustrati a vincenti. Con l’orgoglio di aver rappresentato l’Europa, anzi l’Unione Europea, contro… la Brexit e avere prevalso nelle più avverse circostanze ambientali e sportive, sorretti da una determinazione e una fiducia inimmaginabile che tutti hanno sentito trasmettersi lungo i canali misteriosi che legano lo sport, e in particolare quello così popolare come il calcio, alla vita delle nazioni, come ha ricordato lo stesso Draghi.

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Le premesse ci sono perchè questo avvenga, dalla guida sicura del governo di Mario Draghi, alla diversa sensibilità dell’Unione Europea passata finalmente dal patto per l’austerità a un lungimirante patto per la crescita mobilitando risorse ingenti con rigide condizioni perchè non vengano disperse, ma siano destinate a risolvere annosi problemi del Paese in modo da ridare slancio alla nostra economia, competitività alle imprese, sicurezza e migliori prospettive di benessere ai lavoratori e alle famiglie.

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La macchina dei sogni

A questo punto la coincidenza della data 11 luglio, ci fa tornare a quasi quarant’anni fa in un “come eravamo” emozionante quanto eloquente. “Italia facci sognare” si leggeva in uno striscione che dagli spalti accompagnò tutte le partite della nostra nazionale nel mondiale spagnolo del 1982, fino alla vittoria. Particolarmente esaltante perché veniva dopo un digiuno di 44 anni dal Mondiale – 9 anni in meno del “digiuno” attuale dall’Europeo di 53 anni – e portava a tre le vittorie mondiali dopo quelle del 1934 e 1938. Si aggiunse l’interesse per il calcio della “strana coppia” costituita da Pertini presidente della Repubblica, e Spadolini presidente del Consiglio, abbiamo visto l’altra “strana coppia”, altrettanto interessata al calcio, dei presidenti al vertice dello Stato, Mattarella e Draghi.

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Le emozioni e i ricordi della lontana vittoria del 1982 sono stati così intensi che non sono sbiaditi: sul campo l’urlo di Tardelli e la riabilitazione di Paolo Rossi, capocannoniere e trionfatore dopo una penosa squalifica. In tribuna Pertini che non trattiene il tifo pur avendo vicino il re Juan Carlos e non si fa frenare dall’etichetta; brandisce la pipa come una bandiera, e la brandirà nella partita a scopone del volo di ritorno con Enzo Bearzot l’allenatore modesto e vittorioso, e Zoff , dalle mani che innalzavano la coppa immortalate nel francobollo celebrativo e Causio, un “barone” nel momento della felicità sportiva.

Le amarezze e le miserie della politica dimenticate, e ce n’erano, una crisi di governo evitata dal “decalogo istituzionale” di Spadolini, dove si affrontavano i ridotti poteri del presidente del Consiglio da potenziare per dare efficacia all’azione di governo, la riforma della presidenza e dei ministeri, il voto segreto, le norme sul referendum e l’inquirente, l’adeguamento dei regolamenti parlamentari alle limitazioni della legge finanziaria e di bilancio, la responsabilità disciplinare e civile dei giudici irrisolti; i problemi pur altrettanto sentiti del bicameralismo e del sistema elettorale non furono compresi nel “decalogo” , e non furono sciolti quelli che chiamammo i “nodi della matassa”. Molti dei quali restano tutora e impedicono di trovare il bandolo della matassa tanto aggrovigliata.

Il Rebus in vignette enigmistiche della “calda”’estate 1982

Dopo la parentesi “bartaliana” del mondiale 1982 le leggi della malapolitica ripresero il sopravvento Ma oggi, pur tra scontri e divisioni, speriamo nel nuovo effetto “bartaliano”, anche se  l’estate 2021 sul piano politico non ripeterà la lunga estate 1982: nessuno si sente di intralciare seriamente il governo di unità nazionale di Draghi, pur tra inevitabili schermaglie. Del resto è imminente il “semestre bianco” che toglierà la spada di Damocle delle pur altamente improbabili elezioni anticipate, e al termine dei sei mesi la nomina del nuovo Presidente della Repubblica, che resta un’incognita per la posizione di Draghi, il più qualificato successore di Mattarella, ma nel contempo impegnato a “finire il lavoro” fino alle elezioni del 2023? Accetterà Mattarella di prolungare il proprio mandato?

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Stanno venendo sempre più allo scoperto le fibrillazioni all’interno dei partiti e tra loro in vista delle elezioni politiche del 2023, ma saranno transitorie, mentre dall’economia ci si attende un forte rimbalzo dopo la falcidia dell’ultimo anno e soprattutto una nuova più solida base competitiva con l’impiego oculato delle risorse del “Recovery Found”, pur se l’indebitamento a livelli stratosferici non fa stare tranquilli. Si dovrà dare al nostro debito accresciuto la qualifica di “debito buono” invocata da Draghi con il virtuoso impiego dei capitali  a prestito in progetti che lo ripaghino a dovere trasformando il maggiore debito in una “leva finanziaria” in grado di imprimere uno slancio propulsivo all’economia.

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A parte questo accenno all’oggi, ciò che avvenne dopo il trionfo di Madrid l’11 luglio 1982 lo raccontammo in un articolo su un austero mensile di politica, economia e cultura con al termine la traduzione dell’intreccio tra politica e sport in quella calda estate postmondiale in “Il Rebus dell’estate ‘82” . Riproporremo commento e Rebus domani dopo l’esaltante ’11 luglio 2021. E’ un “come eravamo” nel quale trovammo dei prestigiosi “compagni di squadra”: il grande cartellonista cinematografico e pittore di vaglia (Averardo) Renato Ciriello che, giocandoci con il figlio Stefano, tradusse i nostri elementari schizzi del Rebus sportivo-politico in vignette d’artista; e Guido Macera, l’indimenticabile colto e appassionato direttore della rivista mensile “Realtà del Mezzgiorno”  il quale volle ospitare l’insolito, stravagante fuor d’opera sportivo-enigmistico del suo collaboratore fisso sui temi economici, con la piena disponibilità di uno spirito aperto alle novità, disse proprio così.

L’articolo con il Rebus uscì nel numero di settembre 1982, ovviamente a stampa, poi lo abbiamo ripubblicato “on line” su “cultura.inabruzzo.it” nel 2010  invitando i lettori a risolvere il Rebus di cui non indicammo la soluzione. Non la indicheremo neppure ora, rivolgendo questa volta l’invito di “postare”, nello spazio dei “commenti”, oltre alle eventuali considerazioni sul testo, l’eventuale soluzione per chi intenda cimentarsi in una sfida politico-enigmistica, sulle ali della memoria e, perchè no, anche della nostalgia.

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Il Rebus enigmistico che concludeva allora l’articolo – nel quale ci sono tutti gli elementi tradotti poi in linguaggio enigmistico – con 78 vignette in 5 pagine, era di una frase da 68 parole sull’intreccio sportivo–politico dell’estate 1982. Divertì il presidente Pertini, come ci scrisse il Segretario della Presidenza, e interessò l’on. Gerardo Bianco, che era capogruppo DC e si dichiarò lettore degli articoli di economia dell’autore sulla Rivista, entrambi sono riconoscibili nell’apparato enigmistico e vignettistico del Rebus. E’ un “divertissement” unito all’articolo di approfondimento e di riflessione, e speriamo diverta anche oggi, quasi 40 anni dopo…  A domani, dunque, con “Il Rebus dell’estate 1982”!

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L’articolo rievocativo della “notte magica” dell’11 luglio 1982, nel quasi-quarantennale, sarà pubblicato domani 19 luglio 2021, su questo sito, con il Rebus enigmistico di 68 parole con 78 vignette in 5 pagine, dell’artista Renato Ciriello con il figlio Stefano.

Photo

Le immagini sono state tratte dai siti “on line” – indicati al termine – di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta. Si precisa che non vi è alcuna finalità di tipo economico nè di natura pubblicitaria, ma un intento meramente illustrativo; qualora, tuttavia, la pubblicazione non fosse gradita, basterà una richiesta del titolare non consenziente – comunicata nella parte dei commenti o in altro modo – e si provvederà subito alla rimozione dell’immagine che verrà indicata. Le prime 8 immagini presentano momenti “clou” della vittoria e le 4 successive la visita al Quirinale e a Palazzo Chigi; le 20 che seguono mostrano alternate, in ciascuno dei 5 blocchi in sequenza, immagini dei calciatori esultanti, dei vincitori con la Coppa, dei festeggiamenti popolari, della sfilata sul Bus scoperto. In un crescendo con l’ultima immagine dei calciatori nella esultanza conclusiva preceduta da quella che li vede in una piramide… di esultanza che ricorda l’alzabandiera a Iwo Jima, della Coppa a letto con Chiellini e Bonucci in un appagante rapporto “a trois”, preceduta da quella con la Coppa e il tricolore nelle mani del “maggior” vincitore, il Commissario tecnico Roberto Mancini, dei festeggiamenti con bandiere sempre più inarrestabili, del primo piano sul Bus trionfale preceduta da una simile ripresa laterale, ma nel bagno di folla; fino alle 4 immagini finali con la formazione in campo, il gruppo al completo nella foto ufficiale e in divisa con la Coppa, in chiusura, un’altra foto del festeggiamento della Coppa nel momento “clou” di Wembley. Ecco i siti fonte delle immagini, ai cui titolari si rinnova la gratitudine e la disponibilità a eliminare quelle la cui pubblicazione non fosse gradita, nell’ordine in cui le immagini sono inserite nel testo: genteditalia.org, giornaleditalia.it, leggo.it, ilmessaggero.it, repubblica.it, ilgiornale.it, repubblica.it, vetrinatv.it, adnkronos.it, buttanissima.it, ageparl.eu, tgcom.24.mediaset.it, ilfattoquotidiano.it, dilei.it, corrieredicomo.it, ilgiornaleditalia.it, linkiesta.it, repubblica.it, agi.it, bigodino.it, today.it, corrieredellumbria.it, ciaocomo.it, ilgazzettino.it, corrieredellosport.it, corrieredellosport.it, quitidiano,it, today.it, notizie.it, adnkronos.it, fanpage.it, timgare.it, varesenews.it, ilfattoquotidiano.it, lapiazzaweb.it.

Auschwitz-Birkenau, 2. La vita e il lavoro, i ricordi dei deportati, alla Casina dei Vailati

Silvia Maksymowicz, la polacca di origine bielorusse deportata ad Auschwitz all’età di 3 anni con la madre – cui Papa Francesco nell’udienza generale del 26 maggio 2021 in Vaticano, ha baciato il braccio sul tatuaggio n. 70072 – si è salvata dal Lager dove è stata cavia dell’infame dott. Josef Mengele nei suoi sciagurati esperimenti genetici; ricorda il dolore e il suo “sguardo da invasato. Mengele era una persona atroce, senza limiti nè scrupoli. Giorno dopo giorno tante persone perdevano la vita sotto le sue mani”. Liliana Segre, deportata con il padre dopo l’arresto mentre cercavano di rifugiarsi in Svizzera, tatuata con il n. 73190, trova la salvezza nel lavoro in fabbrica, aveva solo 13 anni e sopravvisse alla “marcia della morte” all’evacuazione da Auschwitz verso il lager in Germania, dove fu liberata. E’ stata nominata senatrice a vita il 19 gennaio 2018, il riconoscimento più recente è il premio “De Sanctis” , patron Gianni Letta, dell’omonima associazione, 14 aprile 2021.

Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a 13 anni, nominata senatrice a vita il 19 gennaio 2018
dal presidente Serrgio Mattarella, nella 1^ seduta della XVIII legislatura,
23 marzo 2018

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro racconto della  mostra “Dall’Italia ad Auschwitz”, inaugurata nel “giorno della memoria” il  21 gennaio 2021,  realizzata dalla Fondazione Museo della Shoah, nella Casina dei Vailati, al Portico d’Ottavia, sulla deportazione degli italiani con documenti, immagini d’epoca e fotografie da album di famiglia di singoli e gruppi la cui vita è stata sconvolta e spesso cancellata dalla follia criminale e disumana della “soluzione finale”. La mostra è a cura di Sara Berger e Marcello Pezzetti, che hanno curato pure il  Catalogo di Gangemi Editore, oltre alle mostre precedenti.  Abbiamo già descritto le prime 3 parti della mostra, dove sono documentate le maniacali e criminali efferatezze del Lager, dalla “selezione” iniziale alla tragica “eliminazione” nelle “camere a gas” fino al “Krematorium”. Quelli che non erano “eliminati” alla selezione venivano destinati al lavoro forzato. Ora terminiamo con la 4^ parte della mostra, “la vita e il lavoro” e “l’evacuazione del complesso. La fine di Auschwitz”. Come prima protagonista e preziosa testimone incontriamo Liliana Segre.

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Birkenau. Ebree ungheresi, appena rapate, vestite male e immatricolate, pronte all’appello, luglio 1944

Liliana Segre fu arrestata l’8 dicembre 1943 col padre mentre cercavano di rifugiarsi in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche, aveva 13 anni. Fu deportata il 30 gennaio 1944 dal binario 21 della Stazione centrale di Milano ad Auschwitz dove giunse il 6 febbraio dopo sette giorni di viaggio. Fu separata subito dal padre che venne “eliminato” il 27 aprile 1944; il 18 maggio furono arrestati i nonni paterni in provincia di Como, “eliminati” nelle camere a gas al loro arrivo ad Auschwitz il 30 giugno. Lei fu assegnata alla fabbrica di munizioni “UnionWerke”della Siemens dove lavorò un anno, superò tre micidiali “selezioni”, in una delle quali perse un’amica di prigionia, e dopo l’evacuazione di Auschwitz sopravvisse alla “marcia della morte” verso la Germania; riacquistò la libertà il 1° maggio 1945 nel campo di Molchow, sottocampo di Ravensbruck, liberato dall’Armata rossa. Su 776 deportati minori di 14 anni fu tra i 25 sopravvissuti.

Jerzy Potrzebowski, Deportati non abili trasferiti ai sottocampi con le camere a gas di Birkenau,1950

Il 19 gennaio 2018 ha ricevuto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella la nomina a senatrice a vita, il riconoscimento più recente è il premio “De Sanctis”, patron Gianni Letta, conferitole il 14 aprile 2021. Tiene viva la memoria dell’orrore della Shoah da lei vissuto da adolescente, matricola 75190, anche presentando la proprio testimonianza ai ragazzi nelle scuole. Ha fissato i propri ricordi in una serie di pubblicazioni anche in forma di interviste, e in particolare nei libri autobiografici “Sopravvissuta ad Auschwitz” e“Ho scelto la vita”.

“Ero incapace di qualsiasi specializzazione in qualsiasi campo… mi scelsero per diventare operaia alla fabbrica Union. Dopo la selezione alla stazione, ecco che di nuovo il destino, o il buon Dio, aveva scelto per me la soluzione della vita, perché lavorare al coperto in quel clima e in quelle condizioni fisiche fu una fortuna immensa. Chi lavorava alla fabbrica Union era un gruppo di settecento donne nel turno di giorno e settecento nel turno di notte. La fabbrica non si fermava mai”.  Vedremo dai ricordi di altri internati il lavoro nel Lager.  

Liliana Segre a 13 anni, poco prima della deportazione ad Auschwitz, 1943

La vita e il lavoro

 Com’era, ad “Auschwitz-Birkenau la vita  e il lavoro”  lo spiega con accuratezza la 4° parte dell’esposizione, iniziando con “L’immatricolazione e l’inserimento nel lager dei deportati dall’Italia”. A coloro che superavano la selezione all’arrivo venivano praticata la disinfestazione e la rasatura di capelli e peli, poi doccia e vestiario, quindi l’immatricolazione con cui si assegnava un numero di matricola:  a  tutti gli italiani – ebrei come politici – il numero veniva tatuato  sul braccio,  mentre per quelli di altre provenienze, come l’Ungheria, spesso non si effettuava il tatuaggio. Nel  maggio 1944 per gli ebrei viene differenziata la numerazione facendola precedere, per entrambi i sessi, dalla lettera A, dal mese di luglio per i soli uomini ulteriore numerazione preceduta dalla B.

Jan Komski, Tempo di cena (Obiad) , Auschwitz, 1970-80

E’ stata ricostruita con cura per la mostra l’immatricolazione degli italiani – anche con documenti, elenchi e note di vario genere, espressive della ottusa burocrazia nazista – riportando la provenienza e il numero tatuato dei primi e degli ultimi ebrei immatricolati, come dei primi e ultimi “politici”, quasi a volerne far rivivere l’odissea attraverso queste indicazioni minuziose ma non pedanti perché specchio di un’umanità sofferente. Che appare in tutta la drammaticità nella fotografia di una miriade di donne con il capo rasato dopo l’immatricolazione – e sono quelle “fortunate” perché sfuggite all’eliminazione – e  di alcuni uomini nudi sotto la doccia, anche qui fortunati che si tratti di una vera doccia e non di quelle finte che erogavano il gas mortale. Altrettanto impressionanti i disegni degli internati che anche dopo molti anni ricostruiscono dei momenti nel Lager, con gli appelli e le punizioni, in particolare con le sferzate fino all’impiccagione.

Birkenau, settore BII: Interno di una baracca, con le scritte (tipo “Il lavoro rende liberi”…) “L’onestà è la miglior moneta”, “il parlare è d’argento, il tacere è d’oro”, “Un pidocchio la tua morte”, febbraio 1945

Dopo l’immatricolazione e l’inserimento nel lager,  “Il lavoro dei prigionieri” , che inizialmente veniva visto come una punizione per logorare l’internato, tanto che venivano impiegati anche in lavori inutili quanto faticosi che li portavano alla morte. Finché, verso la fine del 1943,  il lavoro forzaro fu considerato una risorsa per l’industria tedesca a corto di manodopera perché gli adulti abili erano mobilitati nell’esercito. A quel punto divenne importante la produttività e per questo migliorò l’alimentazione e il trattamento.

M.M. (anonimo): Il blocco 12, “della morte”, con gli “incurabili” “selezionati”e uccisi, 1942-44, pastello

Lo ricorda Primo Levi nell’introduzione di “Se questo è un uomo”: “Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz  solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito  di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli”. Ma non venivano sospese quelle di massa degli inabili al lavoro, e il destino degli ebrei era l’eliminazione quando non servivano più. 

Birkenau, settore BIa: Interno di una baracca “per la quarantena maschile”, con le fetide latrine

Una parte degli ebrei italiani lavorarono soprattutto nel campo, dalle “Rampe” per la “selezione”, ai “Kanada” per gli oggetti delle vittime, agli ospedali, ai lavori di costruzione e riparazione delle strade e di  canalizzazione delle acque, fino al trasporto e allo scarico merci. Altri venivano “affittati” alle industrie ubicate ai margini del campo o al suo interno, tra loro Liliana Segre – la senatrice a vita divenuta la memoria vivente dei deportati, premiata per il suo impegno civile- e nomi noti,  Di Veroli, Calò, Pietro Terracina; altri ancora impegnati in 13 “sottocampi”, dei 40 intorno ad Auschwitz, e nel Lager sulle rovine del ghetto di Varsavia.

Alfred Kantor, Scena di fame ((Hungerszene), barile di zuppa, baracca BTb, 1945

Nel lavoro forzato erano impegnati anche i “politici”, le donne venivano per lo più trasferite in altri lager, 169 “politici” italiani che erano giunti da Mathausen nel dicembre 1944, furono impiegati nello smantellamento del campo, ne sopravvissero soltanto 35, gli altri furono stroncati dalle condizioni di vita e di lavoro; gli italiani sono  compresi nell’elenco di 1200 lavoratori  provenienti da vari paesi europei, muratori ed elettricisti, meccanici e saldatori, fabbri e idraulici.

Auschwitz III (Monowitz), Kommando di lavoro, i deportati vanno verso le fabbriche della Buna, 1944

“Selezione” e “sperimentazione” negli ospedali e nelle infermerie

Le immagini sono eloquenti, fotografie degli internati al lavoro, e soprattutto disegni dei sopravvissuti che ne rendono la sofferenza, una documentazione preziosa – come si è detto utilizzata anche in tribunale – che vediamo illustrare anche l’ulteriore barbarie che viene rievocata, “Gli Haftlingskrankenbau, le selezioni interne  e la sperimentazione medica”.

Gli “Haftlingskrankenbau” sono gli ospedali a cui sono adibiti alcuni blocchi, con le “Revier”, infermerie, per il dilagare delle malattie di tutti i tipi e gravità nelle spaventose condizioni ambientali e di lavoro. Nonostante le sollecitazioni a rendere più efficace l’attività lavorativa,  gli ospedali più che nella cura erano impegnati nelle “selezioni interne”, da parte di medici, infermieri e anche SS,  per eliminare gli inabili al lavoro mandandoli nelle camere  a gas; una “Action” per una folle “igiene sociale” della quale i sopravvissuti hanno ricordi angosciosi, lo si vede in molti disegni allucinati.

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Alfred Kantor, Appello dal primo mattino alla tarda notte, a Birkenau, 1945

C’erano anche sperimentazioni – sulla sterilizzazione di massa e l’ereditarietà –  che portavano alla morte, e non si trattava di casi isolati: erano opera di ben 350 medici, e collaboravano gerarchi nazisti, della Wehrmacht, delle SS, perfino esponenti di istituti di ricerca, università e industrie farmaceutiche; e conoscevano questa barbarie anche infermieri, assistenti e amministrativi che  facevano le maniacali registrazioni.

Birkenau, Deportati lavorano per costruire magazzini per le patate, 1943

Vengono indicati i nomi di alcuni criminali “apprendisti stregoni” – non  si possono chiamare medici –  colpevoli di aver usato come cavie alcuni ebrei italiani. Josef Mengele eseguiva esperimenti “antropologici” su bambini e adolescenti presi in “selezione” sulle “rampe” e  internati nei “Kinderblock” loro riservati; come Lidia Maksymowitz di 3 anni citata all’inizio per il bacio del papa. Li aspettava la morte, ne sopravvissero una cinquantina, tra loro due sorelline di Trieste, Andrea e Tatiana Bucci, il cui cugino con 20 bambini  fu spostato in un altro campo, venne iniettata loro la tubercolosi, e furono impiccati il 20 aprile 1945 all’arrivo degli Alleati in un scuola di Amburgo. Si chiude con questo orrore l’infame storia di esperimenti mortali.

Mieczyslaw Koscielniak, Appello nel campo-madre, ad Auschwitz, 1972-73, olio su tela

L’evacuazione  e la liberazione 

L’arrivo degli Alleati non va visto come un “arrivano i nostri” salvifico per tutti, perché ad Auschwitz-Birkenau i liberatori  il 27 gennaio 1945 trovano soltanto 7.000 reclusi, in condizioni tali che dovettero allestire ospedali per curarne oltre 4.500, molti dei quali morirono poco tempo dopo.

E  gli altri? “L’evacuazione del complesso. La fine di Auschwitz” a conclusione della mostra ricostruisce la fase finale della tragica odissea degli internati, preceduta dalla rivolta del 7 ottobre 1944 degli uomini del Sonderkommando cui parteciparono 5 italiani, i fratelli Venezia e Gabbai, Nicolè Sagi che fu ucciso come gran parte dei rivoltosi; i sopravvissuti, cui furono aggiunti i componenti del Abbrusckommando, erano impegnati nel distruggere quanto era compromettente, dai documenti, come gli elenchi dei trasporti, e le strutture, soprattutto le camere a gas e i crematori.   

