In memoria di Francesco Pintor

di Romano Maria Levante

Francesco carissimo,

non avrei mai voluto ricevere la telefonata che mi ha sconvolto, sei scomparso, dopo aver raggiunto il culmine come Procuratore Generale della Repubblica di Bologna, e aver poi proseguito come Garante del contribuente dell’Emilia-Romagna. Sono incredulo oltre che attonito, non è possibile, non è giusto, non può essere vero andarsene così il 3 marzo, l’ho saputo oggi nel giorno che mi si dice essere dei tuoi funerali, ci partecipo virtualmente, da Roma. E’ troppo crudele che la sorte ti abbia colpito in modo tanto spietato: perdere tua figlia Chiara vice-prefetto vicario di Modena, mentre combattevi contro un nemico invisibile a fianco della cara Wanda  – colpita anch’essa pesantemente dal Covid, mentre tuo figlio avvocato lo ha avuto in forma più leggera – e dover cedere al morbo spietato quando la “guerra” contro il virus sembrava giunta al termine con le vaccinazioni, come per l’eroe di “All’Ovest niente di nuovo”!

Francesco Pintor, già Procuratore Generale della Repubblica di Bologna

Mai ti avevano piegato i criminali che avevi inchiodato alle loro responsabilità in nome della legge; neppure le temibili organizzazioni eversive le cui minacce avevano portato a blindare le finestre della tua bella abitazione in una zona residenziale della città, mi confidasti il tuo rammarico di averlo dovuto accettare.  Nella mia immancabile telefonata di auguri pasquali dell’aprile scorso, nel pieno della “prima ondata” di pandemia, mi dicesti che con il grande giardino dove potevi passeggiare tranquillo e la via poco frequentata da te percorsa fino all’edicola per prendere il quotidiano  non correvi rischi di contagio, cambiavi marciapiede se vedevi qualcuno avvicinarsi. Aggiungesti che avevi qualche timore per tua figlia le cui funzioni a Modena la esponevano agli inevitabili contatti; non potevi pensare che, dramma nel dramma, ingiustizia nell’ingiustizia, Chiara se ne sarebbe andata alcuni giorni prima di te, e non per il Covid. Di tutto questo non so darmi pace, mi chiedo angosciato perchè è stato possibile. Perché, perché, perché? 

Come superare l’onda di pensieri che mi assale con il cuore in tumulto, che dire in un momento così sconvolgente, quando sembrano cadere le certezze e si è in preda allo sconforto?  Ripiegarsi su sè stessi  e immergersi nei ricordi, fare appello alla memoria quando la realtà diventa insostenibile pensando come sia disumano che chi, come te, si è sempre battuto per la giustizia abbia dovuto subire la massima ingiustizia che il destino potesse comminare. Il mio senso di umanità si ribella a una realtà che purtroppo si impone con la forza dei fatti, ma la mia ragione e il mio sentimento si rifiutano di accettare.

E allora per sconfiggere la morte chiamo a raccolta la vita, la tua vita, Francesco carissimo, che resta in tutto il suo splendore come se ci fossi ancora tu a testimoniarla con la tua presenza viva e vitale. A un certo punto della tua vita ci siamo incontrati, ed è bello ricordarlo per sentirti vicino. 

Dalla Calabria dove sei nato il 25 giugno 1935, eri andato con la  famiglia a 11 anni a Bologna, dove si sono svolti i tuoi studi ed è culminato il tuo prestigioso “cursus honorum”. E a Bologna ti ho incontrato al 2° liceo, venivo nella grande città dalla provincia, avevo frequentato a Teramo il ginnasio e 1° liceo, abbiamo condiviso come compagni di banco i due anni di liceo e la maturità al Liceo-ginnasio Marco Minghetti.

Agli inizi dell’aprile scorso, nell’isolamento ansioso del “lockdown”, il giorno del mio compleanno avevo sentito il bisogno di far rivivere in me le “radici” bolognesi  entrando in contatto con l’Associazione dei Minghettiani, la presidente mi chiese di  scrivere un ricordo, che fu pubblicato nelle “Testimonianze” del loro sito.  Te ne parlai in una telefonata, mi aiutasti anche a ricordare il nome della nostra professoressa di scienze, che inserii nel mio scritto, spero tu  abbia potuto leggere  i miei ricordi, nei quali sei protagonista.  

Citerò testualmente  le parole di allora, non è l’emozione dolorosa di questo momento a suggerirmele, perciò rileggendole la ferita nel mio cuore si addolcisce nella memoria sempre viva. Ecco la parte della “testimonianza” in cui ci sei tu, soffusa di nostalgia cui si aggiunge ora l’amarezza portata dal dolore.

Ricordi comuni degli anni “minghettiani”

“I compagni sono ben presenti, questa volta sono il mio animo e il mio cuore ad essere investiti dalla marea di ricordi. Tra tutti Francesco Pintor, e non perché nella sua ‘escalation’ professionale sia assurto al massimo livello nella sua città, Procuratore generale della corte d’appello di Bologna, quanto perché fu lui, compagno di banco in quei due anni di liceo, a introdurre inizialmente il timido nuovo arrivato che si sentiva sperduto; mi recavo a trovarlo a casa con la sua famiglia, il padre colonnello dell’esercito, la colleganza divenne presto stretta amicizia, e così è rimasta.

“Ricordo quando andavo a vedere le gare studentesche allo Stadio, lui partecipava alle corse podistiche di resistenza, ma ricordo ben più nitidamente quando, forse mezzo secolo dopo, per un paio d’anni sono andato appositamente da Roma a Bologna per assistere alle inaugurazioni dell’Anno giudiziario che lo vedevano protagonista. Sempre con il suo piglio disincantato fuori da ogni conformismo, evidente all’inizio del solenne intervento quando, insofferente dell’ermellino, toglieva dal capo l’austero tocco scuotendo la massa dei capelli ribelli come una volta. Non ho dimenticato lo sguardo ‘assassino’ scambiato da lui, nella 3^ liceo, con una nostra compagna, Wanda Pasini, la più brava della classe in prima fila nel banco centrale, mentre io e Francesco eravamo al secondo banco nella fila laterale sinistra; di lì nacque un amore manifestatosi nel loro felice matrimonio, mi intrigava di aver colto il momento magico della prima scintilla.

“Un ricordo lieto, quando nel periodo in cui era membro del Consiglio Superiore della Magistratura ebbi il grande piacere di averlo a cena da me a Roma, si presentò con un bel mazzo di fiori per mia moglie; poi, nel giorno in cui l’ombra oscura dell’assassinio di Bachelet si proiettò sul CSM, gli telefonai a Bologna per rassicurarmi sulla sua incolumità, lo feci anche allo scoppio della bomba alla stazione, con lui e con i miei parenti in città, mia zia doveva prendere il treno in quei giorni.

“Francesco creò anche la saldatura dei ‘minghettiani’ con i ‘teramani’: nella vita professionale si incontrò con uno dei miei più cari compagni del 1° liceo a Teramo, Renato, che mi aveva raggiunto negli anni universitari a Bologna, era diventato anche vigile urbano motociclista, lo ricordo sulla sua moto scintillante nell’elegante divisa, mi sentivo piccolo piccolo sulla mia modesta Vespa. Dopo averlo saputo, sono andato più volte a Bologna per partecipare alle loro cene mensili con i colleghi, tanto era il legame affettivo; pochi anni fa Francesco mi ha dato la triste notizia della sua scomparsa nella telefonata di auguri pasquali, la successiva era per Renato, è stato un duro colpo. L’altro più caro compagno teramano a Bologna era Giorgio, molti anni dopo mi farà superare due problemi editoriali, l’ho già ricordato; stavamo spesso insieme, da dieci anni se n’è andato pure lui…

“Alla vista rasserenante di una serie di fotografie ‘d’epoca’ allontano questi pensieri: ecco la mia laurea con la corona d’alloro in testa e la festa delle matricole con il berretto universitario, è sempre con me Francesco, c’è l’impronta minghettiana, le ho messe vicino alla mia scrivania.

“Un’ulteriore immagine minghettiana che mi assale mi riporta alla recita del 3° anno, all’insegna del “dimetilchetone trinitotoluolo”, le astruse formule chimiche messe da noi alla berlina, io fui ‘immerso’ in pigiama rosa nel pentolone come novello esploratore arrostito dai selvaggi, i compagni saltellando mi lasciarono nel proscenio in tutta la mia timidezza ancora più indifesa”. Tra loro c’era, naturalmente, il compagno di banco  Francesco.

“Ma irrompe una nuova immagine collegata ad un evento successivo di segno ben diverso. Riguarda il pomeriggio in cui, dopo la lezione di ginnastica, con un gruppo di compagni – sempre l’amico del cuore Francesco Pintor e ricordo anche Lello Limarzi, più grande ed ‘esperto’ di noi – andai in Via Valdonica, davanti a una di quelle “case” ancora aperte; io non salii e neppure altri di noi, mi è rimasta impressa quella via oscura dai piccoli portici maleodoranti, da antica suburra. Qualche anno fa ho rivisto in TV via Valdonica in una luce opposta, facciate e portici restaurati nel colore del cotto, la luminosità calda in contrasto con l’oscurità interiore calata su quella via con l’assassinio di Marco Biagi, una tragedia dolorosa che si sostituiva alla maliziosa memoria di allora.”

Il tuo “cursus honorum”, un’escalation appassionata 

Sono ricordi lontani  che tornano in questo momento,  tristi e dolci insieme, perché  da quegli anni prende avvio l’”escalation” che ti ha portato, Francesco carissimo,  ai vertici della magistratura nella tua Bologna.

Inizia dalla tua  laurea in Giurisprudenza  nell’Università  di Bologna nel 1958, discutendo una tesi di diritto processuale civile con il prof. Tito Carnicini, anch’io in Giurisprudenza discussi  la tesi con il prof. Federico Caffè in economia politica, e da allora le nostre strade si divisero verso itinerari diversi; il tuo nel segno del Diritto come espressione della tua coscienza civile e del tuo culto della legalità.

Dopo l’ abilitazione alla professione forense nel 1960  il tuo ingresso in magistratura come uditore giudiziario impegnato  nel tirocinio presso gli uffici giudiziari bolognesi, il Tribunale, la Procura, la Pretura. Poi hai operato nel territorio, Pretore a Rovigo, a Mantova ad Imola.

Dalla Pretura sei passato  alla Procura, come Sostituto procuratore della Repubblica nella Procura di Bologna, quindi  di nuovo funzioni giurisdizionali nel Tribunale di Bologna come Giudice nella 1^ sezione penale, dopo Giudice effettivo nella Corte d’assise, e applicato all’Ufficio di istruzione dei processi penali, non è mancata neppure un’esperienza alla 1^ sezione civile.

Nel 1982  l’importante tua nomina a Sostituto Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Bologna. Tra i tanti  procedimenti  in cui hai profuso il tuo impegno appassionato  ne ricordo tre, di particolare rilievo, che ti hanno visto in vesti diverse: come giudice in Corte d’assise   per i  cosiddetti “fatti di Argelato”, l’omicidio di un brigadiere dei carabinieri nel corso di una rapina al locale zuccherificio; come pubblico ministero per la strage del treno “Italicus” e  per l’omicidio del magistrato Mario Amato; il terzo che mi torna alla mente è per sequestro di persona a fini di estorsione con uccisione del sequestrato.

Alla fine degli anni ’80 la tua nomina per la nuova funzione introdotta nell’ordinamento  di Procuratore della Repubblica presso la Pretura Circondariale di Bologna, ricordo che mi parlasti di questo ruolo insolito. Finché, nel 1997, nominato  Avvocato Generale nella  Procura generale della Repubblica,  ti sei  avvicinato  al culmine che hai raggiunto nel 2001 con  l’incarico direttivo di Procuratore Generale della Repubblica per il distretto dell’Emilia Romagna. Lo sei stato per otto anni, fino alla pensione dell’aprile 2009, e ho  ricordato prima quando venivo da Roma per assistere all’inaugurazione dell’anno giudiziario, felice e orgoglioso che a celebrarla fosse il mio antico compagno di banco. Mio figlio Alberto mi ricorda quando venimmo a trovarti a casa a Bologna all’inizio del nostro viaggio in Europa dopo la sua maturità.

Ma non è tutto qui il tuo “cursus honorum” giudiziario, sei stato anche componente effettivo del Consiglio Giudiziario presso la Corte di appello di Bologna per due bienni dal 1971 al 1975, e soprattutto membro del Consiglio Superiore della Magistratura per quasi 5 anni, del 18 dicembre 1976 al 9 luglio 1981; erano gli “anni di piombo”, fu assassinato dalle BR il vice presidente del CSM   Bachelet, cui subentrò Conso, ne erano presidenti i capi dello Stato  Leone e poi Pertini. In quel periodo sei venuto a casa mia a Roma,  l’ho ricordato nella testimonianza ai nostri compagni Minghettiani.

Hai fatto parte, oltre che della 3^ Commissione referente del CSM, della Commissione ministeriale per la riforma organica dell’ordinamento giudiziario istituita nel 1982 e della Commissione ministeriale per le attività di formazione e aggiornamento professionale in vista dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale istituita nel 1987.

Con l’andata in pensione nel 2009  non ti sei fermato, tutt’altro: ed ecco senza soluzione di continuità la nomina con decreto della Commissione Regionale Tributaria a  Presidente dell’Ufficio del Garante del Contribuente per l’Emilia Romagna, inizialmente  per il quadriennio 2009 –2013, poi hai continuato. Me ne parlavi con la soddisfazione di poter affrontare di nuovo direttamente le questioni giuridiche che ti appassionavano dopo anni in cui l’alto livello raggiunto comportava soprattutto funzioni di coordinamento; quando con i tagli governativi non potevi più contare sui due magistrati facenti parte del tuo ufficio il lavoro divenne ancora più gravoso e ti preoccupava.  

Sembrerebbe completo l’arco della tua attività instancabile all’insegna del diritto e per la  legalità, ma  c’è dell’altro ancora, e riguarda la condivisione di quanto acquisito con  la tua passione, la tua energia e determinazione. Lo hai fatto su incarico del Consiglio Superiore della Magistratura con le tue dotte relazioni negli  incontri di studio  riservati ai magistrati; lo hai fatto anche  come docente nella sede di Bologna della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione nei corsi di formazione per funzionari del ministero della Giustizia, sull’ “Ordinamento giudiziario”, e per  funzionari alla Corte dei Conti sui  “Reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”. E hai svolto  numerosi seminari di studio nel corso di “Ordinamento e deontologia giudiziaria” della Scuola di specializzazione per le professioni forensi “E. Redenti” dell’Università degli studi di Bologna in vari anni accademici. La partecipazione da relatore a numerosi convegni  soprattutto in materia giuridica e medico-legale fino alle serate del “Martedì di San Domenico”  organizzate dal Centro domenicano a Bologna sono altre tessere del tuo straordinario mosaico professionale.

Ecco come ti sei espresso il 30 aprile 2009, nell’ultima giornata in magistratura prima della pensione, ed è stata l’unica intervista che hai concesso – al giornale bolognese “Il Resto del Carlino” – nei 47 anni di intensa attività, in un riserbo esemplare, ulteriore specchio della tua serietà. “Il mio sogno, fin da piccolo, era di fare il magistrato. Mio padre era militare, mio nonno avvocato, in famiglia c’erano zii magistrati. Sono riuscito a coronare questo sogno e il bilancio per me è positivo. Di ciò che ho fatto non cambierei nulla”.

“Quella del magistrato  – dicevi all’intervistatore – è una funzione altissima, che richiede però grandi sacrifici. Sapesse quanto travaglio. Dover operare una scelta in tanti processi, senza essere sicuro della verità. Ma questo è il dovere del giudice. L’importante è poter andare a riposare, la sera, senza che la coscienza rimorda. Poter chiudere gli occhi sapendo di aver fatto il proprio dovere, in assoluta buona fede”. E lo hai fatto quando li hai chiusi l’ultima volta per sempre sapendo che hai continuato a fare il tuo dovere come Garante dei diritti del contribuente oltre che da cittadino e padre di famiglia, della tua bella famiglia.  

Hai ricordato i momenti più difficili, con l’angoscia degli “anni di piombo”: quando ti precipitasti in Via Valdonica dove  era stato assassinato Marco Biagi, mentre partecipavi a un incontro ai “Martedì di San Domenico”;  e quando fosti tra i primi ad accorrere dopo l’omicidio del vicepresidente Bachelet negli anni del CSM. E i momenti fonte per te di soddisfazioni, come la soluzione di casi intricati di omicidi efferati.

Di quell’intervista voglio sottolineare infine la tua risposta alla domanda se consiglieresti a un giovane di diventare magistrato: “Gli direi di farlo, purché ci si approcci con passione. Questo non è come qualunque altro lavoro. Va fatto con sentimento, passione, senso di responsabilità e grandissima umiltà. Ai giovani dico di non scoraggiarsi, di non avere paura, e di farsi guidare sempre da scienza e coscienza”. Aggiungesti anche: “Servono forze nuove, giovani, che sono la linfa necessaria per un ricambio generazionale”.

Le tue doti professionali e umane, nel ricordo della nuova generazione di magistrati

Nel  rievocare tutto questo, sento un profondo rammarico: non averti seguito nelle  fasi esaltanti del tuo prestigioso  itinerario professionale  operando in un campo ben diverso – l’economia e la pianificazione aziendale a livello dirigenziale sul piano professionale, il giornalismo economico e poi culturale sul piano personale – e non poterne quindi cogliere di volta in volta gli elementi qualificanti nei quali rifulge la tua personalità. Mi dicesti che leggevi i trattati di “Logica” per affinare gli strumenti di analisi e valutazione, ma parlavi poco della tua attività forse per non mettermi in imbarazzo essendo la mia tanto lontana dalla tua. Perciò mi affido alle parole di tre magistrati della nuova generazione – le “forze nuove, giovani” che hai definito “la linfa necessaria per un ricambio generazionale” – i quali invece hanno avuto la fortuna di seguirti e mostrano l’alta considerazione e la devozione che sento di provare anch’io, pur su altre basi.

Il magistrato Carlo Coco  ricorda  le tue  “elevatissime doti professionali e umane” che “hanno onorato l’istituzione cui apparteniamo e sono state di esempio per una generazione di colleghi dell’Emilia-Romagna”, e sintetizza  in una parola il suo “commosso ricordo: autorevolezza. Era questo il messaggio che ogni giovane magistrato ha ricevuto“ da te, “ e dall’esempio di tale autorevolezza discendeva  per noi una sicura motivazione a svolgere le nostre funzioni con serietà, impegno, sacrificio, ferma determinazione  e tuttavia, sempre, con umiltà”; sono le doti che anche negli anni liceali rifulgevano, unite a un atteggiamento disincantato sempre volto a sdrammatizzare, ricordo che ti esibivi nei passi di danza di Gene Kelly nel tuo personale “Cantando sotto la pioggia”. Coco sottolinea che la tua “dedizione allo Stato e ai cittadini”  si è manifestata , oltre che nell’attività giurisdizionale e nella guida degli uffici,  “anche con l’impegno  di altissimo profilo profuso nella rappresentanza istituzionale della Magistratura” nel CSM e nell’ANM; nel quale hai operato “in modo cristallino,  con assoluta imparzialità, profondo senso delle istituzioni  e intima convinzione dell’importanza della rappresentanza unitaria della Magistratura”.  Conclude in modo accorato:  “Riposa in pace, Francesco (solo ora posso darti del tu)”.

Marco D’Orazi, magistrato “figlio d’arte”, si lascia andare ai ricordi d’infanzia quando nelle vacanze accompagnava  il padre tuo collega nelle camminate con te in montagna dove “brontolando” imparava “la disciplina del ‘never explain never complain’ (‘vi riposerete quando arriveremo al rifugio’), il senso di responsabilità… la bellezza di raggiungere uno scopo comune”. E non solo, via via imparava “una lezione preziosa” che lo ha accompagnato  nella “vita, professionale e non”, cioè  “il senso del servizio alla Repubblica, l’equilibro personale che è alla base di ogni  buon magistrato, il prendere sul serio il proprio lavoro senza  personalismi”. D’Orazio ha rievocato,  carissimo Francesco,  che nella cena del tuo pensionamento dicesti che “il diritto e il lavoro erano una parte essenziale dell’’essere Pintor’”e che avresti continuato così, “così è stato”. Ricorda anche che la tua amata Chiara era tra i figli piccoli che come lui accompagnavano i padri magistrati nelle camminate educative prima evocate, e forse alla sua prematura scomparsa non ha retto una “fibra fortissima come la tua”, la tragedia nella tragedia.  Dopo l’accorato “tu” di Coco l’altrettanto accorato “lei” di D’Orazio: “Ai grandi si dà del lei, ci dicevano. Dunque la saluto, caro Procuratore, le sia lieve la terra!”.

L’ultimo ricordo di magistrati della nuova generazione che voglio citare è di Marco Forte, lo ringrazio per aver dato queste testimonianze a una persona sua amica a me vicina che me le ha premurosamente trasmesse: anche lui “figlio d’arte” partecipava da bambino alle camminate…  educative ricordate da D’Orazi,  e ricorda “con nostalgia quando da inesperto uditore giudiziario mi  rivolgevo al procuratore della Circondariale con l’imbarazzo del figlio del collega ed amico di una vita”. Ma aggiunge un episodio che  va al di là di ogni altro giudizio per descrivere la tua più profonda sensibilità: “Tra i tanti ricordi ci sarà sempre quello  di una fredda mattina all’Ospedale Maggiore dove per primo ti precipitasti per dare l’estremo saluto  a mio padre, scusandoti con noi figli per averci quasi anticipati, mostrando  ancora una volta quel tratto di umanità fuori dal comune che ti ha sempre contraddistinto”.  Mi sono permesso di volgere al tu invece della terza persona il ricordo di te che ha Marco Forte, ancora con “l’imbarazzo del figlio del collega ed amico di una vita”,  è così intenso il suo messaggio che ho voluto accomunarlo al mio. Inizia così: “Un profondo dolore, anche pensando alla tragedia della recentissima perdita di Chiara, toglie tutte le parole  per ricordare un grande Uomo e Magistrato”; e dopo la rievocazione del triste momento in cui deste l’estremo saluto al padre, termina con  un  commosso: “Grazie di tutto Sig. Procuratore!”

“Amor omnia vincit”!

Mi unisco anch’io al  ringraziamento del magistrato Marco Forte, dopo essermi immedesimato in queste rievocazioni del tanto e del troppo che si sottrae ai miei ricordi diretti. In campo giudiziario ho condiviso con te, sul nostro comune banco liceale, l’emozione alla condanna di Giovannino Guareschi per il “Ta pum del cecchino”, e al suo orgoglioso “No, niente appello”, fino alla reclusione con la toccante vignetta che lo mostra sulla via del carcere mentre saluta con le parole: “Ci appelliam solo alla Storia/ nè si offusca il nostro onore/ se la via della vittoria/ mi conduce a San Vittore”. Ricordi? era l’aprile 1954, l’anno della maturità. Parecchi  anni fa ti ho fatto  avere un voluminoso fascicolo con tutti gli articoli e le vignette sul tema nel  “Candido” di cui ho conservato le annate, e in seguito gli articoli che ho pubblicato sulla vicenda che ci prese intimamente, la seguimmo insieme con passione. Fin da allora il tuo senso della giustizia e della legalità, insieme alla tua profonda umanità,  era incrollabile; poi lo hai messo in pratica con ferma determinazione, e i riconoscimenti della nuova generazione di magistrati che ti vede come esempio luminoso devono darti la soddisfazione che quanto hai seminato ha dato e continua a dare i suoi frutti.

In questo senso, come nel finale di “Furore” di Steimbeck, ci sarà sempre la tua presenza virtuale allorchè saranno in gioco i valori in cui hai creduto e per i quali hai operato nei luoghi in cui hai svolto con fermezza e spirito di umanità in una dedizione appassionata il tuo alto servizio alla giustizia e alla legalità. Da studenti, per il tuo modo di fare disinvolto e coinvolgente, entusiasta e deciso, ti identificavo con Frank Sinatra di “Da qui all’eternità”, il film cult che vedemmo allora: ebbene ora l’hai raggiunta!

E’ arrivato il momento di salutarti,  Francesco carissimo, mi accorgo che, come al tuo più giovane collega Forte, la tragedia che ti ha colpito e ci ha sconvolti toglie a me tutte le parole.  Non resta che fare appello alla fede, per trovare consolazione in quello che nell’al di là potrà compensarti di quanto hai profuso nella tua vita esemplare, e le poche citazioni che ne ho potuto fare sono di per sé  già molto espressive.

Per  la  tua carissima Wanda – la quale deve essere aiutata a trovare la forza per reagire a una tale doppia  insostenibile tragedia dopo aver lottato anche lei in terapia intensiva – temo che noi potremo fare ben poco pur con la nostra affettuosa vicinanza. Sarai tu che dall’alto saprai aiutarla consolandola con la tua presenza amorevole, invisibile ma non meno viva di quella che vi ha uniti in un sentimento iniziato dai banchi del liceo e protrattosi con tanta appassionata intensità nella vostra lunga vita d’amore. “Amor omnia vincit”!     

Un’altra immagine di Francesco Pintor nella veste di Procuratore Generale
foto Michele Nucci

D’Annunzio, 6. I dibattiti sulla fede, una conclusione

Ripubblichiamo l’articolo conclusivo, dopo i 5 precedenti usciti dal 12 al 16 marzo 2021, già pubblicato sul sito www.arteculturaoggi.com nel 150° anniversario della nascita il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013.

di Romano Maria Levante

Termina la nostra rievocazione dei rapporti di D’Annunzio con il potere, passata dal potere politico al potere religioso e a quello spirituale, inoltrandoci nel “mistero” della sua religiosità fino alla fede: il “D’Annunzio credente”. Abbiamo analizzato una vasta serie di “indizi”  a “carico” e a “discarico” in una sorta di “processo  a D’Annunzio”,  cercando di penetrare nel suo profilo interiore, anche con due testimonianze d’epoca rivelatrici: una raccolta da noi, l’altra di Nicodemi. Ora, sulla base dei dibattiti svoltisi in materia mezzo secolo fa, prima del silenzio, e di giudizi autorevoli  giungiamo alle conclusioni, invitando la Chiesa, nel 150° dalla sua nascita, a rivedere le proprie posizioni alla luce degli elementi emersi, come ha fatto meritoriamente con Galileo Galilei.

La conclusione della prima lettera di D’Annunzio a Ines Pradella, 31 (gennaio) 1930

I riscontri nei dibattiti di fine anni ’50 e ‘60

Il problema della religiosità di D’Annunzio si pone in termini diversi rispetto ad ogni altro grande personaggio, termini riassunti nella parola “mistero”; e proprio per questo, paradossalmente, è stato dibattuto come non mai a dispetto della sua volontà di sottrarsi ad ogni intollerabile invasione della sua sfera personale in un campo così delicato fino alla cappa di silenzio dell’ultimo mezzo secolo.

Vi furono, tra la fine degli  anni ’50 e gli anni ’60, dei dibattiti in particolare sulla “Collana di studi dannunziani” diretta da Regard e Gatti a base di saggi dai titoli inequivocabili come “D’Annunzio credente” (Mario Nanteli) al quale rispose “D’Annunzio credente?!” (Nino Regard),  “D’Annunzio e la Fede” (Curzia Ferrari”), “D’Annunzio e il mistero” (Giuseppe Pecci).

Nanteli rivela una circostanza in cui il Poeta avrebbe dichiarato la propria fede in Dio, lo ricorda in ginocchio con i legionari in preghiera a Drenova nella campagna fiumana e cita i brani di trasporto mistico della “Contemplazione della morte” e delle “Faville del maglio” nonché quelli di “In morte di un capolavoro” e conclude: “Dio… avrà certamente avuto pietà del nostro grande prodigo. Egli ha tenuto a fare una dichiarazione sincera quando affermò di avere sempre creduto in Dio”.

Ma è molto severo dal punto di vista morale, ponendo l’accento sugli “eccessi della carne, l’unica veramente colpevole di una fede senza le opere”, per cui si espone alla replica di mons. Manlio Maini sulla profondità del concetto di fede.