Auschwitz, Le officine siderurgiche Weichsel-Union-Metallwerke, dove lavorò anche Liliana Segre

Poi un altro evento inenarrabile: lo spostamento di 58.000 internati – metà dei quali dallo “Stammlager” iniziale, e  metà da Birkenau –   ai campi tedeschi più all’interno, quindi ancora fuori dalla portata dei russi che nella loro avanzata erano molto vicini, tanto che vi entrarono dopo soli dieci giorni. Viene definita “marcia della morte” perché massacrante per la fatica e perché la scorta armata falciava in modo spietato chi non ce la faceva e cadeva sfinito, una scia di corpi al margine delle strade ne segnò il percorso. Alcuni riuscirono a fuggire, tra loro sono stati identificati tre italiani, Di Porto, Sagi, Sturm.

Naomi Judkowski, “Punizione durante l’appello”, in ginocchio, a mani alzate, prese a calci, 1945

Quelli che sopravvissero alla fatica e al gelo del gennaio nordico non raggiungevano la salvezza ma un altro lager e molti vi morirono, si trattava di Mathausen, Buchenwald, Dachau  per gli uomini, Ravensbruck e Bergen-Belsen per le donne. E non finisce qui, nella primavera gli stessi furono sottoposti ad altre “marce della morte” quando i liberatori si avvicinavano a quel lager li spostavano ad uno più lontano e così via, in un maniacale accanimento.

Auschwitz, Deportati al lavoro nell’officina DAM (Deutsche Ausrustungswerke) gestita dalle SS

All’orrore senza fine si aggiunge il fatto che erano stati lasciati ad Auschwitz 9.000 internati perché malati, quindi potevano attendere l’arrivo dei sovietici sentendosi in salvo. Invece tornarono le guardie che avevano lasciato il campo “per compiere quest’ultima operazione criminale”, ricordano Berger e Pezzetti: 700 eliminati a colpi di fucile non potendo usare le camere a gas in demolizione.

Si conclude così con un’immagine angosciosa che spegne la gioia della liberazione l’accurata ricostruzione fattuale e fotografica che meritoriamente la mostra propone per non dimenticare, con un altro tassello nel mosaico della memoria che da anni viene costruito da Sara Berger e Marcello Pezzetti con approfondimenti sempre nuovi di una storia che porta ad evocare e rivivere fatti inenarrabili per l’orrore.

Alfred Kantor, Punizione per l’accusa di “ladro di zuppa”, inferta da altri deportati, 1945, disegno

I ricordi con due segni di umanità: la bicicletta e le borsette  

La mostra rievoca la tragedia attraverso le storie personali delle tante vittime con l’agghiacciante calvario che dopo inenarrabili sofferenze ha portato alla morte; storie ancora più coinvolgenti perché accompagnate dalle fotografie da album di famiglia dei momenti felici. Sono in gran numero e accompagnano la documentazione fotografica del Lager e delle sue nequizie, come la accompagnano le testimonianze di alcuni internati italiani.

Con le loro parole vogliamo coronare la rievocazione perché, in aggiunta al resoconto dei fatti nella loro cruda evidenza che abbiamo cercato di riferire, rendono le sofferenze patite dai deportati sulla propria pelle. Riportate in sequenza, come faremo, queste tristi testimonianze suonano come un’elegia dolente che resta nella mente e nel cuore, e serve ancora di più a non dimenticare.

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Auschwitz III (Monoiwitz): Distribuzione della zuppa ai deportati che lavorano nella IG Farben

Il primo testimone è Leopoldo Schonhaut, in una lettera in cui prima di “Cara Licia” ci sono le parole in  tutte maiuscole: “Ho sentito che Mariuccia ha comperato una…..[disegno di lei con una bicicletta dalle ruote contorte]. Ti riporto la tua bicicletta. Non spaventarti non mi sono fatta niente [disegno di una ragazza con le mani nei capelli]”. Si trova a Trieste nel carcere Cotroneo dopo l’arresto a Stresa il 17 dicembre 1943 con l’unica “colpa” di voler andare in Svizzera, ed ecco cosa scrive prima di dire in tutti i particolari come assiste amorevolmente un “povero vecchietto” compagno di cella: “Fino ad ora sono ancora qua ma sento nell’aria che si avvicina l’ora della partenza, giorno per giorno partono convogli, per ora i liberi lavoratori e poi quelli che entrano nei campi di concentramento”. E’ datata “28. 8. 44”; poco dopo, nel settembre, è il suo turno di partire per  Auschwitz, muore dopo sei mesi nel marzo 1945 nel sottocampo di Flossenburg in Baviera.

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Alfred Kantor, “Ragazze con le teste rasate nel campo delle donne. lavoro da uomini con il freddo con vestiti sottili“, 1945, disegno

A Flossenburg viene invece liberato il 23 aprile 1945 Martino Godelli, che era stato arrestato a Fiume il 25 gennaio 1944 e portato a Birkenau il 2 febbraio, morirà a 92 anni nel 2014 in Israele: “Ero diventato un ‘Kanada-Rampa’, quelli che scaricavano la gente, li mettevano in fila, controllavano che non portassero con sé le valige.  Di solito lavoravamo dodici ore, dalla mattina alle sei alla sera alle sei, ma spesso facevamo la notte. Eravamo ‘hundert’, un centinaio per volta. A non era un lavoro come gli altri. Lavoravamo con le SS di fianco, coi cani: botte da orbi per tutti! Il nostro lavoro era una cosa orribile. Dovevamo stare continuamente a contatto con gente che noi sapevamo che andava a morire, ma loro non sapevano. E logicamente noi non gli avremmo detto niente.. I nuovi arrivati stavano tranquilli, tranquilli… si mettevano in fila”. Fino alla nota patetica: “ Uno shock era quando  noi, con le righe, prendevamo le borsette alle donne, dove tenevano, non so, qualche zloty, una fotografia. Noi strappavamo le borsette e le buttavamo lì sul mucchio. Boom… nel mucchio! Rispetto alla vita, una borsetta non è niente, ma per loro…”.

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Birkenau, “Zentralsauna”, la doccia dopo l’immatricolazione, questa volta acqua e non gas,1944

I ricordi dell’arrivo dei deportati sulle “Rampe”

E’ un “Kanada-Rampa” sulla Bahan Rampe anche Nedo Fiano, dal tocco di umanità delle borsette all’orrore della deportazione. Arrestato a Firenze il 6 febbraio 1944, giunge ad Auschwitz da Fossoli il 23 maggio, finché il 26 ottobre sarà trasferito in altri campi fino a Buchenwald, dove è liberato nell’aprile 1945, diventa manager e testimone della Shoah anche con il libro del 2003 “A-5405. Il coraggio di vivere”, muore a 95 anni nel 2020.

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Birkenau, La “Zentralsauna” dopo la liberazione delle truppe sovietiche, 1945

Ecco cosa scrive: “Sulla rampa vedo l’arrivo di questi prigionieri nelle condizioni più tragiche: affamati, assetati, stanchi, molti impauriti, quando non terrorizzati. La discesa dai vagoni era come una fiumana, perché questi vagoni venivano aperti tutti insieme da diversi militari: si aprivano e prorompeva questa vita di  gente sofferente, di gente angosciata  e molto spesso di gente quasi morente. Era un rigurgito terribile, terribile: scene strazianti di persone quasi impazzite che uscivano fuori, quasi morte di sete o di fame”.

Wladyslaw Siwek, Selezione di donne a Birkenau, Polonia 1945, acquerello su carta

Dopo l’arrivo, la situazione peggiora, per quanto sembri impossibile:“E poi noi trovavamo i morti sui vagoni, trovavamo gli handicappati che non potevano scendere, c’erano i bambini, c’era tutto un campionario di sofferenza. Gli ufficiali davano comandi secchi e selezionavano chi doveva vivere e chi doveva morire: gli uomini divisi dalle donne, bambini che piangevano, le madri che li stringevano al petto”. E  tutto questo in un crescendo di furia belluina: “Quindi le loro urla, i loro cani, i loro bastoni, le loro fruste e tutti i mezzi possibili per tenerli in ordine  come se fossero stati un gregge di pecore, un gregge di animali. In quei pochi metri quadri si decideva chi doveva entrare nel campo e chi doveva entrare nel forno crematorio”.

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Auschwitz-Birkenau, Cadaveri di ex deportati trovati dinanzi alle baracche, febbraio 1945

Altri particolari sul lavoro alla “Bahan Rampe” lo forniscono tre arrestati a Roma nel marzo-aprile 1944, tradotti da Fossoli ad Auschwitz nel marzo-aprile 1944, sono vissuti rispettivamente 82, 80, 88  anni. Benedetto Viviani ricorda che doveva andare a “prendere i pacchi e portarli al camion. O  a prendere i morti e buttarli sul camion. Facevamo una  settimana de matina e una settimana de notte”.  E Raimondo Di Neris: “’A gente era scesa, andava via, e noi pulivamo, Dio, che trovavo dentro…”. Mentre Angelo Calò va oltre il suo lavoro: “Quando andavo a lavorare sulla Rampa, sapevo quello che succedeva ai bambini e ai malati, allora dicevo alle madri coi bambini: ‘Nicht krank, nicht krank, du gut!’ Strappavo i bambini dalle loro braccia e li davo in mano alle vecchie. Quando potevo parlare, dicevo sempre a tutti: ‘Non datevi malati!’ Ma dovevo stare attento al tenente tedesco che urlava: ‘Sabotage, sabotage!’”.

Janina Tollik, Il vestibolo della morte, cortile del blocco 25 del Frauenlager, con le deportate
da eliminare perchè non sono più in grado di lavorare

I ricordi della “selezione” iniziale e dell’”eliminazione” finale

Come fosse giustificato tutto questo lo dimostra Alberto Sed, anch’egli giunto ad Auschwitz da Fossoli il 23 maggio 1944  dopo l’arresto a Roma due mesi prima, il 23 marzo con la famiglia, sarà poi trasferito in altro lager in Turingia e liberato nell’aprile 1945, vissuto 91 anni, ha scritto “Sono stato un numero”. Ricorda: “Vedevi le facce  delle persone, vedevi gente giovane e a un certo punto dicevi: ‘Perchè  ‘ste cose qui… perché?’ Che bisogno c’era d’ammazzà  i regazzini, così”. E poi pensa: “’Intanto questi  ci vogliono distruggere, ci stanno riuscendo’. Nun c’era niente da fa, nun c’era difesa”. Ed eccone la dimostrazione, vede due tedeschi, e uno di loro  ordina a “un altro del Kommando” con un infante: “Férmete! Il regazzino nun l’appoggiare, ma lancialo dentro il caretto”. Così l’“altro del Kommando”, internato come lui, “ha dovuto prendere il regazzino e buttarlo. ‘Sto regazzino poteva  ave cinque, sette mesi poi  piangeva… Quando questo l’ha buttato, inaspettatamente uno dei due ha tirato fuori la pistola… e c’ha fatto il tiro a segno”.  

Kolin, Repubblica Ceca, Deportati evacuati su vagoni scoperti da Auschwitz verso i lager del Reich dinanzi all’avenzata dei sovietici, 24 gennaio 1945

E chi superava la “selezione”? Jolanda Marchesich, slovena, arrestata con il padre nel giugno 1944, dal carcere Cotroneo di Trieste ad Auschwitz nell’agosto, trasferita a Mathausen dove è stata  liberata il 5 maggio 1945, vissuta 93 anni, racconta: “Ci portarono in una grande camerata. Ma prima ancora ci portarono via tutto. Dovevamo spogliarci, lasciare tutte le nostre cose. Poi ci  rasarono, poi ci diedero la coperta, mentre dietro a noi, dietro le vetrate, c’erano i tedeschi”. E in questa notazione c’è tutto il pudore femminile dinanzi agli aguzzini divenuti “guardoni”. Continua così: “Noi non ci riconoscemmo più. Stavamo strette una all’altra, ma non sapevamo a chi… Poi ci misero in fila per il tatuaggio… Ci tatuarono il numero e da allora diventammo un numero. E questo è il numero sul braccio, 82954”.

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Naomi Judkowski, Infermeria (Revier), appello al matttino “Solo tre morte, le altre vivono ancora” 1945

Passare dal lavoro nella “Kanada Rampe” al “Sonderkommando”, vuol dire passare dal dramma della “selezione” all’orrore dello “sterminio”, dai binari e vagoni alle  camere a gas e forni crematori. Un racconto agghiacciante, pubblicato nel libro  “Sonderkommando Auschwitz”, è di Shlomo Venezia, deportato da Atene ad Auschwitz nell’aprile 1944, vivrà 89 anni. L’inizio della fine, quando dalla Rampa i “selezionati” per l’eliminazione venivano fatti entrare nel cortile del “Krematorium”: “La gente, poi, si immetteva in un atrio,  e si infilavano nella camera a gas. Le prime persone che entravano, di solito le donne, istintivamente si mettevano sotto le bocche delle docce, in attesa che venisse fuori l’acqua. Credevano che arrivava l’acqua, invece continuava e entrare gente, c’era sempre meno spazio. Alla fine  si mischiavano donne, bambini, uomini. Allora cominciavano a dubitare. Cercavano di tornare verso l’ingresso, ma entravano in opera i due tedeschi che stavano all’entrata. Entrato anche l’ultimo, veniva chiusa la porta. Erano stipati come le sardine”.

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Birkenau, Carro con cadaveri in attesa di essere sepolti, febbraio 1945

Ed ecco la fine: “La camera a gas era sotto terra. Sopra c’erano delle botole.  Lì il tedesco apriva la scatola del Zyklon B , erano sassolini. Si metteva la maschera e buttava tutto dentro. Prima di iniziare  a lavorare toccava aspettare un bel po’, una ventina di minuti, anche di più. Venivano accesi  dei ventilatori e di sopra levavamo i coperchi: dovevamo far arieggiare un po’ questa camera, per fare uscire almeno una parte del gas. C’erano i ragazzi addetti a portar fuori i cadaveri. Poi, quando tutto era finito,  entravano dei ragazzi con le pompe per pulire per terra, anche le pareti. I muri venivano ogni volta imbiancati”.

Naomi Judkowski, Evacuazione, da Auschwitz verso Breslavia il 18 gennaio 1945,
a sin, viene ucciso sulla strada chi non riesce a tenere il passo, Varsavia 1945

A questo punto il macabro lavoro, quindi la catena di montaggio dell’orrore: “Il mio compito era quello di tagliare i capelli alle donne, solo alle donne, perché erano quelle che avevano i capelli lunghi e le trecce. E il ‘dentista’, vicino a me, altro non doveva fare che levare via i denti ai cadaveri, denti d’oro, protesi. Poi i corpi venivano portati vicino al montacarichi: lì c’erano due addetti che li prendevano, li buttavano sopra e li facevano salire su, a pianterreno, nella sala dove c’erano i forni crematori”.

Mieczyslaw Koscielniak, Bruciatura di documenti il 18 gennaio 1945, Polonia 1972

I ricordi accorati di chi non è tornato

Nel “Sommerkommande” del “Krematorium”, con Shlomo, il fratello Maurice Venezia, i cugini Dario e Jaacob Gabbai, deportati insieme a lui, salvi per l’evacuazione a Mathausen, poi vissuti  92, 98, 81 anni; e Nicolò Sagi , arrestato a Fiume nel marzo 1944, insieme a madre, moglie e figlio Luigi,  deportato il mese dopo con madre e figlio dalla Risiera di San Saba – solo la moglie vi restò perché cattolica – e ucciso nel lager il 7 ottobre 1944 a 58 anni. Ecco il ricordo accorato del figlio  Luigi Sagi : “Lui era al crematorio IV. Una volta l’ho visto, papà, e quello fu un trauma. Mi chiamarono,  era a metà dell’estate, non so esattamente che giorno: papà aveva corrotto le SS, i Kapos e mi fu concesso di entrare nel blocco 13 per cinque minuti. E lì rividi mio padre. Mi abbracciò. Mi disse: ‘Abbi forza, non pensare a me perché io ho già passato una guerra, quindi io me la caverò. Tu cerca di risparmiare le forze. Tu pensa a te stesso. Fatti coraggio, resisti!’. E mi disse anche: ‘T’aiuterò’. E lo vidi piangere. L’incontro è durato non più di cinque minuti. Non l’ho mai più rivisto. Mi fece giungere di tanto in tanto delle monete d‘oro, poi naturalmente lui morì durante la rivolta del 7 ottobre”.

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Auschwitz, Deportati italiani e sloveni liberati, tra cui la triestina Cirilla Marc, febbraio-marzo 1945

Roberto Benigni in “La vita è bella” , sembra quasi evocare il finale del figlio salvo, anche se di età ben diversa, e il padre morto da martire nella rivolta contro i carnefici.

Altrettanto accorato il ricordo di Giacobbe Modiano, deportato da Rodi nell’estate del 1944, con  i figli Samuel di 14 anni e Lucia di 17 anni, stroncata dagli stenti, nel settembre si consegnò stremato all’infermeria del “Revier” dove fu “selezionato” e poi eliminato. Il figlio Samuel Modiano ne parla così, con riferimento alla morte della sorella che non resistette alle sofferenze del Lager: “Poco tempo dopo è toccato anche a mio papà, che era  un uomo forte, duro. Era un pezzo d’uomo e aveva un carattere forte, però non aveva accettato quella vita. Io e lui dormivamo nello stesso letto, uno vicino all’altro. Mi ricordo qualche carezza che mi faceva, qualche abbraccio, forse per darmi coraggio… poi s’è lasciato andare, non ha reagito come  avevo fatto io. Aveva rifiutato completamente di combattere, non voleva farsi accorgere. Ma io l’avevo capito. E poi non ha accettato la fine di mia sorella… poco tempo dopo se n’è andato”.

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Zbigniew Ofinowski, Marcia di evacuazione, da Auschwitz a 60 Km da Wroclaw, Slesia , Rubnik 1946

Una fine ugualmente dolorosa quella di Vanda Maestro, a soli 25 anni, evocata da Luciana Nissim, entrambe arrestate e deportate da Fossoli con Primo Levi, come abbiamo ricordato al termine del primo articolo citando la cartolina postale da loro firmata e spedita all’amica mentre il treno che li portava ad Auschwitz il 22 febbraio 1944 transitava per Bolzano: “La mia amica Vanda… Andavo a vederla ogni sera. Evidentemente. Vanda è stata una sommersa subito. Le si sono subito gonfiate le gambe, si trascinava a stento, non si lavava, mentre io mi lavavo tutti i giorni. Era un modo di mantenere un minimo di coerenza con se stessi. Era un modo per sopravvivere, sì”.

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Birkenau, Alcuni bambini sopravvissuti escono dalla baracca del BIIe, già “Zigeunerlager”, dopo la liberazione, tra i superstiti le sorelline italiane Andra e Tatiana Bucci, fine gennaio 1945

La situazione precipita: “Quando sono stata trasferita, in settembre, l’ho vista l’ultima volta. Era in un blocco di convalescenza. Me la ricordo tutta rattrappita, stesa per terra, stanca, malandata. Ha detto: ‘Fai bene ad andare via… se avrai una bambina, chiamala Vanda’”. Ed ecco la tragica conclusione: “M’han detto poi che un mese dopo l’hanno selezionata, ma che alcune amiche le hanno dato un sonnifero, così lei si è addormentata, è arrivata addormentata. Ho avuto una bambina che è nata morta. La bambina  che ho avuto si chiamava Vanda”. La Nissim, entrata dopo l’8 settembre nelle file della Resistenza, in un trasferimento verso un lager tedesco era riuscita a fuggire e a nascondersi  in un bosco fino all’arrivo degli americani, è morta a 79 anni.

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Birkenau, Corteo di casse con salme dopo la liberazione verso la fossa ad Auschwitz, 28 febbraio 1945

Conclusioni

E il lavoro? Raffrontiamo il motto all’ingresso di Auschwitz, “ Arbeit Macht Frei”, cioè “Il lavoro rende liberi”, alle parole di Ottaviano Danelon: “Chi moriva per primo? Quello che lavorava. Il lavoro era determinante per l’eliminazione”. E allo sfogo accorato di Luigi Sagi: “ Otto chilometri al giorno per andare  a lavorare, con quella minestra  schifosa, con la diarrea che avevamo, con la febbre tifoidea. Io mi chiedo ancora oggi come ho fatto a tirare avanti. E’ incredibile”.

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Birkenau, Deportati malati, dopo la liberazione vengono trasferiti all’ospedale
allestito nei blocchi dello Stammlager di Auschwitz, marzo 1945

Il sopravvissuto ha usato la parola “incredibile” per la propria resistenza. Ma va riferita a tutto l’orrore documentato nella mostra ed è un eufemismo, perché sembrerebbe inimmaginabile, anche al di là dell’incubo più cupo e allucinato, che tale orrore sia avvenuto. Eppure è avvenuto, e per questo potrebbe tornare. “Il sonno della ragione genera mostri”, è stato detto, e la ragione anche se  ora appare sveglia – e non dovunque – potrebbe riaddormentarsi. Questo verrà  evitato quanto più resterà viva la coscienza dei rischi che torni l’imbarbarimento delle coscienze sempre in agguato. Tanto più che non sempre la storia è maestra di vita, bisogna vigilare perché certe aberrazioni non si ripetano, e rievocarle ricostruendone le modalità criminali e disumane aiuta di certo a scongiurarle.

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Sopravvissuti ad Auschwitz alla frontiera tra Ungheria e Jugoslavia, a dx Paola Cencic, alla sua dx Polda Grunden, dietro loro la sorella di Paola, Rosa Cencic, l’altra sorella Amalia Cencis morta, a sin. Maria Rudolf ed Elena Jarc, agosto 1945

Quindi dobbiamo essere grati agli organizzatori della mostra al Museo della Shoah, ai ricercatori e curatori Sara Berger e Marcello Pezzetti per l’impegno costante nel documentare l’incredibile e l’inimmaginabile dando l’evidenza visiva  che dà sostanza all’ammonimento di Primo Levi: “Meditate che questo è stato”.

Lidia Maksimowics, dopo il bacio di Papa Francesco al tatuaggio 70072 impresso sulla sua schiena, ha lanciato questo appello alle nuove generazioni tramite Vatican News e la Radio Vaticana: “Nelle vostre giovani mani c’è il futuro del mondo. Ascoltate le mie parole, andate a visitare Auschwitz e Birkenau e facciate in modo che non torni mai più questa atrocità. Quella storia non deve più ripetersi”. Perchè, pur se incredibile e inimmaginabile, e aggiungiamo umanamente inconcepibile, “questo è stato”!

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Edoardo Finzi dopo la liberazione da Auschwitz,
nel febbraio-marzo ’45
Se questo è un uomo..

Info

Fondazione Museo della Shoah, Casina dei Vailati,Via del Portico d’Ottavia, 29. Da domenica a giovedì ore 10-17, venerdì ore 10-13, sabato chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.68139598. Catalogo “Dall’Italia ad Auschwitz” di Sara Beger e Marcello Pezzetti, Gangemi Editore International, gennaio 2021, pp. 256, formato 17 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni e notizie del testo. Cfr. i nostri precedenti articoli: nel sito www.arteculturaoggi.com sulle mostre alla Casina dei Vailati il 28 ottobre, 2 novembre e 19 aprile 2017, al Vittoriano il 24 novembre 2013, 5 giugno 2014, 1° febbraio 2016; in cultura.inabruzzo.it, sulla cultura ebraica 22 agosto 2009 (l’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli – disponibili – saranno trasferiti su altro sito).

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Edoardo Finzi negli anni ’40, con la sua umanità intangibile
Questo è un uomo…

Foto

Le immagini – tranne quella di chiusura – sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore, la Fondazione Museo della Shoah che ce lo ha cortesemnte fornito, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Si sono alternate immagini d’epoca del lager con i disegni dei sopravvissuti, in un film dell’orrore, si riferiscono alla 4^ sezione della mostra. In apertura, Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a 13 anni, nominata senatrice a vita il 19 gennaio 2018 dal presidente Sergio Mattarella, nella 1^ seduta della XVIII legislatura 23 marzo 2018; seguono, Birkenau. Ebree ungheresi, appena rapate, vestite male e immatricolate, pronte all’appello, luglio 1944, e Jerzy Potrzebowski, Deportati non abili trasferiti ai sottocampi con le camere a gas di Birkenau,1950; poi, Liliana Segre a 13 anni, poco prima della deportazione ad Auschwitz, 1943, e Jan Komski, Tempo di cena (Obiad) , Auschwitz, 1970-80; quindi, Birkenau, settore BII: Interno di una baracca, con le scritte (tipo “Il lavoro rende liberi”…) “L’onestà è la miglior moneta”, “Il parlare è d’argento, il tacere è d’oro”, “Un pidocchio la tua morte”, febbraio 1945, e M.M. (anonimo): Il blocco 12, “della morte”, con gli “incurabili” “selezionati”e uccisi, 1942-44, pastello; inoltre, Birkenau, settore BIa: Interno di una baracca “per la quarantena maschile”, con le fetide latrine, e Alfred Kantor, Scena di fame (Hungerszene), barile di zuppa, baracca BTb 1945; ancora, Auschwitz III (Monowitz), Kommando di lavoro, i deportati vanno verso le fabbriche della Buna, 1944, e Alfred Kantor, Appello dal primo mattino alla tarda notte, a Birkenau, 1945; continua, Birkenau, Deportati lavorano per costruire magazzini per le patate, 1943, e Mieczyslaw Koscielniak, Appello nel campo-madre, ad Auschwitz, 1972-73, olio su tela; prosegue, Auschwitz, Le officine siderurgiche Weichsel-Union-Metallwerke, dove lavorò anche Liliana Segre, e Naomi Judkowski, “Punizione durante l’appello”, in ginocchio, a mani alzate, prese a calci 1945; poi, Auschwitz, Deportati al lavoro nell’officina DAM (Deutsche Ausrustungswerke) gestita dalle SS, e Alfred Kantor, Punizione per l’accusa di “ladro di zuppa”, inferta da altri deportati 1945, disegno; quindi, Auschwitz III (Monoiwitz): Distribuzione della zuppa ai deportati che lavorano nella IG Farben, e Alfred Kantor, “Ragazze con le teste rasate nel campo delle donne. lavoro da uomini con il freddo con vestiti sottili“, 1945, disegno; inoltre, “Zentralsauna”, doccia dopo l’immatricolazione, questa volta acqua e non gas, e Birkenau, La “Zentralsauna” dopo la liberazione delle truppe sovietiche, 1945; ancora, Wladyslaw Siwek, Selezione di donne a Birkenau, Polonia 1945, acquerello su carta, e Auschwitz-Birkenau, Cadaveri di ex deportati trovati dinanzi alle baracche, febbraio 1945; continua, Janina Tollik, Il vestibolo della morte, cortile del blocco 25 del Frauenlager, con le deportate da eliminare perchè non sono più in grado di lavorare, e Kolin, Repubblica Ceca, Deportati evacuati su vagoni scoperti da Auschwitz verso i lager del Reich dinanzi all’avanzata dei sovietici, 24 gennaio 1945; prosegue, Naomi Judkowski, Infermeria (Revier), appello al matttino “Solo tre morte, le altre vivono ancora” 1945, e Birkenau, Carro con cadaveri in attesa di essere sepolti, febbraio 1945; poi, Naomi Judkowski, Evacuazione, da Auschwitz verso Breslavia il 18 gennaio 1945, a sin, viene ucciso sulla strada chi non riesce a tenere il passo, Varsavia 1945, e Mieczyslaw Koscielniak, Bruciatura di documenti il 18 gennaio 1945, Polonia 1972; quindi, Auschwitz, Deportati italiani e sloveni liberati, tra cui la triestina Cirilla Marc, febbraio-marzo 1945, e Zbigniew Ofinowski, Marcia di evacuazione, da Auschwitz a 60 Km da Wroclaw, Slesia , Rubnik 1946; inoltre, Birkenau, Alcuni bambini sopravvissuti escono dalla baracca del BIIe, già “Zigeunerlager”, dopo la liberazione, tra i superstiti le sorelline italiane Andra e Tatiana Bucci, fine gennaio 1945, e Birkenau, Corteo di casse con salme dopo la liberazione verso la fossa ad Auschwitz, 28 febbraio 1945; ancora, Birkenau, Deportati malati, dopo la liberazione vengono trasferiti all’ospedale allestito nei blocchi dello Stammlager di Auschwitz, marzo 1945; continua, Sopravvissuti ad Auschwitz alla frontiera tra Ungheria e Jugoslavia, a dx Paola Cencic, alla sua dx Polda Grunden, dietro loro la sorella di Paola, Rosa Cencic, l’altra sorella Amalia Cencis morta, a sin. Maria Rudolf ed Elena Jarc, agosto 1945; infine, Edoardo Finzi dopo la liberazione da Auschwitz, febbraio-marzo ’45. Se questo è un uomo…., e Edoardo Finzi negli anni ’40, con la sua umanità intangibilr. Questo è un uomo…; in chiusura, Il commiato tra Papa Francesco e Silvia Maksymowicz, dopo il bacio al tatuaggio di Auschwitz.

Il commiato tra Papa Francesco e Silvia Maksymowicz, dopo il bacio al tatuaggio di Auschwitz

Auschwitz-Birkenau, 1. Il calvario degli italiani deportati, alla Casina dei Vailati

Il bacio di Papa Francesco al braccio sinistro con il tatuaggio di Silvia Maksymowicz, polacca di origine bielorusse, deportata ad Auschwitz all’età di 3 anni con la madre, nell’udienza generale del 26 maggio 2021 in Vaticano, ha riportato tutti alla tragedia della Shoah. Silvia si è salvata ma non ha più trovato la mamma, è stata adottata, e quando l’ha ritrovata da adulta non ha lasciato la famiglia che l’aveva cresciuta, in una somma di sentimenti filiali. Porta tre regali al Papa, per “memoria” un fazzoletto con la P di Polonia, “per preghiera” un rosario con il ricordo del papa polaccoper “speranza” un dipinto con la madre sul cupo binario di Auschwitz-Birkenau. Apriamo così il nostro racconto della mostra che rievoca la via crucis degli italiani in quei luoghi di disumanità e di morte, come in un film in cui le immagini – fotografie reali e disegni angosciosi – sono più eloquenti delle parole.

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Papa Francesco bacia il tatuaggio di Auschwitz sul braccio di Silvia Maksymowicz, 26 maggio 2021

di Romano Maria Levante

La mostra “Dall’Italia ad Auschwitz”, inaugurata nel “giorno della memoria” il  27 gennaio 2021 a cura della Fondazione Museo della Shoah, che l’ha realizzata nel cuore del quartiere romano intorno al Portico d’Ottavia, la Casina dei Vailati, rievoca la deportazione degli italiani esponendo documenti e livide  immagini del lager, e anche moltissime fotografie nei momenti felici dei nostri connazionali deportati spesso in festosi gruppi di famiglia con l’accurata ricostruzione delle loro biografie. Non si tratta, dunque, della rievocazione impersonale di una tragedia, ne viene fuori una storia, personale e collettiva, quanto mai toccante. Curatori della mostra, come di quelle precedenti, e del Catalogo di Gangemi Editore,Sara Berger e Marcello Pezzetti.

Birkenau, Binario 3, a dx, treno con ungheresi, binario 2, a sin. treno già “ripulito”, maggio 1944

Il meritorio ciclo di mostre documentarie sulla inenarrabile tragedia epocale della Shoah  nella sua nuova tappa  analizza con la consueta accuratezza il tremendo itinerario “Dall’Italia ad Auschwitz”, esponendo i  risultati dell’approfondita ricerca che ne è alla base. E lo fa senza esprimere la forte  indignazione, anzi l’esecrazione e la rivolta dinanzi a tale orrendo crimine contro l’umanità con le parole di fuoco che meriterebbe, ma presentando i fatti nella loro evidenza con una documentazione  sconvolgente.

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Auschwitz,, Foto aerea,15^ US Army Air Force, 13 settembre 1944

Sono esposte le fotografie da album di famiglia dei singoli e di interi gruppi familiari non sopravvissuti, come quelle riprese nel lager e reperite per la mostra, fino a una ricca serie di disegni di sopravvissuti che riescono a sopperire all’assenza di immagini d’epoca, alcuni utilizzati come prove nei processi contro gli aguzzini, e ai ricordi  che fanno rivivere le terribili condizioni di vita dei deportati con le angosce di chi ne conosceva il tragico destino e le ingenue attese di chi ne era inconsapevole fuorviato dalla mistificante messa in scena.

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Tarnow, Cracovia, Primo treno con 758 deportati polacchi per Auschwitz, 14 giugno 1940

Dieci sono i temi e momenti  – che corrispondono ad altrettante sezioni nell’allestimento espositivo –  su cui si richiama l’attenzione del visitatore della mostra e del lettore dell’istruttivo Catalogo, a partire dalla descrizione del “Kl Auschwitz”, del quale si ricostruiscono le diverse fasi di un’utilizzazione sempre più criminale.

Il sistema “concentrazionario” Auschwitz-Birkenau

Si inizia con la 1^ parte di una storia che si dipana come un film dalla “suspence” crescente, “Il complesso di Auschwitz-Birkenau”, l’infernale sistema “concentrazionario” formato dal blocco iniziale e dall’aggiunta successiva di un campo di dimensioni molto maggiori e di tanti “sottocampi”.

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Wladyslaw Siwek, KL Auschwitz. Un treno di deportati all’arrivo, 1940, disegno a tempera

“KL Auschwitz” è la prosecuzione e l’acme della vicenda dei lager tedeschi, “luoghi di detenzione” appositi realizzati dal 1933 per internarvi gli oppositori politici del nazismo, poi estesi a diverse categorie di “asociali”, in una prima fase senza alcun riferimento agli ebrei. Tali lager, alcuni tristemente noti quanto  Auschwitz – come Dacau, Mathausen, Buchenwald – e   i 3 “campi principali” Sachsenhausen, Flossenbug e Ravensbruck, sono entrati in funzione tra il 1933 e il 1939 in una escalation che li fa aggiungere via via mentre il numero di internati “normali”, che il 1° settembre 1939 era di 21.400, era più che raddoppiato in 53.000 a fine 1940.

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Auschwitz, Arrivo di prigioneri di guerra sovietici, autunno 1941

Questo in Germania, poi con l’occupazione della Polonia e l‘intento di “germanizzarla”  vi  furono realizzati campi di internamento, Auschwitz  fu il secondo, aperto il 27 aprile 1940 come campo base, “Stammlager”, ai confini dell’Alta Slesia annessa al Reich. L’intento era di internarvi i membri della resistenza, un mese e mezzo dopo ne arrivarono 728, tra cui alcune diecine di ebrei; in totale,  i non ebrei polacchi internati saranno 150.000, metà non sopravvisse, e 25.000 saranno i prigionieri non ebrei da altri paesi, soprattutto prigionieri di guerra sovietici.  Il campo assumerà varie funzioni nel tempo, di solo transito e di concentramento, lavoro all’interno o smistamento verso aziende,  fino a che la funzione principale diventerà di esecuzione e sterminio.

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Wladyslaw Siwek, Scavo delle fondamenta del blocco 15,1948, disegno a tempera

Nella primavera del 1941 con l’ “Aktion 14f13” prende avvio il criminale progetto di eliminare gli “inabili al lavoro” , l’attuazione inizia ad Auschwitz a luglio con 575 eliminati mediante il gas a Sonnesein perché nel campo non c’erano ancora le camere a gas realizzate a settembre per eliminare, in base al nuovo ”Aktion 14f14”, i prigionieri di guerra sovietici, erano 15.000.  Il complesso “Auschwitz I – Stammlager”  fu potenziato notevolmente aggiungendo al “campo base “ iniziale il campo molto più vasto “Auschwitz II – Birkenau”,  in una prima fase destinato ai prigionieri di guerra sovietici – vi sarà spostata la sezione femminile attivata nella primavera del 1942 – e “Auschwitz III –  Buna Monowitz”,  campo di lavoro per l’industria chimica IG Farben.

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Auschwitz, L’interno del campo,1944

Viene presentata la visione aerea, con nuove mappe assonometriche dell’architetto Peter Siebers, dalle 70 baracche circa del lager originario si passa alle 350 baracche che abbiamo contato nella pianta di Birkenau. Ci sono anche fotografie delle baracche e immagini di deportati, unite a disegni di internati realizzati anni dopo, con una visione  resa lucida dalla memoria di ciò che non si può dimenticare, e lascia l’angoscia nel cuore.

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Birkenau, Foto aerea ,15^ US Army Air Force, 31 maggio 1944

Con “Auschwitz- Birkenau. Lo sterminio sistematico” si comincia a delineare la Shoah: il grande campo di Birkenau fu destinato all’eliminazione degli ebrei appena i prigionieri di guerra sovietici, per i quali era stato progettato nel settembre 1941, furono portati a lavorare nella grande industria. Il 20 gennaio 1942  a Berlino, precisamente a Wannsee, si pianifica la sorte degli ebrei d’Europa, e Auschwitz viene scelta per l’ubicazione  strategica, con il nodo ferroviario e il notevole ampliamento in costruzione; due fattorie di contadini sono adibite a camere a gas (Bunker I e II), con sepoltura e cremazione.

Wladyslaw Siwek, KL Auschwitz, vigilia di Natale 1940, dipinto a olio su tela

Nei mesi successivi gli ebrei vengono deportati a Birkenau da Slovacchia  e  Francia iniziando a marzo, da Polonia e Reich a  maggio, dall’Olanda a luglio, da Belgio e Croazia ad agosto, da Theresiendstat a ottobre, dalla Norvegia a dicembre; anche le strutture di internamento ed eliminazione di altre località sono attivate. Nel 1943 inizia lo “sterminio sistematico” in quattro giganteschi complessi con spogliatoi, camere a gas, e forni crematori, “Krematorium” da II a V, mentre arrivano a Birkenau ebrei dalla Grecia e dall’Italia; inoltre più  di 23 mila rom e sinti soprattutto dal Reich, vengono raccolti  in un settore speciale e messi a morte.

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Birkenau, Costruzione della Komandantur, 1944

Nell’anno che precede la fine della guerra, il 1944, si ha l’arrivo degli ebrei dall’Ungheria nella “Ungarn-Aktion” e da altre parti d’Europa, l’organizzatore è Adolf Eichman. Tranne gli ebrei dei ghetti polacchi, gli altri credono di andare in campi di lavoro, non pensano allo sterminio. La contabilità di Birkenau è agghiacciante: 1.110.000 internati, dei quali 850.000 uccisi, un’ecatombe! Le immagini iniziali della mostra documentano il campo, con piante, ricostruzioni e fotografie di alcuni momenti.

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Birkenau, Bahnrampe, selezione all’arrivo degli ebrei ungheresi, primavera-estate 1944

La deportazione degli italiani

Ed ecco l’umanità calpestata e sfregiata nella 2^ parte, La deportazione ebraica e politica dall’Italia ad Auschwitz-Birkenau – I trasporti”: dai luoghi delle retate e del carcere per gli arrestati, ai convogli per le deportazioni fino alla destinazione; oltre alle notizie,  una galleria fotografica degli album di famiglia delle vittime nei momenti lieti, quando nessuno poteva pensare che degli innocenti fossero vittime della deportazione fino alla spietata eliminazion, spesso all’arrivo da un viaggio disastroso, follia nella follia.

Famiglia Gavijon, Roma: da sin., Susanna, Salvatore, la madre Rea Pardo , il padre Sabino, in prima fila, Leone,. Elia, Marco Mordo, unico sopravvissuto ulimo a destra David non deportato, Trieste, 1939

”La deportazione degli ebrei” italiani con l’intervento della nostra polizia inizia sei anni dopo le leggi razziali del 1938  alle quali seguì, nel 1940, l’internamento e non la deportazione, anzi nelle terre di occupazione le nostre autorità proteggevano gli ebrei non consegnandoli ai tedeschi. Era la polizia tedesca che faceva le retate, come quella del 16 ottobre 1943 a Roma; in Friuli-Venezia Giulia continuerà così, gli arrestati passeranno dal carcere di Trieste al campo di transito della Risiera di San Sabba, e di lì in treno ad Auschwitz, con gli ebrei viaggiavano i deportati “politici”, uomini e donne.

Elio Morpurgo, Udine, 1858-1944, senatore dal 1920, ucciso ad Auschvitz aprile 1944

Dopo l’istituzione della Repubblica di Salò –  seguita alla liberazione di Mussolini che era stato arrestato dal re Vittorio Emanuele III e tenuto prigioniero sul Gran Sasso e all’armistizio dell’8 settembre 1943 – la situazione degli ebrei in Italia cambiò radicalmente sulla spinta criminale dei tedeschi occupanti, non più alleati e anche vendicativi: l’Ordinanza del  30 novembre 1943  incaricò la polizia italiana di arrestare gli ebrei, portati prima nei campi provinciali e nelle carceri locali, e di lì  al campo di Fossoli nei pressi di Carpi  in provincia di Modena. La gestione di Fossoli passò ai tedeschi che organizzarono le deportazioni da febbraio ad agosto 1944, quando fu chiuso e la raccolta e il transito furono trasferiti al nuovo campo di Bolzano-Gries.

Famiglia Bondi, Roma: da sin., Benedetto, il padre Leone, Fiorella, Giuseppe, la madre Virginia Piperno,, 1939, deportati il 16 ottobre 1943 con altri 3 figli Elena, Anna, Umberto da 4 ad 11 anni, tutti uccisi all’arrivo a Birkenau il 23 ottobre

Sul viaggio in treno nei carri-bestiame,  Pio Angelo Rigo, catturato in uno scontro con i partigiani il 7 marzo 1944, vissuto fino a 89 anni, in “Il triangolo di Gliwice” così descrive il trasferimento da Auschwitz a Buchenwald dove sarà liberato tre mesi dopo nell’aprile 1945: “Stretti come acciughe, nei momenti di sbandamento dei carri, quelli che  erano al centro, stanchi e deboli, cadevano a terra senza riuscire a rialzarsi, rimanevano soffocati sotto i compagni”.

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Birkenau, Bahnrampe, selezione all’arrivo degli ebrei ungheresi, prim.- estate 1944, 2^ foto

Ecco la tragica contabilità: dall’Italia furono deportati ad Auschwitz 6.500 ebrei, “di questi 5.578 non fanno ritorno” è la cronaca secca quanto impietosa, sono sopravvissuti soltanto 922.  La retata con deportazione del 16 ottobre 1943 a Roma segnò lo spartiacque perché la “razzia” riguardò non solo gli uomini ma anche le donne e i bambini. Caduta così la maschera ai nazisti,  gli ebrei italiani cercarono rifugio soprattutto nei conventi e negli ospedali: ci furono anche dei delatori, ma molti privati li nascosero rischiando, altri ebrei espatriarono soprattutto in Svizzera o entrarono nella Resistenza. Ricordiamo che tra le forze di liberazione c’era anche una brigata ebraica.

Club Maccabi, Rodi: 3° da sin. Yosef Alcana, pres.idente, tutti deportati e uccisi ad Auschwitz, 1944

Abbiamo già accennato ai “politici” che seguirono la sorte degli ebrei, “La deportazione dei politici” è la successiva stazione della via crucis evocata dalla mostra. Il numero dei  “politici” italiani nel mirino si è moltiplicato dopo l’armistizio dell’8 settembre con l’occupazione dell’alleato divenuto nemico, e l’opposizione agli occupanti in tante forme fino alla resistenza armata. Venivano arrestati dalla polizia tedesca i renitenti alla leva e quelli ritenuti pericolosi per le azioni ostili svolte o che si sospettava svolgessero in modo clandestino, in un clima reso incandescente dagli scioperi operai e dalle varie forme di boicottaggio da parte della popolazione civile, fino alla resistenza armata dei partigiani sempre più numerosi per non cedere ai diktat dell’occupante.

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Famiglia Hasson, Rodi: Nissim con moglie Rachele e figli Fany. Bellina, Fortunata. Haim , solo Bellina sopravvive ad Auschwitz

Di qui le ricorrenti retate e gli arresti spesso per motivi banali come il non rispetto del coprifuoco, o più seri come la borsanera, che comunque non giustificavano il fatto di chiamarli “politici”. Per tutti, in modo indiscriminato, l’arresto e un primo passaggio nelle carceri locali, a disposizione anche della polizia tedesca; poi, almeno una parte nei campi di transito di Fossoli, Bolzano, Risiera di San Sabba per la deportazione nei lager, Auschwitz e gli altri, come i già citati Buchenwald, Dachau, Mathausen. Furono un centinaio i trasporti ferroviari dall’Italia verso quelle destinazioni di sofferenza e di morte.

Guido Passigli con la moglie Virgina Coen, Roma, deportati
il 16 ottobre 1943, “selezionati” e uccisi all’arrivo ad Auschwitz

Si ricorda la deportazione ad Auschwitz come “politici” di 1.000 donne del Friuli-Venezia Giulia, croate e slave impegnate nella resistenza e di 40 donne scioperanti in Lombardia; 52 uomini giunti da aprile a luglio 1944 e 169  nel dicembre 1944 come “lavoratori specializzati” per smantellare il campo, venivano da altri lager. I deportati italiani “politici” non ebrei sono stati 1.300, donne e uomini, 281 non sono tornati, quota ben minore degli ebrei destinati all’eliminazione totale.

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Birkenau, Bahnrampe, selezione all’arrivo degli ebrei ungheresi, prim.-estate 1944, 3^ foto

Nella mostra questo viene documentato in una galleria di volti, figure e gruppi familiari felici – ne abbiamo contato almeno un centinaio – con struggenti lettere, e con le carte dell’ottusa burocrazia nazista, elenchi su elenchi, registrazioni, veri e o propri editti: un contrappunto raggelante tra l’umanità di quei volti sorridenti, di quelle figure dignitose, di quei gruppi uniti nell’affetto, e la bieca disumanità dei nazisti.

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Famiglia Mustacchi, Trieste: Daniele, la moglie Allegra Belleli, i figli Salomone, Rachele, Marco,
Rachele è l’unica sopravvissuta ad Auschwitz

Lo sterminio degli ebrei italiani deportati

Ma è solo la premessa, dopo l’inquadramento sul lager e le deportazioni, già il titolo della 3^ parte, “Auschwitz-Birkenau. Lo sterminio degli ebrei deportati dall’Italia”, evoca l’orrore.

“La ‘selezione iniziale’ . La tragica scelta di chi viene ucciso all’arrivo”  è la fase che segue  quella già descritta dei “trasporti”, all’orrore si aggiunge l’incredulità tanto è infame: dopo il lungo e tormentato viaggio nei carri-bestiame accatastati oltre il limite della sopportazione umana, avveniva  l’eliminazione immediata di quelli ritenuti non utilizzabili nel lavoro coatto: e ne venivano eliminati i due terzi! Con l’aggravante che coloro i quali superavano la “selezione”, se ebrei, sarebbero stati eliminati quando non più utili per il lavoro, così le mamme e i bambini, i deboli e quelli ritenuti troppo anziani, anche se avevano superato solo i 40-45 anni.

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Famiglia Sonnino, Roma, Ida con i figli Samuel Sandro e Mara Cesira, deportati il 16 ottobre 1943, “selezionati” e uccisi all’arrivo a Birkenau con il piccolo Mario, 2 anni, non in foto

Questa folle “selezione” si è svolta per due anni – dalla primavera del 1942 a quella del 1944 –  su una banchina a 800 metri  dal campo di Birkenau: nella follia burocratica aggiunta a quella criminale, veniva definita dai medici, che rinnegavano platealmente il giuramento di Ippocrate,  “servizio sulla Rampa”, la “Judenrampe”; poi, con l’intensificarsi delle deportazioni, fu prolungata la linea ferroviaria per svolgere la selezione all’interno nella nuova “Bahnrampe”. Gli oltre 1.000 ebrei della retata a Roma del 16 ottobre 1943 giunsero il 23 ottobre  e furono “selezionati” sulla “Judenrampe” dal medico tristemente noto, Josef Mengele, e da altri operatori e guardie; sulla “Bahnrampe” il primo trasporto dall’Italia approdò il 23 maggio proveniente da Fossoli.