Anche Mario Zanchetti nel suo “Sensualismo e naturismo dannunziano” è particolarmente severo sull’immoralità del Poeta come logica conseguenza della sua sfrenata sensualità, tuttavia afferma: “D’Annunzio non solo non si rassegnò mai d’essere un sensuale, ma tentò disperatamente e sempre di liberarsi della sua sensualità”. Poi aggiunge:”E se egli non poté essere, come avrebbe voluto, uno spirituale, la sua opera acquistò, sia pure indirettamente e negativamente, valore e carattere di spiritualità. Perché è spiritualità il senso di stanchezza e di disgusto che gli dà la coscienza della sua sensualità, è spiritualità quel tendere continuamente alla purificazione, anche se la natura è così forte da impedirglielo”. E infine: “La spiritualità, che non poté entrare direttamente nelle sue opere, vi entrò indirettamente, sotto forma di tormentosa insoddisfazione e di ansia”.

La replica di Nanteli è diretta: “Parlare, come fa lo Zanchetti, di un misticismo dannunziano, è ozioso… la sua fede in Dio non ha nulla a che vedere con forme ‘autentiche o fasulle’ di misticismo… Misticismo in D’Annunzio? Ma non c’è ombra di esso né nella vita né nelle sue opere. Fatica sprecata quella di cercare un misticismo in D’Annunzio. Viceversa, la fede in Dio, senza misticismo e senza mistica, si può trovare in lui anche senza le opere”.

Stanza delle Reliquie, altare con reliquiari e simboli 

Curzia Ferrari, dopo un approfondito excursus sulla vita e sulle opere, ragiona così: “D’Annunzio non fu un ateo classicheggiante come il Carducci o un bestemmiatore come il Nietzsche, ma un ‘credente infedele’, capace di ‘amare’ ed anche di aspirare ad ‘accettare, praticare, servire’, qualità che renderebbero fattivi e attivi il suo culto e la professione di fede… perciò vien fatto di concludere che già molto egli amasse il suo Dio, non avrebbe avuto che a seguirlo, ma in lui pure, come nella gran parte degli uomini, la volontà ebbe parvenza di ramoscello spezzato nella tempesta”.

Regard dichiara che non vuol farsi influenzare dalla vita peccaminosa, mentre poi è questo l’elemento negativo di fondo su cui si basa il suo giudizio; e non si accontenta neppure del rispetto di D’Annunzio per la figura di Gesù affermando: “Dinanzi a Gesù (mai dinanzi a Dio!) D’Annunzio si pose come dinanzi ad un uomo da pari a pari, anzi addirittura con atteggiamento prevenuto, spavaldo, aggressivo: il che dimostra che egli non ebbe affatto animo, disposizione e volontà di credente”; e cita in negativo Il Vangelo secondo l’Avversario e la Contemplazione della morte senza peraltro marcare il carattere autobiografico e maturo del secondo, ricco di elementi spirituali con l’accostamento alla fede, rispetto a quello letterario e giovanile del primo, che era trasgressivo.

Parimenti dall’analisi delle opere l’autore trae una vasta messe di elementi di religiosità che definisce “incisi fuggevoli, frasi staccate, mere interiezioni, locuzioni ambigue, enunciazioni retoriche, frasi d’uso comune, costrutti fumosi, atteggiamenti esteriori” dichiarando “non valgono, non provano, non giovano”; mentre non si può negare che considerando unitariamente l’intero “corpus” di opere si ricava un vastissimo patrimonio di elementi religiosi che, anche nella loro cadenza temporale, danno un orientamento preciso sull’itinerario spirituale del Poeta.

Se le opere puramente letterarie risentono dell’indole dei personaggi, non sempre riconducibile all’autore, quelle autobiografiche sono una fonte inesauribile di sfoghi sinceri, di confessioni coraggiose, di introspezioni sofferte, che spesso culminano in slanci mistici inequivocabili.

Regard è coerente nella svalutazione dei segni di religiosità mostrati nei fatti, in particolare “anche l’atto materiale dell’inginocchiarsi è sempre e soltanto una manifestazione esteriore, se pure di non trascurabile importanza, quando non sia determinato e accompagnato da una commossa ragione interiore, spontanea e misticamente attiva che suggerisca anche quell’atto altrimenti – di per se stesso – non significante e, comunque, non probativo di una fede profondamente sentita e praticata”.

Ma proprio per questo gli altri segni della vita e delle opere vanno valutati unitariamente in modo che gli indizi convergenti assumano valore di prova; e le contraddizioni, le cadute, gli abbandoni stanno a dimostrare una maturazione, un processo interiore svoltosi  senza arretramenti su un terreno psicologico di alta spiritualità.

A questo si dedica Giuseppe Pecci con una minuziosa analisi della religiosità di D’Annunzio vista attraverso le opere letterarie che – pur lasciando aperto il “mistero”  –  ne evidenzia la straordinaria ricchezza. L’elemento religioso ha accompagnato tutta la sua produzione, sin dai primissimi scritti, pur permeati di panismo e decadentismo, in un’epoca materialista con i riflessi del romanticismo, allorché si diceva che l’unico scrittore cattolico fosse Manzoni. Ma è subentrata presto una sincera ricerca religiosa, quasi come reazione all’ateismo, anche se doveva fare i conti con la cultura imperante; lo sottolinea lui stesso nel vantarsi di aver creato, nonostante tutto, il dramma sacro.

I motivi dello scetticismo di Regard sulla religiosità dannunziana si basano su due considerazioni molto discutibili. La prima è che per spiriti eletti come D’Annunzio e Foscolo “è di sommo interesse accertare la loro posizione nel mondo dello spirito; ma attraverso una indagine diligente esigente industriosa, precisa, rigorosissima”, che però, aggiungiamo, non deve pretendere l’odore di santità piuttosto che la semplice fede richiesta per “stabilire se fossero credenti dei Carneadi qualsiasi”; perché a questo paradosso si giunge con la svalutazione sistematica di qualunque segno, atteggiamento, espressione, confessione positiva perché ritenuti insufficienti.

La seconda considerazione è che non c’è stata una repentina crisi di coscienza – come in Manzoni, Papini, Malaparte – ad attestare “un profondo ripiegamento dell’uomo su se stesso, quasi per un catartico riscatto da una precedente vita d’errore e di peccato, o per una subitanea illuminazione dello spirito…”; anche Zanchetti dice che non si è avuta quella conclusione che, al di là dello stesso pentimento, “può essere il primo passo verso la conversione, ma da solo non basta. Bisogna andare più oltre: giungere cioè al ravvedimento”. Altrimenti “che cosa autorizza a riconoscere nel D’Annunzio la fede del credente se ravvedimento non ci fu?”.

Una prima risposta a questo interrogativo e agli altri sopra accennati la dà padre Spiazzi: “…Se Papini, alla fine della vita, poté attribuirsi la ‘felicità dell’infelice’, non si dovrà riconoscere in D’Annunzio l’infelicità del Dioniso confutato e sconfitto? E in questa umana catastrofe non si sarà fatta strada la nostalgia del bene, il bisogno di Dio?”. Una seconda risposta viene da Carlo Bo: “Non gli sarebbe stato difficile operare una trasformazione, fare almeno quella ‘confessio oris’ rompendo gli indugi. Ma accade sovente a chi è ricco di fantasia, soprattutto a chi è padrone assoluto della parola, di provare un senso di smarrimento e di entrare in un dominio di pudore e di riserbo.

Una terza risposta proviamo a darla noi: non si è avuta la pubblica crisi di coscienza di altri illustri convertiti perché, come dice lui stesso, una fede religiosa l’ha sempre avuta, assorbita dalla sua terra, non solo nelle motivazioni ideali ma anche nei riti;e perché vi erano evidenti difficoltà ad assumere il ruolo pubblico di convertito.

Stanza delle Reliquie, le ‘immagini di tutte le credenze’, e, in alto, angeli e santi

Alcuni giudizi autorevoli

Ma torniamo al tema di fondo del D’Annunzio credente per concludere riportando alcuni giudizi autorevoli, improntati alla cautela ma indubbiamente aperti ad una valutazione positiva.

Piero Bargellini così si esprime: “Egli, come tutti gli uomini, come tutti i santi, ha cercato la felicità. E l’ha cercata, come la più parte degli uomini, nelle creature. Ma le creature sono vestite della felicità, come son vestite dell’amore: non sono né la felicità né l’amore. Immagini di bene, non bene”.  Per  concludere: “Chi può aver dato a D’Annunzio, se non il Cristianesimo, l’ansia di rinnovamento ch’egli esprime con le parole: ‘E’ necessario che io faccia luogo in me a ciò che sorgerà da quel risveglio'”, il risveglio della fede evocato nella Contemplazione della morte; lo stesso Bargellini, nel sottolineare che “come è stato attratto e respinto dalla morte, è stato attratto e respinto da Cristo” ricorda: “Non rare sono le dichiarazioni che hanno il sigillo intatto dell’anima cristiana”.

Francesco Flora dà un giudizio molto raffinato: “Un anelito di nuova morale, nella scontentezza dei limiti cristiani, risentiti e ricreati in noi quale intima legge del bene e del peccato, della gioia e del pentimento, del vero e del falso, tende ad un equilibrio tra l’anima e il corpo e vorremmo dire, se non fosse audace, ad una sintesi svelata di ellenismo eroico e di cristianesimo; una sintesi svelata degli estremi del senso come bellezza e dell’anima come coscienza di purificazione; una meta nuova e non quella che è nel comune moto della vita, pel quale nel nostro cristianesimo è già passata gran parte dell’ellenismo, come nella nostra spiritualità è filtrata tanta parte della carnalità primigenia.” Riferendosi più direttamente all’artista così conclude: “Ma l’al di là dannunziano, anche se il Poeta voglia illudersi che ciò non sia, è tutto di questo fisico mondo: coincide con la fede che non sa riconoscere altro mondo se non questo eterno della vita umana. Per lui lo spirito è la carne… la vita e la morte non sono che luci di questa carnalità che in lui coincide con la parola”.

Per Carlo Bo “D’Annunzio si è limitato a provocare la potenza misteriosa, il Dio, oppure ha modificato con gli anni il senso della corsa e alla fine ha potuto dare un nome a quell’ideale competitore, all’uomo segreto del confronto finale? D’Annunzio ha sentito la voce del Commendatore di pietra o la sua storia si è limitata alla preparazione della tragedia, si è arrestata sull’orlo della provocazione, ma prima dell’appuntamento fatale? Se sapessimo questo… sapremmo dire che nome aveva il suo Dio. Su questo terreno minato è difficile procedere con qualche speranza di successo”.

Stanza del Lebbroso, con il ‘letto delle due età’

Da Curzia Ferrari un giudizio positivo: “Gabriele brancica nel buio e in ogni forma terrestre e umana e comunque esteriore, ovunque la bellezza (ma quanto caduca) trionfa e gli sorride in un perfetto equilibrio di colori e dimensioni. Ma il suo Dio è pure il nostro, è quello di sua madre e della sua gente; tant’è ch’egli mai s’immaginò una divinità vera e operante aureolata di altri attributi che non fossero quelli di Cristo e della sua passione”.

Così conclude padre Spiazzi una complessa valutazione degli atteggiamenti e dei comportamenti: “Certo, Gabriele d’Annunzio non è un credente nel senso di un’adesione di pensiero e di vita alla rivelazione cristiana… Ma si può porre il problema di una sua fede, o almeno di una sua religiosità, nel senso di riconoscimento e accettazione di un assoluto trascendente, principio dell’essere e della vita, fine di ogni cosa, ragione di ogni bellezza e di ogni amore, mistero di ogni mistero e verità, di ogni verità: appunto quella che si chiama e si percepisce quasi istintivamente come realtà divina”.

L’“Enciclopedia cattolica”  denuncia l'”indulgere alla rappresentazione dell’immoralità”  nella sua produzione letteraria  definita “tanto lontana, nel suo contenuto, dall’ideologia e dall’etica cristiana”; nel  sottolineare che “si trovano nelle opere del D’A episodi e figure e riti sacri, ma sono assunti a pretesto creativo e si risolvono talora in profanazione e bestemmia” deve tuttavia ammettere “che non fanno, comunque, dimenticare quel reprimere diurno, a ‘denti serrati’, per paura di perdersi, qualche affioramento di preghiera a Cristo, il ‘bellissimo nemico’”. E  gli dà questo riconoscimento: “Ma seppe anche procedere oltre l’estetismo edonizzante e la vanagloria politica dell’egocentrismo tentando un’offerta di sé che, dove non si risolveva in autolatria, insisteva in una Macerazione quasi ascetica… il vertice di questa parabola è nella poesia del ‘Notturno’: la vita che, risolta in parola, si cercava nell’ombra e, alla luce, si dissolveva in polvere”.

A questi commenti elaborati e prestigiosi vogliamo accostare la glossa lapidaria che un ignoto lettore della copia del Libro segreto consultabile presso la Biblioteca Nazionale di Roma ha apposto dove il Poeta dà una suggestiva descrizione di se stesso prima e dopo la morte: “Venite a guardare il mio viso due o tre ore dopo la mia morte… Sino alla terza ora. Dopo, spezzate il gesso; troncate i polsi del formatore. Tacete, senza inginocchiarvi. non attendete alcun segno dal nulla”. Ebbene, la glossa anonima a margine dice: “Attendetevi tutti i segni dal Tutto”. Che sia questo il suo messaggio, la soluzione dell’enigma che D’Annunzio ha voluto lasciare fornendone la traccia quasi come in un crittogramma? D’Annunzio che scrive: “Se l’Italia m’è un enigma, non io sono un enigma per l’Italia?”. E poi: “Non voglio essere compreso. Nulla temo, ma sol temo di non essere incompreso”. E ammonisce: “La interpretazione di me diventa grossolana e goffa anche negli uomini più gentili e sottili…”.

Stanza del Lebbroso, S. Francesco abbraccia il Lebbroso con il volto di D’Annunzio

Conclusione

Facciamo tesoro dell’ammonimento e non abbiamo la presunzione di sfidare la profezia consegnata dall’Orbo veggente a Nicodemi: “Chi mai oggi e nei secoli, potrà indovinare quel che di me ho io voluto nascondere?”. La nostra ricerca ha manifestato una netta propensione per D’Annunzio credente basata sull’accurata verifica delle prove a carico e a discarico nel vero e proprio processo condotto con dovizia di circostanze, prove e testimonianze. Pur non avendo dubbi al riguardo, concludiamo con le stesse parole con cui più di quindici anni fa terminava il nostro ben più ampio e argomentato libro-inchiesta “D’Annunzio, l’uomo del Vittoriale”: “Ebbene, crediamo che l’interrogativo resti aperto. Ma abbiamo l’umiltà, e insieme l’orgoglio, di averlo riproposto”.

Termina così la nostra celebrazione del 150°  anniversario della nascita di D’Annunzio, che ha preso l’avvio con la rievocazione dei rapporti tra arte e potere attraverso la sua vita tra il patriottismo e l’impegno politico, dalla prima guerra mondiale all’impresa di Fiume, fino all’azione svolta prima della Marcia su Roma per un “governo di pacificazione nazionale” nel 1922.

Dai rapporti con il potere politico siamo passati a quelli con il potere religioso, in particolare all’accanimento della gerarchia ecclesiastica che mise all’indice per ben 4 volte le sue opere per il temuto “contagio delle giovani generazioni” con la sua letteratura sensuale-mistica. Mentre rispetto al potere spirituale, non solo ebbe grande attenzione, ma una adesione fino alla fede in Cristo.

Questo tema, che abbiamo sollevato nel 1997  con il nostro libro-inchiesta e reiterato nel 2009, subito dopo il 70°anniversario della morte, torniamo a riproporlo nel 150° anniversario della nascita, sperando che questa volta vi sia qualche eco. Abbiamo fornito, a diversi livelli di analisi e di sintesi, una massa di elementi per una valutazione serena, in grado almeno di aprire un dibattito al quale la Chiesa non dovrebbe restare estranea. E’ chiamata, anzi, a pronunciarsi dinanzi alle posizioni di suoi esponenti che hanno manifestato un’attenzione finora assente nella gerarchia.

Ci attendiamo che voglia dire finalmente la sua, come ha fatto con Galileo ritrattando le posizioni persecutorie in un’autocritica che le fa onore. E se un’attenta, acuta riflessione sul profilo interiore di D’Annunzio nel suo innegabile accostamento alla Fede modificherà l’atteggiamento basato sugli aspetti esteriori della sua vita, sarà una nuova conquista di un’Istituzione millenaria che deve saper tornare sui propri giudizi senza remore anche questa volta, per mantenersi al passo dei tempi.

Info

L’analisi dettagliata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta: Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte terza, “Il mistero”, sulla religiosità, pp. 293-470; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118; la parte seconda su “Il personaggio”, pp. 119-293. Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.I primi cinque articoli, dei sei del servizio, sono usciti,  in questo sito, il 12, 14, 16, 18 e 20 marzo 2013, ognuno con 6 immagini.  Cfr. intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013, in  http://www.100.newslibri.it/,  dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”.

Foto

Le immagini sono tratte dal volume sopracitato dell’autore (pp. 82-104, 472-96), quelle delle Stanze del Vittoriale furono riprese appositamente per il volume da Ezio Bellot con l’autorizzazione della presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura, La conclusione della prima lettera di D’Annunzio a Ines Pradella, 31 (gennaio) 1930; seguono, Stanza delle Reliquie, altare con reliquiari e simboli e Stanza delle Reliquie, le ‘immagini di tutte le credenze’, e, in alto, angeli e santi;poi Stanza del Lebbroso, in fondo il ‘letto delle due età’ e il quadro S. Francesco abbraccia il Lebbroso, il Lebbroso ha le sembianze di D’Annunzio: in chiusura,  L’ultima lettera di D’Annunzio a Fiammetta con l‘accorato indirizzo della busta, 23 (gennaio) 1937. 

L’ultima lettera di D’Annunzio a Fiammetta con l‘accorato indirizzo, 23 (gennaio) 1937

 

D’Annunzio, 5. Una testimonianza rivelatrice

di Romano Maria Levante

Ripubblichiamo il 5° articolo – dopo i primi 4 usciti dal 12 al 15 marzo 2021, ultimo 16 marzo – pubblicato sul sito www.arteculturaoggi.com nel 150° anniversario della nascita il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013.

La nostra rievocazione dei rapporti di Gabriele d’Annunzio con il potere, è passata dal potere politico al potere religioso: la gerarchia ecclesiastica accanitasi con 4 condanne all’Indice dei libri proibiti e un vero boicottaggio. Poi siamo entrati nel campo del potere spirituale, cioè nella sua adesione alla fede, e abbiamo citato una serie di indizi al riguardo, come l’attaccamento per religiosi ai bassi livelli della gerarchia, come i frati di Barbarano e il parroco di Gardone, e altro, fino ai funerali in chiesa perché “quell’anima andava verso Dio”. Proseguiamo con due testimonianze d’epoca, la modella che posò per le sante dipinte nella Stanza del Lebbroso, e un suo confidente.

Gli ‘affreschi’  di Guido Cadorin con le Sante donne, visione d’insieme del soffitto

La testimonianza rivelatrice della modella della Stanza del Lebbroso

Ogni indagine che si rispetti comprende prove testimoniali e la nostra non fa eccezione. Anzi possiamo avvalerci di una supertestimone, la modella degli affreschi della Stanza del Lebbroso, la più intima e carica di simboli del Vittoriale, che ha dato corpo ai dipinti del pittore Guido Cadorin raffiguranti Santa Elisabetta d’Ungheria e Sibilla di Fiandra – due delle sante donne dipinte nel soffitto che dovevano assisterlo simbolicamente nella solitudine della vecchiaia – e la Maddalena che asciuga i piedi a Gesù nel quadro sull’architrave della porta. Le rivelazioni della modella sulle confidenze del Poeta in merito alla propria religiosità sono eloquenti e inequivocabili.

“La religione entrava spesso nelle nostre conversazioni – ci ha detto Ines Pradella, la Fiammetta di D’Annunzio – e forse anche la mia fede fu uno dei motivi per i quali si rafforzò l’identificazione con le Sante donne per le quali ero stata la modella, che mi legò a quella che lui vide come una missione di assistenza del Lebbroso, e in ultimo del Moribondo, come mi scrisse”. La chiamò Fiammetta come vezzeggiativo di Fiamma dalla trasposizione del suo nome Ines nel latino Ignis, fuoco.

Da qui un flusso di ricordi, cominciando dalla divisione ideale che l’artista aveva fatto della propria  abitazione: “Mi diceva che non si dovevano mai confondere le cose sacre con quelle profane, sentiva di andare dalla parte profana alla parte sacra quando attraversava una porticina bassa da lui immaginata come confine. Perciò si chinava, anzi si inchinava esclamando: ‘Io non son degno’ e poi sollevava le braccia. Mi spiegò che la porta era dell’altezza di san Francesco”.

La testimone ricorda che  san Francesco era al centro dei suoi pensieri, e nominava spesso santa Caterina e san Sebastiano. Santa Caterina era una delle cinque sante donne che con san Francesco gli erano apparse nella visione che fece dipingere dal pittore Cadorin  nel soffitto della Stanza del Lebbroso, dando a due di esse il volto della giovane che diventerà Fiammetta. Il “Martirio di san Sebastiano”  è l’opera sacra in cui nel 1911 espresse il suo trasporto per un santo in cui si identificava: perché, ricorda la nostra testimone, “mi diceva che aveva avuto il coraggio di dire quello che doveva dire, sopportando anche il martirio. ‘Io nella mia Stanza del Lebbroso sono il san Sebastiano’, aggiungeva, ‘ho avuto anch’io il coraggio di affrontare tutti senza paura. Per questo lo metto nella mia stanza, lo ammiro”. Che non vi fosse acrimonia nelle sue parole lo dimostrano le conclusioni che traeva dalla sua sofferta esperienza: “Voltare le spalle ai maldicenti, al ‘basso mondo’ ed elevarsi sopra le stelle”.

Le confidava di aver fatto la ricerca di sant’Agostino e di essere giunto alla stessa conclusione di un’entità divina, trascendente, “Super nos”, alla quale fare riferimento: “La Verità, il Paradiso, ripeteva, sono  ‘molto più su, sopra le stelle, dove si svela un grande amore'”. Andava al cuore del Cristianesimo: “Solo Cristo è morto per noi e solo per lui vi è stata la Resurrezione. Nessuno è più grande del nostro Gesù crocifisso perché nessuno ama più di uno che dà la vita. E nelle altre religioni non vi è nessuno che ha dato la vita come Cristo . Buddha mica ha dato la vita per noi!”.

“Elisabetta d’Ungheria”, ‘affresco’modella Ines Pradella

ricordi della confidente sono precisi. Le diceva che “tutte le religioni attestano la vita eterna ma solo la nostra è quella vera”. Nonostante la presenza di statue di Buddha al Vittoriale, diceva che non c’era nulla di vero nelle concezioni buddhiste, “la reincarnazione non esiste”:  e ciò è espresso plasticamente nella Stanza delle Reliquie dove al culmine delle divinità orientali vi è la Madonna cattolica, circondata da angeli e santi. “Il mio Dio – erano le sue parole – mi ha dato tutto  e mi ha fatto mortale, mi ha dato  un’anima assetata, un desiderio ardente per cose non di quaggiù”.

Ne aveva piena fiducia e non timore, perché era certo che “veniamo salvati dalla grazia, un dono di Dio che non dipende dalle opere”. Le opere buone, per lui, sono un di più che ciascuno deve fare per aggiungerle alla grazia divina, “ma nessuno si vanti”, e questa concezione è coerente con il suo motto generoso “Io ho quel che ho donato”.  “Non gli ho mai sentito nominare l’Inferno -precisa la testimone –  mentre parlava volentieri del Paradiso”.

Citava le espressioni bibliche sui doni di Dio che si manifestano anche nella vita. “‘Quando sarai nelle tribolazioni – queste le sue parole nei ricordi della testimone –   eleva la tua mente a Dio. Dio ti ascolterà, ti tirerà fuori dalle difficoltà, e tu lo glorificherai’. E aggiungeva: ‘La gloria di Dio è l’uomo vivente, e non quelli che sono andati nell’aldilà i quali, non essendoci più, non possono glorificarlo sulla terra. Ma sperava anche nella resurrezione”.

Si entra sempre di più nel Cristianesimo  a partire dai racconti di D’Annunzio, che la identificava con le “sante in assistenza di Lebbroso”, in particolare santa Elisabetta d’Ungheria. “Lo attirava la figura della Maddalenae ne parlava spesso. Citava più volte l’episodio della donna che bagnò i piedi di Cristo  con le sue lacrime, li cosparse di olii odorosi e li asciugò con i suoi lunghi capelli: ‘come i tuoi’, mi diceva, collegando il racconto  al quadro di Cristo e della Maddalena con i capelli che le coprono il viso”; quadro per il quale aveva posato lei stessa, e Guido Cadorin l’aveva ritratta così per nasconderne il volto che aveva già dato a santa Elisabetta d’Ungheria e Sibilla di Fiandra.

Citava le parole “molto sarà perdonato a chi molto avrà amato”  e la Maddalena, proprio perché aveva amato molto il Signore manifestandogli così la sua fede, “meritava di essere perdonata dei suoi peccati. La fede l’aveva salvata”.  Vi si può trovare la visione autobiografica da peccatore.

Ricordava gli episodi evangelici e le parabole, come la Samaritana e l’Emorroissa che toccando Gesù si sentì guarita, la festa delle Capanne e il discorso della Montagna, fino alla Maddalena. Un’immagine ben diversa, possiamo aggiungere, da quella risultante dalle Parabole dissacranti del Vangelo secondo l’Avversario e dagli altri scritti giovanili considerati come prova di irreligiosità sconfinante con la blasfemia, ma che lui stesso definì semplici esercizi stilistici senza intenzione antireligiosa.

“Sibilla di Fiandra”, ‘affresco’, modella Ines Pradella

Chiamava Gesù “divino salvatore” e non aveva paura perché, diceva, “la carità del mio personale salvatore supera tutto” ; e aggiungeva rivolto alla confidente: “Io ho un personale salvatore come pure lo hai tu”.

Dalle rivelazioni della modella emerge come fosse profonda questa  religiosità fino alla fede: “Aveva fiducia e non timore – ci ha detto la testimone – perché era certo che la salvezza viene dalla grazia, un dono di Dio che non dipende dalle opere”. Spiegava che “Gesù è morto sulla croce per ciascuno di noi, nella sua bontà infinita ha perdonato tutti, livellando passato, presente e futuro; la vita eterna esiste, si deve aver fede nella grandezza di Dio e nell’immortalità”. Anche qui ci sovviene un riferimento al Vittoriale, dove c’è il Corridoio della Via Crucis con alle pareti le quattordici stazioni del Calvario; e si trovano tanti oggetti sacri e immagini di culto incompatibili con una visione atea o soltanto agnostica, pur nell’estetismo senza limiti dell’immaginifico.

La testimonianza di Fiammetta consente di dare una spiegazione sia a queste confidenze che le faceva sia agli atteggiamenti esteriori del Poeta spesso contrastanti con il suo intimo sentire: “Mi diceva sempre che la mia presenza lo avvicinava ancora di più alla religione della sua terra e di sua madre, religione che sentiva intimamente propria, al di là dell’osservanza esteriore e ripeteva le parole: ‘Fiammetta, tieni viva la tua fiamma che risplenda nella notte’, riferendole alla fiamma della fede di cui gli parlavo, ed anche all’iscrizione che spicca nella Stanza del Lebbroso, ‘Foco ho meco eterno’. Con me si sentiva del tutto a suo agio perché la mia semplicità gli consentiva di parlare di argomenti religiosi senza il timore, dal quale era assillato, che si cercasse di ‘convertirlo'”.

La testimone va ancora oltre nei suoi ricordi: “Mi confidava che la sua immagine di grande peccatore e di superuomo al di sopra di ogni vincolo e legame non si confaceva ad un’osservanza religiosa convenzionale e bigotta, alla quale sarebbe stato tenuto pubblicamente come credente. Aggiungeva che non tollerava nuove intromissioni dopo le tante che aveva dovuto sopportare e soprattutto non permetteva che altri penetrassero nella sfera più riposta dei suoi sentimenti”.

Qui possiamo trovare, in un certo senso, la base di tante incomprensioni sull’autentica posizione dell’artista in campo religioso. La sua vita da superuomo, al di là del bene e del male che irrideva la morale comune, era agli antipodi dalla vita religiosa come veniva concepita; mentre  vi erano aperture sia verso i religiosi – come i frati di Barbarano e il parroco di Gardone don Fava – sia verso momenti elevati di ispirazione cristiana che alimentavano i tentativi di conversione ricusati.