Famiglia Szòrényi, Fiume: Adolfo con la moglie Vittoria Pick, e i figli Alessandro, Daisy, le figlie da sin. Lea, Arianna, Rosetta, deportati da Risiera di San Saba il 25 giugno 1944, tutti uccisi ad Auschwitz

Gli internati ebrei venivano impiegati anche nei compiti complementari all’infame selezione, dall’ordine e la pulizia della rampa e dei vagoni alla collocazione degli oggetti personali nella “Kanada”, il settore a questo dedicato. Aumentarono da 150 a 700 con l’arrivo degli ebrei ungheresi, tra loro c’erano sei italiani tra cui Nedo Fiano, che sopravvisse, è scomparso nel 2020 a 95 anni. Ci fu anche un arrivo di deportati ebrei dalla Città del Vaticano, “ricevuti” addirittura dal comandante del campo, Rudolf Hoss, per uno sfregio al Papa? La “selezione” era drammatica perché i due terzi degli ebrei deportati venivano eliminati all’arrivo, così per gli italiani fino ad aprile  1944 quando tale percentuale di morte scende, si fa per dire, al 70%  e poi al 60%.

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M.M. (firma), Brrkenau, “Selezione” ebrei deportati sulla Judnramp, 1942-44, disegno a matita-pastello

Dalla “Jundenrampe”, dove si “selezionava” fino alla primavera del 1944, gli ebrei da “eliminare” erano portati sui camion nei luoghi di sterminio; in seguito, dalla “Bahnrampe” dovevano percorrere a piedi un paio di chilometri. Pure a piedi si muovevano quelli  da avviare al lavoro, per raggiungere i luoghi dove venivano immatricolati, le “Saune”, poi li portavano negli alloggi soprattutto a Birkenau. Trattamento ben diverso per i “non ebrei”, i “politici” e i provenienti da altri lager, che non subivano nessuna selezione; e per i “misti”, non di “pura razza ebraica”, o con un matrimonio “misto”, che invece di  essere eliminati, come gli ebrei, se  anziani deboli e bambini, sono accolti nel campo.

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Birkenau, Un Kommando di donne nell'”Effectenlager Kanada II, agosto 1944

Deportati con gli stessi treni e negli stessi vagoni degli ebrei, ma non sono veri ebrei! Le fotografie sulla “selezione” all’arrivo di treni sono impressionanti, così  i volti sorridenti di quelli “selezionati” per la morte,  bambini e donne felici nelle foto dell’album di famiglia scattate e raccolte prima del diluvio….

Dalla “selezione” mortale a “Lo sterminio di massa degli ebrei nelle camere a gas”, il dramma raggiunge l’acme, l’emozione nel rievocarlo il diapason. Le immagini esposte sono agghiaccianti, come i disegni  dei sopravvissuti, con i corpi nudi di donne e bambini nello spogliatoio prima della camera a gas,  e i corpi sempre nudi da Giudizio universale nel “Krematorium” con la fossa comune. Le fotografie  del “Krematorium” e del “Bunker” hanno un sapore sinistro, mentre quelle delle donne ebree ungheresi riprese nel cortile dell’edificio di morte con le teste coperte di panno nero, nella loro serietà e dignità di moriture, sono la nobile espressione di una toccante umanità.  

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Auschwitz, Lavori pr l’edificio dell’immatricolazione dei deportati, inverno 1943-44

I 4 “Krematorium”, con i numeri romani da II  a V, avevano un aspetto esteriore inoffensivo, se così si può definire, il II e III in mattoni rossi , il IV  e V addirittura situato in un bosco di betulle dove gli ebrei da eliminare, inconsapevoli, venivano invitati a “rilassarsi”, per poi “entrare in doccia” riposati, senza sapere che li aspettava il riposo della morte. Neppure all’interno degli edifici si  potevano vedere le installazioni mortali.

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Birkenau, Krematorium IV, a sin. le camere a gas, a dx i forni, aprile 1943

C’erano differenze tra un edificio e l’altro, ma per tutti si può dire che entravano in un grande spogliatoio, addirittura con appendiabiti numerati, una sorta di beffa, nel III e IV venivano fatti spogliare anche nel bosco; poi andavano in locali vastissimi, la “Gaskammer” con le false docce, nel II e III in un salone che poteva contenere 1.500 persone, nel III e IV in tre sale per 1.200 persone; nell’atrio del II e III un montacarichi nascosto  da una tenda per portare i cadaveri al piano superiore, quando il numero  era tanto elevato da superare la possibilità di smaltimento dei corpi nel “Krematorium”, si bruciavano in fosse all’aperto.

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Jam Komski, “Fucilazione”, 1941

Il gas “Zyclon B”, acido cianidrico che si sprigiona con i cristalli all’aria e provoca la morte respirato a 27°, era immesso dal tetto in colonne con le griglie mascherate come fossero colonne portanti. Nel II  e III, 5 forni  a 3 muffole con un camino alto 20 metri; nel IV e V 2 serie di forni a 5 muffole con due camini alti 17 metri.  

Tra maggio e giugno 1944, per l’alto numero di arrivi e relative eliminazioni, fu riattivata la camera a gas del  “Bunker 2”, originariamente una fattoria, quindi anch’essa dall’aspetto inoffensivo.  Gli internati ebrei del “SonderKommando” provvedevano ai cadaveri e alla manutenzione del complesso, erano quasi 900 nell’estate 1944 di cui 5 italiani, Nicolò Sagi, due fratelli Venezia, due fratelli Gabba loro cugini, nel gennaio 1945 riescono a entrare tra gli internati portati a Mathausen, sono liberati nel maggio 1945 e vanno negli Stati Uniti.

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Birkenau, Ebree ungheresi con bambini verso le camere a gas, dietro c’è il Krematorium. maggio 1944

“Lo smistamento dei beni e il saccheggio delle vittime” è un corollario apparentemente scontato, povera cosa rispetto alle camere a gas, invece anche con l’evidenza visiva accresce quell’orrore.  C’è una conferma della burocrazia maniacale dei nazisti nell’accanimento classificatorio e ordinatorio di quanto era “confiscato” appartenendo alle vittime, di entità rilevante dato il loro grande  numero, sebbene potessero portare la minima parte di effetti personali nella deportazione; con relativa immonda speculazione economica su tali beni.

Vi erano dedicati settori appositi,  gli “Effectenlager” – suona come i lager degli… effetti personali –  definiti “Kanada”, il primo di 7 baracche ad Auschwitz I, il secondo di 30 baracche a Birkenau, sinistramente ubicato a fianco del “Krematorium” IV. E una serie di disposizioni ben precise sull’uso della “refurtiva dei ladri”, la demenziale oltre che criminale ultima offesa alle vittime.

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David Olère, Lo spogliatoio del Krematorium III, nude prima della camera a gas, 1946

Alle operazioni di censimento, classificazione, sistemazione e stoccaggio delle povere cose negli “Effektenlager” erano adibiti 1.000 internati tra cui sono stati identificati 12 italiani,  Nedo Fiano e due nomi  ben noti  nel commercio a Roma, Di Veroli e Calò, oltre a due donne, Ida e Stella Macheria.

Ma quali erano questi beni  così copiosi da richiedere un’apposita organizzazione per gestirli? Dalle valigie e dagli zaini alla biancheria di tutti i tipi compresi i piumini, dagli articoli di abbigliamento, come vestiti, pantaloni e scarpe, fino alle pellicce, ad altri oggetti personali, come pettini e occhiali, ombrelli e sciarpe, penne e rasoi, gioielli e orologi, quelli d’oro finivano alle SS. Venivano prelevati dai cadaveri i denti d’oro, destinati alla Reichsbank; dalle rasature delle donne i loro capelli.  C’erano precise quotazioni in una specie di mercato clandestino opera delle SS, 3 marchi per i pantaloni maschili, 6 marchi per una coperta di lana. Nell’imminenza dell’arrivo delle truppe russe questi depositi furono bruciati come altre prove dello sterminio, ma si salvò molto materiale: feriscono le immagini delle molte migliaia di scarpe, anche da bambino.

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Enrico Morpurgo, dopo la liberazione: nato nel 1891, deportato nell’agosto 1944

Ed ecco il ricordo di Ida Macheria, deportata con la sorella Stella da Trieste nel dicembre 1943, poi trasferita  a Ravensbuk, liberate entrambe dopo l’evacuazione: “Il Kommando era composto da trecento ragazze, avevamo tutte il fazzoletto rosso. I capannoni di legno erano pieni zeppi  di roba, montagne, c’erano le grazie di Dio. C’era un capannone solo di coperte, di piumoni, uno di scarpe, uno di valigie, di portafogli, di fotografie. C’erano anche le carrozzelle degli invalidi, gli occhiali, sì, tutto ammucchiato. C’era una grande organizzazione. Su dei tavoli bisognava piegarli e sistemarli: si facevano pacchetti da dieci, venti camicie, venti vestiti, venti blusette, venti gonne,  e poi si legavano con lo spaghetto perché partivano per la Germania. Arrivavano anche gli stracci, soprattutto per i trasporti dai ghetti. Allora quelli erano per i lager. Noi andavamo anche  a prendere la roba ai treni”.

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David Olère, Gli uccisi nelle camere a gas immessi nei forni del Krematorium III, 1945

Qualcosa di maniacale appare evidente in questa cura nel conservare e classificare la “roba” dei deportati destinati all’eliminazione nella follia criminale della “soluzione finale”; e qualcosa di inumano nel plateale  rovesciamento di ogni principio e di ogni valore in quella che in una mostra precedente sulla Shoah a Roma fu chiamata “l’infamia tedesca”.

Primo Levi: “Meditate che questo è stato”

Vediamo esposta la carta d’identità di Primo Levi, e una cartolina postale che riuscì a  mandare all’amica Bianca  Guidetti Serra il  23 febbraio 1944, dalla stazione di Bolzano durante il viaggio della deportazione – c’è scritto “Impostare, per favore” quindi fu affidata a qualcuno di nascosto durante la sosta – a firma “Primo, Vanda,  Luciana”, si tratta di Vanda  Maestro e Luciana Nissin deportate con lui. Al termine del nostro percorso nella mostra riporteremo lo struggente racconto della Nissin, con altri toccanti ricordi. 

David Olère, “SS supervisionano la morte col gas, bunker 2”, 1960-80

Avendo citato Primo Levi, ecco  la dedica che apre il suo libro più celebre, “Se questo è un uomo”: “Voi che vivete sicuri/ Nelle vostre tiepide case/ Voi che trovate tornando a sera/ Il cibo caldo e visi amici:/ Considerate se questo è un uomo/ Che lavora nel fango/ Che non conosce pace/ Che lotta per mezzo pane/ Che muore per un sì o per un no/ Considerate se questa è una donna/ Senza capelli e senza nome/ Senza più forza di ricordare/ Vuoti gli occhi e freddo il grembo./ Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/ Stando in casa andando per via,/ Coricandovi alzandovi,/ Ripetetele ai vostri figli”.

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Auschwitz-Birkenau, Occhiali degli ebrei deportati e uccisi, trovati dai sovietici, 1945

Riportiamo anche le parole ammonitrici della Prefazione: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente, si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager”.

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Arianna Szorenyi, La morte a Birkenau, 1948, disegno della bambina nell’orfanotrofio

Tutto è stato documentato meritoriamente dalla Fondazione della Shoah nel lungo ciclo di mostre degli ultimi anni con la minuziosa ricostruzione dei fatti, rievocati con assoluto rigore. Anche questa volta l’ammonimento finale emerge dal racconto secco ed essenziale  che lascia parlare l’evidenza con la forza incontestabile della realtà: al valore storico si unisce l’importanza sul piano educativo e formativo per le giovani generazioni che non potrebbero immaginare come possa determinarsi una simile infamia, incredibile eppure putroppo vera.

A presto la parte “Ad Auschwitz-Birkenau. Vita e lavoro”, con  i ricordi dei deportati sopravvissuti che hanno rievocato la loro terribile esperienza. “All’Inferno e ritorno” per pochi di loro, per gli altri il martirio che assume la luce fulgida dell’eroismo nel nome dell’umanità ferita  a morte.    

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David Olère, Capelli tagliati e denti d’oro asportati nella camera a gas del Krematorium III, 1946

Info

Casina dei Vailati, della Fondazione Museo della Shoah, Via del Portico d’Ottavia, 29. Da domenica a giovedì ore 10-17, venerdì ore 10-13, sabato chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.68139598. Catalogo “Dall’Italia ad Auschwitz” di Sara Beger e Marcello Pezzetti, Gangemi Editore International, gennaio 2021, pp. 256, formato 17 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni e notizie del testo. Cfr. i nostri precedenti articoli: nel sito www.arteculturaoggi.com sulle mostre alla Casina dei Vailati il 28 ottobre, 2 novembre e 19 aprile 2017, al Vittoriano il 24  novembre 2013, 5 giugno 2014, 1° febbraio 2016; in cultura.inabruzzo.it, sulla cultura ebraica 22 agosto 2009 (l’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli – disponibili – saranno trasferiti su altro sito.

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Alfred Kantor, Cadaveri scaricati nella fossa comune, Deggendorf 1045

Foto

Le immagini, tranne quella in apertura, sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore, la Fondazione Museo della Shoah che ce lo ha cortesemente fornito, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Per lo più si sono alternate immagini d’epoca del Lager con i disegni dei sopravvissuti, in un film dell’orrore, seguendo l’ordine di citazione nel testo delle varie fasi. In apertura, Papa Francesco bacia il tatuaggio di Auschwitz sul braccio di Silvia Maksymowicz, 26 maggio 2021; seguono, Binario 3, a dx, treno con deportati unheresi, binario 2, a sin. treno già “ripulito” maggio 1944, e Auschwitz, foto aerea, 15^ US Army Air Force, 15 settembre 1944; poi, Tarnow, Cracovia, Primo treno con 758 deportati polacchi per Auschwitz, 14 giugno 1940, e Wladyslaw Siwek, KL Auschwitz. Un treno di deportati all’arrivo, 1940, disegno a tempera; quindi, Auschwitz, Arrivo di prigioneri di guerra sovietici, autunno 1941, e Wladyslaw Siwek, Scavo delle fondamenta del blocco 15,1948, disegno a tempera; inoltre, Auschwitz, L’interno del campo 1944, e Birkenau, Foto aerea, 15^ US Army Air Force, 31 maggio 1944; ancora, Wladyslaw Siwek, KL Auschwitz, vigilia di Natale 1940, dipinto a olio su tela, e Birkenau, Costruzione della Komandantur 1944; continua, Birkenau, Bahnrampe, selezione all’arrivo degli ebrei ungheresi, primavera-estate 1944, e Famiglia Gavijon, Roma: da sin., Susanna, Salvatore, la madre Rea Pardo , il padre Sabino, in prima fila, Leone, Elia, Marco Mordo, unico sopravvissuto ulimo a destra David non deportato, Trieste 1939; prosegue, Elio Morpurgo, Udine, 1858-1944, senatore dal 1920, ucciso ad Auschvitz aprile 1944, e Famiglia Bondi, Roma: da sin., Benedetto, il padre Leone, Fiorella, Giuseppe, la madre Virginia Piperno, 1939, deportati il 16 ottobre 1943 con altri 3 figli Elena, Anna, Umberto da 4 ad 11 anni , tutti uccisi all’arrivo a Birkenau il 23 ottobre; poi, Birkenau, Bahnrampe, selezione all’arrivo degli ebrei ungheresi, prim.-estate 1944, 2^ foto, e Club Maccabi, Rodi: 3° da sin. Yosef Alcana, presidente, tutti deportati e uccisi ad Auschwitz, 1944; quindi, Famiglia Hasson, Rodi: Nissim con moglie Rachele e figli Fany. Bellina, Fortunata. Haim , solo Bellina sopravvive ad Auschwitz, e Guido Passigli con la moglie Virgina Coen, Roma, deportati il 16 ottobre 1943, “selezionati” e uccisi all’arrivo ad Auschwitz; inoltre, Birkenau, Bahnrampe, selezione all’arrivo degli ebrei ungheresi, prim.-estate 1944, 3^ foto, e Famiglia Mustacchi, Trieste: Daniele, la moglie Allegra Belleli, i figli Salomone, Rachele, Marco, Rachele è l’unica sopravvissuta ad Auschwitz; ancora, Famiglia Sonnino, Roma, Ida con i figli Samuel Sandro e Mara Cesira, deportati il 16 ottobre 1943, “selezionati” e uccisi all’arrivo a Birkenau con il piccolo Mario, 2 anni, non in foto, e Famiglia Szòrényi, Fiume: Adolfo con la moglie Vittoria Pick, e i figli Alessandro, Daisy, le figlie da sin. Lea, Arianna, Rosetta, deportati da Risiera di San Sabba il 25 giugno 1944, tutti uccisi ad Auschwitz; continua, M.M. (firma), Brrkenau, “selezione” ebrei deportati sulla Judnramp 1942-44, disegno a matita-pastello, e Birkenau, Un Kommando di donne nell'”Effectenlager Kanada II, agosto 1944; prosegue, Auschwitz, Lavori per l’edificio dell’immatricolazione dei deportati, inverno 1943-44, e Birkenau, Krematorium IV, a sin. le camere a gas, a dx i forni, aprile 1943; poi, Jam Komski, “Fucilazione” 1941, e Birkenau, Ebree ungheresi con bambini verso le camere a gas, dietro c’è il Krematorium, maggio 1944; quindi, David Olère, Lo spogliatoio del Krematorium III, nude prima della camera a gas 1946, ed Enrico Morpurgo, dopo la liberazione: nato nel 1891, deportato nell’agosto 1944; inoltre, David Olère, Gli uccisi nelle camere a gas immessi nei forni del Krematorium III 1945, e “SS supervisionano la morte col gas, bunker 2” 1960-80; ancora, Auschwitz-Birkenau, Occhiali degli ebrei deportati e uccisi, trovati dai sovietici 1945, e Arianna Szorenyi, La morte a Birkenau 1948, disegno della bambina nell’orfanotrofio; continua, David Olère, Capelli tagliati e denti d’oro asportati nella camera a gas del Krematorium III 1946, e Alfred Kantor, Cadaveri scaricati nella fossa comune, Deggendorf 1945; in chiusura, David Olère, Le fasi dell’elinimazione, dall’attesa, alla morte in camera a gas, all’asportazione di capelli e denti d’oro, 1960-80, in alto a dx l’autore, inerito nel”Sonderkommando”, con il proprio numero di matricola, mentre scarica i morti in una bolgia infernale.

David Olère, Le fasi dell’elinimazione, dall’attesa, alla morte in camera a gas, all’asportazione di capelli e denti d’oro, 1960-80, in alto a dx l’autore,
inserito nel “Sonderkommando”, con il proprio numero di matricola, mentre scarica i morti in una bolgia infernale

In memoria di Brunitt, caduto sul lavoro

di Romano Maria Levante

Nel 31° anniversario della scomparsa di Bruno  Bartolomei, “Brunitt” per i paesani, avvenuta il 21 maggio 1990, ripubblichiamo il nostro ricordo di allora,  uscito su “Mondo Edile” – trimestrale della Cassa Edile della Provincia di Teramo, n. 11, luglio-settembre 1990, direttore Giuseppe Di Maira – con il titolo “Storia di Brunitt, caduto sul lavoro”.  Lo  sgomento che provammo  per il caro paesano  si è ripetuto  alla recente scomparsa di Luana, ugualmente  vittima  di ingranaggi mortali. Come in “Exodus”  immaginiamo  le due vittime di un destino  ingiusto e spietato idealmente  affiancate, e vogliamo ricordare  Brunitt e Luana come martiri del lavoro accomunati dal loro eroismo.   Al paese dove è nato e ha perso la vita, Pietracamela alla falde del Gran Sasso, gli è stato dedicato il “Largo Bruno Bartolomei”, uno spettacolare belvedere aperto sui luoghi a lui tanto cari.  

Storia di Brunitt, caduto sul lavoro

Non potevi scrivere questa storia a Roma, lontano dai “suoi” luoghi e per di più sui tasti di un computer. Qui invece puoi, con questa vecchia Everest, il cui nome indica la vetta più alta, sì quella che Brunitt ha certamente raggiunto. Non solo puoi ma devi. Del resto tu, e tutti quelli come te, sono forse quelli che di più possono comprenderlo. Lui così esposto su una frontiera così critica, così inerme, così indifeso. Il distacco di persona semplice e saggia non gli è bastato. Lo aveva preservato dalle tante crisi nella sua vita di frontiera. Questa volta l’agguato gli è stato teso da una macchina, nel momento in cui aveva allentato le difese per  aiutare un compagno in pericolo. La sua storia, dunque, che dai “suoi” Prati di Tivo si può leggere con chiarezza. In alcuni momenti rivelatori.

Il momento dell’arte. Nel gruppo del ‘Pastore Bianco” animato dall’artista indimenticabile Guido Montauti, tra i pittori “professionisti” vi è anche lui, Bruno Bartolomei. Lo troviamo alla grande mostra a Roma, con i suoi “guardamacchie”: gambali di pelle di pecora, quasi un marchio di garanzia, un sigillo “doc”  per il manifesto trasgressivo  e provocatorio del pittore Montauti. Soltanto questo, dunque? Anche  questo, certamente, e non è poco. Un pastore “professionista” tra pittori “professionisti” che vogliono mantenere, e gridarlo, quel rapporto con la realtà, la natura,  e qui la montagna ed i suoi cicli immutabili, che l’arte stava perdendo inseguendo avanguardie impazzite. Ma non è soltanto un richiamo di “colore”. E comunque non vuole esserlo. Vuole dare di più. Esprimere quello che non è “scritto” soltanto sui suoi “guardamacchie”; ma che lui sa di avere dentro di sé, e di sapere anche “leggere” da solo, e quindi esprimere. Per gli altri.

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Così Brunitt diventa pittore. Sì, possiamo dirlo, pittore “professionista”. Perché espone i suoi quadri in mostre, piccole e modeste, ma vere. Come veri sono i suoi paesaggi.  Come lui li vede, li legge dentro di sé. Senza pretese di “naive”, perché non è un bambino e con la sua sincerità non esprime un’infanzia lontana, ma un presente maturo, pur se ingenuo e semplice. Li ricordiamo i suoi quadri “adulti” e per ciò veri. La sua gioia genuina nel sapere che eravamo andati a vederli. Ma intanto Brunitt vive un passaggio traumatico. Solo con la sua pittura, dopo la lontana ubriacatura del “gruppo della rinascenza”. Solo con se stesso. Fiducioso però nella sua “natura” che non lo ha mai tradito.

Il momento del lavoro. Anche qui il passaggio traumatico, anzi i diversi passaggi che dovevano avvicinarlo al tragico appuntamento. Dalle interminabili giornate con le “sue” pecore, nei “suoi” prati, sotto i “suoi” monti, scandite dai ritmi secolari, ad altre interminabili giornate: c’erano sempre i “suoi” prati, i “suoi” monti, ma invece delle “sue” pecore, gli sciatori al culmine dello sky-lift più alto. No, non li poteva definire i “suoi” sciatori, anche se  era su, nella postazione più fredda ed esposta, per dare ad essi una mano e una sicurezza. Ma il resto del “suo” mondo c’era tutto. E non lo tradiva. Neppure quando lo “dimenticarono” lassù, in cima  al “Pilone”, sottraendogli, per una disattenzione, gli sci con i quali scendeva  a valle al termine della giornata. Era nei “suoi” prati, nella “sua” montagna.  E soltanto lui poteva trascorrere all’addiaccio una gelida notte d’inverno protetto solo dall’abbraccio della natura. Che con Brunitt non poteva essere inclemente. Ma era una premonizione. L’intrusione della tecnologia nella sua vita semplice e naturale reclamava dei prezzi. Ma come prevedere che sarebbero stati così alti? Non lo furono quelli del lavoro con le bombole del gas. Le portava in spalla come fossero fascine. Regolava la fiamma come attizzava il camino. Il gas non poteva tradirlo. Come lo sky-lift che in fondo portava nei “suoi” prati, sulla “sua” montagna, le nuove “pecore” del turismo di massa.

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Ferrocemento, un nome che riunisce i due grandi nemici della natura. Ma con i quali Brunitt, come tutti quassù,  aveva sempre convissuto. Collepiano ormai da una vita fa parte della natura. E Collepiano, con le sue gallerie, i suoi “pozzi”, è fatto di ferro cemento. Una modernità amica, dunque. Come le bombole che sembrano fascine,  come gli sciatori che sembrano pecore. Brunit resta se stesso. Non ha più tanto tempo per dipingere. Forse neppure per pensare. La sua vita si muove su un binario, come quelli che percorre la “macchina”, la talpa che scava nella “sua” Collepiano. Forse ha ritrovato i suoi ritmi, le sue fantasie.  Forse gli mancano le sue cose. Forse… Vi può essere tutto e il contrario di tutto nei sogni di Brunitt, adesso. Nessuno può saperlo. Tanto meno noi, “naturali” che tornano e poi ripartono. Che vivono gli stessi traumi dello sradicamento forse alla rovescia, in una precarietà di vita, nell’assenza di sogni che “dona” la città, con le sue povere certezze. Povere come le certezze di Brunitt quando è stato stretto dal ferrocemento.

Il momento della verità. Chissà come ha vissuto l’abbraccio della morte. Anche questo nessuno può saperlo. Perché la sua generosità gli ha fatto superare la frontiera. Lo ha fatto cadere nell’agguato della macchina, che non somiglia più a nessuna delle “sue” cose. Come non fosse nella “sua” Collepiano ma nel deserto tecnologico della “silicon valley”. Non possiamo saperlo ma vogliamo immaginarlo. Come Charlie Chaplin dei “Tempi moderni” lo vediamo inghiottito dalla macchina, percorrerne i terribili meandri. Ma per essere restituito al di là, intatto in tutto il suo essere  e nella sua innocenza, su una vetta tanto, tanto più alta del “suo” Gran Sasso.

Valdés, 2. La galleria delle grandi pitture e sculture, al Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Entra nel vivo e si conclude  la nostra narrazione della  mostra a Palazzo Cipolla “Manolo Valdés. Le orme del tempo”  con la visita alla galleria delle 70 opere esposte, 35 pittore e 35 sculture. Aperta il 17 ottobre 2020, per l’emergenza della pandemia è stata chiusa e poi riaperta fino allì’11 luglio 2021  Promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro, presidente Emmanuele F. M. Emanuele,  e realizzata da Poema, amministratore  unico Giovanni Le Rose; ha collaborato Contini Galleria d’Arte”, con il supporto tecnico di “Comediarting”, e di  Arthemisia., E’ curata da Gabriele Simongini, come il Catalogo  bilingue di Manfredi Edizioni con testi suoi e di Kosme de Baranano.

Manolo Valdés, “La Danza”,1988

Le prine tappe del viaggio espositivo: gli inizi, i ritratti, i nudi e le teste di Matisse

Alcuni dei suoi dipinti più significativi sono ispirati a Velasquez,  in una vicinanza ideale che diventa quasi fisica nella mostra a Roma, “dove il tempio si disintegra” nelle parole di Henry James, e dove  i capolavori del maestro spagnolo –  ai Musei Capitolini, alla Galleria Pallavicini e alla Galleria Doria Panphilij – sembrano dialogare con le opere esposte a Palazzo Cipolla. Per questo il “ritorno” di Valdés a Roma, 25 anni dopo la “personale”del 1995 alla Galleria Il Gabbiano, è meritorio, considerando la lunga assenza dalla città eterna, mentre sono numerose le sue presenze in Italia, dal 1964,  tra Rimini e Reggio Emilia, Correggio e Siena, Milano e Torino. Le più recenti, a Venezia alla Galleria d’Arte Contini la mostra “Manolo Valdés. I dettagli luminosi”; nel 2018 a Pietrasanta, nelle strade e nel Museo dei bozzetti la mostra “Valdés. Poetica della ‘Traduzione’”. 

“Zurbaràn come pretexto”, 1988

L’antologica dell’attuale mostra al Palazzo Cipolla ne fa seguire l’itinerario  artistico in cui si sviluppa il processo che abbiamo delineato –  il tempo come “forza latente” e il “correlativo” nella materia-memoria – in modi diversi e in esemplare coerenza in 6 tappe, dai dipinti più indietro negli anni, dopo l’”Equipo Crònica”, ai ritratti, alle sculture in legno, bronzo ed altri materiali. Caratteristica comune dei dipinti sono le grandi dimensioni,  che rendono spettacolare l’esposizione: quasi tutti  con misure oltre i 150 cm di larghezza e i  2 metri di altezza. 

Perfil con imàgenes de Sonia Delanany I” ,1997

Si inizia con la 1^ tappa,  i “Dipinti del 1984-89”, a partire dai tenebrosi “Caballero antiguo” 1984 e “El Conde Duque de Olivares I” 1989, con in mezzo, nel 1988,  3 dei suoi innovativi “d’aprés”: 2  in tema religioso, “Ribera come pretexto” ispirato al “Martirio di san Felipe” del 1639 di De Ribera, e “Zurbaràn come pretexto” , da “Cristo crocifisso, con un pittore”  di  F. de Zumbaràn, il terzo  di cui parleremo più avanti, “La Danza”   ispirato al celebre quadro di Matisse.

“Retrato sobre fondo verde y beige”, 2007

In questo periodo è  alla ricerca di una nuova espressione artistica che rifletta il tempo in cui vive: si interessa al “Nouveaux Realisme” del critico Pierre Restany, e alla “Nouvelle Figuration” del critico Michel Ragon e poi Gérald Gassiot-Talabot, sorti in contrapposizione alla “Pop Art” americana, sembra però  quest’ultima ad attirarlo per l’evidente ironia. La sua pittura, con riferimenti  al fumetto e al design,  è legata  anche alla “Nuova Figurazione”  italiana con Antonio Recalcati e  Valerio Adami.  “In ognuno di questi casi – nota  Kosme de Baranano – si tratta di artisti che hanno apprezzato l’Informale, rendendo la figura umana protagonista indiscussa  del loro lavoro e sottoponendola ad ogni tipo di sperimentazione”.

Retrato de una dama”, 2014

La figura umana è infatti al centro dei suoi “Ritratti all’italiana” – la 2^ tappa del nostro viaggio espositivo –  che rappresentano una “parafrasi della grande pittura del Rinascimento”. Sono ritratti dipinti anch’essi in tela di iuta, come le opere  prima citate,  con molta  attenzione ai dettagli,  in un’”unione compatta di  luce e colore, di imago e forma, già posta da qualcuno in precedenza, ma da lui trasformata  attraverso parametri specifici”, è sempre de Baramano.. Questo gli consente  di  “sapere cosa si sta facendo e averne il controllo”, sono parole dell’artista. E lo fa partendo dalle opere dei grandi maestri suoi ispiratori, oltre a Velasquez e Matisse,  Rembrandt e  Manet, Tiziano e Raffaello, attraverso la magia che consiste, nota lo studioso citato, “nelle decontestualizzazione  e nella capacità di riattivazione iconica”.

Perfil de  dama con marco”, 2012

Lo vediamo nei ritratti esposti, da “Francesco d’Este” 1991 nel quale il viso dell’originale del 1460 di Van der Weyden è letteralmente cancellato dal bianco materico, a quelli successivi:  in   “Retrato con rostro naranja y azul”  del 1999,  una metà del volto è oscurata totalmente, al pari del “d’aprés” di Matisse dello stesso anno, per gli altri solo parzialmente, anzi la metà del viso è ben distinguibile  negli  occhi e nelle fattezze, accentuata  proprio per il  diverso cromatismo: è evidenziata  dai colori la metà sinistra in “Yvette IV” 2004,   la metà destra  in   “Retrato sobre fondo verde y beige” 2007. Senza la bipartizione né il cromatismo, ma ben definito nel copricapo chiaro e le fattezze distinguibili, “Retrato sobre fondo verde” 2012, mentre   due anni dopo “”Ritratto di una dama”   2014  è un’immagine nobiliare, con il viso bianco al culmine di  una figura dall’abbigliamento regale,  intensa e viva  pur nell’assenza di colore.

“Vivianne III”, 2005

Oltre a questi ritratti frontali abbiamo volti di profilo, come “Retrato de una joven” 1992, rivolto a sinistra, su una veste rossa, la ritroviamo addirittura 20 anni dopo in  “Perfil de  dama con marco” 2012, nel profilo dalla parte opposta, meglio definito. Nel “Perfil con imàgenes de Sonia Delanany I” 1997, invece, il viso è cancellato dal bianco materico come sei anni prima “Francesco d’Este”.

“Odalisca sobre fondo royo”, 2016

E siamo alla 3^ tappa del  viaggio lungo l’itinerario di Valdés, la più intrigante perché con “I nudi e le teste di Matisse” si evoca  la sua   “frequentazione” delle opere dell’artista, prolungata e multiforme, anche dichiarata, sempre su tela di iuta. Intanto nei  ritratti “Retrato en blanco y royo” 1988, e  “Vivianne III” 2005,  ”Rostro tricolor sobre fondo gris” 2006, e  “Odalisca sobre fondo royo” 2016.  Citandolo  nel titolo, “Matisse como pretexto” con l’aggiunta rispettivamente di “com blanco” e “com rosa y espejo”; del 2018,  i volti appaiono ben delineati in un  cromatismo brillante con i dettagli degli occhi, mentre nel precedente  ”Matisse como pretexto” con “Lydia” del 1999, del volto è visibile la metà destra,  l’altra è nera in una composizione bianco-nera schematica ed essenziale. A “Lydia”  nel 2006 anche una scultura lignea del volto iconica,  senza neppure un abbozzo di occhi né di fisionomia.

”Matisse como pretexto Lydia”, 1999

Poi i  nudi, sempre da Matisse: “Desnudo azul” 1995 e “Desnudo I” 2010, in  un forte impasto materico con pennellate in bianco e argento alla Velasquez, figure  che  nello spettacolare   “La Danza”,  del 1988 –  dimensioni record di metri 2,40 x 3,43 –  sono grevi e sembrano impantanate a terra, mentre in quello di Matisse, del 1909, di cui rappresenta il “d’aprés” innovativo, erano leggere e si libravano su una base verde in uno intenso sfondo viola.  Del 1995, oltre al già citato “Desnudo azul” abbiamo “Hommage à Matisse”,  lo dichiara anche nel titolo, 4 pesci rossi dipinti di scuro nell’acquario,  un prisma di vetro con uno sfondo di nuovo viola.

Desnudo I”, 2010 .

De Baranano si chiede come sia riuscito a “reinterpretare” il grande artista: “Come si può cambiare il codice  di  un Matisse: in qualcos’altro? “Com’è possibile dipingerlo diversamente, come se si facesse  la stessa cosa ma in un modo in cui il  suo creatore non  l’avrebbe mai fatta? “ Segue questa  risposta: “Chiaramente Valdès ci riesce attraverso un cambiamento di sintassi, e di codice, che implica un cambio di  morfologia (di scala, di dimensione, e soprattutto di significato)”. Lo spiega lo stesso artista: “Non posso concepire un’opera  come Matisse como pretexto senza il tempo fra lui e me, senza un cambiamento di scala e di materia, senza un’esperienza”. 

“El frasco de perfume”, 1992

Termina il  viaggio espositivo, dai dipinti con oggetti alle sculture in legno, bronzo e altro

L’ultima opera citata introduce alla 4^ tappa dell’itinerario, “I dipinti con oggetti”.  Emerge la curiosità dell’artista, come lui stesso ha dichiarato: “…ogni volta che esco di casa osservo qualunque cosa o persona mi si trovi davanti, come immagini potenzialmente utili”; e, in modo ancora più  diretto, dopo aver detto  “sono come un cacciatore: costantemente in allerta, a prescindere dalla situazione”,  precisa: “I musei, la strada, le immagini in generale forniscono il materiale per le mie opere”.

“Reloj II”, 1998

I musei per i suoi speciali “d’aprés”, il resto anche per gli oggetti. E quali attirano la sua attenzione al punto di essere posti a livello dei ritratti  monumentali?  Nei 10  dipinti  di oggetti esposti, sempre di grandi dimensioni, ne vediamo un piccolo campionario. “Quando comincia a lavorare da solo nel 1982 – osserva  de Baranano – Valdés reindirizza la propria pratica verso la materia… In questo modo vira in direzione di un gesto denso di colore, scegliendo tessuti spessi capaci di assorbire e trattenere, come la tela di juta cucita  e ricoperta”.

White diamond”, 2007

Dopo l’acquario con pesci in  “Hommage a Matisse”,  già citato,  ecco oggetti di vita quotidiana, in parte ispirati alla Pop Art che lo intrigava con la rappresentazione di oggetti veri: la boccetta di profumo “El frasco de perfume” 1992 e la “Cafetera blanca sobre fondo negro”1994, l’orologio “Reloj II” 1998, i  due coni-gelato “Two grey cones” 2006  e il gioiello “White diamond” 2007.  Inoltre la coppia di  vasi ”Vasijas griegas III” 1997 e l’anfora antica “Vasija II” 2006, fino a evocare il mondo di Manet con  la  foglia “Hoja” 1995 e  il trifoglio ”Trébol” 2009. Antonio Saura, un pittore spagnolo, rispetto alle moderne ispirazioni Pop,  e a quelle classiche dall’archeologia all’arte parla di “cannibalismo”  di Valdés  perché vampirizza “sia il passato che il presente, facendoli suoi così da poterli diffondere attraverso di lui”. 

“Vasija II”, 2006

E siamo alle ultime due tappe,  sulla Scultura, nella quale l’”homo faber” con il suo interesse per i materiali, accora di più che per i contenuti, ha modo di realizzarsi compiutamente.  Sin dal 1999 ha elaborato il primo progetto di scultura pubblica per Bilbao. seguito da altri a Valencia con la “Dama de Eiche” – la cui prima versione installata  a New York nel 2002 –  a Madrid nel 2000 con “Menina” di 7 metri, pesante 11 tonnellate,  e poi altre 20  oltre che in Spagna, anche in Germania, Hong Kong e Singapore; nel 2013 sono state esposte a New York nel Giardino Botanico 7 teste giganti, cinque anni prima l’altra opera fu  installata a Central Park,  per il resto collocate nelle rotonde ed in altri luoghi delle città .Le sculture esposte in mostra coprono un arco temporale di 35 anni, dal 1982 al 2017, all’agosto del 1983 con la nascita della figlio Regina l’interesse per la scultura si accresce, opera nei diversi materiali, morbidi come il legno e duri come bronzo e alluminio, un’evoluzione continua.

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“Libreria (4 mòdulos)”, 1996

 Nella 5^ tappa del nostro viaggio troviamo le Sculture in legno,  un materiale che  attirò l’artista sin dalla sua prima formazione, come racconta lui stesso: “Ricordo che quando ero studente avevo un  maestro che realizzava immagini  partendo da legni morbidi, come quello di pino. Ottimi per l’intaglio ma noiosi  alla vista per la loro assenza di policromia”. Quest’ultima negli altri legni consente effetti tridimensionali come da intarsi, mentre il resto  proviene dalla manualità dell’artista e dagli strumenti adoperati. Così “modella”  il legno,  con l’aggiunta di pezzi e della  colla spalmata,  come se lavorasse la  creta.

“El Ciclista (Léger come pretexto)”, 1986

Lo si vede  nella grande “Libreria (4 mòdulos)” 1996 – lunga circa 3,50  m ed alta 2,50 m  – dal legno  variegato scuro,  per la quale utilizza assi leggere che collega con chiodi di legno, nella sua  perizia  artigianale  aggiunta   alla creatività artistica. Il già citato “Lydia” 2006 è invece un monoblocco  per nulla “asettico” ma  “movimentato” da macchie e buchi, come piace all’artista. Percorso da tagli  e fenditure “El Ciclista (Léger come pretexto)” 1986,  ispirato a un quadro di Léger, non quello con un ciclista, ma il quadro con 4 ciclisti di cui uno disteso a terra con un ragazzino su una bicicletta,  e il bambino al collo del ciclista al centro alto come al naturale.

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Menine”, 2009

Mentre in  “Vasijas griegas madera” 1998  il legno dei vasi è liscio, ma con le macchie e i buchi prediletti, anche questa un’opera di dimensioni ragguardevoli, 2 m per 1,20, con circa 30 vasi nello scaffale  di 4 piani. Il legno è molto  più tormentato  con tagli, macchie e fasce di diversa tonalità nei 2 “Reina Marianna”del 1997 e 2001 di dimensioni più che naturali, sono alte m. 1,75-1,80 – è in “Menine” 2009, preceduti  nel 1982 da un’altra “Reina Marianna” in blocchetti di legno e ferro; si ispirano al dipinto  “La reina  Marianna de Austria” di Velasquez del 1652.  “Infanta Margarita”  1993, in tecnica mista su legno, si ispira a sua volta al dipinto di Velasquez con lo stesso soggetto dal vestito azzurro. Ispirata allo stesso artista “Dama a caballo” 2012 , riprodotta anche in bronzo, come vedremo di seguito.

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“Dama a caballo” , 2012

Ritroviamo le  forme arrotondate dell’ampia veste nelle Sculture in bronzo che, insieme a quelle in altri materiali come l’alabastro, l’alluminio e fili di ferro leggeri, sono la 6^ e ultima tappa del viaggio espositivo. Abbiamo 3 “Reina Mariana”  di altezza crescente con il tempo, 33 cm nel   2003,  112 cm nel 2016,  172 cm nel 2019 in ben 10 esemplari, di cui  l’artista dice:  “Le volevo così, senza piedistallo, accessibili, prossime, come un esercito amichevole di Meninas”, chissà se ha pensato a emulare ironicamente l’Armata cinese e poi si è fermato….. Anche per l’”L’Infanta Margherita” ispirata al Velasquez di”Las Meninas” 1656, l’escalation dimensionale,  dall’altezza di 70 cm nel 2000 ai 2 metri del 2005, una crescita molto rapida…

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Reina Mariana”,  2019

L’altro tema  delle sculture in bronzo, e non solo, è quello con il quale,  commenta de Baranano, “riconverte  il ritratto equestre proposto da Donatello e Verrocchio nel Quattrocento”:   il grande “Caballero”  2005 alto quasi 3 metri, reiterato nel 2012 in alluminio alto la metà; e soprattutto la “Dama a caballo” in cui è presente la corrispondenza con Velasquez, la cui struttura compositiva “nelle sue mani (e nel suo pensiero visivo) si trasforma… in scultura monumentale, in totem”. In questo caso il  “Ritratto equestre di Isabella di Borbone” 1635, con la gualdrappa della cavallerizza che scende fino agli zoccoli del cavallo, ispira gli speciali “d’aprés”  di Valdés: ce ne sono 2 sculture statuarie  bronzee del 2012, dell’altezza di 1 metro, seguite da una in albastro del 2014,  alta 1 m e 24 cm, e una in tecnica mista su cartone del 2017, alta 1 metro e mezzo, come quella in legno del 2012 già citata. Con la tecnica mista, nell’opera più recente, del 2017, crea una spessa superficie materica blu come se fosse scolpita.

“Dama a caballo”, 2012

Non solo Matisse e Velasquez e altri maestri, l’ispirazione di “Màcàra IV”2017, sempre in bronzo ma con l’aggiunta di cartoni da discarica, di tipo cubista, viene dall’arte africana per “il liberarsi dalla precisione figurativa e  il porre un accento formale nel miscuglio delle tre dimensioni”, come osserva sempre  de Baranano,  e questo “accentuando gli aspetti  formali e strutturali senza limitarsi all’imitazione materiale”  che ha consentito agli africani di anticipare l’astrattismo; ma c’è anche l’arte orientale, in particolare indiana, ad ispirare Valdés, come in “Double retrato  Al 1”  2017,una sorta di Giano bifronte con i due volti levigati e pensosi.

“Caballero”, 2012

Ma la poliedricità dell’artista va ancora oltre, lo vediamo in due gruppi di opere molto diverse dalle precedenti  e tra  loro, sempre però di grandi dimensioni. Il primo  comprende “Mariposas azales” 2016, in bronzo dipinto, un insolito copricapo floreale la cui idea nacque  “un giorno,  passeggiando in Central Park”, quando vide, lo  ricorda lui stesso, “un gruppo di farfalle che era atterrato sopra  a una scultura”; e l’analogo “Fiore I”  2017, in alabastro e alluminio, con  i materiali,  diversi dai soliti, “dominanti sul contenuto”. Sono alti da 86 cm a 1 m, e  larghi tra 1,60 e oltre 2 m.

“Double retrato  Al 1”, 2017

L’ultimo gruppo è ancora più insolito, i due “Alambres” I e II ”  e “El dibujo como pretexto III” 2016,  sono addirittura in filo di ferro, materiale che dà  leggerezza e rende soprattutto “El dibujo” quasi etereo, fa ripensare alle opere aeree di Calder anche se questa,  come le altre due, è a terra, tutte sono alte oltre  m 1,20 . Che dire?  Il pensiero va a Mondrian che raggiunse la “perfetta armonia” nella progressiva semplificazione verso l’astrazione geometrica, qui  il passo è ancora più lungo, tanto più che alla pesantezza degli altri materiali si associa il gigantismo anche in pittura. 

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“Fiore I”, 2017

 Il “segreto della ricerca” e il “mosaico di frammenti” di Valdés

L’ultima citata è quasi un’astrazione in scultura in cui sembra culminare  l’itinerario artistico di Valdés nel senso delineato  così dal curatore Simongini nelle sue conclusioni: “Il segreto della  ricerca di Valdés sta nel culto della forma purificata di ogni utilità o convenienza, una meta-forma  in metamorfosi che attraversa il tempo storico  e poi ne esce per entrare nel tempo dell’arte”.  Kosme de Buranano:lo vede come   “un mosaico  di centinaia di frammenti, un’immagine che emerge composta dall’accumulo di molte altre: sedimenti di tutte le civiltà e di tutte le epoche”. Per di più, “questo mosaico è realizzato da Valdés con la tecnica del nostro tempo: il gesto materico, la sovversione dell’ironia, il riconoscimento della Storia”. Tutto nel grande artista che ci è stato presentato meritoriamente in questa mostra prestigiosa, che ha elevato lo spirito oltre la pandemia. 