E questo, riteniamo, non perché disdegnasse parlare di religione – e le rivelazioni di Fiammetta sono lì a provarlo- quanto per il suo irriducibile rifiuto a svelarsi, a scoprirsi, che così esprime nel Libro segreto: “Il mio inumano piacere nell’esser disconosciuto e nell’adoprarsi a esser disconosciuto. Forse lo conosco io solo, sinceramente io solo so assaporarlo e di continuo rinnovellarlo. Io attendo quanto più ho fretta, più mi contengo quanto più sono impetuoso, più scuro quando sono più lucente. Più mi spengo quanto sono più ardente: soffoco le faville, non il fuoco addentro”. Ma nonostante tutto, di queste faville espressione di un’intima religiosità che sconfina nella fede ne ha sparse molte nella vita e negli scritti autobiografici. Abbiamo cercato di raccoglierle per condurre i necessari riscontri obiettivi al racconto della supertestimone, come in ogni indagine che si rispetti.

“Cristo e la Maddalena”, quadro, modelli Ines Pradella e Gian Carlo Maroni

Una testimonianza d’epoca decisiva

A questo punto ci sembra possano assumere un peso decisivo, come riscontro,  le “Testimonianze sulla vita inimitabile di Gabriele d’Annunzio” di Giorgio Nicodemi che riporta le confidenze fattegli direttamente dall’artista: “La Chiesa non mi volle capire… La mia Fede fu tutta diritta, di conquista in conquista spirituale compì il suo cammino. Io non veggo la mia esistenza ora se non come una linea senza deviazioni”. E ancora: “Non cercai il mio vantaggio mai; piccole e grandi, le mie azioni furono un mezzo per dare, come me stesso, il Dio che portavo in me”.

Riguardo alla fede cristiana così il Poeta prosegue: “Pensa ai mezzi di cui si valse il Figliuolo di Maria: stette lontano da tutti; quando si presentò non ebbe se non parole perfette di vita. L’eco delle sue parole, quella che ci è giunta negli Evangeli, appare a noi sublime; ma pensa a ciò che dovettero essere nella sua voce divina le parabole, il discorso delle beatitudini, le brevi parole che risplendono nella prosa semplice di Marco e di Matteo, e immagina quanta potenza d’arte era in lui”.

In un’altra circostanza disse sempre a Nicodemi: “Chi non crede non è degno di vivere. Credere e vivere sono due atti che si identificano. Il primo atto è all’origine di ogni forza spirituale, il secondo è soltanto la coscienza del primo”. Poi aggiunse: “Sai tu ora che cosa è credere? E’ vivere in Dio, essere nelle forze del Creato, forza che muove tutte le cose. Finché credi sei vivo; se dimentichi questo sei morto, anche se la tua esistenza perdura, anche se tutti i giorni il sole ti illumina … il credere e il vivere sono atti di Fede, e per essi ogni uomo è il ‘Templum Dei vivi’ – ‘Regnum dei intra vos’ dice il Cristo; ed afferma così la divinità reale dell’uomo”.

Alla domanda di Nicodemi se pregasse diede questa risposta: “Sempre, quando l’anima è in pena o in solitudine. L’invocazione a Dio è nel mio spirito stesso. Forse, non so pentirmi del male che faccio a me stesso, e penso che da me stesso venga il bene che spero di fare agli altri. Ma – è sempre l’artista che parla – in me è la Fede, quella Fede stessa che fu di mia madre. Ella ebbe la santità vera, le virtù che fanno corona alla fede: io ebbi con la Fede il potere di dominare il male con l’Arte, e tutto quello che toccai divenne virtù”.

Crediamo che sarebbe difficile trovare riscontri oggettivi alle rivelazioni della nostra testimone più efficaci di questa testimonianza d’epoca così esplicita ed eloquente. Ma se vogliamo un riscontro autentico anche a questa testimonianza possiamo citare dal secondo libro delle Faville del maglio – le faville che ha seminato e abbiamo cercato di raccogliere – il capitolo intitolato significativamente “Dell’amore e della morte e del miracolo”, dove rievoca la preghiera alla quale si affidò mentre assisteva Alessandra Di Rudinì, la sua “Nike”, gravemente malata. Eccone alcune espressioni.

“Credo nel miracolo. Credo nella preghiera? Una buona sorella mi aveva scritto: – Non dubito che la vostra anima sia capace di una preghiera sincera. Vi sovviene delle parole di Cristo? ‘Quel che voi domanderete al Padre nel nome mio vi sarà dato’. Seguite il consiglio divino, e son persuasa che ne proverete la virtù”. Il Poeta non esita: ‘Nel nome mio…’ penso che questo significhi: ‘Nel nome della bontà, dell’Amore’. Domandai nel nome della Volontà, e mi fu dato; nel nome della Volontà d’amore, e mi fu risposto. Con una miracolosa trasfusione di vita, io vinsi la morte… E io, pieno di meraviglia sacra e di speranza sovrumana, mi inginocchiai

“Fiammetta”, Ines Pradella, negli anni del Vittoriale

Altri indizi convergenti

Non è possibile, nello spazio contenuto di questa nota, ripercorrere l’accurata analisi a suo tempo condotta sul “mistero” della religiosità di D’Annunzio per rendere espliciti tutti gli argomenti che militano per il riconoscimento del “D’Annunzio credente”. Tanti altri sono i temi che entrano in gioco, primo tra essi quello della sensualità visto non in termini di immoralità, come sbrigativamente è stato fatto, ma nel confronto tra lo spirito e la carne, la “lotta con l’Angiolo”, insomma, per la quale il Poeta si richiamava anche al Buonarroti; poi il tema della bontà e del dolore, e quello epico nel quale la religiosità ha un posto importante con le continue commistioni e contaminazioni, dalle Preghiere alle pagine dense di spiritualità dove compare anche l’ostia come simbolo altissimo.

Negli anni del Vittoriale, quando la malattia e la vecchiezza diventano incombenti e lo riempiono di angoscia, tutti questi fattori diventano sempre più convergenti verso una religiosità piena confinante con la Fede. Per questo la testimonianza della modella degli affreschi della Stanza del Lebbroso assume un ruolo determinante: non solo riguarda soprattutto il 1936, anno al quale si riferiscono tutte le lettere di D’Annunzio (per cinquanta pagine a lei e venti a suoi familiari) tranne le prime due del 1930 e l’ultima del gennaio 1937; ma impersona il simbolo delle Sante donne che dovevano assisterlo, quindi le sue confidenze avevano questa spinta che spiega l’apertura sui temi religiosi.

“Tu sei Maria di Magdala, Elisabetta dì Ungheria e non so quale altra santa in assistenza di lebbrosi. Io sono lebbroso, e quasi santo” le scrive nella prima lettera (31 gennaio 1930); “Nella Stanza del Lebbroso Maria di Magdala è scomparsa, ed è scomparsa Elisabetta d’Ungheria! C’è un buco nero nell’architrave e un altro, più nero, nel soffitto! Ho paura” (La Canderola, febbraio 1930); fino all’ultima lettera indirizzata “A Ines, a Fiammetta, all’Assistente del Moribondo”: “La melanconia della separazione è più dura dopo la rinunzia necessaria. Grazie grazie, amica mia dolce. Grazie di tutto. Non dimenticherò e rimpiangerò. Ariel” (23 gennaio 1937, a poco più di un anno dalla morte).

Nelle lettere si riversa “la nera tristezza” e l’angoscia che lo soffocano in una “coltre di cenere”, insieme all’anelito a esserne sollevato aggrappandosi al conforto datole dalla giovane confidente, che da Santa in assistenza al Lebbroso dipinta nel soffitto si era materializzata vicina a lui.; nella stanza c’è anche il quadro con san Francesco che abbraccia il Lebbroso, con le sembianze di D’Annunzio, l’orbo veggente, altro segno dell’assistenza da lui ricercata in figure e simboli sacri.

Il tema della religiosità in D’Annunzio non possiamo esaurirlo con queste testimonianze alle quali annettiamo un valore rilevante: quella che abbiamo portato è stata inedita e significativa perché all’interno del mondo misterioso e simbolico degli anni del Vittoriale nei quali venivano al pettine della coscienza i nodi di una vita da “superuomo” al di là del bene e del male. E ci sembra che siano stati sciolti con l’apertura alla fede della sua terra e della sua “madre santa”.

Ci torneremo prossimamente dando conto del dibattito di fine anni ’50 e anni ‘60, prima che cadesse una cappa di silenzio da noi rimossa senza  poter percepire gli echi e le risposte attese.

Info

L’analisi dettagliata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta: Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp. 530, in particolare la parte terza, “Il mistero”, sulla religiosità, pp. 293-470;  oltre alla parte prima, “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118,e la seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293. Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.I primi 4 articoli, dei sei del servizio, sono  usciti, in questo sito,  il 12, 14, 16, 18, 20 marzo 2013, ognuno con 6 immagini, il 6° e ultimo uscirà il 22 marzo. Cfr., inoltre, l’intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante in http://www.100.newslibri.it/,  l’11 marzo 2013, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”.

Foto 

Le immagini sono tratte dal volume sopracitato dell’autore (pp. 272-280), quelle delle Stanze del Vittoriale furono riprese appositamente per il volume da Ezio Bellot con l’autorizzazione della presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: Gli ‘affreschi’  di Guido Cadorin con le Sante donne, visione d’insieme del soffitto; seguono “Elisabetta d’Ungheria”, ‘affresco’, modella Ines Pradella e “Sibilla di Fiandra”, ‘affresco’, modella Ines Pradella;  poi, “Cristo e la Maddalena”, quadro, modelli Gian Carlo Maroni e Ines Pradella, Fiammetta, Ines Pradella, negli anni del Vittoriale; in chiusura, Ines Pradella, la nostra testimone. 

Ines Pradella, la nostra testimone

D’Annunzio, 4. Il potere religioso e quello spirituale

di Romano Maria Levante

Ripubblichiamo il 4° articolo, dopo i primi 3 usciti dal 12 al 14 marzo 2021, mentre gli ultimi 2 usciranno il 16 e 17 marzo, tutti già pubblicati sul sito www.arteculturaoggi.com nel 150° anniversario della nascita il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013.

Sui rapporti di Gabriele d’Annunzio con il potere religioso abbiamo già ricordato la condanna per ben quattro volte all’Indice dei Libri proibiti di tutte le sue opere con un particolare accanimento che ebbe due momenti “clou”: il  divieto al “Martirio di san Sebastiano”  nel febbraio 2011 al solo annuncio, precedendo l’Indice e prima addirittura che fosse rappresentato; la condanna all’Indice del “Solus ad Solam” dopo la morte dell’artista. Lo chiamiamo così e non Poeta o Comandante perché la nostra rievocazione nel 150° della sua nascita avviene nell’ottica dei rapporti tra arte e potere. Proseguiamo il ricordo con l’atteggiamento verso il mondo ecclesiastico e i simboli del Cristianesimo, per circoscrivere la contrapposizione ed evidenziare la sua adesione.

A Drenova, 1° agosto 1920

Nel suo libro su “Gabriele d’Annunzio e l’Indice dei libri proibiti . Da Leone XIII a Pio XI”, Ferdinando Gerra parla di “vera crociata antidannunziana”, per cui è interessante – sempre nell’ottica dei rapporti tra artista e potere –  ricordare l’aspra reazione, che non si fece attendere dopo la seconda condanna; mentre per la prima, intervenuta con Pio X, a firma del cardinale Della Volpe, abbiamo riportato  la dolente risposta del febbraio 2011 al divieto del “Martirio di san Sebastiano”, che l’aveva preceduta e forse originata, sull’intensa religiosità dell’opera. In quest’occasione D’Annunzio aveva detto  anche: “Ai tempi di Leone XIII non ho mai avuto il più lieve conflitto con la Chiesa. Leone XIII era il più fine umanista e per molti anni mi ha protetto”. 

In “Ne laedat cantus”  faceva dell’ironia sulla “persecuzione clericale” che gli aveva preparato “dinanzi al teatro la catasta  di Arnaldo congegnata con più improba ira”, aggiungendo: “Non è certo che  on sieno domattina scomunicati anco i meravigliosi  intagli… e avori e bronzi senza numero nel non purgato Museo Cristiano”.  Rincarava la dose  rinfacciando a Pio XI di aver custodito da cardinale, nella Biblioteca Ambrosiana, “il pallore de’ capelli di Lucrezia Borgia”. Fu ironico anche nel 1927 nei cartoncini con la scritta: “Dal giorno 11 di questo giugno al giorno di Ognissanti resterà chiuso nella sua Officina  dove il suo diurno e notturno lavoro non potrà essere interrotto se non dall’infallibilissima Congregazione dell’Indice con  anticipati fulmini”.

Come nei film sui penitenziari famigerati, nei titoli di coda ci sono le notizie o le immagini della chiusura intervenuta quasi a marcarne il fallimento, così per l’Indice dei libri proibiti c’è stata l’abolizione con il Motu proprio  del 7 dicembre 1965, che ha fissato nuove norme per la Congregazione della dottrina della fede, subentrata alla temuta Congregazione del Sant’Uffizio.  A sancire questa vittoria dell’arte sul potere è stato Paolo VI, successore ideale di Paolo V che nel suo pontificato, sebbene contrario al metodo copernicano, fu benevolo con Galileo, il quale racconta l’invito che vivesse “con l’animo riposato” e che “(vivente lui) io potevo esser sicuro”. Si limitò all’ammonizione, mentre Urbano VIII lo processò con relativa condanna e richiesta di abiura.

L’atteggiamento verso la Chiesa non clericale

Se vi fu un’aspra reazione alla gerarchia clericale, ben diverso fu l’atteggiamento verso il mondo della chiesa che sentiva vicino alla sua sensibilità e che non era certo “potere religioso”.

La sua predilezione per i frati di Barbarano e la sua vicinanza al parroco di Gardone don Fava, con il quale era prodigo di offerte, sono ben note, ma possono essere ritenute espressione di animo generoso piuttosto che di religiosità. Però attese la visita del vescovo di Brescia monsignor Tredici nella parrocchia con grande ansia e scrisse al parroco: “Sento già l’aura dell’Angelo che dalla tua bontà fu mandato a custodire la mia casa tanto triste”; né fece gesti scaramantici come quelli che lo portavano ad evitare il numero tredici anche nella numerazione delle pagine. Si era a un anno dalla morte, con il senno del poi la scaramanzia serviva eccome! Sei mesi dopo venne chiamato al Vittoriale don Riboldi dei domenicani di Milano “per conversazioni di salute e di anima”.

Particolarmente toccante l’ultima visita ai frati di Barbarano quasi presagisse la fine prossima, che giunse inattesa la sera del 1° marzo 1938 alle ore 8 e 5 minuti. Don Fava nel chiedere al Vescovo l’autorizzazione per il funerale religioso, prontamente concessa da Roma, assicurò che “da quando aveva conosciuto D’Annunzio, questi aveva mostrato di volgersi alla Chiesa. ‘Quell’anima avanzava verso Dio'”. Lui stesso gli aveva dato l’assoluzione “sub conditione”, l’Estrema Unzione e l’indulgenza plenaria e disse: “Io corsi al Vittoriale ‘chiamato'”.

A Cosàla, nel cimitero dinanzi ai caduti delle due parti, 2 gennaio 1921

Non va sottovalutato il significato degli affreschi delle sante che dovevano assisterlo nella solitudine nel soffitto della “Stanza del Lebbroso”,  santa Elisabetta d’Ungheria e Sibilla di Fiandra, Giuditta di Polonia e Odila d’Alsazia fino a santa Caterina, scelte per la loro assistenza ai lebbrosi con un straordinaria competenza dato che alcune non sono citate nelle apposite fonti.   

La stessa Chiesa, pur nella sua intransigenza, non poteva ignorare questi  e altri  segni di attenzione per la religione e i religiosi. Il suo amore per San Francesco era straordinario, tradotto in un francescanesimo devoto che si esprime nei comportamenti e negli scritti. In uno dei “Taccuini”, nel 1917,  si trova la celebre espressione in cui lo definisce “Il più santo degli Italiani, il più italiano dei Santi”,  sentiva che la sua personalità, come scrive Curzia Ferrari, “spogliata di certi attributi divini, si rifà in lui terrena, quasi umanamente eroica, più accessibile alla  mente dell’uomo”.  Secondo Regard lo attirava  perché il santo “ha scontato di persona – in umiltà e sottomissione – la sua conversione, la bruciante sua conversione all’apostolato”,  in una sorta di identificazione espressa nel motto “Io ho quel che ho donato”.  Era affascinato dagli aspetti esteriori ma ne sentiva anche il dramma interiore: nella visita al roveto incarna le tentazioni  nel percorso tormentato del fiumicello Tescio,  con le parole ispirate in nei “Taccuini” del 1887 e nelle “Faville del maglio”: “E questo fiume – conclude – è quanto di più umano  e più vicino a me io trovi in tutto il paesaggio”.

Voleva scrivere un’opera mistica ed eroica per il settimo centenario della morte del Santo, “La Vergine e la Città”, una lauda drammatica in forme moderne su santa Chiara di cui aveva definito il contenuto sulla base di antichi testi sacri, lo ha ricordato l’allora sindaco di Assisi Arnaldo Fortini nel suo “D’Annunzio e il francescanesimo”. Particolarmente toccante la cronaca dei “Taccuini”  dei giorni 22 settembre-4 ottobre 1917 in cui rievoca il volo su Cattaro con accenti ispirati rivolti a san Francesco a cui rivolge “la più infiammata preghiera”, fino a immaginare che darà “del suo cappuccio un’ala”. Nel volo sentirà di trovarsi “nel ‘Terzo Luogo’ al di là della vita e al di là della morte” fino ad esclamare: “Ecco il luogo altissimo, ecco il luogo profondissimo dove ci abito, ecco il luogo segreto mistico ed ardente, dove ci respiro”.

Ebbe vivo interesse per san Gabriele dell’Addolorata, assisiate dal nome Francesco Possenti morto giovanissimo che diventerà patrono d’Abruzzo, da lui chiamato “lu Checchino nostro abruzzese”. Il destino volle che la notizia della morte di D’Annunzio piombasse sulle celebrazioni del centenario della nascita del santo a Isola del Gran Sasso con Fortini, sindaco di Assisi. E non mancò la ricerca di Padre Pio, l’attesa dello “spiritual dono” della Provvidenza per un “incontro col mirabil uomo”, che non avvenne, o avvenne solo virtualmente, nonostante la volontà dei protagonisti; una vicenda misteriosa, una missiva che un messo doveva recapitare e ne fu impedito, riapparsa dopo decenni.

Il funerale religioso, immortalato da eloquenti immagini con i preti e chierichetti in cotta bianca in testa al corteo diretto verso la chiesa e il crocifisso sulla bara, non ci sarebbe potuto essere se l’artista lo avesse escluso. E’ vero che aveva detto a un amico di Salò tre mesi prima della morte: “Ho orrore di pensare prima ai miei funerali. Ma credi che debba proprio ammettere la pretaglia che mi ha condannato e diffamato per tutta la vita dietro la mia salma?” Tuttavia le disposizioni date a Maroni sono chiare, come riferisce D’Aroma: “Sono stato battezzato. E tu sai quello che devi fare”.

Le esequie di D’Annunzio,  (3 marzo 1938). Il feretro con il crocifisso seguito
dalla moglie Maria Hardouin di Gallese , dai figli Mario e Gabriellino, e da Mussolini

Non furono più esplicite perché voleva evitare che il confronto tra arte e potere religioso ponesse condizioni inaccettabili per lui, come artista e come uomo; certamente don Fava non andava confuso con la “pretaglia”; mentre nei riti funebri aveva reso sempre onore e rispetto in occasione della morte dei commilitoni e così nelle cerimonie religiose in generale. Ricorda Ugo Ojetti quanto  il cardinale Costantini gli aveva confidato, che D’Annunzio, in una funzione di suffragio per la propria madre, “genuflesso ha seguito la messa sopra un messale, sulla messa dei morti che… è la più semplice e la più bella e la più antica delle nostre messe”; il suo attendente Romagnoli  ha detto che, entrando in chiesa, si faceva sempre il segno della croce; e quando fu trasferita la salma di Giovanni Randaccio nella basilica di Aquileia, “ascoltò la messa inginocchiato per tutto il tempo”.

Il suo rito funebre a Gardone fece dire ad Ojetti: “D’Annunzio in chiesa, benedetto con l’aspersorio e l’incensiere, davanti alla croce di Gesù: ecco l’altra novità inaspettata e questa ci annunciava l’eterna pace”. D’altra parte i momenti di raccoglimento più intenso, davanti ai caduti di Fiume o davanti al feretro dei suoi più cari avieri commilitoni, morti da eroi, lo trovano sempre in ginocchio, manifestazione nella quale può esserci molto di più che il semplice rispetto.

Le faville di religiosità seminate da D’Annunzio sono dunque numerose, insieme ad altrettante manifestazioni di segno opposto: la condotta “immorale” che gli veniva contestata e, negli scritti, la letteratura sensuale-mistica ritenuta corruttrice dei giovani per il grande ascendente che aveva su di loro. Francesco Flora, critico di lui in età matura, scrisse che “deve avere il segno intimidatore della grandezza un uomo che ha fatto impallidire d’attesa i giovani rapiti da lui, e noi con essi, e il ricordo ci riempie di appassionata nostalgia”. Tutto questo concorse alla messa all’Indice da parte della Congregazione del Sant’Uffizio per ben quattro volte, di cui abbiamo già parlato, ma senza che fosse scomunicato l’uomo e anche questo merita di essere sottolineato.

Passando dal potere religioso a quello che potremmo definire potere spirituale, cioè la forza del messaggio soprannaturale e salvifico il discorso si fa ben più complesso.

Non crediamo che queste possano essere considerate prove sufficienti di una sua autentica credenza che andasse oltre la generica spiritualità o la religiosità legata all’esaltazione panica, con il “dio della natura”, o eroica, con il “dio degli eserciti”. Per quest’ultima ci sono le pagine sulla missione aerea alla bocche di Cattaro affidata alla protezione di San Francesco e tutta percorsa da richiami religiosi fino alla percezione, nel momento del pericolo, del “terzo luogo”, una plaga tra la vita e la morte dove raggiunge un’altissima spiritualità;  come quando si trova “sull’orlo della vita nell’accezione di Dante” con riferimenti inequivocabili all’al di là e al destino ultimo dell’uomo.

Va operata una precisa delimitazione – raccomandava mons. Manlio Maini nel 1957 – tra “spiragli di vita religiosa in un segreto capitolo di vita” e la credenza che avrebbe assorbito dalla sua terra, così definita: “Questa credenza si può dire fede quando si attiene alle linee precise di una Religione (nel nostro caso della religione cattolica), linee di Verità e di Precetti. Troppe e troppo gravi cose sono chiamate dunque in causa dal concetto di Fede”. Ma nel 1965 padre Raimondo Spiazzi poteva affermare che “si può porre il problema di una sua fede, o almeno di una sua religiosità, nel senso di riconoscimento e accettazione di un assoluto trascendente, quella che si chiama e si percepisce quasi istintivamente come realtà divina”.

Il corteo funebre con i sacerdoti sosta sulla nave Puglia

E nel 1991 padre Ferdinando Castelli di “Civiltà cattolica”, pur partendo da un giudizio molto severo dell'”incontro di D’Annunzio col bellissimo nemico” in opere giovanili trasgressive se non blasfeme, resta colpito da una sua “vecchia preghiera, vergata a 23 anni, che è nello stesso tempo confessione e pentimento” e si chiede, dinanzi al “ferale taedium vitae” dell’uomo chiuso nel Vittoriale, se in prossimità della morte “ebbe il tempo e la grazia di ripetere qualcuna di quelle parole così vivide di umiltà e di speranza”.

Scriveva Giuseppe Pecci nel 1969, nel suo “D’Annunzio e il mistero”, che era lungi da lui “l’idea di fare del D’Annunzio, anche vecchio, anche negli ultimi tormentati giorni, un asceta o un santo e nemmeno un cristiano convinto”. E concludeva che egli “portò con sé il suo mistero” ponendo l’ interrogativo: “Possiamo però pietosamente chiederci se, in definitiva, abbia prevalso in lui, negli ultimi istanti, la dura lucidità del suo cervello o il cristiano respiro di sua madre”, che egli chiamava “la mia madre santa”.

Piero Bargellini, nel sottolineare “il tormento della sua anima” affermava: “Che il goditore pagano abbia incontrato il Cristo, è un fatto per me certissimo. Ma non è detto che un incontro o una nostalgia siano sufficienti a fare un cristiano. Che il D’Annunzio abbia lottato con l’Angiolo è, sempre secondo me, dimostrabile. Quale sia stato l’esito della lotta resta un mistero che l’uomo s’è portato nella morte. E’, del resto, il mistero di tutti gli uomini”.

Questi due autori ponevano con forza l’ interrogativo sulla sua religiosità e sul suo approdo finale. Il dilemma di Pecci richiama la lettera scritta dall’artista il 25 marzo 1937, un anno prima della morte, a Maroni, il suo braccio destro al Vittoriale, nella quale si confidava così: “In uno dei miei libri io mi dicevo ‘mistico senza Dio’, ma col passar degli anni mi sono riconosciuto – pur contro la lucidità del mio cervello – sempre più inclinato a un misticismo visionario e più segretamente trepido al soffio del Soprannaturale”. E concludeva: “Ormai da venti anni io vivo nel respiro di mia madre vivente e presente e, come più gli anni passano, più la presenza diventa reale e attiva”. La risposta autentica la dà lo stesso D’Annunzio in un altro scritto: “E oggi ritrovo le impronte delle ginocchia materne… nella solitudine del mio muto eroismo da cui dovrò dipartirmi…  E nell’una e nell’altra impronta oggi ritrovo il pensiero che condurrà la mia devozione e il pensiero che mi salverà l’anima”. Parole eloquenti che tuttavia non sono risolutrici del mistero.

Nel 150° dalla sua nascita vogliamo riproporre – partendo dai rapporti tra l’artista  e il  potere religioso,  che diviene potere spirituale – l’interrogativo sul D’Annunzio credente dando una risposta, motivata e speriamo appropriata, in una sorta di “processo” con prove precise e verificabili: un processo non a D’Annunzio ma a coloro che hanno fatto prevalere altri aspetti più evidenti e superficiali rispetto alla sua profonda spiritualità che si traduce in religiosità e fede.

Il corteo funebre esce dal Vittoriale per il funerale religioso nella chiesa di S. Nicolò

Una chiave interpretativa nel libro-confessione

In fondo, una chiave per interpretare tante esitazioni ed incertezze nel percorso spirituale di D’Annunzio si può trovare nel libro-confessione “Contemplazione della morte” dove – dinanzi all’agonia di Adolphe Bermond, il fervido credente proprietario dello chalet di Arcachon dove soggiornava – manifesta il bisogno di “accendere l’altra lampada”, quella della fede, “ma senza spegnere la prima”, quella della poesia che si nutre dei forti richiami della natura umana: cioè della carne in perenne lotta con lo spirito, in quella che lui chiamava “la lotta dell’Angiolo”. Ma è proprio “la forza ascendente e molteplice”, la “sostanza rinnovellata per alimentare la divinità futura” che gli fa superare il dilemma tra accendere la nuova lampada e spegnere quella antica: in questa, anzi, ha “rifuso un più ricco olio perché riardesse”.

Nella “Contemplazione della morte” la religiosità autentica espressa senza remore veniva a scontrarsi con l’osservanza esteriore e con le sue regole, perciò era portato a distinguere nettamente i vari piani: continuava nelle opere e nella vita a manifestare la vitalità della sua natura ma senza dimenticare la matrice religiosa della sua terra (“sono di una terra nativamente religiosa”) e di se stesso. Come si riscontra in altre opere autobiografiche dinanzi alle quali si rimane sbalorditi per la straordinaria ricchezza interiore che sfiora la religiosità e spesso si avvicina alla fede.

Pecci fa un’accurata analisi della sua produzione letteraria sin dalle opere giovanili e ne emerge un’evoluzione costante verso forme di spiritualità religiosa che si lasciano alle spalle le forme espressive e i contenuti del decadentismo in un’epoca materialistica in cui perduravano i riflessi del romanticismo. Si vede come dall’atteggiarsi irridente della prima fase si passa a una visione più serena fino agli atteggiamenti profondamente religiosi dell’ultimo periodo, quello “notturno”.

Negli scritti autobiografici è animato da religiosità autentica e si potrebbe riportare una serie lunghissima di espressioni, ambientazioni, citazioni bibliche anche se spesso questi contenuti sono stati fraintesi alla ricerca accanita di una vena pagana. Mentre si trattava di eccessi passionali dovuti alla sua natura che non lo allontanava, nonostante tutto, dal richiamo religioso.

L’assimilazione della morale cristiana alla castità faceva sì che tutti gli altri aspetti positivi della sua vita fossero oscurati da quel pregiudizio. Ed è probabile che fu questo motivo ad allontanarlo da una decisione chiara in materia di fede, per il timore di sentirsi chiedersi di abiurare a ciò che era stato ed era, nella vita e nell’opera artistica (“spegnere l’altra lampada”), come avvenne allorché cercò di incontrare il Papa. “Quante volte ho tentato di morire perché gli uomini non più mi giudicassero – scrisse ad Antonio Bruers, “il dotto bibliotecario” del Vittoriale – Quanti giudici! Quanti giudici! Ci sarà anche un convegno di vermi giudicanti sul mio cadavere?”.

In questo quadro variegato di indizi, dove però le luci prevalgono sulle ombre, una parola risolutiva crediamo possa venire dalle testimonianze dirette “ex ore suo”. Ne parleremo prossimamente. 

Info

L’analisi dettagliata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta: Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte terza, “Il mistero”, sulla religiosità, pp. 293-470; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118; la parte seconda  su “Il personaggio”, pp. 119-293.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.I primi  tre articoli, dei sei del servizio, sono usciti, in questo sito, il 12, 14 e 16 marzo, gli ultimi due usciranno il 20 e 22 marzo 2013, tutti con 6 immagini ciascuno. Cfr. intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013,  in http://www.100.newslibri.it/, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”.

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca prese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 272-280) che le ebbe dalla presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: A  Drenova il 1° agosto 1920 ; seguono  Al cimitero di Cosàla dinanzi ai caduti delle due parti il 2 gennaio 1921 e  Le esequie (3 marzo 1938). Il feretro con il crocifisso seguito dalla moglia Maria Hardouin di Gallese , dai figli Mario e Gabriellino, da Mussolini, poi  Il corteo funebre con i sacerdoti sosta sulla nave Puglia e  Il corteo esce dal Vittoriale per il funerale religioso nella chiesa di S. Nicolò;   in chiusura, “Un mistero che l’uomo s’è portato nella morte” (P. Bargellini).

“Un mistero che l’uomo s’è portato nella morte” (P. Bargellini)

 

D’Annunzio, 3. Contro di lui il potere politico e quello religioso

Romano Maria Levante

Ripubblichiamo il 3° articolo, dopo i primi 2 usciti il 12 e 13 marzo 2021, mentre gli ultimi 3 usciranno dal 15 al 17 marzo, tutti già pubblicati sul sito www.arteculturaoggi.com nel 150° anniversario della nascita il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013.

Prosegue la rievocazione di Gabriele d’Annunzio, nel 150° anniversario della nascita,  ripercorrendone la vita nei rapporti tra arte e potere. Dopo averne ricordato a figura eroica e insieme umile nel crogiuolo della prima guerra mondiale e di Fiume con il suo carisma e la forza trascinatrice del pensiero e della parola, abbiamo parlato  del disegno politico, nato dalla sua mente di artista, di pacificazione nazionale, neutralizzato con la “pax romana” imposta dalla marcia su Roma. Il prezzo della vittoria del potere fu il regime e l’esilio al Vittoriale. Accenniamo agli ultimi aspri confronti con il potere politico fino all’altro intrigante rapporto dell’artista con un potere penetrante dal duplice aspetto: il potere religioso legato all’alta gerarchia ecclesiastica e il potere spirituale..

D’Annunzio notturno al Vittoriale

Al Vittoriale D’Annunzio è solo con se stesso e i suoi fedeli, i Legionari fiumani tra i primi. Ormai è rimasto soltanto l’artista che volta le spalle al potere. Fino all’ultima sfida, dopo le espressioni irridenti contenute nella lettera di Mussolini dell’inizio del ‘23 in una fase in cui continuava a lottare per la gente del mare: “Attendo i tuoi libri e ti ricordo che gli italiani attendono da te la poesia”, alla quale rispose tra l’altro: “Nessuno può influire… sopra la minima delle mie opinioni e delle mie risoluzioni. Fin dalla nascita io sono il solo conduttore di me stesso”. L’aspro contrasto culmina nella dura lettera del 23 aprile ‘24: “Fui tratto in inganno, di frode in frode, d’ipocrisia in ipocrisia, per due anni, quasi. Fu simulata la ‘firma’ del Patto marino; e nessuna applicazione, nessuna conciliazione, nessuna pacificazione fu compiuta”. La conclusione è secca e sdegnata: “Basta. Rimani dall’altra parte. Io resto di qua. E tu sai – come il mondo intiero sa – che io ho nel mio cuore e nel mio cervello ‘ogni specie di coraggio’. M’avevi promesso la tregua… M’imponi la lotta. Ma tutto ricada su di te, anche il sangue”.

E’ il grido dell’artista che rifugge dai compromessi e dai sotterfugi della politica e si oppone al potere, armato solo del suo orgoglio e della sua volontà. Lo fa quando, dopo le elezioni dell’aprile ‘24, il fascismo dilaga dopo avergli dato ipocritamente, il 15 marzo, il titolo platonico di “Principe di Montenevoso”. In questo anno cruciale, che vede la sua Fiume annessa all’Italia, con il delitto Matteotti del mese di giugno il potere getta la maschera dando la spallata decisiva alle istituzioni in senso autoritario. D’Annunzio si ritira definitivamente nella “gabbia d’oro” del Vittoriale attuando il proposito espresso nell’orgogliosa lettera a Mussolini del 1° dicembre ’22: “Se non potrai togliermi da questa tristezza e da questo disagio spirituale, con fraterna sollecitudine, io me ne andrò nuovamente in esilio… Preferisco l’esilio allo strazio cotidiano. ‘Non veder, non udir…'”.

Il volontario esilio è vissuto con la sua arte e i suoi cimeli, che evocano le imprese e l’impegno patriottico, fin dall’inizio assoluto e rigoroso: “Io sono ridivenuto il solitario ed orgoglioso artista dell”11 e per fermo proposito non mi curo di sapere quel che accade fuori del Vittoriale. Scrivermi è inutile, venire alla mia porta è inutile”, risponderà il 2 settembre dello stesso anno al direttore della “Provincia di Brescia” per smentire la sua adesione a una “Lega italica antifascista”. Intendimento che ribadirà il 28 maggio ’25, a conclusione della visita di Mussolini in occasione della donazione del Vittoriale agli Italiani: “Nel Vittoriale un uomo si è rinchiuso a riscolpire crudamente e pazientemente se stesso… Il motto ‘suis viribus pollens’ oggi deve essere resuscitato e rinnovellato. Aspettando questa concordia, ogni italiano deve rinnovellarsi e riscolpire se stesso. Io do l’esempio. Io ho strappato dalle mie caviglie le catene dell’azione e sono ritornato alla mia arte”. E il messaggio del ritorno definitivo all’arte la getta proprio in faccia al potere!

Nino D’Aroma commenta così: “Ora accadeva – e si può capirne l’amarezza – che il padre, il suggeritore autentico di quest’Italia vittoriosa dopo la Marcia, era costretto – non certo dagli uomini che lo amavano – ma dalla stessa essenza delle cose, a viverne lontano e separato, poiché una collocazione, nello Stato o nel nuovo regime che s’insediava, per D’Annunzio era assai difficile, per non dire impossibile”.

Quanto ciò gli costasse lo mostra la “tristezza color di cenere” delle sue giornate al Vittoriale, pur tra le spericolate corse nel lago sul MAS 96 della Beffa di Buccari, che Mussolini gli fece avere il 27 gennaio ‘25, seguito due mesi dopo dall’idrovolante. In una lettera del 16 febbraio ‘32 ad Alfredo Felici confidava di provare “la più cupa malinconia, che gli studi gravi o sottili non alleviano”, definendola così: “Questa forzata clausura è la più miserevole delle condizioni per un Italiano che fu l’interprete sommo della bellezza d’Italia”. Fino allo sfogo che ne svela la triste condizione di esiliato: “Perché non posso correre per una via piana, attraversare una città popolosa, entrare in una biblioteca o in una pinacoteca, sostare in meditazione o in estasi dinanzi alle opere che illustrai ed amai?”. Ricorda con nostalgia il profeta Giona e la Sibilla dèlfica nella Cappella Sistina, la “cornucopia simbolica” del console Flavio Aerobindo nel Duomo di Lucca, l’Annunciazione di Donatello a Siracusa, il pulpito di Giovanni Pisano in Sant’Andrea a Pistoia, Guidarello Guidarelli a Ravenna che “qui nell’angusto letto funebre del Lebbroso raffigura l’effigie della mia ultima pace”. Per rivederli, è la conclusione, “darei questo avanzo di vita solinga”.

L’arrivo  a Cargnacco

Arte e potere a confronto: la conclusione più amara

Così anche l’arte veniva mortificata nel confronto impari con il potere. Era stato emarginato brutalmente chi avrebbe potuto far valere ancora il suo carisma di artista con l’aggiunta dell’animo e della figura di soldato, un poeta-soldato dalla forza trascinatrice che faceva ombra al fascismo.

Forse in D’Annunzio si è consumata la possibilità che l’arte riesca a convivere serenamente con il potere nella sua espressione autoritaria; e in determinate condizioni possa essere chiamata a prenderne il posto per il bene della nazione. D’Annunzio, delineata la sua costruzione a Fiume nella Carta del Carnaro, iniziò a svilupparla sul piano politico ricercando l’unione delle forze sane e la pacificazione nazionale. Non si pensi alle costruzioni fantasiose della “Repubblica” di Platone, della “Città del sole” di Tommaso Campanella, di “Utopia” di Tommaso Moro; non si tratta di sogni e fantasie letterarie, bensì di un progetto lucido e concreto che avrebbe evitato al Paese la dittatura.

Così arte e potere a conclusione della vicenda politica dannunziana rimasero separati. Il potere aveva vinto. E non fu certo un bene, fu un danno per tutti.

Anche se con il senno del poi, e dando corpo a ipotesi precluse allo storico ma non al cronista, lo si può affermare con una certa consapevolezza e a ragion veduta. Perché la pacificazione nazionale con l’unione delle forze sane, proclamata e ricercata concretamente nell’intreccio dei contatti politici da D’Annunzio, avrebbe potuto sbarrare la strada al fascismo proprio nel fatale 1922. E avrebbe fatto il resto il suo feroce spirito antihitleriano, il totale disprezzo per Hitler definito fin dagli inizi “un ridicolo nibelungo truccato alla Charlot”, poi “despoto plebeo” e bersaglio di irrisioni tra il 1933 e il 1934: “Su l’acciaio dell’elmo ti gocciola il pennello d’imbianchino dai di bianco all’umano et al divino”.

E’ un disprezzo manifestato pubblicamente con espressioni quali “il marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce o di colla ond’egli aveva zuppo il pennello, o la pennellessa, in cima alla canna, o alla pertica, divenùtagli scettro di pagliaccio feroce non senza ciuffo prolungato alla radice del suo naso ‘nazi'” (lettera a Mussolini del 9 ottobre ‘33) e con epiteti come “Attila imbianchino” e “Attila della pennellessa” (telegramma ad Alfredo Felici e lettera a Riccardo Gigante dell’agosto ‘34). Questa profonda avversione lo avrebbe tenuto certamente mille miglia lontano dall’Asse Roma-Berlino del 24 ottobre ‘36, e successivamente dal Patto d’acciaio con la Germania hitleriana, per la quale sentiva la stessa avversione che verso il “Fuhrer”.

Con i membri del Comitato nazionale dell’Istituto nazionale per la pubblicazione
di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio nel 1936, a sin. Tommaso Monicelli

La prova regina è l’estremo tentativo che fece recandosi alla stazione di Verona il 30 settembre ‘37 per incontrare Mussolini di passaggio sul treno che lo riportava in Italia dopo i cinque giorni di colloqui con Hitler, iniziati il 25 a Monaco e conclusi a Berlino. Accolto freddamente dal Duce, “attaccò con voce ferma qualunque legame con la Germania”, ha scritto Maroni nella sua relazione; chissà se ricorse anche alle espressioni usate dopo il precedente incontro di Venezia del giugno ‘34, sempre tra Hitler e Mussolini, allorché, come ricorda Momigliano, “a Rizzo che gli chiedeva per conto di Mussolini quale fosse la sua impressione aveva risposto: ‘Mussolini dovrà ben lavarsi le mani prima che possa incontrarmi con lui, ma fortunatamente ben scarso è stato l’entusiasmo del popolo veneziano per quell’incontro, per evitare che il leone di San Marco dovesse arrossire'”.

Sebbene fosse malato, e morirà dopo appena cinque mesi il 1° marzo ’38, era andato a incontrare Mussolini impegnandosi strenuamente per dissuaderlo dall’alleanza con la Germania; nel fare ciò confidava nell’antico ascendente che aveva su di lui e nell’adesione data all’espansione coloniale con messaggi esaltanti, culminati nell’aprile ’37, cinque mesi prima dell’incontro a Verona, quando gli aveva scritto: “Il Vittoriale è tuo. Di qui si partirono verso di te le prime grandi profezie della tua grandezza e della tua gloria. Di qui si partirono le prime parole degne delle tue sorti. Non dimenticare quel che fu bello, e coraggioso e verace. Caro caro, sempre più caro compagno, a te raccomando ogni mio bene ideale”.

L’intervento in extremis su Mussolini fu l’ultimo atto politico nel confronto dell’artista con il potere, l’ultimo gesto generoso animato dal suo grande amor di patria. Nonostante gli si fosse riavvicinato il tentativo risultò vano, il Duce proseguì imperterrito per la sua strada che inesorabilmente doveva portare all’epilogo tragico: trascorso poco più di un mese dall’incontro, il 6 novembre, firma il “patto anticominform” con Germania e Giappone; dopo un altro mese, l’11 dicembre, l’Italia esce dalla Società delle nazioni; i rapporti con la Germania di Hitler si faranno sempre più stretti fino al Patto d’acciaio del 22 maggio ’39; poi la catastrofe della guerra, in una drammatica, inarrestabile sequenza.

La conclusione più amara del confronto tra arte e potere nella vicenda dannunziana è che il potere aveva prevalso anche questa volta. Altrimenti la storia del nostro paese forse avrebbe potuto avere un altro corso. Forse…

Con Tazio Nuvolari nella Piazzetta Dalmata

Il confronto con il potere religioso: 4 volte all’Indice

Furono ben quattro i decreti di condanna  che misero le sue opere nell’“Indice dei libri proibiti”, il primo dei quali, dell’8 maggio 1911, relativo a “Romanzi e Novelle e tutte le opere drammatiche e le poesie scelte”; severità inconsueta dato che  veniva condannata una sola opera (“Leila” per Fogazzaro), mentre ne rimanevano fuori il Decamerone e i sonetti del Belli,  Stecchetti e Carducci. Dopo 17 anni, il 27 giugno  ’28, alle opere vietate con il primo decreto furono aggiunte tutte quelle scritte successivamente, elencando “tragedie, commedie, misteri, romanzi, novelle, poesie”., ritenute “offensive  della fede e dei costumi”. Tracorrono 7 anni, e il 3 luglio ’35  viene inserito il “Libro segreto”, perché in esso “gareggia la sfrontatezza della immoralità con affermazioni di errori spesso empi e blasfemi”.  Fino alla condanna postuma  del “Solus ad solam”, comminata il 21 giugno ’39, più di un anno dopo la sua morte.

L’accanimento è evidente, dato che oltre alla condanna postuma ci fu quella preventiva del “Martirio di san Sebastiano”,  all’origine della prima condanna del 1911, pur se generalizzata; infatti  il divieto intervenne all’annuncio dell’opera il 2 febbraio e la condanna all’Indice 14 giorni prima della sua rappresentazione a Parigi avvenuta il 22 maggio. “Civiltà Cattolica” il 4 febbraio l’aveva definita  “insulto sanguinoso non solo alla coscienza morale, ma a quanto vi è di più delicato nella coscienza religiosa”, proclamandone il boicottaggio  con parole di fuoco: “Nessuna donna italiana assista a questa degradazione morale, camuffata di misticismo; e si vergogni, e esca col marchio della pubblica riprovazione colei, se pure vi sarà, che oserà intervenire”.

L’artista si difende come può dinanzi alla violenza del potere, questa volta religioso, usando la forza della parola. Con Debussy, autore della musica, dichiarò: “Quest’opera, profondamente religiosa, è la glorificazione lirica, non soltanto del meraviglioso atleta di Cristo, ma di tutto l’eroismo cristiano”. E aggiunse: “Ho voluto che neppure un particolare avesse ad offendere il più fedele cattolico… nessun a opera è più puramente mistica e più semplicemente ortodossa della mia… Ripeto, il mio ‘Mistero’ è percorso in ogni scena da un ardentissimo soffio di vita. Vi è continua la presenza invisibile di Cristo”. Fino allo sfogo sul periodico francese “Comoedia” : “E ora, proprio quando il mio spirito si volge al Cristianesimo, quando sto per realizzare il mio sogno, accarezzato per molti anni, di esprimere tutta la mia fede, ora si vieta il San Sebastiano”.

Non vogliamo dire che fosse giusto ritenerla degna dell’Imprimatur, come lui afferma citando l’approvazione di “un ecclesiastico”. Tra le luci e ombre che vengono evidenziate, Giuseppe Pecci pone in rilievo che  “la sensualità e la lussuria hanno una evidente prevalenza sullo spirito”, mentre il cattolico Eugenio Coselschi  scrive che “è un’opera di profondo senso e ritmo religioso” e vi trova “sublimi slanci di religiosità e spiritualità come l’appassionata invocazione a Cristo”.

Nella Piazzetta antistante il Vittoriale  ai piedi del Palo dalmata nel 1925

 

Era l’inizio di una vera crociata che il 3 ottobre ‘27 si tradusse nell’ostracismo dell'”Ossevatore Romano” con l’articolo su “L’arte dannunziana e le nuove generazioni”, e la successiva messa all’Indice dopo l’“Istruzione contro la letteratura sensuale e sensuale-mistica” emanata dal cardinale Merry del Val, nella quale queste opere venivano definite “facili calici di veleno”.

D’Annunzio fu preso di mira direttamente con l’“Allocuzione” del Pontefice  ai predicatori della quaresima ed ai parroci di Roma del 20 febbraio ’28, quattro mesi prima della nuova messa all’Indice, che condannava “l’apoteosi libraria a un autore, del qual già tanti libri sono espressamente condannati dalla Chiesa, e tanti altri sono già condannati per sé stessi, ad un  autore che, è triste dirlo (tanto più triste quanto meno si possono negare i tanti doni che dalle mani di Dio gli furono concessi di ingegno, di fantasia, di fecondità creatrice) è passato per tante materie e tanti campi raramente non lasciando qualche brutta traccia di empietà, di blasfemia, di profanazione delle cose anche più sacre, forse in parte inconsapevole (giova sperarlo a diminuzione della sua responsabilità)  o di una sensualità spesso rivoltante”.

Non basta, la requisitoria è spietata: “E quando non è l’uno o l’altro di tal genere di cose, quando non si offende un a determinata categoria di moralità, scalza le basi della moralità stessa praticando quella – se tale può dirsi – dottrina di superumanità, di superomismo che lascia la moralità ai piccoli mortali, agli uomini comuni, per riservare ai superuomini di crearsela loro la moralità che risponda alla loro superumanità”.

Eppure cinque anni prima, il 7 febbraio ’23, il cardinal Gasparri, cui aveva  inviato una foto con dedica, gli aveva scritto che ricambiava “pregando il Signore che le sue annunziate ascensioni spirituali lo innalzino  dalle immagini del  bene e del bello fugace  alla pienezza del bene e del bello infinito ed eterno!”.  Piero Bargellini, scrittore cattolico di vite di santi, gli rende merito affermando: “Forse bisognerà dimenticare l’epiteto di poeta della lussuria, che non gli risponde a pieno. D’Annunzio si è valso della lussuria per una sorta di conoscenza e una sorta d’ascesi. Quel che per altri è piacere, per lui è sacrificio e conoscimento… ‘La carne, non è se non uno spirito devoto alla morte”. Tanto che la cita e la indaga nei suoi “libri erotici. E ha temuto la morte”.

Sono soltanto degli scampoli su temi molto vasti e profondi che richiederebbero di penetrare nel suo profilo interiore, dove si trova l’opposto di tante ingenerose e immeritate accuse: la bontà e l’umiltà, l’angoscia esistenziale, il timore della malattia e il senso della morte rispetto al superomismo al di là del bene e del male che gli viene superficialmente rinfacciato; l’intensa spiritualità, rispetto al materialismo della carne e della sensualità fine a se stessa espresse dalla vita libera e libertina.

Abbiamo voluto evocare lo scontro dell’artista con un potere diverso da quello politico, il potere religioso delle gerarchie ecclesiastiche, che dopo l’Indice dei libri proibiti cercarono invano di impedire la pubblicazione dell'”Opera Omnia” nelle edizioni popolari dell’ “Oleandro” nel 1930.

Quali le ferite rimaste e quelle risanate in chi è stato colpito d’incontro proprio quando –  ripetiamo le sue parole del 1911 – “il mio spirito si volge al Cristianesimo”?  Ne parleremo prossimamente.

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293, e la parte terza, “Il mistero”, sulla religiosità, pp. 293-470; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118;.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.I primi due articoli, dei sei del servizio, sono usciti, in questo sito, il 12 e il 14 marzo , ciascuno con 6 immagini, i successivi tre articoli usciranno il 18, 20, 22 marzo 2013, con 6 immagini ciascuno. Cfr, .inoltre, l’ intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, in http://www.100.newslibri.it/,  l’11 marzo 1913, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”.

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 272-280) che le ebbe dalla Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: D’Annunzio notturno al Vittoriale; seguono D’Annunzio nell’arrivo a Cargnacco e D’Annunzio con i membri del Comitato nazionale dell’Istituto nazionale per la pubblicazione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio nel 1936; poi, D’Annunzio con Tazio Nuvolari nella Piazzetta Dalmata, e D’Annunzio nlla Piazzetta antistante il Vittoriale  ai piedi del palo Dalmata nel 1925; in chiusura D’Annunzio con i suoi levrieri sulla terrazza del belvedere nei giardini del Vittoriale nel 1932.

Con i suoi levrieri sulla terrazza del belvedere nei giardini del Vittoriale nel 1932

D’Annunzio, 2. L’arte contro il potere, fino all’esilio in patria

di Romano Maria Levante

Ripubblichiamo il 2° articolo, dopo il primo uscito il 12 marzo 2021, mentre gli ultimi 4 usciranno dal 14 al 17 marzo, tutti già pubblicati sul sito www.arteculturaoggi.com nel 150° anniversario della nascita il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013.

Nel 150° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio, avvenuta il 12 marzo 1863, ne ricordiamo la figura inimitabile seguendo il filo rosso dei rapporti tra arte e potere, evocati dalle mostre romane sui “Realismi socialisti” e “Deineka”. Abbiamo già parlato dell’artista superuomo nell’umiltà, con la gente che “s’ingigantiva” in lui; quindi del suo carisma, per la forza trascinatrice del pensiero e della parola, attraverso la sua partecipazione attiva alla prima guerra mondiale e l’impresa di Fiume; infine dell’artista osservato speciale, l’ispirazione e l’azione sotto gli occhi del potere. Dopo i suoi primi accenni alla pacificazione davanti alle vittime negli scontri fratricidi a Fiume, si passa al suo disegno per l’Italia ispirato alla pacificazione nazionale. Ne parliamo adesso, anche nei suoi rapporti con Benito Mussolini, fino all’esilio dorato al Vittoriale sul Lago di Garda.

In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani

Conclusa la prova di Fiume, il vero confronto tra arte e potere si ebbe nei riguardi del movimento fascista, non ancora entrato nelle istituzioni, ma sempre più minaccioso, aggressivo e impaziente.

Il confronto tra artista e potere emergente: il disegno di pacificazione nazionale

D’Annunzio, che si trovava a Milano per motivi editoriali presso l’albergo Cavour, il 3 agosto ‘22 fu chiamato perché parlasse dal balcone di Palazzo Marino dai fascisti che avevano occupato il Municipio nella mobilitazione contro lo sciopero generale; Finzi e Teruzzi, racconta Umberto Foscanelli, lo convinsero dicendo: “Non siamo noi che vi reclamiamo, ma il popolo milanese, Comandante”. Tenne il discorso “Agli uomini milanesi per l’Italia degli italiani”: “O fratelli, siete l’unanimità del fervore innumerevole; siete la concordia del consenso innumerevole. Mentre la passione di parte tuttavia arde, mentre tuttavia fumano le arsioni e sanguinano le ferite, mentre il volto della Patria è tuttavia velato, noi qui invochiamo la pace e onoriamo la bontà. Sento fremere intorno a me la giovinezza generosa che tende la mano aperta non più in atto di sfida ma in atto di promessa, non più in atto di minaccia ma in atto di protezione. Quando mai, nel travaglio del mondo, la bontà ebbe forza e pregio come in questa nostra vigilia tormentosa e turbinosa?” E ancora: “La bontà ha le sue faville, e tutte le faville secondano la fiamma grande. Vedo in voi sfavillare la bontà efficace e militante, la bontà affermatrice e creatrice, la bontà dei lottatori e dei costruttori: la bontà vittoriosa”. “La folla – si legge nel “Libro ascetico” – dopo un grido confuso e prolungato… erompe in acclamazioni senza fine. Tutte le bandiere e tutti i gagliardetti si agitano”.

Sono bandiere e gagliardetti fascisti trascinati verso un itinerario di “bontà vittoriosa” che non era solo un messaggio spirituale da artista sognatore, quanto un disegno lungimirante di pacificazione nazionale inserito in un progetto politico non inerte e imbelle, dato che pensava di realizzarlo con la spinta di un’adunanza di ex-combattenti di ogni parte politica: “Essi imporranno al Paese – diceva – la loro volontà di unione e di pace. Dove? Quando? Fra due mesi, forse. Vi saranno migliaia di bandiere. Tenetevi pronti. E poi? Un governo provvisorio, la fine della guerra civile, le elezioni in un regime di libertà. ‘Sine strage vici'”. Per questo disegno tesseva una trama complessa della quale citiamo due aspetti in cui spicca l’impronta dell’artista insieme alla strategia del politico.

Il primo aspetto sono riguarda gli obiettivi, così definiti da Paolo Alatri: “Ciò a cui D’Annunzio mirava era di porsi come pacificatore al di fuori della mischia, che in quel periodo, con l’offensiva squadristica, era feroce… quest’opera di pacificazione implicava il coinvolgimento del mondo del lavoro e delle sinistre, quindi una presa di contatto con i loro rappresentanti, il che spiega i colloqui dell’aprile-maggio ’22 e, subito dopo, la protezione accordata alla Federazione italiana lavoratori del mare di Giulietti”; e, forse, spiega anche l’incontro del 27-28 maggio dello stesso anno con Cicerin, il Commissario agli esteri della Russia, che dopo il colloquio disse: “Fui sorpreso di trovare in D’Annunzio un sentimento vivo di simpatia per le lotte sociali degli oppressi”.

L’altro aspetto riguarda i modi con cui intendeva attuare questo disegno, e basta riportare quanto scrive Foscanelli: “Il rifugio di D’Annunzio a Cargnacco era diventato una specie di tempio delfico cui si accostavano tutti coloro che sentivano come il fascismo si facesse ogni giorno più forte e aggressivo”. Sembra addirittura che, prendendo atto della situazione, lo stesso Mussolini lo sollecitasse a un impegno politico diretto. Lui accoglie soltanto l’invito che veniva da Nitti per promuovere l'”unione delle forze più sane” della democrazia, del socialismo, del fascismo nella linea della pacificazione nazionale, antitetica alla linea perseguita dal fascismo: “Tu vedi il pericolo e tu puoi agire sulla gioventù, infiammarla e riportarla sul buon sentiero”, gli scriveva Nitti proponendo un “programma di salvezza per l’Italia” e superando il risentimento per le vicende di Fiume dove il Comandante gli aveva rifilato l’epiteto dispregiativo di “Cagoja”.