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“Alambres I ”, 2016

Info

Museo di Palazzo Cipolla, via del Corso 320, Roma.  Dal lunedì al venerdì, ore 10-20 (la biglietteria chiude un’ora prima) sabato e domenica chiuso. Ingresso euro 6,00, ridotti euro 3,00 (under 26 e over 65 anni, studenti, forze dell’ordine, giornalisti, apposite convenzioni), gratuito under 6 anni e diversamente abili acompagnati. Tel. 06.9762559 fondazione@fondazioneterzopilastrointernazionale.it Catalogo “Manolo Valdés. Le forme del tempo”, a cura di Gabriele Simongini, Manfredi Edizioni, ottobre 2020, pp. 192, formato 24 x 29, bilingue italiano-inglese; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito ieri 17 aprile 2021. Per gli artisti citati nel testo,  cfr. i nostri articoli: in questo sito, Adami 1°, 2 gennaio 2021, Raffaello 28, 29, 30 agosto 2020,  Ribera 16 giugno 2020 in “Nuovo allestimento ‘600 Palazzo Barberini”;  in www.arteculturaoggi.com, Ribera 30 maggio, 7 giugno 2017 in “Collezioni dei reali di Spagna”,   Matisse 23, 26 maggio 2015, Manet in “D’Orsay” 12 gennaio 2016 e in “Impressionisti e moderni” 11 maggio 2014, Cubisti 16 maggio 2013, Tiziano 10, 15 maggio 2013,  Pop Art in Guggenheim 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012,  Mondrian 13, 18 novembre 2012;  in cultura.inabruzzo.it, Arte africana 15, 17 gennaio 2010 ( quest’ultimo sito  non è più raggiungibile, gli articoli, che sono a disposizione, saranno trasferiti su altro sito).  

El dibujo como pretexto III” , 2016

Foto

Le immagini, tutte delle opere di Valdés a parte quella di chiusura con l’artista fotografato nel suo atelier, sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti nonché la Fondazione Terzo Pilastro Internazionale che lo ha cortesemente fornito. E’ inserita una selezione di 25 opere delle 6 tappe della galleria espositiva, tutte citate nel presente articolo, come sono citate le altre 25 opere delle stesse tappe, inserite nel 1° articolo di inquadramento generale. In apertura, Manolo Valdés, “La Danza” 1988; seguono, “Zurbaràn come pretexto” 1988, e “Perfil con imàgenes de Sonia Delanany I” 1997; poi, “Retrato sobre fondo verde y beige” 2007, e “Retrato de una dama” 2014; quindi, “Perfil de  dama con marco” 2012, e “Vivianne III” 2005; inoltre, “Odalisca sobre fondo royo” 2016, e ”Matisse como pretexto Lydia” 1999; ancora, “Desnudo I” 2010 , e “El frasco de perfume” 1992; continua, “Reloj II” 1998, e “White diamond” 2007; prosegue, “Vasija II” 2006, e “Libreria (4 mòdulos)” 1996; poi, “El Ciclista (Léger come pretexto)” 1986, e “Menine” 2009; quindi, “Dama a caballo” 2012 legno, e “Reina Mariana”   2019; inoltre “Dama a caballo” 2012 bronzo, e “Caballero” 2012; ancora, “Double retrato  Al 1”  2017, e “Fiore I” 2017; infine, “Alambres I ” e “El dibujo como pretexto III” , 2016; in chiusura, Manolo Valdès da visitatore nel suo atelier.

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Manolo Valdès da visitatore nel suo atelier

Valdés, 1. Il tempo e la materia nei “d’aprés” della memoria, al Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Manolo Valdés, “Rheina Mariana”, 1997

La mostra “Manolo Valdés. Le orme del tempo” espone a Palazzo Cipolla circa 70 opere dell’artista spagnolo, tra grandi dipinti e sculture. Il periodo di apertura previsto inizialmente dal 17 ottobre 2020 al 10 gennaio 2021 è stato prorogato per la pandemia, che l’ha costretta  – come  la contemporanea “17^ Quadriennale d’Arte” –  alla chiusura 2 settimane dopo l’apertura e a uno “stop and go” con l’estensione  fino all’11 luglio 2021  Promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele,  realizzata da Poema, amministratore  unico Giovanni Le Rose, con Contini Galleria d’Arte, presidente Stefano Contini,  e il supporto tecnico di “Comediarting”, amministratore unico Francesca Silvestri e di  Arthemisia, presidente Iole Siena, E’ a cura di Gabriele Simongini, come il Catalogo  bilingue di Manfredi Edizioni.

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“Ribera como pretexto”, 1988

La presentazione del presidente  Emanuele

La mostra di Manolo Valdés  si pone come tutte le altre manifestazioni culturali, e non solo,  nel bel mezzo della pandemia. Ma ciò che le dà un significato speciale è il collegamento che  il presidente dell’organismo promotore, Emmanuele F. M. Emanuele,  fa tra questi eventi a ciò che avviene nel paese, non soltanto come doverosa attenzione ma come impegno personale “in un momento storico qual è quello attuale, afflitto dall’emergenza sanitaria e dalla conseguente grave crisi economica e sociale che ha colpito il nostro mondo”; a tali emergenze, aggiunge,“oltre che con interventi significativi di sostegno umanitario verso i più bisognosi, mi prodigo per dare  risposta anche attraverso l’arte  e la cultura”. Il  Premio Montale, conferitogli  nel 2019 come ”uomo dal multiforme ingegno”, poeta e intellettuale, docente e  giurista,  manager e imprenditore, è appunto il prestigioso  riconoscimento “alle innumerevoli attività sociali, economiche, culturali e artistiche da lui gemmate nei Paesi del sud Italia e del bacino del Mediterraneo” con costanza e dedizione.

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“Francesco d’Este”, 1991

  Emanuele  ribadisce il suo ben noto pensiero secondo cui arte e cultura sono “gli unici veri asset del nostro paese, in grado di contribuire ad alleviare la penosa condizione esistenziale in cui si trovano i nostri concittadini”. Il nesso tra problemi umanitari ed economico-sociali da un lato e l’arte  e la cultura come asset fondamentali dall’altro viene declinato oltre che nell’impostazione teorica,  in pratica dato il suo impegno diretto in questi campi. Ricordiamo ancora quando intervenne in ritardo alla presentazione della mostra di Ennio Calabria per i suoi impegni umanitari, e lo stesso accadde nel febbraio dello scorso anno alla maratona poetica “Ritratti di poesia” nell’Auditorium della Conciliazione. Un esempio  il suo, di come l’arte e la cultura possano dare una spinta in più anche per ritrovare quello scatto d’orgoglio che ha sempre fatto risorgere il nostro Paese nelle emergenze, per entrare in sinergia con le iniziative umanitarie, in un  nobile mecenatismo artistico e benefico.

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“Yvette IV”, 2004

In merito all’artista, sottolinea  “l’attitudine ad attingere in maniera del tutto trasparente  e naturale al repertorio artistico del passato per riproporlo in chiave contemporanea”, e in questo trova conferma alla propria  convinzione  “che l’arte è un fluire ininterrotto, un dialogo costante tra i grandi di ieri e di oggi”. Infatti  “l’opera di Valdés è in questo senso  una revisione continua del passato, un mosaico che si compone di centinaia di tessere, una rappresentazione  che nasce dall’accumulazione e dall’appropriazione di tante  altre immagini saldamente entrate nella nostra cultura visiva,  di reminiscenze di tutte le civiltà e di tutti i tempi”. Tutto ciò “lo rende un artista  a tutto tondo, perfetto interprete del nostro tempo e della nostra società”.

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“Retrato sobre fondo verde”, 2012

Il  tempo come “forza latente” e il “correlativo” nella materia-memoria

Dopo aver inquadrato con le parole dell’ideatore e promotore della mostra il suo valore nel momento attuale e il suo significato più alto, entriamo nello specifico per poter passare poi alla galleria espositiva a ragion veduta sul piano dei contenuti e della forma stilistica prescelta. Iniziamo dalle parole dell’artista: “Noi costruiamo su ciò che la storia dell’arte ha messo nelle nostre mani”, cui fa eco  Wind: “Il passato  non viene distrutto dal presente, ma sopravvive in esso come forza latente”.   Storia, passato  e presente,  viene evocata l’azione penetrante del tempo  in un modo del tutto insolito, come è insolito ciò che ne scaturisce nell’opera artistica di Valdés.

“Retrato de una joven”, 1992

Il curatore Gabriele Simongini – che ha curato a dicembre 2018  la mostra di Ennio Calabria “Verso il tempo dell’essere –  torna con “la forma del  tempo”. Definisce Valdés “il giocoliere del tempo lineare disintegrato  e poi trasformato in opere dalla natura ibrida , essendo nuove ed antiche senza soluzione di continuità”,  Nella direzione tracciata da Walter Benjamin: “Il passato esiste ed è al lavoro  appassionatamente nelle cose, in tutte le cose, talvolta come lutto e fantasma che non smette di perseguitarci nel presente”.

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“Retrato en blanco y royo” , 1988

Questo nella vita, e anche nell’arte, “perché in fondo l’arte, la grande arte è sempre contemporanea”.Simongini cita Bergson che  afferma: “La durata è l’incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce. E poiché si accresce continuamente, il passato  si conserva indefinitamente… l’accumularsi del passato su se stesso continua senza tregua. In realtà il passato si conserva da se stesso, automaticamente.  Esso ci segue, tutt’intero, in ogni momento”.  Parole che sorprendono per il termine “progredire” solitamente riferito al presente proiettato nel futuro, mentre Bergson lo riserva in modo motivato al passato. 

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“Rostro tricolor sobre fondo gris”,2006

Dopo aver posto  queste basi di natura filosofica, il curatore osserva: “Il pittore e scultore spagnolo risponde elegantemente alla tirannia di un sistema dell’arte  basato sul pregiudizio del ‘nuovo ad ogni costo’ dimostrando che il ‘nuovo’ ha radici  originarie  e non banalmente originali”. Ed ecco come: “Con le sue opere egli ha creato una sorta di Macchina artistica del Tempo, capace di ‘tornare’nel passato e di modificarlo, facendo nascere un altro universo e realizzando per via intuitiva un sorprendente parallelismo con la teoria scientifica post-relativistica … che ipotizza due frecce del tempo, una rivolta  verso il futuro e una indirizzata verso il passato”.

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“Matisse como pretexto con blanco”, 2018

Valdés segue entrambe le frecce, una  nella individuazione del “passato” da recuperare attraverso le opere che fa rivivere trasformate,  l’altra nell’orientamento al futuro con la scelta dei materiali e di una forma espressiva necessariamente modificata. Lo dice sottolineando che nel recuperare artisti del passato ci mette la sua arte com’è nel presente, non potrebbe concepire una propria opera riferita a un artista del passato senza considerare il tempo intercorso, che porta a inevitabili cambiamenti. “Dipingere è continuare a sommare, ad accumulare, tutto si mescola”. D’altra parte i “nani sulle spalle dei giganti” non c’erano soltanto nel Medioevo, l’aforisma vale sempre.

“Desnudo azul”,1995

Ed ecco come Simongini parla della “Macchina artistica del Tempo” creata dall’artista: “Valdés cambia profondamente, di volta in volta, l’uso stesso della materia e delle materie, ovvero l’essenza stessa dell’esistenza dell’opera nella processualità  che  l’ha generata”. Lo fa In questo modo: “Nelle stratificazioni a palinsesto che, in particolare nelle opere degli  anni ottanta e della prima metà dei novanta, cancellano i volti e le identità delle figure tratte dalla storia dell’arte, la materia diventa il correlativo oggettivo del tempo e della memoria con il suo accumularsi ininterrotto di ricordi”. E’  la “materia-memoria”di Bergson che Valdés collega all’arte vista nel corso della sua storia “in un circuito spiazzante ma colmo d’intensità. Potremmo dire, forzando un po’ la mano, che nelle sue opere memoria e storia dell’arte si materializzano, letteralmente”. D’altra parte lo stesso Valdés afferma: “Io devo creare qualcosa  in cui i materiali sono dominanti, il soggetto è un pretesto”. Materializzazione versus idealizzazione!

“Hommage a Matisse”,1995

Perché questo avvenga  le sue opere così concepite non sono i “d’aprés” che conosciamo in molti artisti nei quali, a parte l’impronta dell’artista che si è ispirato, si conserva sostanzialmente l’identità  delle opere originarie. Ricordiamo De Chirico, che senza stravolgere l’originale lasciava il proprio segno  nei “d’aprés” che Federico Zeri ha definito “monumenti insigni” e “veri e propri capolavori”. Sono stati un punto fermo e un motivo costante della sua rivisitazione del passato, tanto che  prima della  morte aveva iniziato a ri-dipingere il “Tondo Doni” dalla “Sacra Famiglia” di Michelangelo, per un nuovo “d’aprés” dopo quello della fase iniziale della sua vita artistica. Valdés fa delle trasposizioni di genere, da pittura a scultura, con la “materializzazione”, diventa “homo faber”: sarto nei materiali tessili, falegname nelle opere lignee, fabbro in quelle in bronzo. E questo sin dall’inizio, come De Chirico, da quando aveva vent’anni e iniziava il suo itinerario tra i grandi artisti, soprattutto spagnoli, nei suoi “d’aprés” altamente innovativi, spesso divenuti strumento di denuncia  della dittatura franchista.

“Cafetera bla sobre fondo negro”, 1994

Ma oggi, nel dilagare del digitale con i suoi riflessi  anche nell’arte, l’attrazione esercitata dalle sue opere così fortemente “materiche” – nelle quali sembra vi sia  l’imperfezione che  invita  a toccarle –  fa dire al curatore: “Oggi nell’accelerazione del virtuale, in un mondo piatto,  levigato  e  digitale,  le opere di Valdés permettono invece  di esercitare l’esperienza della materia nella sua imperfezione vitale  e la loro fisicità diventa una risposta forte  alla pervasiva smaterializzazione”. Una fisicità che nelle opere più recenti si apre alla “velocità percettiva dei nostri tempi” mediante inserimento nella tela di pezzi di specchio per rendere con i loro riflessi, il senso della frantumazione del mondo d’oggi, ricondotta a unità  con le linee “spesse e pur saettanti” che li collegano. “Ancora una volta ecco emergere lo scambio di ruoli  fra realtà ed illusione”.

“Two grey cones”, 2006

 Valdés, vita e arte

Ma chi è Valdés, come è maturata un’arte così personale e insolita?  Dalla sua biografia se ne segue il percorso, in un ’impegno inesausto  in campo artistico, particolarmente intenso  nel periodo più tormentato della sua e nostra epoca. Nato a Valencia l’8 marzo 1942, dopo aver frequentato per due anni l’Accademia di Belle Arti,  si dedica totalmente alla pittura, ha soltanto 17 anni. Nel 1962, a 19 anni, presenta all’Esposizione Nazionale di Belle Arti l’opera “Barca”, figurativa nel tema e informale nel materiale, e sono subito evidenti i suoi riferimenti ai grandi artisti spagnoli, in primis Velasquez,  poi Picasso e altri.

“Vasijas griegas III”,1995

E’ molto attivo nel portare avanti le tematiche che gli stanno a cuore nel mondo artistico spagnolo: concorre da giovanissimo a fondare gruppi di artisti con visioni innovative: nel 1964, a 21 anni,  il gruppo “Estampa Popular” che usa anche lo strumento pubblicitario e resta in vita solo un anno;  ma lui non si ferma, nel 1965, dopo aver partecipato con successo al XVI Salone della Giovane Pittura di Parigi, eccolo nel  gruppo “Equipo Crònica”, aperto alla Pop Art e a tematiche nuove, con Solbes e Toledo, che lo lascia  presto;  continua a lavorare con Solbes fino alla sua morte  nel 1981.

“Heya”, 1995

 Ottiene il Premio Nazionale delle Arti Plastiche nel 1983 e la Medaglia d’Oro al Festival Internazionale di Arti Plastiche di Baghdad nel 1986.  Due anni dopo si trasferisce a New York dove nel 1992 apre un grande studio per concentrarsi sulla scultura. Dopo aver rappresentato la Spagna, insieme a Ferrer, alla Biennale di Venezia del 1999, nel 2000 torna nel suo paese, ma continua ad alternare i suoi soggiorni tra Madrid,  dove realizza delle sculture per l’aeroporto internazionale, e New York. Si tengono retrospettive nel 2002  al Guggenheim Museum di Bilbao, e nel 2006  al Museo Reina Sofia;  e tante esposizioni, a Pechino e a San Pietroburgo nel 2008,  a Locarno nel 2019, e ora nel 2020-21 a Roma. Oltre alle sue opere nei grandi  musei, da Parigi a New York, .da Madrid a Berlino, sue sculture sono installate in modo stabile nell’arredo urbano delle  prime tre città ora citate, e di Valencia, Montecarlo e Pietrasanta.

“Lydia”, 2006

Impressionante la sua vitalità a livello internazionale, dal 1965 ad oggi: abbiamo contato un numero impressionante di mostre, personali e collettive, oltre 700, di cui circa  140 negli ultimi 10 anni (50 personali e 90 collettive), 235 tra il 2000  e il 2010 (65 personali e 170 collettive) e oltre 360   nei 35 anni precedenti (165 personali e 200 collettive). La mostra attuale  con le 70 opere esposte è al culmine di un percorso che è riduttivo qualificare come sbalorditivo.  Tanto più se consideriamo la presenza in una ottantina di collezioni pubbliche e una bibliografia con una cinquantina di testi a lui dedicati.  Una ventina i premi e riconoscimenti, il primo del 1965 è italiano, del Comune di Biella.

Vasijas griegas madera”, 1998

La  visione dell’arte nelle sue parole

Lasciamo la parola a  lui stesso per qualificarne  l’itinerario artistico: “Noi costruiamo ciò che la storia dell’arte ha messo nelle nostre mani”, afferma solennemente. Ma poi aggiunge: “essa per me è una magnifica scusa per raccontare altro, per fare un discorso più ampio sulla vita umana”. Così  la pensa senza  fare alcuna concessione alle smanie iconoclaste:  “L’arte di ogni epoca ha sempre elementi del passato, si sussegue ed è una somma permanente”.

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Infanta Margarita”, 1993

Per questo non si deve avere la presunzione  delle avanguardie innovatrici che credono di rifondare l’arte al passo dei tempi cancellando il passato: “Ci sono artisti che  credono che annulleranno  tutto ciò che li precede con la loro opera, ma può darsi che ciò che ci precede annulli tutti noi, tutto è mescolato, niente ha messo fine a niente”. Ma lui, salendo sulle spalle dei giganti del passato, come Velasquez, e andando anche oltre nella classicità, si è posto di certo in una prospettiva che va oltre il tempo.

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“Reina Mariana”, 1992

Il  suo orientamento è chiaro:  “Mi sono abituato a guardare il mondo attraverso  gli occhi della cultura”. E i suoi riferimenti ben precisi: “Per farla breve, osservo, apprezzo, e provo simpatia per una mela dipinta da Cézanne. Mi piace il cielo se assomiglia a un Friedrich e amo i girasoli grazie a Van Gogh”.  Ma va ben oltre: “Osservando un dipinto di Raffaello,  posso dichiarare ‘in questo caso l’artista non ha corso  alcun rischio, perché sapeva come andava fatto, e così è stato”.. E, paragonandosi ai cantanti lirici con i temi di repertorio aggiunge: “M piace affrontare il lavoro con  consapevolezza, sicuro del risultato che voglio ottenere”.

Infanta Margarita”, 2000

 Eccolo  sulle scelte personali: “Amo dire che sono un artista di repertorio, come quei cantanti lirici a cui piace interpretare determinate opere perché le cantano meglio. Le immagini sulle quali torno non si esauriscono mai”. Infatti ne vedremo multipli ripetuti in modo appassionato con varianti. Così ne parla l’artista:”La mia scultura ha molto della mia pittura, mi interessa la matericità”. E spiega:  “Negli ultimi anni la scultura ha assunto un ruolo sempre più importante all’interno della mia produzione. Molte volte nasce da un’idea che ho già  dipinto in precedenza. Altre, accade il contrario. Una scultura può ispirarmi un quadro e viceversa un quadro può trasformarsi in scultura”.  Opera così: “Fatto il volume, percorro topograficamente la superficie, per vedere una piccola macchia, un buco, così come non uso mai una tela bianca, non  sono neanche capace di prendere un blocco e tirarne fuori la scultura. Non potrei pormi davanti a un blocco asettico”.

Caballero”, 2005

Più in generale, ecco cosa dice  sull’evoluzione dell’arte  nel valorizzarne la sedimentazione nel tempo con la modernità: “Dal  XVII secolo ad oggi sono successe molte cose e quelle cose si rispecchiano anche nei miei quadri”. Con una confessione che è un omaggio alla modernità da parte di chi si ispira ai maestri del passato: “Sicuramente non potrei fare una testa che nel Seicento fu dipinta a grandezza naturale e farla diventare alta due metri senza che il Pop mi avesse insegnato a farlo. Con il Pop ho imparato che quelle grandi scale avevano un impatto ma anche altri mi hanno insegnato altre cose”.

“Dama a caballo”, 2014

Altre sue osservazioni sempre su un piano generale, pur  con riflessi personali: “Penso che l’idea di un museo immaginario adottata da diversi artisti sia molto bella”. E  precisa così la sua idea:  “Il mio sarebbe sicuramente molto vario e dal punto di vista di uno storico dell’arte, estremamente incoerente”. Il perché è presto detto: “Nascerebbe dall’arbitrarietà e dagli impulsi emotivi. Mi piacciono nello stesso modo i capolavori della storia dell’arte e le opere che si possono incontrare nei corridoi di un museo”. D’altra parte ha confidato: “I musei, la strada, le immagini in generale, forniscono il materiale per le mie opere”. 

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“Mariposas azules, 2016

Non manca una riflessione su chi osserva e valuta le sue opere: “Non c’è niente che mi renda più felice che sentire diverse interpretazioni della mia arte. E’ bello che ognuno legga un’opera a modo suo e che ne tragga  conclusioni diverse e variegate”. Come il libro dello scrittore, così il dipinto o la scultura dell’artista non sono più di chi li ha creati ma di chi ne diventa osservatore e interprete secondo la propria sensibilità e la propria libera valutazione, la pluralità dei giudizi è un valore.

E con la sua osservazione che introduce alla visita virtuale della mostra,  terminiamo queste note introduttive su un artista così speciale. Prossimamente visiteremo la galleria delle sue opere.

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Juno”, 2013

Info

Museo di Palazzo Cipolla, via del Corso 320, Roma.  Dal lunedì al venerdì, ore 10-20 (la biglietteria chiude un’ora prima) sabato e domenica chiuso. Ingresso euro 6,00, ridotti euro 3,00 (under 26 e over 65 anni, studenti, forze dell’ordine, giornalisti, apposite convenzioni), gratuito under 6 anni e diversamente abili acompagnati. Tel. 06.9762559 fondazione@fondazioneterzopilastrointernazionale.it Catalogo “Manolo Valdés. Le forme del tempo”, a cura di Gabriele Simongini, Manfredi Edizioni, ottobre 2020, pp. 192, formato 24 x 29, bilingue italiano-inglese;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sulla mostra uscirà in questo sito domani 18 aprile 2021. Per gli artisti e le altre citazioni del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla 17^Quadriennale d’Arte 1, 2, 3, 4, 5 marzo 2021, Ritratti di Poesia 12 marzo 2020, De Chirico   settembre 2019, il  3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 – 18, 20, 22 –  25, 27, 29;  in www.arteculturaoggi.com, Premio Montale a Emanuele 14, 20 aprile 2019, Ennio  Calabria 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019,  Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018,  De Chirico 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20, 26  giugno, 1° luglio 2013, Cezanne 24, 31 dicembre 2013; in cultur.,inabruzzo,it,  Van Gogh 17, 18 febbraio 2011, De Chirico 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre (sui d’aprés) 2009, Picasso  4 febbraio 2009; De Chirico in “Metafisica” e “Metaphysical Art” a stampa, n. 11/13 del 2013. L’ultimo sito “on line” citato non è più raggiungibile, gli articoli, che sono a disposizione, saranno trasferiti su altro sito. 