Con Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia, in visita al Vittoriale, maggio 1922

 Un primo successo del potere: il progetto di pacificazione è neutralizzato

Ora la parola passa alla dura logica dei fatti, a una realtà che sconvolge tutti i programmi. Mussolini mostrò di aderire al progetto di pacificazione, presumibilmente per controllarlo e cercare di vanificarlo come aveva fatto con l’impresa di Fiume, chiedendo solo che prima dell’intesa a tre si incontrassero Nitti e D’Annunzio. Questo incontro, fissato per il 15 agosto ‘22, non ci fu mai. Mentre Nitti stava partendo per l’appuntamento con un salvacondotto di Mussolini a protezione dalle violenze squadriste, alle ore 23 del giorno 13, praticamente la vigilia di ferragosto, ecco il “deus ex machina”: la misteriosa caduta dalla finestra che tenne D’Annunzio per molti giorni tra la vita e la morte per le ferite alla testa, descritte poi in modo romanzato nel “Libro segreto”.

Non ci soffermiamo sulle versioni e le ipotesi fiorite intorno a questo giallo, dalla caduta accidentale al gioco erotico alla baruffa per questioni di gelosia; e neppure sulle conclusioni – “casualità” senza escludere il “fatto colposo” – dell’indagine del Commissario Dosi, spacciatosi da pittore di farfalle e paesaggi per entrare al Vittoriale e gratificato dell’appellativo di “lurido sbirro” appena la sua identità fu scoperta. Nino Valeri si è chiesto: “Fu un gioco del caso? Ancor oggi gli elementi non ci consentono di dar corpo alle ombre accumulatesi sul fosco episodio”. E questo per la cronaca può bastare.

Dal nostro angolo di visuale ci interessano le parole, riportate nel “Libro ascetico”, che l’artista scrive nel “Commento meditato a un discorso improvviso”: “C’è chi tuttora allude, presso il mio letto… non già a una mia caduta mistica di arcangelo esiliato o d’angelo mutilato ma a non so qual mia caduta d’uomo”, che più avanti definisce causata “da non so che tradimento o da non so che provvidenza”; e le parole scritte nel “Diario della volontà delirante e della memoria preveggente”: “Veramente io sono stato precipitato dalla rupe tarpea. E la lupa capitolina non ha forzato le sbarre della sua gabbia, né Marco Aurelio è disceso dal suo cavallo e dal suo piedistallo”. Alla data del 20 agosto descrive la sua caduta così: “Non sono caduto come un arcangelo folle né come un angelo stanco. L’Italia m’ha gettato dalla rupe tarpea, m’ha precipitato dal monte della cieca giustizia”, frase riferita anche da Tom Antongini che la sentì pronunziata da lui “nei primissimi giorni della convalescenza presenti almeno una ventina di persone”.

Fatto si è che per la conquista del potere da parte del fascismo la neutralizzazione dell’artista che ne stava sconvolgendo le mire, e quindi il sabotaggio al suo disegno, fu provvidenziale. Tre giorni prima, il 10 agosto, c’era stata la drammatica denuncia di Treves alla Camera: “Il fascismo vuole il potere, tutto il potere. Mentre dice che non ha ancora risoluto l’equivoco, se esso è totalitario o insurrezionale, l’insurrezione è vittoriosa. Può darsi che oggi o domani si decida a violare le porte del Parlamento come ha violato quelle dei Municipi”. Quasi a volergli rispondere, in un’intervista pubblicata l’11 agosto sul “Mattino” di Napoli, Mussolini definì un’eventuale “marcia su Roma… non ancora, politicamente, inevitabile e fatale… Che il fascismo voglia diventare ‘Stato’ è certissimo, ma non è altrettanto certo che per raggiungere tale obiettivo si imponga il colpo di Stato. Bisogna però noverare questa tra le possibili eventualità di domani”.

E il domani, anzi il dopodomani essendo il 13 agosto, dopo la richiesta al Governo del Comitato centrale del partito fascista di sciogliere le Camere per convocare le elezioni, Mussolini dichiara: “Per diventare Stato noi abbiamo due mezzi: il mezzo legale delle elezioni e il mezzo extralegale della insurrezione. Bisogna ponderare prima di prendere una decisione e questa decisione non potrà essere presa che tenendo conto di molti fattori di ordine pratico, politico, ed anche degli imponderabili. Il momento è molto delicato, e occorre pensare bene a tutte le evenienze”.

Nella tarda serata dello stesso giorno si verificò l'”imponderabile”, l'”evenienza” della caduta dalla finestra che impedì l’incontro di D’Annunzio con Nitti bloccando il disegno di pacificazione nazionale e di unione delle forze sane sotto la guida dell’artista. Nino D’Aroma scrive che D’Annunzio aveva confidato a lui, parecchio tempo dopo, che in quel fatale agosto ’22 Mussolini gli aveva proposto di “capeggiare tutte le forze nazionali e di dare insieme vita e sostegno a un governo nuovo che raccogliesse tutte le correnti politiche di buona volontà”; e che lo stesso Mussolini aveva rivelato, sempre a lui, incontrandolo a Piazza Venezia all’indomani della morte di D’Annunzio, che prima dell’estate ’22 gli aveva detto: “Noi siamo fortissimi oggi, ebbene andiamo al governo con i socialisti più comprensivi e, con le leve del potere, imporremo sicuramente, in quarantott’ore, la pace a tutti, rinnovando con adeguate riforme le vacillanti e tarlate strutture dello Stato. Voi dovreste prendere la Presidenza e l’iniziativa, noi vi seguiremo, assistiti questa volta da una nostra forza immensa pronta a tutto!”.

Con Mussolini nella visita del maggio 1925, con loro l’on. Alessandro Chiavolini
e, al balcone, Luisa Baccara

La vittoria definitiva del potere: la pax romana della Marcia su Roma

Una pace siffatta, imposta “in quarantott’ore”, non può essere che una “pax romana”, il contrario della pacificazione perseguita da D’Annunzio, imperniata sulla fraternità; e simile invece a quella evocata da Mussolini rivolgendosi ai fascisti il 24 agosto ’22, con l’artista ancora in gravi condizioni: “Il momento per noi è propizio anzi direi fortunato. Se il governo sarà intelligente ci darà il potere pacificamente; se non sarà intelligente lo prenderemo con la forza. Dobbiamo marciare su Roma per toglierlo ai politici imbelli ed inetti”.

Pur con questi precisi intendimenti la strategia dei fascisti resta accorta e attendista, cerca di prendere tempo e di controllare le mosse degli altri due protagonisti: il barone Avezzana in una lettera a Nitti del 26 settembre conferma la disponibilità di Mussolini ad un incontro a tre, sempre dopo un preventivo colloquio di Nitti con D’Annunzio, già d’accordo, anzi assicura una scorta per proteggere il viaggio del primo dalle violenze squadriste; il 14 ottobre Schiff Giorgini scrive a Nitti che Mussolini, alla presenza di Tom Antongini in rappresentanza di D’Annunzio, ha precisato che gli incontri fra loro tre si sarebbero potuti tenere tra il 25 e il 30 ottobre dello stesso 1922.

Il 20 ottobre, però, Mussolini si esprimeva con queste parole incompatibili con quelle di una settimana prima: “O il fascismo si afferma e allora sarà un bene per il Paese. O non saremo capaci di affermarci e allora il pallone fascista sarà sgonfiato e il paese troverà un’altra via”. Un’alternativa che Roberto Farinacci traduce in termini di emergenza: “Dunque, bisogna far presto, bisogna cogliere l’attimo felice perché questo stato di eccezionale favore del popolo italiano per il fascismo e di sfavore per il governo e per il regime non può durare a lungo”.

D’Annunzio con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927

 La rottura degli indugi da parte di Mussolini, trascorso qualche altro giorno, sembra fosse dovuta al timore che il carisma di D’Annunzio desse la spinta decisiva per una inarrestabile marcia su Roma quasi a ripetere quella su Fiume. L’evento avrebbe potuto verificarsi il 4 novembre, sull’onda del discorso celebrativo del quarto anniversario della vittoria che, con l’accordo del governo, l’Associazione dei mutilati alla cui testa c’era il grande mutilato Carlo Delcroix aveva chiesto all’artista di tenere nell’adunata di ex-combattenti che sarebbe culminata con la sfilata dei mutilati.

D’Annunzio, in  mezzo a pressioni da ogni parte, già il 25 ottobre, dopo quattro giorni dal solenne annuncio del 21 ottobre, aveva rinunciato  alla manifestazione per non essere strumentalizzato; la notizia della rinuncia fu diffusa il 27 ottobre, ma sin dall’adunata fascista a Napoli del 24 ottobre sembra che Mussolini avesse deciso di anticipare la Marcia su Roma per prevenire la temuta iniziativa dannunziana del 4 novembre, e la rinunzia non cambiò il programma. Oreste Cimoroni  fu molto esplicito: “I fascisti saputo ciò che si svolgeva attorno a Gardone, chiusero bruscamente il congresso di Napoli e precipitarono la Marcia su Roma. Cadeva così il Ministero Facta e Mussolini assumeva il potere”.

D’Annunzio fu avvertito a cose fatte soltanto il 28 ottobre, sebbene la marcia fosse iniziata il giorno prima in Emilia e Lombardia, Toscana e Umbria, con un messaggio perentorio di Mussolini, in palese contrasto con quanto era intercorso nei colloqui per combinare l’incontro a tre all’insegna della pacificazione nazionale e dell’unione delle forze sane: “I giornali e il latore vi diranno tutto. Abbiamo dovuto mobilitare le nostre forze per troncare una situazione ‘miserabile’: Siamo padroni di gran parte d’Italia, completamente e in altre parti abbiamo occupato i nervi essenziali della nazione”. Poi le espressioni ultimative: “Non vi chiedo di schierarvi al nostro fianco – il che ci gioverebbe infinitamente: ma siamo sicuri che non vi metterete contro questa meravigliosa gioventù che si batte per la ‘vostra’ e nostra Italia. Leggete il proclama! In un secondo tempo, Voi avrete certamente una grande parola da dire”.

Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932

 Il prezzo della vittoria del potere sull’arte: il regime, l’esilio al Vittoriale

D’Annunzio rispose lo stesso giorno, insistendo sul disegno di pacificazione che gli sembrava soltanto interrotto: “E’ necessario radunare tutte le forze sincere… Dalla pazienza maschia e non dall’impazienza irrequieta, a noi verrà la salute. I messaggeri vi riferiranno i miei pensieri e i miei propositi, immuni da ogni ombra e da ogni macchia”. Una rassicurazione, seguita da una presa di distanza: “Il Re sa che io sono tuttavia il più devoto e il più volenteroso combattente d’Italia. Rimanga egli tuttavia levato contro le sorti avverse, che debbono essere affrontate e superate. La vittoria ha gli occhi chiari di Pallade. Non la bendate. ‘Sine strage vincit – Strepitu sine ullo'”.

Torna a farsi sentire l’artista, e il 1° dicembre ‘22 scrive che “dopo otto anni di azione dura” è “ripreso da un glorioso amore delle belle idee e della mia arte”.Il suo “sono pronto a dare l’opera mia, il mio colpo di spalla risoluto e robusto” va riferito sempre al suo disegno, ben diverso da quello del fascismo: “Prima di ritirarmi vorrei offrire alla Patria l’unione vasta e divota di ‘tutti i lavoratori'”. E richiamava Mussolini al mantenimento degli impegni di fraterna pacificazione (“iuratae foedus amicitiae”) assunti con il Patto marinaro, chiedendogli di liberarsi “dei consigli ‘avversi’, quasi tutti impuri” con una conclusione eloquente: “Io nulla chiedo, e nulla voglio per me. Intendi? Nulla. Se non potrai togliermi da questa tristezza e da questo disagio spirituale, con fraterna sollecitudine, io me ne andrò nuovamente in esilio, come nel 1912. Preferisco l’esilio allo strazio cotidiano. ‘Non veder, non udir…'”.

E andò effettivamente nell’esilio dorato nella  villa Cragnacco  posta in alto sul Lago di Garda,  che trasformò radicalmente portandovi i suoi cimeli e i suoi simboli, e creando il Vittoriale, che definì, sin dal 22 giugno 1923, scrivendo a Giuriati, “Italia degli Italiani più che qualunque altra terra”.

Il potere si era imposto, ma l’artista non si era arreso, aveva salvato i lari e i penati come Enea che lasciò Troia per una nuova sfida su un campo ancora più vasto. All’inizio dell’“Atto di donazione al popolo italiano” si legge: “Prendo possesso di questa terra votiva che m’è data in sorte, e qui pongo i segni che recai meco, le mute potenze che qui mi condussero”.  Nella “Premessa”  scrive: “Già vano celebratore di palagi insigni e di ville sontuose, io son venuto a chiudere la mia tristezza e il mio silenzio in questa vecchia casa colonica, non tanto per umiliarmi, quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creazione e di trasfigurazione. Tutto, infatti, è qui da me creato e trasfigurato”.  Parla anche di “rivelazione spirituale” e di “testimonianza di dritta e invitta fede”, perché c’è un altro “potere” con cui si confronterà sempre di più, ne parleremo prossimamente. 

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di  Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293, e la parte prima su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118;  la parte terza è su “Il mistero”, la religiosità, pp. 293-470.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti  del libro inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini. Il primo dei sei articoli del nostro servizio è uscito, in questo sito, il 12 marzo, con 6 immagini, gli altri  quattro articoli usciranno il 16, 18, 20, 22 marzo 2013, con altre 6 immagini ciascuno. Cfr., inoltre,  l’intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013, in http://www.100newslibri.it/, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”. 

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 284-289) che le ebbe dalla Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura, In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani;seguono,  Visita a D’Annunzio di Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia nel maggio 1922 al Vittoriale e Con Mussolini durante la visita a d’Annunzio nel maggio 1925, insieme a loro l’on. Alessandro Chiavolini e, al balcone, Luisa Baccara; poi, Con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927 e Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932; in chiusura, Sul MAS-96 nel 1925.

Il Comandante sul MAS-96 nel 1925

 

D’Annunzio, 1. Nel 158° dalla nascita, arte e potere

di  Romano Maria Levante

Ripubblichiamo, a cominciare dal 1° e in successione da oggi 12 al 17 marzo 2021, i 6 articoli già pubblicati sul sito www.arteculturaoggi.com nel 150° anniversario della nascita il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013. Tutti senza alcuna modifica tranne 158° invece che 150° nel titolo di questo primo articolo come virtuale aggiornamento al momento della nuova pubblicazione. Nessun’altra variazione, sono temi sempre attuali, e la testimonianza evocata nei due ultimi articoli resta in tutto il suo valore e la sua portata.

Oggi 12 marzo 2013, l’apertura di un Conclave straordinario, dopo secoli con il papa dimissionario e in vita, coincide con il 150° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio: un parallelointrigante alla luce dei suoi tormentati rapporti con la Chiesa, che mise i suoi scritti all’Indice per ben 4 volte. La Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani” lo celebra nel Convegno di studi “D’Annunzio 150”, all’Aurum di Pescara. Noi lo ricordiamo per i rapporti tra arte e potere, rimessi in gioco dalle mostre del 2010  al Palazzo Esposizioni di Roma sui “Realismi socialisti” e il loro esponente “Deineka”; all’inizio del terzo millennio  c’è stata la mostra “L’uomo, l’eroe, il poeta”, alla Fondazione Roma al Corso nel 2001, per celebrare un protagonista del “novismo” del ‘900.. Nella prospettiva arte-potere rievochiamo l’uomo e l’eroe, gli aspetti personali e politici, senza quelli letterari, in fasi cruciali.

l Poeta-soldato, 1916, in divisa da tenente dei “bianchi lancieri di Novara”
durante la prima Guerra mondiale

I

Per D’Annunzio non si deve parlare di influsso del potere sull’arte, come è avvenuto nella storia umana: dai remoti egizi ai tempi antichi con i mecenati e le committenze, ai tempi moderni con i regimi dittatoriali,  nazismo e comunismo. Anzi, è avvenuto il contrario: l’artista diventa protagonista politico e con il suo carisma fa tremare il nuovo potere mentre si va affermando.  .

Infatti, sebbene il fascismo influisse notevolmente sull’arte, in questo caso abbiamo avuto piuttosto l’influsso dell’arte sul potere: lo si vede nei rapporti di D’Annunzio con il regime e con Mussolini, in Italia l’incarnazione del potere assoluto. Rievochiamo questi rapporti e le vicende anteriori e successive inquadrandoli nella sua figura, in una sequenza che è un pezzo di storia d’Italia.

La difficile convivenza tra arte e potere – che tratteremo in generale  prossimamente,  al termine della rievocazione dannunziana – con lui assume aspetti del tutto peculiari. Ci riferiamo all’ombra che può dare al potere la presa dell’artista sul popolo, in un confronto nel quale il sistema, se è assoluto e dispotico, invece di valorizzarne il contributo cerca di neutralizzarlo per il pericolo che nasca o si rafforzi un potenziale concorrente. Ben diversa la situazione nel sistema democratico in cui tutto deve svolgersi alla luce del sole in modo trasparente ed è, o dovrebbe essere, sottoposto al controllo popolare contro ogni tentativo di  prevaricazione.

In D’Annunzio l’immagine di artista era resa ancora più luminosa dalle prove di ardimento fornite, già prima dell’impresa fiumana, come poeta-soldato impegnato in pericolose missioni nella guerra 1915-18: in particolare in montagna, sul Veliki e sul Faìti; in mare, sulla silurante “Impavido” fino al MAS della Beffa di Buccari; in aria, nelle ricognizioni sul Carso e sulla Bainsizza, su Parenzo e su Pola, su Trieste e nel bombardamento sulle Bocche di Cattaro fino al volo di sfida su Vienna.

Sono prove di ardimento che davano corpo ai suoi motti, da “Memento audere semper” a “Più alto più oltre”, da “Ardisco non ordisco” a “Sufficit animus”, da “Semper adamas”  a “Prima squdriglia navale, Il Comandante”; e lo immergevano in un clima eroico tra l’angoscia per i caduti – tra essi i piloti più amati, Bailo e Barbieri, Bresciani e Prunas, su tutti Locatelli e Miraglia per lui “dimidium animi” – e l’umanità dei commilitoni, ai quali era unito dalla solidarietà in trincea e negli assalti nel fuoco nemico o nell’orrore della decimazione, nel filo della fraternità con gli umili fanti..

D’Annunzio a Gradisca, ottobre 1915

 

L’artista superuomo nell’umiltà, le gente “s’ingigantisce” in lui

Ne sono testimonianza gli episodi riportati nei suoi scritti autobiografici.

Ecco dal Libro segreto: “Che mi vale ogni specie di gloriola? Qual lode gretta e guardinga può rivelare me a me stesso, in confronto dei riscontri improvvisi che mi vengono dai miei pari noti e ignoti?” Alcuni  riscontri sono nel Libro Ascetico, quando dice al mutilato: “Come te, io sono minore della Patria; e sono minore di te, minore di tutti… Le lacrime chiamano le lacrime. La pietà chiama la pietà. La bontà chiama la bontà”. Si dipana “il filo della fraternità umana” dalla deposizione dalla Croce con Giuseppe d’Arimatea, di cui vanta le stesse iniziali, alle trincee del Carso: nell’episodio dei due fanti che sotto le granate gli offrono da bere le poche gocce d’acqua piovana raccolte con un filo di paglia, rievocato con toni commossi; e in quello del  fante abruzzese che gli dice “”E chi sti’ fa a ècche? Vàttene! Vàttene!  Si i’ me more, n’n è niende. Ma si tu te more, chi t’arrefà?”. Dalla “Licenza” della “Leda”, il fante che si schermisce dicendo: “L’aije muccicate, ‘gnore tenende” nel dargli un pezzo di pane, che lui chiama “il miglior pane ch’io abbia mangiato , in verità, da che ho denti d’uomo. E’ il pane dell’umiltà e della fraternità insieme”.

Ancora nel Libro Ascetico, dinanzi all’uccisione di tanti commilitoni scrive: “Credo che oggi potrei chiamarmi il primogenito dei morti. Da più settimane io vivo con loro, vivo morendo e risuscitando in loro, rimango coricato presso di loro”; lo ripete dinanzi all’orrore della decimazione. E nelle ultime pagine si congeda da loro con queste parole: “Tutto quel che di me non può perire, ad essi io lo debbo. E tutto quel che di più divinamente umano in me vive, da essi ha origine”.  Nel suo letto di degente dopo la caduta dell’agosto 1922, mentre gli antichi commilitoni, anche feriti e mutilati, chiedono di fargli visita, esclama: “Vogliono entrare? vogliono guardarmi? vogliono riconoscermi? Lasciali entrare. Accompagnali al mio capezzale. Il miracolo si snoda”.  Li riconosce ad uno ad uno: “Sono anch’io della medesima razza, della medesima fede, del medesimo comandamento”. 

Scrive anche “e più mi umilio in me e più la mia gente s’ingigantisce in me”, espressione che può essere il sigillo della forza che  può rendere l’artista protagonista attivo e non sottomesso al potere 

Le ferite di guerra, con la perdita dell’occhio destro in una missione aerea, e le medaglie al valore completavano questo quadro che si riflette con immagini suggestive come quelle evocate, dove l’arte raggiunge livelli altissimi di commozione autentica e coinvolgimento corale. L’elemento religioso si unisce a quello eroico e patriottico, con l’aggiunta della fraternità e generosità umana riassunta nel motto “Io ho quel che ho donato”, in una miscela dalla carica travolgente per forza evocativa e capacità espressiva: dai “Taccuini” al “Notturno”, dal “Libro ascetico” al “Libro segreto”, dalle “Preghiere”, di Doberdò, Sernaglia, Aquileia, a “Per la più grande Italia”.

Questo gli diede un forte carisma, espresso in una escalation di proclami e messaggi, invocazioni, e soprattutto azioni che sembrava inarrestabile, fino all’impresa fiumana e  alle iniziative successive. Nella prospettiva dei suoi rapporti con il potere ci piace chiamarlo artista invece che Poeta, l’espressione più usata sul versante letterario o Comandante, la più usata per l’aspetto militare.

Sul Faiti, mentre tiene un discorso, 1917

Il carisma dell’artista: la forza trascinatrice del pensiero e della parola

Abbiamo riportato sopra alcune sue espressioni suggestive in cui trovare le fonti della presa dell’artista sulla gente che si “ingigantisce” in lui. Nel “Notturno” lui stesso descrive come questo carisma si manifestò sin dalla sua orazione davanti alla folla romana in Campidoglio, ancora prima che le imprese eroiche ne accrescessero la portata e la presa popolare. Inizia con l’esaltazione personale: “Vivo alfine il mio ‘Credo’, in ispirito e in sangue. Non sono più ebro di me ma di tutta la mia stirpe”; segue l’esaltazione collettiva: “Il tumulto ha il fiato di una fornace, l’ànsito di un cratere vorace, il croscio di un incendio selvaggio. Trascino e sono trascinato. Salgo per incoronare e salgo per incoronarmi. Una primavera epica mi solleva e mi rapisce… E’ come il dolore di una creazione, è come l’angoscia di una nascita. La folla urla in travaglio. La folla urla e si torce per generare il suo destino… Vedo mille e mille e mille volti, e un volto solo: un volto di passione e di aspettazione, di volontà e di riscossa… La folla è come una colata incandescente. Tutte le bocche della forma sono aperte. Una statua gigantesca si fonde… Tutto è ardore e clamore, creazione ed ebrezza, minaccia e vittoria, sotto un cielo afoso di battaglie ove stride il saettìo delle rondini…”.

Ne ha una conferma esaltante a Fiume, come ricorda nel “Libro segreto”: “In Fiume d’Italia ho conosciuta intera la diversità fra l’orazione scritta e l’orazione improvvisa… Il popolo tumultuava e urlava chiamandomi, sotto le mie finestre la disumanata massa umana estuava ribolliva ristoppiava come la materia in fusione. io dovevo rispondere alla sua angoscia, dovevo esaltare la sua speranza, dovevo rendere sempre più cieca la sua dedizione, sempre più rovente il suo amore a me, a me solo. e questo con la mia presenza, con la mia voce, col mio gesto… Senza determinare la mia eloquenza e il mio accento, accordavo a quel diffuso e confuso clamore non so qual clangore della volontà, non so quali squilli dell’imperio… Una forza non più contenibile mi saliva allora al sommo del petto, mi anelava nella gola…”.

Il D’Annunzio fiumano era tenuto sotto osservazione dal sorgente movimento fascista, e non sfugge all’analisi interessata di Roberto F arinacci che nella “Storia della rivoluzione fascista” ne analizza il grande ascendente: “Egli li agita, questi giovani, e li ricompone in una più alta visione; egli li provoca alla passione e all’azione, e li rivela a loro stessi, li educa a contemplarsi ed a scoprire la bellezza delle loro stesse immagini e dei loro gesti, delle canzoni e dei motti, delle insegne e dei simboli, delle gare e delle cerimonie, anche delle cerimonie religiose, ch’egli suscita e inventa per elevarli, per affinarli, per farli arditi e splendidi”.

Il fascismo ne fu così colpito da emularlo, dal Fascio littorio all’inno “Giovinezza” e al saluto romano che il movimento prese dagli Arditi di Fiume, la camicia azzurra diventa nera e il grido dannunziano  “eia eia alalà”, dall'”alalazo” greco, entra a vele spiegate nel rituale fascista. Con le deformazioni provocate dal potere ogni volta che vuole confrontarsi con l’arte e la cultura.

Lo emulò lo stesso Mussolini, e Paolo Alatri lo dice chiaramente: “L’oratoria dannunziana… si rinvigorì e uscì allo scoperto nella campagna del 1915 per l’intervento e trovò la sua massima manifestazione durante l’occupazione di Fiume. Quella oratoria inaugurò un nuovo stile e una nuova tecnica, che poi, nel regime mussoliniano, domineranno in Italia per oltre un ventennio. Essa non è più diretta a persuadere, ma si rivolge a chi è già convinto e non chiede che un rito collettivo di esaltazione: non fa più ricorso ad alcun tentativo di discorso razionale, ma si appella al sentimento all’istinto alla reazione epidermica. Instaura il dialogo diretto tra l’oratore e la folla che viene chiamata a partecipare a una cerimonia di carattere mistico se non religioso”.

Dopo le  imprese di Cattaro e Pola, dinanzi all’aereo Caproni, ottobre 1917

L’artista nella politica: ispirazione e azione sotto gli occhi del potere

Su quest’onda montante conquistò un forte ascendente personale, che rappresentava già di per sé una minaccia per le mire egemoniche del fascismo. Tanto più che non restava chiuso nella torre d’avorio dell’arte, come di regola avviene, nel qual caso la convivenza con il potere emergente sarebbe stata meno difficile. Sconfinava in un ruolo politico sempre più attivo senza perdere lo spirito creativo e la forza morale, l’ispirazione dell’artista e la sua intensa espressione letteraria.

Renzo De  Felice, riferendosi in particolare al periodo fiumano, osserva che riuscì “grazie alla sua sensibilità di vero poeta, ad aprirsi come nessun altro ad un eccezionale sforzo di comprensione del travaglio morale e sociale, ancor prima che politico, del momento, e dischiudersi alle nuove realtà, ai nuovi problemi, alle nuove soluzioni umane e sociali e, dunque, politiche, confusi quant’altri mai, ma che erano comuni a vasti settori degli ex-combattenti e della gioventù… e sia pur marginalmente, anche ad altri gruppi sociali… in nome di nuovi valori che non si sapeva bene individuare e definire, ma di cui si sentiva la necessità”.

E se la sensibilità di poeta gli faceva avvertire la necessità di nuovi valori, gli dava anche l’impeto creativo e la forza trascinatrice, ancora una volta colta dall’attento Farinacci: “D’Annunzio esaltava la ribellione, educava e formava fra i suoi un’anima di guerra contro l’Italia ufficiale, suscitava in loro la gioia, anzi l’orgoglio di aver violentato la tradizione e la legalità, rompeva quell’abito italiano di obbedienza passiva e rassegnata che sempre aveva permesso al Governo in Italia di essere il despota impunito di ogni compromesso e di ogni viltà”.

Pietro Badoglio, nelle sue “Rivelazioni su Fiume” dove ne era stato l’antagonista, nel constatare che “era un gran suscitatore di energie, un prodigioso eccitatore di masse”, pur osservando che “egli era poi sensibilissimo all’applauso rumoroso ottenuto nell”arengo’, e l’urlo della folla gli menomava il senso della compostezza nelle parole e quello dell’equilibrio nelle decisioni”, riconosceva che “lontano dalla massa degli esaltati, egli ragionava con grande acume, con visione netta della realtà e, soprattutto, con cuore di grandissimo italiano”.

Del resto a Fiume ci fu un’esperienza di governo piena, con l’adozione della Carta del Carnaro che, come ha rilevato Nicola Francesco Cimmino, fu “concepita e impostata da Alceste De Ambris e scritta da D’Annunzio che le dette forma, creando per la prima volta – e forse per l’ultima – un documento di diritto che è, al tempo stesso, una pagina di poesia”. Si sente la mano dell’artista che mette a frutto il proprio carisma per realizzare un disegno complesso e ambizioso sul piano politico e sociale: “Già a Fiume, osserva ancora Cimmino, nella lotta – talora sorda, talora palese – che nella città si facevano sindacalisti e nazionalisti, egli fu per i primi, ma assorbendo nelle loro aspirazioni sociali le istanze della nazione”.

L’avventura di Fiume è istruttiva sia per l’artista sia per il potere emergente, che voleva fare tesoro a proprio vantaggio della prova generale rappresentata dal dannunzianesimo fiumano. Per D’Annunzio si trattò di una verifica sul campo, portata fino all’azione di governo, della carica rivoluzionaria e trascinatrice delle sue idee e del suo carisma; per i fascisti fu un prezioso insegnamento su come si poteva rompere l’abito italiano di obbedienza passiva e rassegnata e dare la spallata decisiva al governo, definito despota impunito di ogni compromesso e di ogni viltà.

Intanto, nel timore che la valanga dannunziana divenisse inarrestabile, il fascismo della prima ora, ancora fuori dalle stanze del potere costituito, diede solo un tiepido sostegno all’amministrazione provvisoria di Fiume, sfruttando sul piano politico l’indebolimento del governo centrale ma guardandosi bene dal rafforzare la posizione di D’Annunzio, anzi dando il colpo decisivo per affondarlo al momento opportuno. Che si ebbe con il Trattato di Rapallo, concluso il 12 novembre e approvato dalla Camera il 27 novembre del ‘20 con pochissimi voti contrari, accettato da Mussolini riconoscendo “la dolorosissima rinuncia” della Dalmazia, nonostante fosse stato respinto da D’Annunzio tanto da occupare, il 13 novembre, le isole di Arbe e Veglia andate alla Jugoslavia.

Fu una prova generale non solo per l’insegnamento ricavato dal fascismo, ma anche per il modo con cui il movimento fascista concorse all’affossamento, con l’intento di impedire al protagonista dell’avventura fiumana di puntare a un ruolo ugualmente decisivo a livello nazionale.

Durante l’impresa fiumana

Il confronto tra artista e potere emergente: il disegno di pacificazione nazionale

Benito Mussolini inizialmente minimizzava pensando che a Fiume vi fosse “più Rinascimento che Risorgimento”, e chiedendosi se in D’Annunzio “vi fosse più desiderio e amore di una vita eroica o di una immagine bella dell’eroismo”. Ma non poteva chiudere gli occhi dinanzi alla realtà e sottovalutare l’impatto che tutte queste cose insieme potevano avere, perché al di là dei reali contenuti della vita eroica non si poteva dubitare sulla capacità di darne, con la forza della creazione artistica, un’immagine in grado di coinvolgere le masse sul piano dell’azione rivoluzionaria e anche dei contenuti, ispirati a idee evocative e coinvolgenti. Scontrandosi per ciò stesso con il potere costituito e con chi voleva far prevalere il proprio potere. E c’era Farinacci a ricordare  che “D’Annunzio era un uomo di guerra e di azione e sapeva parlare in modo che i legionari l’avrebbero seguito fino al sangue, fino a più vasta guerra civile”.

Ecco come aveva parlato con loro nell’ultimo appello prima dell’abbandono: “Dal primo all’ultimo siete tutti eroi… il mio Dio, il vostro Dio, sia ringraziato… Mi sembrate creature del mio spirito. Ed ora mi apparite più belle delle mie creature”. Mentre nell’allocuzione del 2 gennaio ’21, davanti ai corpi dei morti delle due parti nel cimitero di Cosàla,  disse che se Cristo come con Lazzaro li avesse risuscitati “su dai coperchi non inchiodati ancora, io credo che essi non si leverebbero se non per singhiozzare e per darsi perdono e per abbracciarsi”. E’ il tema della pacificazione, che sarà un discorso politico per una sfida al potere sul campo già coltivato con le intense parole dell’artista.

Se Fiume è stata la prova generale, per il vero confronto tra arte e potere emergente occorre fare un salto in avanti di quasi due anni, allorché la vicendadannunziana avrà come palcoscenico la politica nazionale, sempre sotto l’attenta vigilanza fascista. Ma di questo parleremo prossimamente

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, cfr. in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118, la parte terza su “Il mistero”, la religiosità, pp. 293-470.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527.  Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini. Iniziamo oggi un servizio in sei articoli sui principali motivi dannunziani, i successivi 5 articoli usciranno, in questo sito, il 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013. Cfr. l’intervista di Anna Manna all’autore  del libro citato per il 150° dalla nascita di D’Annunzio, l’11 marzo 2013, in  http://www.100newslibri.it/.

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal libro-inchiesta sopracitato di Romano Maria Levante (pp. 272-280) che le ebbe dalla  Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: Il Poeta-soldato, in divisa da tenente dei “bianchi lancieri di Novara” durante la prima guerra mondiale nel 1916; seguono A Gradisca nell’ottobre 1915Un discorso sul Faiti nel 1917; poi Dopo le  imprese di Cattaro e Pola, dinanzi al Caproni, nell’ottobre 1917 e Il Comandante durante l’impresa fiumana; in chiusura la Copertina del  citato libro-inchiesta dell’autore. 

Copertina del libro-inchiesta dell’autore


17^ Quadriennale d’Arte, 5. “Fuori”, riflessioni sull’arte contemporanea, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Termina il nostro servizio sulla  17^ edizione della Quadriennale d’Arte nel quale finora abbiamo raccontato la mostra “FUORI”  al  Palazzo delle Esposizioni  curatori Sarah Cosulich direttore artistico della Fondazione Quadriennale di Roma, e Stefano Collicelli Cagol – che ha esposto le opere di  43 artisti. Concludiamo con riflessioni sulla comprensibilità dell’arte contemporanea dal grande pubblico, e sulle chiavi interpretative. La  mostra, inaugurata il 20 ottobre 2020,  dopo la forzata chiusura per il Coronavirus è stata riaperta il 4  febbraio 2021, e lo resterà fino alla primavera; ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci. Realizzata dalla Fondazione, ha collaborato l’Azienda speciale Palexpo, con il contributo del  Ministero per i Beni e le Attività culturali e il Turismo. Catalogo  della Treccani, bilingue.  

Cynzia Ruggeri

Questa “17^ Quadriennale d’Arte” fa tornare di attualità il problema generale della comprensibilità delle opere d’arte contemporanea, ben al di là dei problemi interpretativi che pongono quelle esposte nella mostra. La 16^ Quadriennale d’Arte  del 2016 era imperniata su 10 percorsi tematici, con altrettanti  curatori che avevano selezionato ex post le opere più consone a tali percorsi. L’attuale 17^ edizione sembra imperniata, fino a sembrarne  ossessionata, sul rovesciamento di alcuni residui del passato, dal patriarcato al colonialismo, con iconoclastia delle memorie monumentali del regime e nel presente sulla tematica gender, omosessuale e femminista, per la quale viene riletta anche l’arte del ‘900, in particolare gli ultimi sessant’anni, per far emergere e presentare i precursori di tali temi che si lamenta essere stati trascurati. 

Definimmo “un salto nel futuro”  la mostra del 2016;  su questa del 2020 abbiamo parlato di “testa rivolta al passato” per molte delle espressioni artistiche le cui ispirazioni ci sembrano retrospettive. Perciò ne siamo rimasti sconcertati e lo abbiamo manifestato esplicitamente, al punto da porre l’interrogativo sui limiti dell’arte contemporanea,  che veniva avanzato già agli esordi dell’astrattismo e dell’espressionismo, della Pop art e del concettualismo, ma non sono mai arrivati agli estremi  cui si assiste nel momento attuale.

Lydia Silvestri

Secondo il presidente della Quadriennale Umberto Croppi, l’arte contemporanea non è incomprensibile: e sembra sia così stando agli elementi forniti dai curatori nella loro introduzione e  alle dettagliate quanto impegnate schede che di ogni artista e delle sue opere spiegano ampiamente il significato. Come si possono definire incomprensibili opere illustrate esaurientemente nei loro significati reconditi?

Cominciamo dalle spiegazioni che vengono fornite, spesso quanto mai  cerebrali e lontane dalla possibilità dei non iniziati di immaginarle sia pure lontanamente; tanto che in questi casi non infrequenti l’interprete appare ancora più “creativo” dell’autore,  anzi sembra volersi sovrapporsi ad esso, in una sorta di virtuale  ”appropriazione” dell’opera. Non ci si deve stupire se è incomprensibile per i non iniziati i quali, oltretutto, non hanno la possibilità di far sì che gli autori rivelino loro gli intendimenti contenutistici, se ne hanno avuti, perché spesso la creatività è frutto di un impulso immotivato e indecifrabile anche per loro.

Zapruder Filmmakersgroup

Questo ci porta a cercare di risalire alle motivazioni  di tale incomprensibilità, sia essa assoluta sia relativa, e alle ragioni del suo superamento sia pure nelle condizioni cui abbiamo accennato. L’interprete “creativo”,  cioè il critico d’arte e nella circostanza i due curatori della Quadriennale, è parte in causa, quindi dobbiamo cercare posizioni neutrali, vicine al pubblico che considera l’arte contemporanea spesso incomprensibile: perciò è bene non liquidare tale constatazione con un diniego, ma al contrario approfondirne le ragioni.

Ci aiutano ad approfondirle osservatori impegnati nel giornalismo culturale, crediamo non si considerino “critici d’arte”, noi ci definiamo “cronisti d’arte” perché raccontiamo le  mostre viste con l’occhio del visitatore avveduto, usando il linguaggio comune, non quello troppe volte criptico di tanti iniziati.

Guglielmo Castelli

Perché l’Arte contemporanea sembra “spazzatura”?

 In queste riflessioni sull’arte contemporanea, ispirateci anche dai limiti a cui si è spinta l’attuale “17^ Quadriennale d’Arte”, occorre innanzitutto rispondere a una prima domanda che taluni osservatori si sono posti, in modo da sgombrare il campo da un quesito pregiudiziale: “L’arte contemporanea è solo spazzatura?”  Se l’è posto nel luglio 2016 Gianfranco Missiaja, docente di architettura e artista con 75 mostre in Europa, America, Giappone, osservatore qualificato  e insieme parte in causa.

La domanda non è peregrina e improponibile come potrebbe apparire, anche se a prima vista può sembrare stravagante. Nasce  dalla vista di “gallerie occupate da opere d’arte realizzate attraverso esercizi concettuali incomprensibili, esposizioni sommerse da installazioni che sembrano discariche, animali impagliati battuti all’asta per due milioni di dollari”; e dallo “scoprire alla Biennale delle performance di negri che si sodomizzano con le banane, sapere che scatolette di merda, firmate e numerate, vengono vendute a peso d’oro e che certe tele imbrattate e scarabocchi vengono acclamati dai critici d’arte”; e anche “di fronte al degrado di molti musei trasformati in supermarket, grandi magazzini affollati da chi ricerca solo mostre-evento, invasi da orde di turisti maleducati ed incivili”.

Daar Sandi Hilal-Alessandro Petti

Per la risposta Missiaja cita “L’inverno della cultura” di Jean Clair, lo pseudonimo di Gèrard Regnier, membro dell’Académie francaise, conservatore al Musée national d’art moderne, già direttore del Museo Picasso e commissario di importanti mostre, in particolare delle monografiche su Balthus e Duchamp e delle tematiche sulla “Malinconia” e su “Delitto e castigo”, direttore nel 1994 e 1995 della Biennale di Venezia; questo per il passato, ma Clair sarà anche il curatore della grande mostra celebrativa del 7° centenario di Dante, “Inferno”, che si aprirà nell’ottobre 2021 alle Scuderie del Quirinale. Dunque non è un contestatore ribelle, ma “un raffinato intellettuale” che “non ha niente da spartire con la maggior parte dei critici attuali intenti soprattutto ad assecondare le mode e il gusto corrente”. Ebbene, nella sua opera del 2011, che fa seguito a saggi come “De immundo” del 2005,  Clair parla di  “degenerazione dell’arte contemporanea” che purtuttavia, e forse per questo,  anche nelle sue espressioni più problematiche per autori pompati dalla critica può avere quotazioni superiori ai grandi maestri rinascimentali. Si tratta solo di operazioni di marketing che, nella citazione che ne fa Missaja, “nulla hanno a che fare con il sentimento ed il piacere di gustarsi un prodotto della maestria, delle capacità, del talento e dell’esperienza di anni di impegno, di studio e di duro lavoro per imparare, ma manifestazioni estemporanee, che possono essere distrutte dopo la loro esposizione”.

Priva di un retroterra culturale, l’arte contemporanea sembra essere “una operazione di marketing” perché “non la bravura in senso lato dell’artista, non le sue capacità, non la sua esperienza e cultura, ma solo il mercato decreta il valore dell’opera”; il mercato a sua volta è “promosso da curatori, critici, galleristi ecc. che cercano di portare alle stelle il valore di manifestazioni e oggetti esposti a scopo di lucro”.

Francesco Gennari

Se le cose stanno così, ammonisce Clair-Regnier nelle citazioni di Missiaja, “vi ritroverete di fronte ad un grande bluff: un’immensità di spazzatura da buttare rappresentata da opere ormai catalogate da critici, galleristi e istituzioni pubbliche e private ormai dichiaratamente affermate per far parte, indissolubilmente, della storia dell’arte”. Immeritatamente, sottintende, come effetto speculativo, mentre in realtà  “siamo arrivati al crollo di una estetica e di una cultura millenaria”, dal momento che  “oggi gli artisti sembrano testimoni di un’estetica del disgusto, sfidano ogni morale, con un gesto portato all’estremo limite…”  

Su come reagire non ha dubbi: “Davanti a me vedo solo un inaccettabile imbarbarimento estetico e di fronte a ciò non resta che essere reazionari”. Ed ecco la soluzione che propone: “Riscoprire sobrietà, equilibrio, sapienza. L’arte deve tornare all’universo di bellezza e di purezza”. Per questo deve recuperare le regole classiche che sottendono questi valori, in “opposizione alla mercificazione, all’omologazione culturale, al livellamento estetico” con “l’arte ridotta a intrattenimento e strategia di marketing”. Altrimenti si resta soggetti “al più clamoroso paradosso e ad un imbroglio epocale”, dato che “l’artista del nostro tempo non è più un profeta: pratica la dissacrazione, la profanazione”.

Benni Bosetto

Missiaja ricorda la beffa degli studenti livornesi che scolpirono una finta testa di Modigliani e la fecero rinvenire nel canale più adatto con gli entusiastici elogi al Modigliani scultore dei critici che perseverarono nella loro attribuzione al punto di fare subito il catalogo, fino a venire smentiti in televisione dagli studenti che ne scolpirono in diretta una identica. E cita due episodi significativi: a Padova un’”opera d’arte” esposta all’aperto fu portata all’inceneritore da netturbini pensando fosse un rifiuto, a Verona avvenne la cancellazione dal pavimento da parte dei pulitori di un’”opera d’arte” scambiata per macchia di vernice.

Di  questo capovolgimento non solo della concezione dell’arte ma anche del buon senso, non si può non  ritenere responsabile “anche il mondo della critica che onora ed acclama l’artista contemporaneo le cui opere incomprensibili vengono battute quotidianamente all’asta per milioni di dollari in nome della speculazione. Anzi, tanto più sarà difficile darne un significato, nel senso tradizionale del termine, tanto più salirà nell’olimpo dell’eccezionalità e della magnificenza. Non avrà molta importanza se poi la spiegazione del critico si discosterà completamente dall’intenzione dell’autore o darà interpretazioni che l’artista neppure immaginava”.

Giuseppe Gabellone

Clair-Regnier non è il solo a lanciare questo allarme. Da un altro punto di osservazione viene denunciato  “il grande imbroglio dell’arte contemporanea”  iniziando con questa constatazione: “Nell’era della riproducibilità tecnica sembra essere sparita l’opera d’arte. Ne resta solo una vacua aura. A prevalere è una produzione di installazioni, video, performance a effetto choc o che all’opposto cercano l’anestesia più totale con opere iper-concettuali, che celebrano il vuoto”.

Si tratta dell’“Attacco all’arte. La bellezza negata”,  è il titolo del libro di  Simona Maggiorelli secondo cui “tra la fine del Novecento e il primo quindicennio degli anni Duemila l’arte contemporanea sembra aver vissuto una lunga notte piena di incubi orrorifici, quanto improbabili, popolati di squali in formaldeide (firmati Damien Hirst), bambole gonfiabili (Jeff Koons), cloache meccaniche (Wim Delvoye), autoritratti scolpiti nel proprio sangue congelato (Marc Quinn) e via di questo passo. Si è dispiegato cosi un universo visivo di figure grottesche, di funeree nature morte, di trovate goliardiche e raccapriccianti”.

Simone Forti

Altro che l’astrattismo e il minimalismo, la Pop Art e la Op Art!  Viene evocata “la carne, la morte e il diavolo” di Mario Praz con  al posto del diavolo  un automa; che richiama le modelle anoressiche di Vanessa Beecroft simili ai manichini; negli anni ’90 c’erano stati i mutanti di Matthew Barney, i manga di Takashi Murakami, prodotti in serie, in una esasperazione della Factory di Andy Warhol.

Le raffigurazioni vuote di senso si confanno ad una società dominata da immagini e pubblicità, Avatar e realtà virtuale, e a coloro che frequentano le aste in una “finanziarizzazione dell’arte contemporanea”. In tale contesto, “per i tycoon ultramiliardari che le acquistano, conta la spettacolarizzazione, il gigantismo, la dismisura, in spregio alla crisi. Non importa se l’effetto è palesemente kitsch. Il fatto che opere di questo tipo siano diventate uno status symbol per pochi …. ha fatto strage di ogni altro significato. Ai galleristi non importa se tutto ciò abbia provocato un impoverimento culturale della proposta, gli interessa che l’opera abbia le caratteristiche per essere vendibile all’upper class”, la quale “sembra sentirsi parte di una élite, di un circolo esclusivo”.

Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi

Sarah Thornton, storica dell’arte, in “Il giro del mondo dell’arte in sette giorni” ha scritto nel 2009 che  “l’arte contemporanea è un surrogato della religione, che si celebra in ghetti patinati”, e in quanto tale essendo dogmatica, aggiunge la Maggiorelli, “non ammette critiche. Ed è questo forse l’aspetto più bizzarro dell’attuale Art world. In fondo, che l’estetica dominante sia imposta da una manciata di collezionisti miliardari, magnati della moda come François Pinault, galleristi come Larry Gagosian ed ex pubblicitari come Charles Saatchi, potrebbe anche interessarci relativamente, se ci fossero spazi pubblici di dibattito critico e per un vivace confronto fra proposte artistiche differenti. Ma chi fa ricerca oggi per lo più resta fuori dai riflettori”. E se si leva qualche autorevole voce di protesta, quale il sopra citato Clair-Regnier, “viene subito additata come passatista e conservatrice, come ha scritto  Angelo Crespi nel 2014 in “Ars attack. Il bluff del contemporaneo”.

E’ gustosa la rievocazione fatta da Mario Vargas Llosa nel 2016 sul giornale spagnolo “El Pais”, di una visita al “Tate Modern” di Londra allorché –  dopo aver assistito alla spiegazione di un’insegnante alla sua scolaresca di come un manico di scopa senza saggine per togliere la funzionalità fosse diventato una scultura, magari “ready made” aggiungiamo noi – ebbe questa tentazione. “Dirle che ciò che stava facendo”con dedizione, ingenuità e innocenza, non era altro che contribuire a un imbroglio monumentale, a una sottilissima congiura poco meno che planetaria su cui gallerie, musei, illustrissimi critici, riviste specializzate, collezionisti, professori, mecenati e mercanti sfacciati si sono messi d’accordo per ingannarsi, ingannare mezzo mondo e, di passaggio, permettere che pochi si riempissero le tasche grazie a una simile impostura”. Nel giudicare queste espressioni estreme non va dimenticata la caratura di chi le pronuncia: addirittura un Premio Nobel.  

Caterina De Nicola

Con pari determinazione  Achille Bonito Oliva ha denunciato “l’effetto omologante della globalizzazione sull’arte”, tanto che le collezioni dei più grandi musei del mondo –  il MoMA e  il Guggenheim di New York, il Centre Pompidou di Parigi e la Tate Gallery di  Londra – “si assomigliano in modo impressionante, tanto da avere la sensazione di un continuo déjà-vu”; con il Modern Art Museum e il PS1 “questi templi del contemporaneo formano una specie di cartello di aziende”. 

Il critico napoletano ABO  le considera “le sette sorelle dell’arte contemporanea” e paragona “le loro alleanze e fusioni a quelle dei grandi gruppi finanziari multinazionali che regolano i loro rapporti, fin quasi a formare un’unica holding museografica”. Nel 1999 scriveva: “L’arte è diventata un grande condominio in cui il museo è il proprietario, i curatori sono i ragionieri e il pubblico un veloce ospite-voyeur”, e con la sua finanziarizzazione, la globalizzazione ha imposto  “una sorta di pensiero unico: un’estetica prevalentemente anglo-americana, che lascia poco o nessuno spazio alla ricerca sulle immagini con un senso e un contenuto profondo, che non siano fantasticheria, vuota figurazione o arido concettualismo.

Salvo

Il discorso sull’arte prevale sulle immagini, l’arte è diventata meta-arte, sur-arte. Al punto che la maggior parte di ciò che viene esposto risulta incomprensibile senza un debito apparato di spiegazioni”. Di fatto, dopo il superamento dell’idea di bellezza, e poi di quella di “mimesi della realtà”, questa torna mediante  il suo “calco più triviale”!

Anche la Maggiorelli, come prima Missiaja, cita episodi gustosi, quale quello dell’ottobre 2015 al Museion di Bolzano allorché gli addetti alle pulizie gettarono  via l’opera di Goldschmied & Chiari “Dove andiamo a ballare stasera?” scambiandola per i resti del banchetto della festa svoltasi nel museo;  e la beffa di un visitatore della Biennale di Venezia che espose un sacchetto di spazzatura ingannando gli altri visitatori che si immergevano nella contemplazione fino ad impegnarsi nel cercare di interpretarne il significato.

Bruna Esposito

Ci fa ripensare alla scena del film “Le vacanze intelligenti” con Alberto Sordi,  in cui viene presa per opera d’arte dai visitatori la  moglie seduta su una sedia per riposarsi con la sua figura imponente, e tutti compunti a cercare di interpretarla, dopo essersi  fermati a osservarla con aria seria e contemplativa. “Iper-realismo incellophanato, vacuo estetismo, provocazione fine a stessa compongono la trama invisibile che percorre tante Biennali anni Novanta e Duemila, da Venezia a Istanbul” ed oltre, si cita Frieze London, la mostra mercato di Basilea e  Documenta di Kassel; possiamo aggiungerci qualche Quadriennale d’Arte romana, magari proprio quella attuale con certi suoi eccessi che abbiamo sottolineato nella nostra narrazione?

Perché l’Arte contemporanea sembra  “odiata”?

In tale situazione non deve sorprendere neppure la domanda: “Perché tutti odiano l’arte contemporanea?” se non per quel “tutti”, certamente eccessivo ma non lo è riferito alla gente comune, il pubblico dei visitatori che nella grande maggioranza spesso commenta: “Anche un bambino potrebbe fare questa roba.”.

Bruna Esposito

Nel 2016 Thèophile Pillault ha raccolto una serie di commenti, cominciando da quello di Paul McCarthy  il quale nel 2013 ha detto che “il rapporto tra arte contemporanea e grande pubblico è la classica storia d’amore impossibile, che va ben oltre il classico commento ‘mia figlia potrebbe fare questa roba in cinque minuti’”. Nel pensiero di una specialista, Nathalie Heinich, “l’arte contemporanea gioca su livelli che non riguardano esclusivamente la natura delle opere stesse. Qui entra in gioco il concetto di paradigma, un insieme di convenzioni condivise da tutti in un dato momento storico che riguardano un ambito specifico”.

E l’unico paradigma che vale per certi artisti contemporanei è quello secondo cui  “sembra che  tutta l’arte contemporanea abbia smarrito il proprio spirito dentro un immenso centro commerciale, il simbolo per eccellenza dell’oppressione, e questa rottura non può che causare l’indignazione di molte persone”. Si è perduto il senso del lavoro,  dell’impegno e della fatica per raggiungere quel livello che dà dignità artistica. “Come in Avatar, l’arte contemporanea è un ecosistema autonomo, in grado di prosperare senza bisogno di nessun pubblico…  ha dimostrato di sapersi rimodellare e rigenerare da sola”.

Giuseppe Chiari

Già nel 1946,  Ad Reinhardt in “How to Look at Modern Art” scriveva: “Staccandosi dalla corrente classica e moderna, l’arte contemporanea si è rinchiusa in una nicchia specializzata… Fin dall’inizio del movimento, le opere contemporanee sono state accompagnate da certi discorsi. Discorsi che possono diventare anche molto complicati, a volte incomprensibili o in certi casi addirittura esoterici”. Oltre alla funzione di veicolare un messaggio, “questa ricca narrazione svolge anche una seconda funzione: non consentire proprio a chiunque di entrare a far parte del club. Questo divario linguistico evita che tutta una serie di prodotti entrino in contatto con la massa del pubblico non iniziato, che ignora o non è abbastanza informato su certi discorsi per affrontare a dovere l’arte del commento e dell’interpretazione”.

Si è ben lontani dall’intento iniziale dell’arte  contemporanea di porsi come “ una forma di protesta”  rifiutando,  dopo il superamento dell’idea di bellezza avvenuto da molto tempo, anche “l’idea di armoniosità data dall’accademia”.

Michele Rizzo

Zahia alla FIAC  nel 2014 ha spiegato perché l’arte contemporanea è divenuta un “ambiente per pochi eletti”: “Una nuova generazione sta emergendo, è vero, ma occorre fare attenzione. Lo strano incremento degli iscritti alle accademie di arte è allarmante. Molti degli iscritti sembrano più interessati a raggiungere lo status di artista che all’arte in sé. Uno stato, una posizione sociale il cui portale d’accesso è illuminato dalle teste coronate dell’arte globale… dall’attenzione dei media e dal self-marketing … Il famoso quarto d’ora di notorietà riguarda allo stesso modo i mestieri del cinema, del giornalismo e della fotografia, ma la verità è fatta di precarietà, abbandono e pentimento. Quindi prudenza: quella artistica è, e resterà, una scena per pochi eletti”.

C’è  tutto questo dalla parte dei protagonisti, gli artisti posti lungo un piano inclinato, ma qualcuno di loro  ne è consapevole e cerca di reagire a certe spinte irragionevoli. Lo fa il gruppo radunatosi nel 2017 intorno al “Manifesto per l’arte – Pittura e scultura”, promosso dalla associazione “in tempo”, da dieci anni impegnata su questo fronte, capofila  Ennio Calabria, che inizia con l’orgogliosa rivendicazione dei valori primari dell’umanità minacciati perché “l’attuale società si fonda sulla categoria della ‘convenienza’ che considera irrilevante l’identità umana”.  Viene considerata  “la coscienza individuale, la vera antitesi radicale nei confronti del pensiero unico dominante”.  Tutto questo rendendo protagonista “la soggettività”, si può contrastare lo spaesamento e il disorientamento dell’omologazione.