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“Alambres II”, 2016

 

Foto

Le immagini, tutte delle opere di Valdés a parte quella di chiusura con l’artista fotografato nel suo atelier, sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti nonché la Fondazione Terzo Pilastro Internazionale che lo ha cortesemente fornito. E’ inserita una selezione di 25 opere delle 6 tappe della galleria espositiva, non citate in questo articolo di inquadramento generale, ma nel secondo articolo nel quale sono inserite altre 25 opere delle stesse tappe artistiche. In apertura, Manolo Valdés, “Rheina Mariana” 1997; seguono, “Ribera como pretexto” 1988, e “Francesco d’Este” 1991; poi, “Yvette IV” 2004, e “Retrato sobre fondo verde” 2012; quindi, “Retrato de una joven” 1992, e “Retrato en blanco y royo” 1988; inoltre, “Rostro tricolor sobre fondo gris” 2006, e “Matisse como pretexto con blanco” 2018; ancora, “Desnudo azul” 1995, e “Hommage a Matisse” 1995; continua, “Cafetera bla sobre fondo negro” 1994, e “Two grey cones” 2006; prosegue, “Vasijas griegas III” 1995, e “Heya” 1995; poi, “Lydia” 2006, e “Vasijas griegas madera” 1998; quindi, “Infanta Margarita” 1993, e “Reina Mariana” 1992; inoltre, “Infanta Margarita” 2000, e “Caballero” 2005; ancora, “Dama a caballo” 2014, e “Mariposas azules 2016; infine, “Juno” 2013, e “Alambres II” 2016; in chiusura, l’artista Manolo Valdés nel suo atelier.

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L’artista Manolo Valdés nel suo atelier.

In memoria di Francesco Pintor

di Romano Maria Levante

Francesco carissimo,

non avrei mai voluto ricevere la telefonata che mi ha sconvolto, sei scomparso, dopo aver raggiunto il culmine come Procuratore Generale della Repubblica di Bologna, e aver poi proseguito come Garante del contribuente dell’Emilia-Romagna. Sono incredulo oltre che attonito, non è possibile, non è giusto, non può essere vero andarsene così il 3 marzo, l’ho saputo oggi nel giorno che mi si dice essere dei tuoi funerali, ci partecipo virtualmente, da Roma. E’ troppo crudele che la sorte ti abbia colpito in modo tanto spietato: perdere tua figlia Chiara vice-prefetto vicario di Modena, mentre combattevi contro un nemico invisibile a fianco della cara Wanda  – colpita anch’essa pesantemente dal Covid, mentre tuo figlio avvocato lo ha avuto in forma più leggera – e dover cedere al morbo spietato quando la “guerra” contro il virus sembrava giunta al termine con le vaccinazioni, come per l’eroe di “All’Ovest niente di nuovo”!

Francesco Pintor, già Procuratore Generale della Repubblica di Bologna

Mai ti avevano piegato i criminali che avevi inchiodato alle loro responsabilità in nome della legge; neppure le temibili organizzazioni eversive le cui minacce avevano portato a blindare le finestre della tua bella abitazione in una zona residenziale della città, mi confidasti il tuo rammarico di averlo dovuto accettare.  Nella mia immancabile telefonata di auguri pasquali dell’aprile scorso, nel pieno della “prima ondata” di pandemia, mi dicesti che con il grande giardino dove potevi passeggiare tranquillo e la via poco frequentata da te percorsa fino all’edicola per prendere il quotidiano  non correvi rischi di contagio, cambiavi marciapiede se vedevi qualcuno avvicinarsi. Aggiungesti che avevi qualche timore per tua figlia le cui funzioni a Modena la esponevano agli inevitabili contatti; non potevi pensare che, dramma nel dramma, ingiustizia nell’ingiustizia, Chiara se ne sarebbe andata alcuni giorni prima di te, e non per il Covid. Di tutto questo non so darmi pace, mi chiedo angosciato perchè è stato possibile. Perché, perché, perché? 

Come superare l’onda di pensieri che mi assale con il cuore in tumulto, che dire in un momento così sconvolgente, quando sembrano cadere le certezze e si è in preda allo sconforto?  Ripiegarsi su sè stessi  e immergersi nei ricordi, fare appello alla memoria quando la realtà diventa insostenibile pensando come sia disumano che chi, come te, si è sempre battuto per la giustizia abbia dovuto subire la massima ingiustizia che il destino potesse comminare. Il mio senso di umanità si ribella a una realtà che purtroppo si impone con la forza dei fatti, ma la mia ragione e il mio sentimento si rifiutano di accettare.

E allora per sconfiggere la morte chiamo a raccolta la vita, la tua vita, Francesco carissimo, che resta in tutto il suo splendore come se ci fossi ancora tu a testimoniarla con la tua presenza viva e vitale. A un certo punto della tua vita ci siamo incontrati, ed è bello ricordarlo per sentirti vicino. 

Dalla Calabria dove sei nato il 25 giugno 1935, eri andato con la  famiglia a 11 anni a Bologna, dove si sono svolti i tuoi studi ed è culminato il tuo prestigioso “cursus honorum”. E a Bologna ti ho incontrato al 2° liceo, venivo nella grande città dalla provincia, avevo frequentato a Teramo il ginnasio e 1° liceo, abbiamo condiviso come compagni di banco i due anni di liceo e la maturità al Liceo-ginnasio Marco Minghetti.

Agli inizi dell’aprile scorso, nell’isolamento ansioso del “lockdown”, il giorno del mio compleanno avevo sentito il bisogno di far rivivere in me le “radici” bolognesi  entrando in contatto con l’Associazione dei Minghettiani, la presidente mi chiese di  scrivere un ricordo, che fu pubblicato nelle “Testimonianze” del loro sito.  Te ne parlai in una telefonata, mi aiutasti anche a ricordare il nome della nostra professoressa di scienze, che inserii nel mio scritto, spero tu  abbia potuto leggere  i miei ricordi, nei quali sei protagonista.  

Citerò testualmente  le parole di allora, non è l’emozione dolorosa di questo momento a suggerirmele, perciò rileggendole la ferita nel mio cuore si addolcisce nella memoria sempre viva. Ecco la parte della “testimonianza” in cui ci sei tu, soffusa di nostalgia cui si aggiunge ora l’amarezza portata dal dolore.

Ricordi comuni degli anni “minghettiani”

“I compagni sono ben presenti, questa volta sono il mio animo e il mio cuore ad essere investiti dalla marea di ricordi. Tra tutti Francesco Pintor, e non perché nella sua ‘escalation’ professionale sia assurto al massimo livello nella sua città, Procuratore generale della corte d’appello di Bologna, quanto perché fu lui, compagno di banco in quei due anni di liceo, a introdurre inizialmente il timido nuovo arrivato che si sentiva sperduto; mi recavo a trovarlo a casa con la sua famiglia, il padre colonnello dell’esercito, la colleganza divenne presto stretta amicizia, e così è rimasta.

“Ricordo quando andavo a vedere le gare studentesche allo Stadio, lui partecipava alle corse podistiche di resistenza, ma ricordo ben più nitidamente quando, forse mezzo secolo dopo, per un paio d’anni sono andato appositamente da Roma a Bologna per assistere alle inaugurazioni dell’Anno giudiziario che lo vedevano protagonista. Sempre con il suo piglio disincantato fuori da ogni conformismo, evidente all’inizio del solenne intervento quando, insofferente dell’ermellino, toglieva dal capo l’austero tocco scuotendo la massa dei capelli ribelli come una volta. Non ho dimenticato lo sguardo ‘assassino’ scambiato da lui, nella 3^ liceo, con una nostra compagna, Wanda Pasini, la più brava della classe in prima fila nel banco centrale, mentre io e Francesco eravamo al secondo banco nella fila laterale sinistra; di lì nacque un amore manifestatosi nel loro felice matrimonio, mi intrigava di aver colto il momento magico della prima scintilla.

“Un ricordo lieto, quando nel periodo in cui era membro del Consiglio Superiore della Magistratura ebbi il grande piacere di averlo a cena da me a Roma, si presentò con un bel mazzo di fiori per mia moglie; poi, nel giorno in cui l’ombra oscura dell’assassinio di Bachelet si proiettò sul CSM, gli telefonai a Bologna per rassicurarmi sulla sua incolumità, lo feci anche allo scoppio della bomba alla stazione, con lui e con i miei parenti in città, mia zia doveva prendere il treno in quei giorni.

“Francesco creò anche la saldatura dei ‘minghettiani’ con i ‘teramani’: nella vita professionale si incontrò con uno dei miei più cari compagni del 1° liceo a Teramo, Renato, che mi aveva raggiunto negli anni universitari a Bologna, era diventato anche vigile urbano motociclista, lo ricordo sulla sua moto scintillante nell’elegante divisa, mi sentivo piccolo piccolo sulla mia modesta Vespa. Dopo averlo saputo, sono andato più volte a Bologna per partecipare alle loro cene mensili con i colleghi, tanto era il legame affettivo; pochi anni fa Francesco mi ha dato la triste notizia della sua scomparsa nella telefonata di auguri pasquali, la successiva era per Renato, è stato un duro colpo. L’altro più caro compagno teramano a Bologna era Giorgio, molti anni dopo mi farà superare due problemi editoriali, l’ho già ricordato; stavamo spesso insieme, da dieci anni se n’è andato pure lui…

“Alla vista rasserenante di una serie di fotografie ‘d’epoca’ allontano questi pensieri: ecco la mia laurea con la corona d’alloro in testa e la festa delle matricole con il berretto universitario, è sempre con me Francesco, c’è l’impronta minghettiana, le ho messe vicino alla mia scrivania.

“Un’ulteriore immagine minghettiana che mi assale mi riporta alla recita del 3° anno, all’insegna del “dimetilchetone trinitotoluolo”, le astruse formule chimiche messe da noi alla berlina, io fui ‘immerso’ in pigiama rosa nel pentolone come novello esploratore arrostito dai selvaggi, i compagni saltellando mi lasciarono nel proscenio in tutta la mia timidezza ancora più indifesa”. Tra loro c’era, naturalmente, il compagno di banco  Francesco.

“Ma irrompe una nuova immagine collegata ad un evento successivo di segno ben diverso. Riguarda il pomeriggio in cui, dopo la lezione di ginnastica, con un gruppo di compagni – sempre l’amico del cuore Francesco Pintor e ricordo anche Lello Limarzi, più grande ed ‘esperto’ di noi – andai in Via Valdonica, davanti a una di quelle “case” ancora aperte; io non salii e neppure altri di noi, mi è rimasta impressa quella via oscura dai piccoli portici maleodoranti, da antica suburra. Qualche anno fa ho rivisto in TV via Valdonica in una luce opposta, facciate e portici restaurati nel colore del cotto, la luminosità calda in contrasto con l’oscurità interiore calata su quella via con l’assassinio di Marco Biagi, una tragedia dolorosa che si sostituiva alla maliziosa memoria di allora.”

Il tuo “cursus honorum”, un’escalation appassionata 

Sono ricordi lontani  che tornano in questo momento,  tristi e dolci insieme, perché  da quegli anni prende avvio l’”escalation” che ti ha portato, Francesco carissimo,  ai vertici della magistratura nella tua Bologna.

Inizia dalla tua  laurea in Giurisprudenza  nell’Università  di Bologna nel 1958, discutendo una tesi di diritto processuale civile con il prof. Tito Carnicini, anch’io in Giurisprudenza discussi  la tesi con il prof. Federico Caffè in economia politica, e da allora le nostre strade si divisero verso itinerari diversi; il tuo nel segno del Diritto come espressione della tua coscienza civile e del tuo culto della legalità.

Dopo l’ abilitazione alla professione forense nel 1960  il tuo ingresso in magistratura come uditore giudiziario impegnato  nel tirocinio presso gli uffici giudiziari bolognesi, il Tribunale, la Procura, la Pretura. Poi hai operato nel territorio, Pretore a Rovigo, a Mantova ad Imola.

Dalla Pretura sei passato  alla Procura, come Sostituto procuratore della Repubblica nella Procura di Bologna, quindi  di nuovo funzioni giurisdizionali nel Tribunale di Bologna come Giudice nella 1^ sezione penale, dopo Giudice effettivo nella Corte d’assise, e applicato all’Ufficio di istruzione dei processi penali, non è mancata neppure un’esperienza alla 1^ sezione civile.

Nel 1982  l’importante tua nomina a Sostituto Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Bologna. Tra i tanti  procedimenti  in cui hai profuso il tuo impegno appassionato  ne ricordo tre, di particolare rilievo, che ti hanno visto in vesti diverse: come giudice in Corte d’assise   per i  cosiddetti “fatti di Argelato”, l’omicidio di un brigadiere dei carabinieri nel corso di una rapina al locale zuccherificio; come pubblico ministero per la strage del treno “Italicus” e  per l’omicidio del magistrato Mario Amato; il terzo che mi torna alla mente è per sequestro di persona a fini di estorsione con uccisione del sequestrato.

Alla fine degli anni ’80 la tua nomina per la nuova funzione introdotta nell’ordinamento  di Procuratore della Repubblica presso la Pretura Circondariale di Bologna, ricordo che mi parlasti di questo ruolo insolito. Finché, nel 1997, nominato  Avvocato Generale nella  Procura generale della Repubblica,  ti sei  avvicinato  al culmine che hai raggiunto nel 2001 con  l’incarico direttivo di Procuratore Generale della Repubblica per il distretto dell’Emilia Romagna. Lo sei stato per otto anni, fino alla pensione dell’aprile 2009, e ho  ricordato prima quando venivo da Roma per assistere all’inaugurazione dell’anno giudiziario, felice e orgoglioso che a celebrarla fosse il mio antico compagno di banco. Mio figlio Alberto mi ricorda quando venimmo a trovarti a casa a Bologna all’inizio del nostro viaggio in Europa dopo la sua maturità.

Ma non è tutto qui il tuo “cursus honorum” giudiziario, sei stato anche componente effettivo del Consiglio Giudiziario presso la Corte di appello di Bologna per due bienni dal 1971 al 1975, e soprattutto membro del Consiglio Superiore della Magistratura per quasi 5 anni, del 18 dicembre 1976 al 9 luglio 1981; erano gli “anni di piombo”, fu assassinato dalle BR il vice presidente del CSM   Bachelet, cui subentrò Conso, ne erano presidenti i capi dello Stato  Leone e poi Pertini. In quel periodo sei venuto a casa mia a Roma,  l’ho ricordato nella testimonianza ai nostri compagni Minghettiani.

Hai fatto parte, oltre che della 3^ Commissione referente del CSM, della Commissione ministeriale per la riforma organica dell’ordinamento giudiziario istituita nel 1982 e della Commissione ministeriale per le attività di formazione e aggiornamento professionale in vista dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale istituita nel 1987.

Con l’andata in pensione nel 2009  non ti sei fermato, tutt’altro: ed ecco senza soluzione di continuità la nomina con decreto della Commissione Regionale Tributaria a  Presidente dell’Ufficio del Garante del Contribuente per l’Emilia Romagna, inizialmente  per il quadriennio 2009 –2013, poi hai continuato. Me ne parlavi con la soddisfazione di poter affrontare di nuovo direttamente le questioni giuridiche che ti appassionavano dopo anni in cui l’alto livello raggiunto comportava soprattutto funzioni di coordinamento; quando con i tagli governativi non potevi più contare sui due magistrati facenti parte del tuo ufficio il lavoro divenne ancora più gravoso e ti preoccupava.  

Sembrerebbe completo l’arco della tua attività instancabile all’insegna del diritto e per la  legalità, ma  c’è dell’altro ancora, e riguarda la condivisione di quanto acquisito con  la tua passione, la tua energia e determinazione. Lo hai fatto su incarico del Consiglio Superiore della Magistratura con le tue dotte relazioni negli  incontri di studio  riservati ai magistrati; lo hai fatto anche  come docente nella sede di Bologna della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione nei corsi di formazione per funzionari del ministero della Giustizia, sull’ “Ordinamento giudiziario”, e per  funzionari alla Corte dei Conti sui  “Reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”. E hai svolto  numerosi seminari di studio nel corso di “Ordinamento e deontologia giudiziaria” della Scuola di specializzazione per le professioni forensi “E. Redenti” dell’Università degli studi di Bologna in vari anni accademici. La partecipazione da relatore a numerosi convegni  soprattutto in materia giuridica e medico-legale fino alle serate del “Martedì di San Domenico”  organizzate dal Centro domenicano a Bologna sono altre tessere del tuo straordinario mosaico professionale.

Ecco come ti sei espresso il 30 aprile 2009, nell’ultima giornata in magistratura prima della pensione, ed è stata l’unica intervista che hai concesso – al giornale bolognese “Il Resto del Carlino” – nei 47 anni di intensa attività, in un riserbo esemplare, ulteriore specchio della tua serietà. “Il mio sogno, fin da piccolo, era di fare il magistrato. Mio padre era militare, mio nonno avvocato, in famiglia c’erano zii magistrati. Sono riuscito a coronare questo sogno e il bilancio per me è positivo. Di ciò che ho fatto non cambierei nulla”.

“Quella del magistrato  – dicevi all’intervistatore – è una funzione altissima, che richiede però grandi sacrifici. Sapesse quanto travaglio. Dover operare una scelta in tanti processi, senza essere sicuro della verità. Ma questo è il dovere del giudice. L’importante è poter andare a riposare, la sera, senza che la coscienza rimorda. Poter chiudere gli occhi sapendo di aver fatto il proprio dovere, in assoluta buona fede”. E lo hai fatto quando li hai chiusi l’ultima volta per sempre sapendo che hai continuato a fare il tuo dovere come Garante dei diritti del contribuente oltre che da cittadino e padre di famiglia, della tua bella famiglia.  

Hai ricordato i momenti più difficili, con l’angoscia degli “anni di piombo”: quando ti precipitasti in Via Valdonica dove  era stato assassinato Marco Biagi, mentre partecipavi a un incontro ai “Martedì di San Domenico”;  e quando fosti tra i primi ad accorrere dopo l’omicidio del vicepresidente Bachelet negli anni del CSM. E i momenti fonte per te di soddisfazioni, come la soluzione di casi intricati di omicidi efferati.

Di quell’intervista voglio sottolineare infine la tua risposta alla domanda se consiglieresti a un giovane di diventare magistrato: “Gli direi di farlo, purché ci si approcci con passione. Questo non è come qualunque altro lavoro. Va fatto con sentimento, passione, senso di responsabilità e grandissima umiltà. Ai giovani dico di non scoraggiarsi, di non avere paura, e di farsi guidare sempre da scienza e coscienza”. Aggiungesti anche: “Servono forze nuove, giovani, che sono la linfa necessaria per un ricambio generazionale”.

Le tue doti professionali e umane, nel ricordo della nuova generazione di magistrati

Nel  rievocare tutto questo, sento un profondo rammarico: non averti seguito nelle  fasi esaltanti del tuo prestigioso  itinerario professionale  operando in un campo ben diverso – l’economia e la pianificazione aziendale a livello dirigenziale sul piano professionale, il giornalismo economico e poi culturale sul piano personale – e non poterne quindi cogliere di volta in volta gli elementi qualificanti nei quali rifulge la tua personalità. Mi dicesti che leggevi i trattati di “Logica” per affinare gli strumenti di analisi e valutazione, ma parlavi poco della tua attività forse per non mettermi in imbarazzo essendo la mia tanto lontana dalla tua. Perciò mi affido alle parole di tre magistrati della nuova generazione – le “forze nuove, giovani” che hai definito “la linfa necessaria per un ricambio generazionale” – i quali invece hanno avuto la fortuna di seguirti e mostrano l’alta considerazione e la devozione che sento di provare anch’io, pur su altre basi.

Il magistrato Carlo Coco  ricorda  le tue  “elevatissime doti professionali e umane” che “hanno onorato l’istituzione cui apparteniamo e sono state di esempio per una generazione di colleghi dell’Emilia-Romagna”, e sintetizza  in una parola il suo “commosso ricordo: autorevolezza. Era questo il messaggio che ogni giovane magistrato ha ricevuto“ da te, “ e dall’esempio di tale autorevolezza discendeva  per noi una sicura motivazione a svolgere le nostre funzioni con serietà, impegno, sacrificio, ferma determinazione  e tuttavia, sempre, con umiltà”; sono le doti che anche negli anni liceali rifulgevano, unite a un atteggiamento disincantato sempre volto a sdrammatizzare, ricordo che ti esibivi nei passi di danza di Gene Kelly nel tuo personale “Cantando sotto la pioggia”. Coco sottolinea che la tua “dedizione allo Stato e ai cittadini”  si è manifestata , oltre che nell’attività giurisdizionale e nella guida degli uffici,  “anche con l’impegno  di altissimo profilo profuso nella rappresentanza istituzionale della Magistratura” nel CSM e nell’ANM; nel quale hai operato “in modo cristallino,  con assoluta imparzialità, profondo senso delle istituzioni  e intima convinzione dell’importanza della rappresentanza unitaria della Magistratura”.  Conclude in modo accorato:  “Riposa in pace, Francesco (solo ora posso darti del tu)”.

Marco D’Orazi, magistrato “figlio d’arte”, si lascia andare ai ricordi d’infanzia quando nelle vacanze accompagnava  il padre tuo collega nelle camminate con te in montagna dove “brontolando” imparava “la disciplina del ‘never explain never complain’ (‘vi riposerete quando arriveremo al rifugio’), il senso di responsabilità… la bellezza di raggiungere uno scopo comune”. E non solo, via via imparava “una lezione preziosa” che lo ha accompagnato  nella “vita, professionale e non”, cioè  “il senso del servizio alla Repubblica, l’equilibro personale che è alla base di ogni  buon magistrato, il prendere sul serio il proprio lavoro senza  personalismi”. D’Orazio ha rievocato,  carissimo Francesco,  che nella cena del tuo pensionamento dicesti che “il diritto e il lavoro erano una parte essenziale dell’’essere Pintor’”e che avresti continuato così, “così è stato”. Ricorda anche che la tua amata Chiara era tra i figli piccoli che come lui accompagnavano i padri magistrati nelle camminate educative prima evocate, e forse alla sua prematura scomparsa non ha retto una “fibra fortissima come la tua”, la tragedia nella tragedia.  Dopo l’accorato “tu” di Coco l’altrettanto accorato “lei” di D’Orazio: “Ai grandi si dà del lei, ci dicevano. Dunque la saluto, caro Procuratore, le sia lieve la terra!”.

L’ultimo ricordo di magistrati della nuova generazione che voglio citare è di Marco Forte, lo ringrazio per aver dato queste testimonianze a una persona sua amica a me vicina che me le ha premurosamente trasmesse: anche lui “figlio d’arte” partecipava da bambino alle camminate…  educative ricordate da D’Orazi,  e ricorda “con nostalgia quando da inesperto uditore giudiziario mi  rivolgevo al procuratore della Circondariale con l’imbarazzo del figlio del collega ed amico di una vita”. Ma aggiunge un episodio che  va al di là di ogni altro giudizio per descrivere la tua più profonda sensibilità: “Tra i tanti ricordi ci sarà sempre quello  di una fredda mattina all’Ospedale Maggiore dove per primo ti precipitasti per dare l’estremo saluto  a mio padre, scusandoti con noi figli per averci quasi anticipati, mostrando  ancora una volta quel tratto di umanità fuori dal comune che ti ha sempre contraddistinto”.  Mi sono permesso di volgere al tu invece della terza persona il ricordo di te che ha Marco Forte, ancora con “l’imbarazzo del figlio del collega ed amico di una vita”,  è così intenso il suo messaggio che ho voluto accomunarlo al mio. Inizia così: “Un profondo dolore, anche pensando alla tragedia della recentissima perdita di Chiara, toglie tutte le parole  per ricordare un grande Uomo e Magistrato”; e dopo la rievocazione del triste momento in cui deste l’estremo saluto al padre, termina con  un  commosso: “Grazie di tutto Sig. Procuratore!”

“Amor omnia vincit”!