Giulia Crispiani

Nella pittura e nella scultura può prendere corpo “l’ipotesi di un processo creativo mosso dall’inedito ingresso della soggettività  dell’essere nella storia” alla ricerca della verità in un’epoca in cui si sono perduti i punti di riferimento. Il sigillo del Manifsto è “sum ergo cogito” che rovescia l’identificazione nel “pensiero”, con la precedenza tangibile all’”essere”. Già Duchamp con la provocazione del “ready made” si era ribellato alla  mercificazione dell’arte, come  ricorda nel suo pamphlet sull’artista Pablo Echaurren,  che in passato ha lottato anche in suo nome; ma aveva ottenuto l’effetto opposto, l’oggetto di uso comune sottratto al suo impiego naturale era stato considerato opera d’arte, la mercificazione per antonomasia aveva vinto.

Ma per altri versi, diremmo speculari, ci sono altri protagonisti, cioè i visitatori delle mostre, i quali  continuano  a porre la domanda con cui  Davide Mauro  intitola lo scritto del 13 novembre 2020, “Perché l’arte contemporanea è divenuta incomprensibile?”, dove  esordisce affermando che “è  proprio il vuoto,  il sentimento che spesso m’attanaglia quando mi trovo davanti a questo tipo di arte non più in grado di suscitare emozioni profonde”.

Isabella Costabile in primo e secondo piano, a dx Lisetta Carmi

Perché l’Arte contemporanea  sembra “incomprensibile”?

Ricordiamo che il presidente della Quadriennale Umberto Croppi – nella citazione con cui abbiamo aperto il nostro servizio – afferma che non solo l’arte contemporanea è comprensibile, ma addirittura aiuta a comprendere la nostra società: e dobbiamo dargli ragione se si riferisce alla riflessione suscitata in noi sulla follia che pervade l’umanità – che non può non esprimersi anche nell’arte –  e la pandemia del virus ce ne fa ricordare una capitale: le scarsissime risorse dedicate a ciò che difende la vita, in particolare la scienza che dovrebbe proteggerci almeno dai microorganismi invisibili capaci di paralizzare il pianeta, rispetto alle risorse per ciò che invece  distrugge la vita, gli armamenti; per non parlare del consumismo dissennato che insegue bisogni artificiali indotti dalla produzione assorbendo risorse sottratte agli impieghi essenziali.

Mauro, più pacatamente, ammonisce che “l’arte è l’espressione della cultura di un’epoca. Attraverso essa siamo in grado di percepire lo spirito del tempo e il sentimento dei popoli. È evidente il fatto che l’evoluzione del linguaggio artistico, a causa di molteplici eventi storici, sociali e tecnologici, sia approdato inevitabilmente a quello odierno. L’arte infatti proietta sui fruitori l’essenza più vera dei valori e delle questioni che affliggono l’uomo”. Ma “si è manifestata per secoli attraverso modalità figurative certe, tramite regole dapprima non scritte, poi oggetto di attenzione di eruditi, filosofi e scrittori che l’hanno codificata e ne hanno svelato i principi e le regole”.

Cloti Ricciardi

Gli artisti si sono dovuti misurare con tali regole per diventare tali, e anche osservatori e grande pubblico hanno potuto riconoscerne qualità e valore con quei riferimenti certi. “Attraverso queste regole si è prodotta arte e ogni artista non solo doveva conoscerle, ma doveva saperle padroneggiare: la prospettiva, il disegno dal vero e gli abbinamenti cromatici, erano alla base del suo lavoro. Eppure tutto questo sapere oggi sembra non essere più utile e anche gli artisti sostanzialmente ne fanno a meno, dato che le modalità espressive si muovono su altri livelli”. 

Prima dei livelli espressivi conta il portato del tempo e della storia, che Mauro ricollega al “tempo lineare e al tempo ciclico”: il primo portatore di progresso, il secondo di regresso: saremmo in questo secondo stadio con “la constatazione che l’avanzamento della tecnica e la cosiddetta ‘caduta nella materia’, renda l’uomo abile negli utilizzi pratici e organizzativi della vita, ma sempre più distante da un’interpretazione spirituale”, intesa “come approccio emotivo all’esistenza” tale da trasmettere emozione attraverso “la contemplazione dei luoghi” e i “simboli” evocativi dell’espressione artistica.

Alessandro Agudio

In questo modo, nel passato si trasmetteva “l’impulso  a una vita come crescita” sul piano culturale e spirituale, al di là della pur fondamentale base religiosa. E quando questa matrice è venuta meno, “gli artisti hanno continuato a trasmettere messaggi e a esprimere l’essenza del loro tempo, ma si sono distaccati progressivamente dalla complessità e dalla profondità di pensiero”; e soprattutto dai “grandi temi”: “Appare evidente come quella pregnanza di un tempo, quell’esigenza di penetrarne il mistero dell’esistenza e la natura umana, non siano più una parte essenziale dell’uomo”. 

Questa  tendenza si è accentuata man mano che l’arte si è aperta al grande pubblico, e i suoi temi “sono passati da quelli universali ai particolari di ogni giorno”, spesso legati alla quotidianità – per gli impressionisti addirittura l’attimo fuggente – o comunque ad eventi pur  rilevanti come le guerre, ma transitori.  Anche le altre grandi correnti, espressionisti, e cubisti, dadaisti e Pop Art, per non parlare degli astrattisti, hanno portato sempre più  avanti la sperimentazione senza approfondire gli aspetti introspettivi, “il mistero dell’uomo”; lo stesso viene rilevato per i grandi, come Caravaggio,  Van Gogh e Picasso, Wahrol e Burri, Fontana e Duchamp”.    

Diego Marcon

Viene citata la constatazione di Kandinsky nel saggio “Sulla forma”,  cioè i due elementi compresenti nell’opera d’arte classica, la “rigorosa astrazione” che si esprimeva attraverso un “rigoroso realismo” si sviluppano oggi “secondo direttive distinte. Sembra che l’arte abbia posto un punto finale alla piacevole complementarietà di astratto e concreto, e viceversa”. Con questa conclusione: “Tale scissione tra le due modalità espressive, mostra ancora una volta la cesura dell’uomo contemporaneo e le sue ripercussioni sul valore artistico in termini assoluti”.

Tutto questo sarebbe il riflesso dello spirito del tempo, che è nell’essenza stessa della creazione artistica.   La classe sociale cui è destinata è “sempre meno incline alla cultura e all’introspezione”, si è estesa molto in quantità impoverendosi in qualità; e i suoi comportamenti sono “sempre meno consoni alla contemplazione del bello e sempre più alla spettacolarizzazione”.

Valerio Nicolai

Alessandro Baricco ha definito “l’avanzata dei barbari”  il crescente predominio della tecnica e della velocità rispetto alla riflessione e all’approfondimento: “In fondo il pubblico di oggi non ha più gli strumenti e l’esigenza di ricercare un significato importante in queste opere, non solo perché ritenuta non più necessaria, ma anche perché l’uomo contemporaneo ha perso il senso profondo del vivere, non è più abituato a pensare e attraverso tale spirito del tempo l’arte stessa si conforma divenendo muta, priva di ideali, di messaggi e di idee”.

E proprio per la conseguente “discrasia tra ragione  e sentimento”,  “l’arte contemporanea, così criptica, assurda e spesso incomprensibile, non toccando più i tasti  dell’animo umano, racconta se stessa tramite concetti. Tali concetti sono assolutamente personali, spesso espressi come un moto che emerge da un’intuizione o un guizzo dell’inconscio che si esprime senza regole né schemi. Così diventa necessaria la figura del critico d’arte … un intermediario-guru tra il pubblico e l’artista”.

Luisa Lambri

Siamo tornati così, seguendo passo passo l’itinerario logico e razionale di Mauro – con l’aggiunta della passionalità di Baricco – al punto che ci interessava evidenziare ulteriormente, dopo  aver citato altri osservatori attenti a questi aspetti  e scevri dal “servo encomio” come dal “codardo oltraggio” verso certe espressioni dell’arte contemporanea: “Il critico d’arte diventa  l’unico in grado di rendere più o meno intellegibili i sottili significati  espressi dagli artisti poiché egli è uno specialista, ha studiato e conosce gli artisti… Pertanto è la forza e il carisma del critico d’arte a fare spesso la differenza per un artista”. Come delle volte anche il proprio carisma, citiamo Dalì e de Chirico, in aggiunta al talento. 

Ma proprio l’assenza di “regole” che abbiamo evidenziato, rende il suo giudizio  “inoppugnabile”: “Non  si può quindi contestare l’opinione di un critico perché non c’è un criterio assoluto su cui valutare un’opera. Non un difetto di prospettiva, di colore, di forma o di composizione; tutti questi aspetti un tempo noti a chiunque non valgono…”.

Alessandro Pessoli

Per questo nel “raccontare” la “17^ Quadriennale d’Arte” abbiamo citato, per ogni autore e le sue opere principali, il giudizio dei curatori avanzando solo qualche perplessità da cronisti impertinenti allorché il significato attribuito ci è apparso al di fuori di ogni possibile percezione dell’osservatore. Del resto, è l’unica via per dar conto dell’imperscrutabile e indecifrabile arte contemporanea. Lo prova il libro di Francesco Poli, “Non ci capisco niente. Arte contemporanea. Istruzioni per l’uso”, che spiega il significato e le motivazioni alla base di una sessantina di opere.  I curatori della “17^ Quadriennale d’Arte”, Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol,  lo hanno fatto per i 43 artisti espositori, e le singole schede illustrative hanno aggiunto interpretazioni ampie e argomentate.   

“Così è se vi pare”, è il sigillo che poniamo a conclusione del nostro racconto della mostra che ci ha portato a questo inusuale excursus sull’arte contemporanea sulla scorta delle analisi di osservatori disincantati. A loro, come semplici cronisti, siamo grati per averci consentito di penetrare sotto la scorza esteriore dell’arte contemporanea nella sua 17^ prestigiosa celebrazione quadriennale.

Salvo

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner”Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”,   Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue.  Gli altri 4 articoli sulla mostra sono usciti in questo sito in successione nei giorni scorsi, 1°, 2, 3, 4 marzo 2021.  Cfr. i nostri articoli, in questo sito, sulla mostra:  per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  20 luglio, 13 marzo 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati in www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli: in questo sito, De Chirico v. Info 3° articolo, Manifesto 3 aprile 2020 con Duchamp ed Echaurren  6, 9 aprile 2020;  in www.arteculturaoggi.com, Calabria 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019, Futuristi 7 marzo 2018, Mangasia  1, 6 novembre 2017, Warhol 15, 22 settembre 2014, Praz 17 febbraio 2013, Echaurren  20, 27 febbraio,  4 marzo 2016,  23, 30 novembre, 14  dicembre 2012, Duchamp 16 gennaio 2014; Impressionisti e moderni  12, 18, 27  gennaio 2016, Impressionisti 5 febbraio 2016, Cubisti 16 maggio 2013, Pop Art, Minimalisti al Guggenheim 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012, Astrattisti  5, 6 novembre 2012, Dalì 28 novembre, 2, 18 dicembre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Impressionisti 27, 29 giugno 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009  (l’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su un altro sito).

Nanda Vigo

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Tutte le immagini dell’allestimento con le opere e le installazioni nelle sale sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata anche fornendo il prezioso Catalogo; nelle didascalie è indicato solo il nome degli artisti che espongono in tali sale, le immagini sono inserite nell’ordine in cui sono state fornite. Altrettante immagini delle sale illustrano il 1° articolo, mentre il 2°, 3° e 4° articolo sono illustrati con 2 opere per ognuno dei 43 artisti espositori, nelle didascalie sono indicati anche titolo e anno di realizzazione. Le immagini sono state tutte inserite “courtesy Fondazione Quadriennale di Roma, photo DSL Studio”, a loro va il nostro ringraziamento. In apertura, Lydia Silvestri e Zapruder Filmmakersgroup; poi, Guglielmo Castelli, e Daar Sandi Hilal-Alessandro Petti; quindi, Francesco Gennari e Benni Bosetto; inoltre, Giuseppe Gabellone e Simone Forti; ancora, Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi e Caterina De Nicola; continua, Salvo, e 2 immagini delle installazioni di Bruna Esposito; poi, Giuseppe Chiari e Michele Rizzo, quindi, Giulia Crispiani e Isabella Costabile in primo e secondo piano, a dx Lisetta Carmi; inoltre, Cloti Ricciardi e Alessandro Agudio; ancora, Diego Marcon e Valerio Nicolai; continua, Luisa Lambri e Alessandro Pessoli; poi, Salvo e Nanda Vigo e, in chiusura, altra visuale della facciata di Palazzo delle Esposizioni, sede della mostra.

Altra visuale della facciata di Palazzo Esposizioni, sede della mostra

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17^ Quadriennale d’Arte, 4. “Fuori”, termina la galleria della mostra, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Andiamo ancora avanti nella nostra narrazione della 17^ edizione della Quadriennale d’Arte espressa nella mostra “FUORI”  al  Palazzo delle Esposizioni, curatori Sarah Cosulich direttore artistico della Fondazione Quadriennale di Roma, e Stefano Collicelli Cagol, con  gli ultimi 11 artisti dei 43 espositori, dopo aver commentato finora gli altri 32.  Nel realizzare la  mostra, la Fondazione si è avvalsa della collaborazione dell’Azienda speciale Palexpo, ha contribuito il Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo.  Inaugurata il 20 ottobre 2020, dopo la chiusura prolungata per la pandemia Coronavirus,  è stata riaperta il 4 febbraio 2021 e potrà essere visitata  fino alla primavera; ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci. Catalogo della Treccani,  bilingue.

Salvo, “Case con lampione”, 1986

Nei  tre articoli  precedenti abbiamo riassunto all’inizio l’impostazione della mostra, con al centro Roma e il Palazzo, le Quadriennali precedenti e l’Arte italiana,  rivisitata nel corso degli ultimi sessant’anni per proporre oggi artisti che avevano una visione anticipatrice, nelle tre linee di ricerca, il Palazzo, il Desiderio, l’Incommensurabile. Poi abbiamo passato in rassegna 32 artisti dei 43  complessivi e le loro opere, citando le descrizioni e i significati attribuiti dalle schede illustrative e, in molti casi dai curatori, risultando improponibile l’interpretazione al cronista che, come semplice narratore, le considera indecifrabili e pensa che lo siano anche per il comune visitatore.  Completiamo ora la rassegna con i restanti 11 artisti.

Ci siamo lasciati nell’ultimo articolo  con il primo di tre artisti “ammaliatori”, Franceschini. E’  il turno degli altri due, De Luca e Sacchi.  Tommaso de Luca  ha una  linea scenografica  riferita all’architettura,  secondo la scheda con “l’esplorazione della coreografia che uno spazio architettonico crea in relazione ai corpi che lo attraversano”. In pratica mette in scena “macchine visive che fanno saltare l’assunzione di una corrispondenza diretta tra visione e realtà e incoraggiano invece il visitatore a percorrere lo spazio assumendo posture alternative”. 

Salvo, “Il passaggio del numero 1”, 2014

Addirittura nell’opera di De Luca si vedono “gli echi della pratica del cruising, un incontro di sesso casuale tra uomini che avviene in spazi non deputati, come parchi o toilette”. Non sappiamo assumere le posture alternative evocate né riusciamo a immedesimarci nello squallido ambiente di cui all’opera intitolata “”Salopp Gesagt Schlapp” 2014, che “mima l‘estetica dei bagni pubblici, utilizzati dalle comunità omosessuali come luogo di incontri e soddisfazione di desideri e contemporaneamente richiama la costruzione di un forum, inteso come un posto di incontro e scambio, alludendo alla natura ambigua di fruizione insita nello spazio stesso”.

Dopo i progetti di “Bagni pubblici biologici”  di Bruna Esposito ritroviamo gli stessi ambienti, prima declinati all’insegna della sensibilità ambientale e dell’equilibrio tra corpo e natura, ora in chiave sessuale, anzi omosessuale. La mostra così rende onore al suo titolo “Fuori” nell’accezione del movimento di Angelo Pezzana, e alle proprie motivazioni. L’altra opera, “Die Schlussel des Schlosses” 2020, mostra “un padiglione non finito” che evoca “l’ambiguità destabilizzante del lavoro”. In altri termini, “quella che De Luca sembra proporre è un’analisi grammaticale dello spazio del potere, riflettendo sulla strutturazione e sul mantenimento del privilegio”. Altro che “ammaliatore”, l’artista ci riporta ai temi ideologici molto frequentati, tutt’altro che ammalianti….

Francesco Gennari, “Tre colori per presentarmi al mondo, la mattina”, 2013

Il terzo artista  che abbiamo definito “ammaliatore” prendendo lo spunto  da Collicelli Cagol, Davide Stucchi – un ritorno il suo dopo la 16^ edizione del 2016 presenta  opere radicalmente diverse,  che la scheda descrive come sculture “risultato di fragili modifiche dei materiali, azioni minime che, aggrappate  – come cinture – alla vita e all’autobiografia dell’artista, disegnano nuovi corpi, descrivono l’intimità degli spazi e la vulnerabilità degli oggetti”. All Clothes Artists’ Own”  2020 mostra una persona vestita distesa bocconi su un letto che guarda un video.

Le altre opere realizzate per la Quadriennale sono molto diverse. In  “Light Switch (The Guy Next Door)”  si vedono luci al neon ancora semi imballate in scatole semiaperte, sul ballatoio del Palazzo, lampade a terra tra fili elettrici. “Traslocando (Shy Neon)”  si ispirerebbe a due quadri di Giorgio de Chirico, “Arrivo del trasloco” 1951 dove si vede  un pacco caduto dal veicolo a terra nell’ombra, e “Sole sul cavalletto” 1973 con il filo elettrico che sembra alimentare la sorgente di luce.

Francesco Gennari, “Autoritratto su menta (con camicia bianca)”, 2020

Ma, a parte tali lontani riferimenti, peraltro a dipinti, le scatole semiaperte come in un trasloco ci fanno pensare a quanto avvenuto in altre circostanze in cui oggetti dello stesso tipo e imballaggi sono stati addirittura ritenuti da utilizzare o riporre, fino ad essere scambiati per rifiuti,  ne parleremo al termine.

Questa volta non c’è  un rischio simile, data la cornice in cui li colloca  l’allestimento considerando il valore loro attribuito nella scheda: “L’opera è una riflessione sull’intimità, sui perenni traslochi di vite precarie e instabili, sulla memoria di oggetti desideranti che ormai hanno appreso la capacità di lasciarsi andare o la curiosità instancabile di costruire nuove occasioni e relazioni”.

Anna Franceschini, “Villa Straylight” 2019, # 1

Sempre di Stucchi vediamo i simil-interruttori fissati al muro, “Kitchen” e “Corridor”: al posto del pulsante si intravvedono immagini, cosa che “mette in scacco la gestualità convenzionale del suo utilizzatore”. In tal modo “Stucchi invita al voyeurismo, sollecita la curiosità e stimola il contatto”. Ma come?

Ecco la risposta: “Stucchi si confronta con la letteratura queer, spesso interessata allo spazio pubblico,  e riporta la trasgressione del cruising (la ricerca di incontri sessuali in luoghi pubblici con sconosciuti) e l’esposizione del sé a una dimensione domestica e quotidiana, dove l’io si confronta con se stesso  e la maggior parte delle sue esperienze, infine accade”. Anche qui non vediamo evocato l’“ammaliatore” suggerito da Collicelli Cagol, ma la tematica omosessuale legata a luoghi pubblici, peraltro  squallidi, come quelli progettati dalla Esposito ed evocati anche da De Luca.

Anna Franceschini, “Villa Straylight” 2019, # 2

Andiamo “in più spirabil aere”, ci sia consentito di dire,  con Caterina De Nicola che,  secondo la scheda,  “analizza i processi di estetizzazione culturale, esaminando motivi e tendenze ormai svuotati di senso ma che circolano ideologicamente nella società”, cosa che a nostro avviso darebbe loro pur sempre un senso, quale che sia l’ideologia.

In questa ottica “sfida la percezione immediata delle sue opere, mirando a stimolare sensazioni opposte” e impiega materiali eterogenei, quali immagini e simboli di varia natura, prodotti di design, testi e tracce sonore ricomposti con il “mash up”: una tecnica utilizzata soprattutto nella musica miscelando brani diversi per ottenere un nuovo suono  pur restando distinguibili le componenti.

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Tomaso De Luca, “Salopp Gesagt Schlapp”, 2014

Ne deriva una forma di espressione definita  “theory fiction”  che consiste nel “toccare tematiche specifiche  attraverso la finzione” realizzando degli ibridi, nei quali si perde il riferimento al singolo autore o personaggio pur se “i suoi testi parlano in prima persona”. Per cui “il risultato finale è un ibrido tra oggetto di design e libro, tra un quadro e una scultura, sulla cui indeterminata definizione l’artista non prende una decisione”.

“Moxette’s Crazy. Stupid Love” presenta i 7 nani disneyani su una trapunta verde, in un ritorno all’infanzia, mentre “Erotic Injury” e “Degought Depletion”  “ sono tra le prime opere dell’artista a riunire scrittura, pittura e scultura” con scritte apposte su tessuti presi nei mercati dell’usato, tutte del 2020. “Sotto la sua azione, le forme del design subiscono un processo di trasformazione che con ironia mette in luce  la tendenza – comune sia al design che all’arte – di scadere nella riconoscibilità, ripetitività e prevedibilità, in una parola: nello stile”. 

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Tomaso De Luca,“Die Schlüssel des Schlosses”, 2020

Sulla ripetitività e prevedibilità siamo d’accordo, ma lo “scadere nella riconoscibilità” può essere solo un’espressione ironica, perché altrimenti il visitatore potrebbe aversela a male.  E non serve spiegare perché, ne parleremo al termine riguardo al problema della comprensibilità che si pone per l’arte contemporanea, non solo per questa mostra.

Altri tre artisti, Castelli,  Bosetto, Nicolai, “nel loro essere fuori scala, fuori norma, fuori dal tempo, implicano l’apertura al futuro  e un sentirsi organici  alle sfide (e alle ansie) del mondo globalizzato” afferma Collicelli Cagol, e cita “”le posture squilibrate e disarticolate delle creature di Guglielmo Castelli, gli interni abbandonati di Benni Bosetto,…  la fragola gigantesca di Valerio Nicolai”.  Consideriamo ad uno ad uno questi tre artisti accomunati dall’essere “fuori” da tutto.

Davide Stucchi, “Traslocando (Shy Neon)”, 2019

 “Nelle tele e nei disegni di Guglielmo Castelli una certa  nostalgia malinconica indugia sul momento dell’attesa, l’attenzione concentrata su attimi apparentemente insignificanti”, osserva la scheda, che esemplifica questi momenti nella “fine di un pasto, il dismettere le scarpe da danza, l’accosciarsi su un divano”, con i  materiali utilizzati in modo innovativo al di fuori delle regole tradizionali, un altro “fuori”…. “Le figure umane  sono agglomerati di materia cromatica resi fluidi dagli effetti debordanti delle pennellate” e attraverso mescole di colori acrilici e a olio,  resi più brillanti e luminosi: le ambientazioni  “sono paesaggi che si prolungano e si disperdono sui corpi che le abitano”.

“Ordine nostalgico di un assetto spaziale” è un’installazione per la Quadriennale con un varietà di componenti, tele di misure diverse e disegni di piccole dimensioni. ”L’ordine si piega alla nostalgia,  una qualità ondeggiante tra l’eccesso  di immaginazione e il desiderio acuto misto a rimpianto…”.  Ma poi la scena si anima con un’altra opera, “Compiuta figura” , una danzatrice che ballando si specchia nella propria ombra, mentre altre volteggiano e ci sono anche quelle distese nel riposo dopo la danza. 

Davide Stucchi, “Socket (Corridor)” , 2019

Dal movimento all’intimità in “Ogni cosa nel buio la posso sapere”, una camera da letto il cui disegno “sottolinea come in Castelli, le posture dei corpi si sviluppino  in maniera uniforme al gesto continuo del pittore, lo seguano interpretandone la durata”.  Non mancano gli animali domestici nel trittico “Giochi da adulti” , i gatti  da scoprire nelle macchie di colore, i topi  nel labirinto. Tutte del 2020, come  “A memory”, “About today”, “All You Can Eat”, mentre è del 2019 “I muscoli del Capitano”. Sono opere di un cromatismo coinvolgente che hanno il pregio, o il difetto – a stare a quanto si è letto su De Nicola – della riconoscibilità, e per il visitatore è una boccata di ossigeno dopo tanta stupefatta  apnea.

Benni Bosetto dipinge e disegna sulla parete, inoltre, sottolinea la scheda, realizza sculture e installazioni “che immergono chi le incontra in mondi dove il corpo è decostruito e  immaginato nuovamente”.  Nelle sue opere, “la corporeità si dissolve  divenendo parte di altre specie, altri generi e altri tempi che si tengono e riallacciano in un racconto eterno – balsamo contro ansie e incertezze, strategia di localizzazione”.

Caterina De Nicola, “Moxette’s Crazy, Stupid Love”, 2020

Frammenti umani rappresentano il “linguaggio corporeo” dell’artista e si uniscono ad elementi vegetali anche con “processi alchemici rocamboleschi” partendo sia da antiche leggende medievali, sia da fatti di cronaca. Nella performance  “Ambiente X” 2019, vengono presentati ossessivamente  i gesti quotidiani  del lavoro d’ufficio “in una reiterazione meccanica che li priva di senso”. Ma è altrettanto arduo  il senso nell’interpretazione che viene data, dopo la descrizione appena riportata: “Il rito,  come il racconto, è allora una strategia che, opponendosi all’escapismo, afferma un’iper-presenza  dai confini espansi”, fa uscire dall’”ambientazione standardizzata” dell’ufficio e “abbraccia altri possibili luoghi e il tempo si liquefà connettendo le tradizionali ripartizioni tra presente, passato e futuro”.

Per  la Quadriennale ha progettato l’istallazione ambientale sonora “Anima”,  che rappresenta una stanza  quasi “in  rovina”, dato che la carta da parati è strappata e si vedono disegni sul muro con travi di legno insicure e rifiuti: “La  presenza umana è evocata in assenza. Si possono udire flebili rumori, stridori e voci indistinguibili che compongono un paesaggio sensoriale dalla profonda qualità fisica”.

Caterina De Nicola, “Degrought Depletion” , 2020

Il Catalogo riporta ”Jewels” 2019, due “Senza Titolo” identificate in  “Lo scriba” e “Il giornalista” del 2020.  “Cleaning” è un disegno a muro con un “superorganismo” fantasioso, dove le figure, collegate da tubi biomeccanici, “rivelano la centralità del corpo come baluardo di ricchezza sensoriale, centro della percezione, fonte di conoscenza materiale e depositario  di memoria interpersonale e intergenerazionale”. Non è  troppo caricare il “superorganismo” di tutti  questi contenuti? Li vede l’interprete, speriamo che possano vederli anche i visitatori, al cronista risulta difficile.  

 Valerio Nicolai  va anch’egli oltre i limiti, come i due artisti precedenti, anche quando resta nella pittura  perché “mette in continua  frizione la realtà, creando dei cortocircuiti nelle immagini”. E lo fa  “innestando elementi in contesti inaspettati” seguendo l’immaginazione e la libera associazione di idee, “in un processo psicanalitico che cerca di non far sfuggire i lampi improvvisi di immaginazione e memoria”; in pratica, “l’immagine viene smontata e rimontata in un processo di aggiunte e sottrazioni”.

Guglielmo Castelli, “Compiuta figura”, 2020

Così la scheda, ma non sappiamo quale “processo psicanalitico” possa essere alla base della ceramica cromata “Coglione” (sic!) 2017 e dell’olio e acrilico su tela “Mare di merda # 5” (sic bis!) 2018; è come se dopo sessant’anni la celebre “Merda d’artista” di Piero Manzoni sia uscita dai 90 barattoli numerati uno dei quali venduto all’asta a fine 2016 per 275.000 euro…

Ben diversa è “Tempesta al prosciutto cotto” 2019, un tela di 177 x 254 cm con le venature che diventano fulmini e saette, fino a “Capitan Fragolone” 2020, una enorme fragola di cartapesta  rossa esposta nel Palazzo con delle fessure per vedere all’interno una nave dove c’è un “performer” nella cambusa vestito da pirata;  “mondi inaspettati si fondono l’uno dentro l’altro, attivando l’effetto di una serie di scatole cinesi che il visitatore è chiamato ad aprire”. I visitatori partecipano a questo viaggio fantastico e fantasioso.