Mi unisco anch’io al  ringraziamento del magistrato Marco Forte, dopo essermi immedesimato in queste rievocazioni del tanto e del troppo che si sottrae ai miei ricordi diretti. In campo giudiziario ho condiviso con te, sul nostro comune banco liceale, l’emozione alla condanna di Giovannino Guareschi per il “Ta pum del cecchino”, e al suo orgoglioso “No, niente appello”, fino alla reclusione con la toccante vignetta che lo mostra sulla via del carcere mentre saluta con le parole: “Ci appelliam solo alla Storia/ nè si offusca il nostro onore/ se la via della vittoria/ mi conduce a San Vittore”. Ricordi? era l’aprile 1954, l’anno della maturità. Parecchi  anni fa ti ho fatto  avere un voluminoso fascicolo con tutti gli articoli e le vignette sul tema nel  “Candido” di cui ho conservato le annate, e in seguito gli articoli che ho pubblicato sulla vicenda che ci prese intimamente, la seguimmo insieme con passione. Fin da allora il tuo senso della giustizia e della legalità, insieme alla tua profonda umanità,  era incrollabile; poi lo hai messo in pratica con ferma determinazione, e i riconoscimenti della nuova generazione di magistrati che ti vede come esempio luminoso devono darti la soddisfazione che quanto hai seminato ha dato e continua a dare i suoi frutti.

In questo senso, come nel finale di “Furore” di Steimbeck, ci sarà sempre la tua presenza virtuale allorchè saranno in gioco i valori in cui hai creduto e per i quali hai operato nei luoghi in cui hai svolto con fermezza e spirito di umanità in una dedizione appassionata il tuo alto servizio alla giustizia e alla legalità. Da studenti, per il tuo modo di fare disinvolto e coinvolgente, entusiasta e deciso, ti identificavo con Frank Sinatra di “Da qui all’eternità”, il film cult che vedemmo allora: ebbene ora l’hai raggiunta!

E’ arrivato il momento di salutarti,  Francesco carissimo, mi accorgo che, come al tuo più giovane collega Forte, la tragedia che ti ha colpito e ci ha sconvolti toglie a me tutte le parole.  Non resta che fare appello alla fede, per trovare consolazione in quello che nell’al di là potrà compensarti di quanto hai profuso nella tua vita esemplare, e le poche citazioni che ne ho potuto fare sono di per sé  già molto espressive.

Per  la  tua carissima Wanda – la quale deve essere aiutata a trovare la forza per reagire a una tale doppia  insostenibile tragedia dopo aver lottato anche lei in terapia intensiva – temo che noi potremo fare ben poco pur con la nostra affettuosa vicinanza. Sarai tu che dall’alto saprai aiutarla consolandola con la tua presenza amorevole, invisibile ma non meno viva di quella che vi ha uniti in un sentimento iniziato dai banchi del liceo e protrattosi con tanta appassionata intensità nella vostra lunga vita d’amore. “Amor omnia vincit”!     

Un’altra immagine di Francesco Pintor nella veste di Procuratore Generale
foto Michele Nucci

D’Annunzio, 6. I dibattiti sulla fede, una conclusione

Ripubblichiamo l’articolo conclusivo, dopo i 5 precedenti usciti dal 12 al 16 marzo 2021, già pubblicato sul sito www.arteculturaoggi.com nel 150° anniversario della nascita il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013.

di Romano Maria Levante

Termina la nostra rievocazione dei rapporti di D’Annunzio con il potere, passata dal potere politico al potere religioso e a quello spirituale, inoltrandoci nel “mistero” della sua religiosità fino alla fede: il “D’Annunzio credente”. Abbiamo analizzato una vasta serie di “indizi”  a “carico” e a “discarico” in una sorta di “processo  a D’Annunzio”,  cercando di penetrare nel suo profilo interiore, anche con due testimonianze d’epoca rivelatrici: una raccolta da noi, l’altra di Nicodemi. Ora, sulla base dei dibattiti svoltisi in materia mezzo secolo fa, prima del silenzio, e di giudizi autorevoli  giungiamo alle conclusioni, invitando la Chiesa, nel 150° dalla sua nascita, a rivedere le proprie posizioni alla luce degli elementi emersi, come ha fatto meritoriamente con Galileo Galilei.

La conclusione della prima lettera di D’Annunzio a Ines Pradella, 31 (gennaio) 1930

I riscontri nei dibattiti di fine anni ’50 e ‘60

Il problema della religiosità di D’Annunzio si pone in termini diversi rispetto ad ogni altro grande personaggio, termini riassunti nella parola “mistero”; e proprio per questo, paradossalmente, è stato dibattuto come non mai a dispetto della sua volontà di sottrarsi ad ogni intollerabile invasione della sua sfera personale in un campo così delicato fino alla cappa di silenzio dell’ultimo mezzo secolo.

Vi furono, tra la fine degli  anni ’50 e gli anni ’60, dei dibattiti in particolare sulla “Collana di studi dannunziani” diretta da Regard e Gatti a base di saggi dai titoli inequivocabili come “D’Annunzio credente” (Mario Nanteli) al quale rispose “D’Annunzio credente?!” (Nino Regard),  “D’Annunzio e la Fede” (Curzia Ferrari”), “D’Annunzio e il mistero” (Giuseppe Pecci).

Nanteli rivela una circostanza in cui il Poeta avrebbe dichiarato la propria fede in Dio, lo ricorda in ginocchio con i legionari in preghiera a Drenova nella campagna fiumana e cita i brani di trasporto mistico della “Contemplazione della morte” e delle “Faville del maglio” nonché quelli di “In morte di un capolavoro” e conclude: “Dio… avrà certamente avuto pietà del nostro grande prodigo. Egli ha tenuto a fare una dichiarazione sincera quando affermò di avere sempre creduto in Dio”.

Ma è molto severo dal punto di vista morale, ponendo l’accento sugli “eccessi della carne, l’unica veramente colpevole di una fede senza le opere”, per cui si espone alla replica di mons. Manlio Maini sulla profondità del concetto di fede.

Anche Mario Zanchetti nel suo “Sensualismo e naturismo dannunziano” è particolarmente severo sull’immoralità del Poeta come logica conseguenza della sua sfrenata sensualità, tuttavia afferma: “D’Annunzio non solo non si rassegnò mai d’essere un sensuale, ma tentò disperatamente e sempre di liberarsi della sua sensualità”. Poi aggiunge:”E se egli non poté essere, come avrebbe voluto, uno spirituale, la sua opera acquistò, sia pure indirettamente e negativamente, valore e carattere di spiritualità. Perché è spiritualità il senso di stanchezza e di disgusto che gli dà la coscienza della sua sensualità, è spiritualità quel tendere continuamente alla purificazione, anche se la natura è così forte da impedirglielo”. E infine: “La spiritualità, che non poté entrare direttamente nelle sue opere, vi entrò indirettamente, sotto forma di tormentosa insoddisfazione e di ansia”.

La replica di Nanteli è diretta: “Parlare, come fa lo Zanchetti, di un misticismo dannunziano, è ozioso… la sua fede in Dio non ha nulla a che vedere con forme ‘autentiche o fasulle’ di misticismo… Misticismo in D’Annunzio? Ma non c’è ombra di esso né nella vita né nelle sue opere. Fatica sprecata quella di cercare un misticismo in D’Annunzio. Viceversa, la fede in Dio, senza misticismo e senza mistica, si può trovare in lui anche senza le opere”.

Stanza delle Reliquie, altare con reliquiari e simboli 

Curzia Ferrari, dopo un approfondito excursus sulla vita e sulle opere, ragiona così: “D’Annunzio non fu un ateo classicheggiante come il Carducci o un bestemmiatore come il Nietzsche, ma un ‘credente infedele’, capace di ‘amare’ ed anche di aspirare ad ‘accettare, praticare, servire’, qualità che renderebbero fattivi e attivi il suo culto e la professione di fede… perciò vien fatto di concludere che già molto egli amasse il suo Dio, non avrebbe avuto che a seguirlo, ma in lui pure, come nella gran parte degli uomini, la volontà ebbe parvenza di ramoscello spezzato nella tempesta”.

Regard dichiara che non vuol farsi influenzare dalla vita peccaminosa, mentre poi è questo l’elemento negativo di fondo su cui si basa il suo giudizio; e non si accontenta neppure del rispetto di D’Annunzio per la figura di Gesù affermando: “Dinanzi a Gesù (mai dinanzi a Dio!) D’Annunzio si pose come dinanzi ad un uomo da pari a pari, anzi addirittura con atteggiamento prevenuto, spavaldo, aggressivo: il che dimostra che egli non ebbe affatto animo, disposizione e volontà di credente”; e cita in negativo Il Vangelo secondo l’Avversario e la Contemplazione della morte senza peraltro marcare il carattere autobiografico e maturo del secondo, ricco di elementi spirituali con l’accostamento alla fede, rispetto a quello letterario e giovanile del primo, che era trasgressivo.

Parimenti dall’analisi delle opere l’autore trae una vasta messe di elementi di religiosità che definisce “incisi fuggevoli, frasi staccate, mere interiezioni, locuzioni ambigue, enunciazioni retoriche, frasi d’uso comune, costrutti fumosi, atteggiamenti esteriori” dichiarando “non valgono, non provano, non giovano”; mentre non si può negare che considerando unitariamente l’intero “corpus” di opere si ricava un vastissimo patrimonio di elementi religiosi che, anche nella loro cadenza temporale, danno un orientamento preciso sull’itinerario spirituale del Poeta.

Se le opere puramente letterarie risentono dell’indole dei personaggi, non sempre riconducibile all’autore, quelle autobiografiche sono una fonte inesauribile di sfoghi sinceri, di confessioni coraggiose, di introspezioni sofferte, che spesso culminano in slanci mistici inequivocabili.

Regard è coerente nella svalutazione dei segni di religiosità mostrati nei fatti, in particolare “anche l’atto materiale dell’inginocchiarsi è sempre e soltanto una manifestazione esteriore, se pure di non trascurabile importanza, quando non sia determinato e accompagnato da una commossa ragione interiore, spontanea e misticamente attiva che suggerisca anche quell’atto altrimenti – di per se stesso – non significante e, comunque, non probativo di una fede profondamente sentita e praticata”.

Ma proprio per questo gli altri segni della vita e delle opere vanno valutati unitariamente in modo che gli indizi convergenti assumano valore di prova; e le contraddizioni, le cadute, gli abbandoni stanno a dimostrare una maturazione, un processo interiore svoltosi  senza arretramenti su un terreno psicologico di alta spiritualità.

A questo si dedica Giuseppe Pecci con una minuziosa analisi della religiosità di D’Annunzio vista attraverso le opere letterarie che – pur lasciando aperto il “mistero”  –  ne evidenzia la straordinaria ricchezza. L’elemento religioso ha accompagnato tutta la sua produzione, sin dai primissimi scritti, pur permeati di panismo e decadentismo, in un’epoca materialista con i riflessi del romanticismo, allorché si diceva che l’unico scrittore cattolico fosse Manzoni. Ma è subentrata presto una sincera ricerca religiosa, quasi come reazione all’ateismo, anche se doveva fare i conti con la cultura imperante; lo sottolinea lui stesso nel vantarsi di aver creato, nonostante tutto, il dramma sacro.

I motivi dello scetticismo di Regard sulla religiosità dannunziana si basano su due considerazioni molto discutibili. La prima è che per spiriti eletti come D’Annunzio e Foscolo “è di sommo interesse accertare la loro posizione nel mondo dello spirito; ma attraverso una indagine diligente esigente industriosa, precisa, rigorosissima”, che però, aggiungiamo, non deve pretendere l’odore di santità piuttosto che la semplice fede richiesta per “stabilire se fossero credenti dei Carneadi qualsiasi”; perché a questo paradosso si giunge con la svalutazione sistematica di qualunque segno, atteggiamento, espressione, confessione positiva perché ritenuti insufficienti.

La seconda considerazione è che non c’è stata una repentina crisi di coscienza – come in Manzoni, Papini, Malaparte – ad attestare “un profondo ripiegamento dell’uomo su se stesso, quasi per un catartico riscatto da una precedente vita d’errore e di peccato, o per una subitanea illuminazione dello spirito…”; anche Zanchetti dice che non si è avuta quella conclusione che, al di là dello stesso pentimento, “può essere il primo passo verso la conversione, ma da solo non basta. Bisogna andare più oltre: giungere cioè al ravvedimento”. Altrimenti “che cosa autorizza a riconoscere nel D’Annunzio la fede del credente se ravvedimento non ci fu?”.

Una prima risposta a questo interrogativo e agli altri sopra accennati la dà padre Spiazzi: “…Se Papini, alla fine della vita, poté attribuirsi la ‘felicità dell’infelice’, non si dovrà riconoscere in D’Annunzio l’infelicità del Dioniso confutato e sconfitto? E in questa umana catastrofe non si sarà fatta strada la nostalgia del bene, il bisogno di Dio?”. Una seconda risposta viene da Carlo Bo: “Non gli sarebbe stato difficile operare una trasformazione, fare almeno quella ‘confessio oris’ rompendo gli indugi. Ma accade sovente a chi è ricco di fantasia, soprattutto a chi è padrone assoluto della parola, di provare un senso di smarrimento e di entrare in un dominio di pudore e di riserbo.

Una terza risposta proviamo a darla noi: non si è avuta la pubblica crisi di coscienza di altri illustri convertiti perché, come dice lui stesso, una fede religiosa l’ha sempre avuta, assorbita dalla sua terra, non solo nelle motivazioni ideali ma anche nei riti;e perché vi erano evidenti difficoltà ad assumere il ruolo pubblico di convertito.

Stanza delle Reliquie, le ‘immagini di tutte le credenze’, e, in alto, angeli e santi

Alcuni giudizi autorevoli

Ma torniamo al tema di fondo del D’Annunzio credente per concludere riportando alcuni giudizi autorevoli, improntati alla cautela ma indubbiamente aperti ad una valutazione positiva.

Piero Bargellini così si esprime: “Egli, come tutti gli uomini, come tutti i santi, ha cercato la felicità. E l’ha cercata, come la più parte degli uomini, nelle creature. Ma le creature sono vestite della felicità, come son vestite dell’amore: non sono né la felicità né l’amore. Immagini di bene, non bene”.  Per  concludere: “Chi può aver dato a D’Annunzio, se non il Cristianesimo, l’ansia di rinnovamento ch’egli esprime con le parole: ‘E’ necessario che io faccia luogo in me a ciò che sorgerà da quel risveglio'”, il risveglio della fede evocato nella Contemplazione della morte; lo stesso Bargellini, nel sottolineare che “come è stato attratto e respinto dalla morte, è stato attratto e respinto da Cristo” ricorda: “Non rare sono le dichiarazioni che hanno il sigillo intatto dell’anima cristiana”.

Francesco Flora dà un giudizio molto raffinato: “Un anelito di nuova morale, nella scontentezza dei limiti cristiani, risentiti e ricreati in noi quale intima legge del bene e del peccato, della gioia e del pentimento, del vero e del falso, tende ad un equilibrio tra l’anima e il corpo e vorremmo dire, se non fosse audace, ad una sintesi svelata di ellenismo eroico e di cristianesimo; una sintesi svelata degli estremi del senso come bellezza e dell’anima come coscienza di purificazione; una meta nuova e non quella che è nel comune moto della vita, pel quale nel nostro cristianesimo è già passata gran parte dell’ellenismo, come nella nostra spiritualità è filtrata tanta parte della carnalità primigenia.” Riferendosi più direttamente all’artista così conclude: “Ma l’al di là dannunziano, anche se il Poeta voglia illudersi che ciò non sia, è tutto di questo fisico mondo: coincide con la fede che non sa riconoscere altro mondo se non questo eterno della vita umana. Per lui lo spirito è la carne… la vita e la morte non sono che luci di questa carnalità che in lui coincide con la parola”.

Per Carlo Bo “D’Annunzio si è limitato a provocare la potenza misteriosa, il Dio, oppure ha modificato con gli anni il senso della corsa e alla fine ha potuto dare un nome a quell’ideale competitore, all’uomo segreto del confronto finale? D’Annunzio ha sentito la voce del Commendatore di pietra o la sua storia si è limitata alla preparazione della tragedia, si è arrestata sull’orlo della provocazione, ma prima dell’appuntamento fatale? Se sapessimo questo… sapremmo dire che nome aveva il suo Dio. Su questo terreno minato è difficile procedere con qualche speranza di successo”.

Stanza del Lebbroso, con il ‘letto delle due età’

Da Curzia Ferrari un giudizio positivo: “Gabriele brancica nel buio e in ogni forma terrestre e umana e comunque esteriore, ovunque la bellezza (ma quanto caduca) trionfa e gli sorride in un perfetto equilibrio di colori e dimensioni. Ma il suo Dio è pure il nostro, è quello di sua madre e della sua gente; tant’è ch’egli mai s’immaginò una divinità vera e operante aureolata di altri attributi che non fossero quelli di Cristo e della sua passione”.

Così conclude padre Spiazzi una complessa valutazione degli atteggiamenti e dei comportamenti: “Certo, Gabriele d’Annunzio non è un credente nel senso di un’adesione di pensiero e di vita alla rivelazione cristiana… Ma si può porre il problema di una sua fede, o almeno di una sua religiosità, nel senso di riconoscimento e accettazione di un assoluto trascendente, principio dell’essere e della vita, fine di ogni cosa, ragione di ogni bellezza e di ogni amore, mistero di ogni mistero e verità, di ogni verità: appunto quella che si chiama e si percepisce quasi istintivamente come realtà divina”.

L’“Enciclopedia cattolica”  denuncia l'”indulgere alla rappresentazione dell’immoralità”  nella sua produzione letteraria  definita “tanto lontana, nel suo contenuto, dall’ideologia e dall’etica cristiana”; nel  sottolineare che “si trovano nelle opere del D’A episodi e figure e riti sacri, ma sono assunti a pretesto creativo e si risolvono talora in profanazione e bestemmia” deve tuttavia ammettere “che non fanno, comunque, dimenticare quel reprimere diurno, a ‘denti serrati’, per paura di perdersi, qualche affioramento di preghiera a Cristo, il ‘bellissimo nemico’”. E  gli dà questo riconoscimento: “Ma seppe anche procedere oltre l’estetismo edonizzante e la vanagloria politica dell’egocentrismo tentando un’offerta di sé che, dove non si risolveva in autolatria, insisteva in una Macerazione quasi ascetica… il vertice di questa parabola è nella poesia del ‘Notturno’: la vita che, risolta in parola, si cercava nell’ombra e, alla luce, si dissolveva in polvere”.

A questi commenti elaborati e prestigiosi vogliamo accostare la glossa lapidaria che un ignoto lettore della copia del Libro segreto consultabile presso la Biblioteca Nazionale di Roma ha apposto dove il Poeta dà una suggestiva descrizione di se stesso prima e dopo la morte: “Venite a guardare il mio viso due o tre ore dopo la mia morte… Sino alla terza ora. Dopo, spezzate il gesso; troncate i polsi del formatore. Tacete, senza inginocchiarvi. non attendete alcun segno dal nulla”. Ebbene, la glossa anonima a margine dice: “Attendetevi tutti i segni dal Tutto”. Che sia questo il suo messaggio, la soluzione dell’enigma che D’Annunzio ha voluto lasciare fornendone la traccia quasi come in un crittogramma? D’Annunzio che scrive: “Se l’Italia m’è un enigma, non io sono un enigma per l’Italia?”. E poi: “Non voglio essere compreso. Nulla temo, ma sol temo di non essere incompreso”. E ammonisce: “La interpretazione di me diventa grossolana e goffa anche negli uomini più gentili e sottili…”.

Stanza del Lebbroso, S. Francesco abbraccia il Lebbroso con il volto di D’Annunzio

Conclusione

Facciamo tesoro dell’ammonimento e non abbiamo la presunzione di sfidare la profezia consegnata dall’Orbo veggente a Nicodemi: “Chi mai oggi e nei secoli, potrà indovinare quel che di me ho io voluto nascondere?”. La nostra ricerca ha manifestato una netta propensione per D’Annunzio credente basata sull’accurata verifica delle prove a carico e a discarico nel vero e proprio processo condotto con dovizia di circostanze, prove e testimonianze. Pur non avendo dubbi al riguardo, concludiamo con le stesse parole con cui più di quindici anni fa terminava il nostro ben più ampio e argomentato libro-inchiesta “D’Annunzio, l’uomo del Vittoriale”: “Ebbene, crediamo che l’interrogativo resti aperto. Ma abbiamo l’umiltà, e insieme l’orgoglio, di averlo riproposto”.

Termina così la nostra celebrazione del 150°  anniversario della nascita di D’Annunzio, che ha preso l’avvio con la rievocazione dei rapporti tra arte e potere attraverso la sua vita tra il patriottismo e l’impegno politico, dalla prima guerra mondiale all’impresa di Fiume, fino all’azione svolta prima della Marcia su Roma per un “governo di pacificazione nazionale” nel 1922.

Dai rapporti con il potere politico siamo passati a quelli con il potere religioso, in particolare all’accanimento della gerarchia ecclesiastica che mise all’indice per ben 4 volte le sue opere per il temuto “contagio delle giovani generazioni” con la sua letteratura sensuale-mistica. Mentre rispetto al potere spirituale, non solo ebbe grande attenzione, ma una adesione fino alla fede in Cristo.

Questo tema, che abbiamo sollevato nel 1997  con il nostro libro-inchiesta e reiterato nel 2009, subito dopo il 70°anniversario della morte, torniamo a riproporlo nel 150° anniversario della nascita, sperando che questa volta vi sia qualche eco. Abbiamo fornito, a diversi livelli di analisi e di sintesi, una massa di elementi per una valutazione serena, in grado almeno di aprire un dibattito al quale la Chiesa non dovrebbe restare estranea. E’ chiamata, anzi, a pronunciarsi dinanzi alle posizioni di suoi esponenti che hanno manifestato un’attenzione finora assente nella gerarchia.

Ci attendiamo che voglia dire finalmente la sua, come ha fatto con Galileo ritrattando le posizioni persecutorie in un’autocritica che le fa onore. E se un’attenta, acuta riflessione sul profilo interiore di D’Annunzio nel suo innegabile accostamento alla Fede modificherà l’atteggiamento basato sugli aspetti esteriori della sua vita, sarà una nuova conquista di un’Istituzione millenaria che deve saper tornare sui propri giudizi senza remore anche questa volta, per mantenersi al passo dei tempi.

Info

L’analisi dettagliata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta: Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte terza, “Il mistero”, sulla religiosità, pp. 293-470; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118; la parte seconda su “Il personaggio”, pp. 119-293. Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.I primi cinque articoli, dei sei del servizio, sono usciti,  in questo sito, il 12, 14, 16, 18 e 20 marzo 2013, ognuno con 6 immagini.  Cfr. intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013, in  http://www.100.newslibri.it/,  dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”.

Foto

Le immagini sono tratte dal volume sopracitato dell’autore (pp. 82-104, 472-96), quelle delle Stanze del Vittoriale furono riprese appositamente per il volume da Ezio Bellot con l’autorizzazione della presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura, La conclusione della prima lettera di D’Annunzio a Ines Pradella, 31 (gennaio) 1930; seguono, Stanza delle Reliquie, altare con reliquiari e simboli e Stanza delle Reliquie, le ‘immagini di tutte le credenze’, e, in alto, angeli e santi;poi Stanza del Lebbroso, in fondo il ‘letto delle due età’ e il quadro S. Francesco abbraccia il Lebbroso, il Lebbroso ha le sembianze di D’Annunzio: in chiusura,  L’ultima lettera di D’Annunzio a Fiammetta con l‘accorato indirizzo della busta, 23 (gennaio) 1937. 

L’ultima lettera di D’Annunzio a Fiammetta con l‘accorato indirizzo, 23 (gennaio) 1937