Guglielmo Castelli, “All You Can Eat”, 2020

Lo “Spremilimone candelabro” 2019, sempre di Valerio Nicolai, è perlomeno stravagante, mentre “Prospettive di una matrioska” ispira questo volo pindarico: “Mondi inaspettati si fondono l’uno dentro l’altro, attivando l’effetto di una serie di scatole cinesi che il visitatore è chiamato ad aprire, sospeso tra il desiderio della scoperta e lo spaesamento a cui essa lo condurrà”. Dal prosciutto cotto, il fragolone e  lo spremilimone alla matrioska, al “coglione” e al “mare di merda”, non c’è che dire, complimenti! Escursioni impensabili nella loro stupefacente varietà…

Dalla  pittura,  dalla ceramica e l’improbabile “ready made”, al rapporto tra scultura e fotografia che troviamo in Giuseppe Gabellone, le cui opere scultoree vengono spesso conosciute solo attraverso immagini fotografiche, e poi a volte distrutte, in modo da non essere databili, quindi fuori dal tempo e soprattutto dalla contemporaneità.

Benni Bosetto, “Jewels”, 2019

I lavori di Gabellone non appaiono realizzati nel presente, ma per la scheda sembrano “emersi da qualche archetipo tempo delle origini della storia dell’arte italiana del Ventesimo secolo, che non trova però collocazione precisa su un’immaginaria linea del tempo”.

E’ il significato dato alle due “Falsa Finestra”  del 2020, create per la Quadriennale:  grandi  pannelli in fibra di vetro, resina e colori acrilici, con un “lavoro di stratificazione che conduce a questo tempo indefinito” facendo perdere di trasparenza ma riacquistando il colore rispetto a lavori precedenti sullo stesso tema, in particolare alla “Falsa Finestra” del 2019.  La  mancanza di trasparenza è il risultato di un processo lento di stratificazione che dà “un alto tasso di opacità” alle sue opere collegato “alla riflessione sulla memoria e in qualche modo sull’atemporalità della pratica dell’artista”.

Benni Bosetto,“Senza titolo (Il giornalista)”, 2020

Richiamano lavori anteriori “emblematici dell’interrogazione che Gabellone  avanza ai confini di bidimensionalità e tridimensionalità” e  nella loro materialità opaca la quale inibisce di guardare oltre fanno sì che, mentre cerca “di interrogare l’immagine che dovrebbe rivelarsi, si trovi invece a guardare tutto insieme, tutto in una volta sola”.  Con questa conseguenza: “Ecco allora che il processo di lenta sedimentazione degli strati non ha come risultato un qui e ora, che viene dichiarato impossibile dall’opera di Gabellone, ma offra invece una visione sincronica di tutto ciò che è sempre qui”. Provare per credere, il visitatore è avvertito, deve solo interrogare e guardare.

Luisa Lambri  è una “fotografa di luce e architettura: la sua ricerca è orientata a restituire l’esperienza di essere negli spazi”. Dopo questa presentazione la scheda descrive l’architettura nelle sue fotografie luminose, considerando che “non usa le sue immagini per rappresentare delle architetture, mette piuttosto in atto il procedimento inverso, partendo dalle  architetture per creare le proprie opere”.  

Valerio Nicolai, “Coglione”, 2017

E come avviene questo? Con una propria visione degli spazi che ne rende la percezione e sensazione al di là della rappresentazione oggettiva, ottenuta con “tagli diagonali, porte socchiuse, riflessi” per renderne l’atmosfera e “svelare qualcosa che c’è ma che, senza l’aiuto del suo sguardo, potrebbe rimanere per sempre celato, nascosto”. Vediamo 3 opere in stampa a pigmenti, “Untitled”, del 2007 “Schinder House” e 2 opere del 2016, “The Met Breuer # 5 e 7”.  

In esse “l’atto di fotografare il modernismo diventa occasione per metterne in scacco il linguaggio formale”, ed ecco come: “Rileggendolo da un punto di vista obliquo che ne ridisegna le geometrie e  dà  una tridimensionalità scultorea all’immagine”. Se si trattasse solo di tecnica fotografica ci verrebbe da associarla alle riprese oblique che hanno reso celebre il fotografo russo Aleksander Rodcenko, ma si vuole ci sia molto di più.

Valerio Nicolai, “Capitan Fragolone”, 2020

In primo luogo si butta di nuovo nell’ideologia di genere affermando che “guardando all’architettura modernista, Lambri svela il suo sguardo che è da intendere come una vera  e propria esperienza femminile in un mondo costruito  e creato dagli uomini”; e con questa espressione femminista si fa un torto alle donne che hanno contribuito insieme all’uomo  al mondo come lo vediamo. Inoltre si valorizza la sua fotografia ad opere d’arte, come i”tagli” di Fontana  da lei ripresi “riempiendo tutto il campo di visione di questa lacerazione  che sprigiona una potenza tattile”.

Infine,  “di fronte all’interpretazione di Lambri degli spazi assistiamo alla metamorfosi di un corpo, il corpo dell’artista, in architettura”. E nessuno potrà dire di non aver capito, neppure noi ci azzardiamo a questo, perché la scheda precisa: “Quello messo in atto non è un semplice gioco di rispecchiamento, ma un’operazione di riconoscimento”. Vuol dire che “scade nella riconoscibilità” che prima abbiamo visto considerato come fattore negativo? Forse, ma solo parzialmente.

Giuseppe Gabellone, “Falsa Finestra”, 2020

Dalla “metamorfosi del corpo dell’artista in architettura”  a una visione speculare, che attiene non al corpo né a un contraltare materiale bensì  “al campo espanso della percezione, della cognizione e della relazione interpersonale” cui Raffaela Naldi Rossano affida  “la prerogativa della costruzione del sé, dell’altro e del noi”, è scritto nella scheda. Oltre ai fattori biologici interni operano “supporti esterni, estranei: linguaggio, artefatti tecnologici e culturali”, che ci sembrano il “pendant” rispetto a corpo e architettura della Lambri.

Né il corpo è assente in questa visione dato che “se la memoria si deposita, non può che farlo nell’odore di un corpo, nel sapore di un pasto, nella pelle d’oca al passaggio di una brezza”, che sono le “porzioni di realtà”. Tutto  questo si esprime, in particolare, in 2 opere del 2019. “Noi siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare“, declinata in inglese, esprime già nel titolo la sua provocazione, le streghe sono considerate “eroine resistenti” e non nell’accezione negativa che le faceva ardere sul rogo. Si tratta di 56 lettere di ceramica con le quali l’artista “ricostruisce una discendenza ideale, ribadendo lo spirito inclusivo e fantasioso alla base della costruzione di linee familiari e collettività materiali”.

Giuseppe Gabellone, “Falsa Finestra”, 2020, interno e dettaglio

“A Liquid Confession” è  un’acquasantiera in ceramica smaltata con dei limoni veri, che ha tagliato la stessa artista perché i visitatori  sentano il loro aroma e partecipino  “ai ricordi dell’artista”. Meglio i limoni che la m…da, ci viene da dire con una facile battuta. Sarebbe troppo semplice, per questo la scheda richiama subito alla complessità interpretativa: “Naldi Rossano compone uno spazio in cui incontri casuali e diacronici  danno avvio a relazioni con le visitatrici, i visitatori e la storia, e in tali movimenti e trasformazioni l’io, la memoria e i corpi ne risultano espansi e continuamente rinnovati”.  E chi non vorrebbe una tale mutazione?  Ma come accorgersene ? 

Passiamo  alla danza e al cinema con i due ultimi artisti della nostra rassegna, e della mostra, rispettivamente  Rizzo e Zapruder. Michele Rizzo coreografo e danzatore “ha arricchito la sua formazione con il linguaggio scultoreo che, come la danza, gli consente di esplorare le relazioni tra materialità e movimento”.

Luisa Lambri, “Untitled (Schlindler House # 01)”, 2007

La scheda su Rizzo sottolinea il rapporto biunivoco tra la danza che diviene scultura e la scultura che acquisisce il movimento, ma non è qualcosa di automatico bensì il risultato delle sue ricerche e dell’aver  portato la danza negli spazi espositivi: “Attraverso l’uso del corpo, l’artista permette alla danza di assumere una posizione scultorea e alla scultura di poter abitare il movimento”.  

Ne sono testimonianza le “performance” degli ultimi anni, come “High xtn “ 2018 in cui “la ripetizione ossessiva dei gesti induce i raver a uno stato di trance che permette loro di essere contemporaneamente corpo collettivo  e individuale, vere e proprie forme-sculture in movimento”.

Luisa Lambri, “Untitled (The Met Breuer # 05)”, 2016

In questa Quadriennale ciò è reso plasticamente da Rizzo nella “performance” ”Rest”  2020, 4 sculture viventi con corpi adagiati su portantine deposte nella sala “a formare un’installazione immersa in un paesaggio di luci e suoni”, coreografia che “riecheggia la ritualità delle processioni religiose del sud Italia”: tutto ciò  nello spazio museale che è il “tempio dell’arte”, e viene evocato anche il Mare Mediterraneo, “simbolo di infinito e di vita, ma anche terminus di migliaia di vite in cerca di speranza”.

Oltre all’accenno alle migrazioni, vengono citate “le rivolte sociali (unrest) che hanno infiammato diverse città a sostegno delle proteste del  movimento Black Lives Matter”,  come “risveglio da un’età dell’innocenza a favore di una presa di coscienza”: l’immancabile corredo ideologico di tante opere in mostra. A parte ciò, con “Rest” Rizzo evoca il riposo dopo la danza, mentre da parte nostra possiamo vederci anche un riferimento di attualità alla immobilità forzata conseguente al “lockdown”, l’opposto del movimento vitale che può essere visto in quest’altra chiave: “Un momento di ricongiungimento con sé stessi, attraverso cui rielaborare la propria relazione con ciò che è prossimo”. Senza dubbio un utile richiamo  alla meditazione che può aiutare in un periodo come questo, di ansie e incertezze. 

Raffaela Naldi Rossano, “Noi siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare“, 2019

Con Zapruder Filmmakersgroup si conclude la galleria espositiva, e non a caso, è l’ultimo in ordine alfabetico e costituisce un collettivo cinematografico italiano con 20 anni di vita e tre componenti,  impegnato  in ricerche sul teatro con la già citata Romeo Castellucci Socìetas, “contribuendo a definire un territorio di incontro tra arti performative, figurative e cinematografiche”  mediante “elementi installativi che esulano dallo schermo di proiezione”; è un “cinema espanso, con sperimentazioni anche nel campo della stereoscopia”, un “cinema da camera” ispirato ai cinema delle fiere di paese, nell’accostamento operato dalla scheda.

Viene presentato per la prima volta completo “Zeus Machine” 2019, dopo “Salita all’Olimpo” 2016 che è un box dorato nel quale si può entrare per la visione di un film girato nel Festival dei teatri, per una esperienza “fortemente immersiva”.  “L’invincibile” è un video con “dodici reperti archeologici estratti dal presente”, la video narrazione “radica  l’esperienza della fatica di Ercole nel contemporaneo”, ma non con le immagini della mitologia classica, bensì con quelle dei film “peplum”, i famigerati banali colossal.

Raffaela Naldi Rossano, “A Liquid Confession”, 2019

“La riflessione sul mito, inteso come tentativo di rappresentare l’irrappresentabile, e la mitologia, nell’accezione di strumento di riproduzione e sopravvivenza del mito  (o anche ‘macchina mitologica’..) è centrale in questo lavoro”.  E si svolge incarnando l’eroe mitico nei soggetti della  realtà quotidiana, per di più alle prese con situazioni contemporanee dissacranti in cui ci si scontra con la modernità. Ma in questo modo non  esorcizza, bensì “restituisce in pieno la natura del  mito,  colto nella sua narrazione mutevole e circolare, facendo fare allo spettatore esperienza della ‘macchina mitologica’, in grado di riprodursi infinitamente insieme con le gesta degli eroi che la incarnano”.  

E’ una “narrazione mutevole e circolare” anche quella fatta fin qui, e il nostro spettatore ha potuto conoscere la “macchina artistica” della Quadriennale, connaturata ai suoi eroi: gli espositori selezionati appunto dalla “macchina “ suddetta.  Ci ha sorpreso la scelta  di tanti  temi  orientati ideologicamente, e in una sola direzione, per questo ci sembra si sia rinunciato di fatto a dare un panorama a 360 gradi dell’arte contemporanea anche nella rivisitazione del passato, a meno che  i temi declinati siano gli unici frequentati dagli artisti di oggi e di ieri, cosa di cui ci permettiamo di dubitare.

Michele Rizzo, “Rest” , 2020, # 1, dettaglio

La “macchina artistica” della Quadriennale  ha fornito anche le interpretazioni e le motivazioni delle singole opere e dei loro autori, da noi riportate traendole, lo ripetiamo, dalle introduzioni dei due curatori, Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, e dalle esaurienti schede illustrative cui abbiamo attinto.

 Lo abbiamo fatto, ribadiamo anche questo, per l’umiltà del cronista che non è critico d’arte, quindi non ha il “sacerdozio” per interpretare l’arte contemporanea, o almeno certa arte contemporanea, e quella della Quadriennale d’Arte in particolare. Diciamo questo a ragion veduta:  a parte ogni nostra personale considerazione che non conterebbe,  c’è un settore molto ampio degli appassionati dell’arte che andrebbe opportunamente rassicurato per non perderlo.  Perciò parleremo prossimamente, a conclusione del nostro “viaggio”, della difficile comprensibilità dell’arte contemporanea e delle sue motivazioni e implicazioni.  

Michele Rizzo, “Rest” , 2020, # 2, dettaglio

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”,   Treccani, pp. 680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo. Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, i primi 3 articoli sono usciti in questo sito il 1°, 2, 3 marzo, l’ultimo uscirà domani 5 marzo 2021.   Cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla mostra: per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  20 luglio, 13 marzo 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati nel sito web www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016.

Zapruder  Filmmakersgroup, “Zeus Machine. L’invincibile”, 2019, # 1, fotogramma video

Photo
Le immagini delle singole opere dei 43 artisti espositori, come le panoramiche delle sale espositive – queste ultime inserite nel 1° e 5° nostro articolo sulla mostra – sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata fornendo anche il prezioso Catalogo; alterttante immagini delle opere illustrano il 2° e 3° articolo, anch’essi dedicati alla galleria dei 43 artisti. Sempre sono state inserite immagini di 2 opere per ogni artista, tutte “courtesy l’artista” e in taluni casi anche “courtesy Collezione” o “courtesy Galleria”; a loro, e a tutti i titolari dei diritti, il nostro più vivo ringraziamento. Anche per illustrare ogni artista con 2 opere, in aggiunta alle immagini fornite dall’Ufficio stampa ne sono state inserite altre tratte dal Catalogo, in questo articolo le n. 7, 10, 11, 14, 15, 17, 20, 21, 23, 26; quindi, si ringrazia anche l’Editore con i titolari dei diritti. Sono tutte inserite nell’ordine di citazione nel testo, con l’avvertenza che le 2 opere di Salvo, di Francesco Gennari e di Anna Franceschini, con cui iniziano le illustrazioni, sono commentate alla fine del 3° articolo. In apertura, Salvo, “Case con lampione” 1986, e “Il passaggio del numero 1” 2014; seguono Francesco Gennari, “Tre colori per presentarmi al mondo, la mattina” 2013, e “Autoritratto su menta (con camicia bianca)” 2020; poi, Anna Franceschini, “Villa Straylight” 2019, # 1 e 2, due installazioni; quindi, Tomaso De Luca, “Salopp Gesagt Schlapp” 2014, e“Die Schlüssel des Schlosses” 2020; inoltre, Davide Stucchi, “Traslocando (Shy Neon)” , e “Socket (Corridor)” 2019; ancora, Caterina De Nicola, “Moxette’s Crazy, Stupid Love”, e “Degrought Depletion” , 2020; continua, Guglielmo Castelli, “Compiuta figura“, e “All You Can Eat”, 2020; poi, Benni Bosetto, “Jewels” 2019 e “Senza titolo (Il giornalista)” 2020; seguono, Valerio Nicolai, “Coglione” 2017, e “Capitan Fragolone” 2020; poi, Giuseppe Gabellone, “Falsa Finestra” 2020, # 1 e # 2 intera, interno e dettaglio; quindi, Luisa Lambri, “ Untitled (Schlindler House # 01)” 2007, e Untitled (The Met Breuer” # 05″)” 2016; inoltre, Raffaela Naldi Rossano, “Noi siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare“, e “A Liquid Confession” 2019; ancora, Michele Rizzo, “Rest” 2020, # 1 e # 2 dettagli; in chiusura, Zapruder  Filmmakersgroup,“Zeus Machine. L’invincibile” 2019, # 1 e # 2 fotogrammi video .

Zapruder  Filmmakersgroup, “Zeus Machine. L’invincibile”, 2019, # 2, fotogramma video

17^ Quadriennale d’Arte, 3. “Fuori”, prosegue la galleria della mostra, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Continua la nostra narrazione della 17^ edizione della Quadriennale d’Arte espressa nella mostra “FUORI”  al  Palazzo delle Esposizioni, curatori Sarah Cosulich direttore artistico della Fondazione Quadriennale di Roma, e Stefano Collicelli Cagol, con  altri 16 artisti dei 43 espositori, dopo i 16 artisti presentati in precedenza.  Alla sua realizzazione da parte della Fondazione ha collaborato l’Azienda speciale Palaexpo, con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo.  Inaugurata il 20 ottobre 2020  dopo la lunga chiusura per la pandemia Coronavirus è stata riaperta il 4 febbraio 2021 e lo resterà  fino alla primavera;  ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci. Catalogo della Treccani,  bilingue.   

Alessandro Pessoli, “Ritratto di Zucca”, 2013

In precedenza abbiamo passato in rassegna  i primi 16 artisti della nostra galleria e le loro opere, dopo aver prima riassunto l’impostazione della mostra, con al centro Roma e il Palazzo, le precedenti Quadriennali e l’Arte italiana, in una rivisitazione anche delle Quadriennali del passato che ha fatto proporre oggi artisti degli ultimi sessant’anni con una visione anticipatrice  allora ignorata.

Inoltre abbiamo indicato le tre linee di ricerca: il Palazzo, come sede storica della mostra alla quale si attribuisce una valenza particolare, avendo “una storia connotata con il ventennio fascista”; il Desiderio, ritenuto troppo trascurato mentre le sue pulsioni sono determinanti, in collegamento con le tematiche queer, femministe e omosessuali; l’Incommensurabile nell’opera dell’artista, non misurabile nè esprimibile, che va al di là di ogni collocazionw. Nella nostra rassegna abbiamo citato le descrizioni dei curatori e delle schede illustrative, data l’indecifrabilità per un cronista che non si atteggia  a critico d’arte, ma è un semplice narratore.

Sylvano Bussotti, “Il tappezziere”, 1953

Abbiamo concluso la rassegna dei primi 16 artisti con le “partiture musicali” di Sylvano Bussotti: ebbene, scrive la Cosulich,“a cavallo tra arte e musica ha lavorato anche Giuseppe Chiari  sostenitore della gestualità nella lettura delle opere, sia da parte del performer che interpretava le sue partiture musicali, sia dello spettatore posto di fronte a scritte che negavano la possibilità di rimanere inermi, passivi”.

La scheda lo considera, in linea con “Fuori”, “uno strumento che invita il pubblico ad assumere una posizione eccentrica  da cui guardare l’arte italiana, scrivendo un percorso narrativo rispetto alla sua tradizione canonica”. 

Sylvano Bussotti, “Arlequin Poupì”, 1955

Come si esprime tutto questo? “Le frasi scritte dalla mano di Chiari sono dichiarazioni icastiche che, muovendosi sul confine tra provocazione e non senso, non chiudono il discorso in modo assertivo, ma aprono un dialogo con il pubblico che le legge”. Ce n’è anche per le loro componenti: “Le parole  scritte dall’artista sembrano dare voce ai dubbi e alle perplessità che sorgono nei visitatori, ponendosi come un commento partecipato della mostra in cui sono esposte”.

Vediamole queste frasi, sono  gli “Statements”, con le scritte, in tutte maiuscole: “Forse  tu sei centrale e questo foglio è al margine” e “Lontani indipendenti  liberi ingenui appassionati naturali antagonisti, “Voglio  vivere senza capire. Posso? Graziee “Se questa è arte tu sei pazzo”,   il pubblico potrebbe rispondere che può vivere senza capire e far sua proprio quest’ultimo statement!  

Giuseppe Chiari, “Lontani indipendenti… “, 1999

Collicelli Cagol considera le scritte di Chiari “un ottimo viatico”  per reagire  “all’ossessione per il nuovo” in modo da  “sostituire e sostenere un cambio di postura con cui provare a ripensare il modo di guardare l’arte”. Farlo con questi “statements” del 1999 rispolverati dopo vent’anni quasi fossero ruderi preziosi e presentati come le “tavole della legge” ci lascia basiti, come si dice a Roma: sarà un nostro limite ma non possiamo nasconderlo.

Ancora il co-curatore cita “la potenza delle immagini, delle parole e delle azioni che promana da ogni spettacolo di Romeo Castellucci Socìetas. Lo vediamo in “Uso umano di esseri umani. Un esercizio in Lingua  Generalissima”  da Bologna  2013 e Mosca 2015. Tale lingua artificiale, coniata dalla Socìetas nel 1984, si legge nella scheda, “scaturiva dallo studio delle lingue morte ma compiutamente decriptate. Un ruolo preminente era riservato alla bruciante necessità comunicativa che fonde  le lingue creole, germinate in seno alle comunità di schiavi in stato di convivenza coatta  nelle regioni antillano-caraibiche, zone di deportazione coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo”.

Giuseppe Chiari, “Se questa è arte…”, 1999

Cosa c’entra  questo con la mostra?  L’installazione sulla “Resurrezione di Lazzaro” la “riconvoca a trent’anni di distanza dalla sua invenzione”, la testa guarda ancora più lontano all’indietro.  Con questa caratteristica: “I dispositivi scenici di Romeo Castellucci si fondano sul disinnesco di ogni illustrazione devota  al regime mimetico del teatro”.  Ed ecco l’intento: “Si tratta di far fallire il potenziale comunicativo, retorico e pedagogico della scena che si fonda sulla pretesa di uno sguardo trasparente sul Reale”.  Nella performance  sull’affresco di Giotto, “di fronte al Cristo benedicente, Lazzaro pronuncia un diniego alla vita, supplicando la propria permanenza nel mondo dei morti”. Il linguaggio, e tutto il resto, “fuori”  dall’abituale, torna il passato per il salto nel futuro. Sarà……

Le  fotografie di Lisetta Carmi , secondo Collicelli Cagol,  “raccontano i sintomi di potere di una società  patriarcale attraverso la lettura del suo erotismo e autoritarismo, in un ciclo continuo di morte e rinascita”. Da pianista a fotografa, presa dall’impegno per le cause sociali e i diritti dei lavoratori, “le sue immagini mettono in luce le relazioni tra classi, generi, tra erotismo e potere alla base della società italiana”, secondo la scheda.

Romeo Castellucci Societas,“Uso umano di esseri umani.Un esercizio in Lingua Generalissima,2014 # 1

Nella serie “I travestiti” 1965-71,  dà dei transessuali “con delicatezza l’immagine di corpi che vengono rappresentati nella loro completezza, senza soffermarsi solo sulla loro sessualizzazione e la loro mercificazione”. Vien fatto di chiedersi come avrebbe potuto farlo.  “Il parto” 1968 richiama le immagini senza veli, forse le prime che più esplicite non potevano essere, del  film uscito poco prima, nel settembre 1967, “Helga”, le cui inquadrature  ruppero  il tabù del nudo integrale femminile con il pretesto di riprendere il travaglio della nascita.

Il precedente “Erotismo e autoritarismo a Staglieno” 1966, sempre della Carmi, intende sottolineare  “lo sguardo patriarcale  che orienta la rappresentazione della donna nei gruppi di sculture  funebri di fine Ottocento presenti nel cimitero di Staglieno a Genova”.  Ma non c’è solo la “sguardo patriarcale”, anche  “il perbenismo borghese  e il paradosso dell’uso di stereotipi religiosi”; e le statue femminili fotografate “coniugano l’erotismo alla sottomissione”, le donne sono “madri e mogli fedeli” ma anche  “ancelle e dee il cui corpo  sessualizzato dallo sguardo maschile viene  tagliato, isolato e svelato”. Certo, per riesumare – ci si perdoni il verbo ma siamo in carattere con l’ambiente cimiteriale – fotografie di oltre mezzo secolo fa, i “sacerdoti” dell’arte contemporanea  dovevano cercare motivazioni all’altezza.  Ma non è un’esagerazione?

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Romeo Castellucci Societas,“Uso umano di esseri umani.Un esercizio in Lingua Generalissima,2014,# 2

Gli “immaginari coloniali e fascisti”, con la loro “pervasività e la presenza nella società e nel paesaggio italiano” sarebbero  “parte di un inconscio collettivo, un alfabeto da destrutturare e da demolire”, nella presentazione di Collicelli Cagol. Per fortuna  la “demolizione” del Palazzo delle Esposizioni è stata solo virtuale, sostituita dalla “sfilata” di stanze in cartongesso dell’allestimento che lo mimetizzano.  Il curatore riferisce tale operazione a due coppie di artisti  che, “con metodologie diverse, attraverso l’uso di archivi e l’analisi di persistenze culturali e architettoniche,  ci invitano a reagire a questo patrimonio ingombrante, ripensandone la relazione in maniera propositiva, invece che distruttiva”.

Rassicurati per lo scampato pericolo, guardiamo la rielaborazione, da parte di  Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi,  dei fotogrammi di film della prima metà del Novecento “per far emergere nei loro film – attraverso lo zoom e il ralenti – il mostruoso altrimenti celato”; in “Pays Barbare”  2013 le immagini del video parlano alla memoria collettiva in senso anticolonialista, e fin qui è una constatazione.

Lisetta Carmi, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno, 1966, # 1

L’ideologia prevale quando, pur nella giusta condanna delle nequizie del fascismo e nell’irrisione dei suoi aspetti grotteschi, la scheda su Gianikian conclude con le “responsabilità individuali e collettive, odierne come passate” con queste parole: “Insolente, atrocemente farsesco, il fascismo si ripresenta. Noi proviamo un sentimento di inquietudine.  Siamo immersi in una notte profonda. Non sappiamo dove stiamo andando. E voi?”. Modestamente lo sappiamo, certo non nella direzione ossessivamente temuta dai due artisti. Vorremmo  andare avanti senza la testa rivolta all’indietro, e poter chiamare anche questa Quadriennale come quella del 2016 “un salto nel futuro” e non una retromarcia nei gorghi del passato, tanto più così angoscioso.  

Con DAAR, di Sandi Hilal  e Alessandro Petti, si va addirittura oltre nel tenere la testa rivolta all’indietro, con una “ricerca per fondare l’Ente di decolonizzazione italiano”. Vi sono fotografie che lo collocano ad “Asmara”  e in  Sicilia, “Borgo”, sono del 2019 e 2020. Secondo la scheda, tale fantomatico ente “è un  urgente contributo  alla discussione sulle persistenze del passato e sull’oblio della memoria” in modo da iniziare “un percorso di decolonizzazione degli immaginari collettivi e individuali”. 

Lisetta Carmi, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno,1966, #2

L’acronimo DAAR, di Hilal e Petti è sulla decolonizzazione (“Decolonizing Architecture Art Residency” ), definita “il processo di liberazione da una produzione di conoscenza a senso unico, per restituire a una pluralità di voci altrimenti ignorate il senso della Storia, della memoria e della sensibilità”. E viene rivolto un invito “alla riflessione sulla presenza delle architetture fasciste in Italia per minare la logica della riduzione del Meridione alla stregua delle ex colonie africane”.

Non sono soltanto astrazioni, con il progetto  Campus in Camps DAAR ha lanciato nel 2012 un programma educativo sperimentale in un campo di profughi palestinesi trasformati in soggetti politici con questa impostazione: “La dimensione artistica diviene un terreno dove rendere possibile e giustificabile l’esercizio di pratiche utopiche”. Speriamo non si trasformino in qualcosa di diverso, il riferimento alle “architetture fasciste” è inquietante, i fanatismi fondamentalisti hanno fatto già troppi danni.  

Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, “Pays Barbare”, 2013, # 1, fotogramma video

Avendo  la testa sempre rivolta all’indietro  si fa la conoscenza di Amedeo Polazzo, il cui “Studio per dipinto a muro”   – con i ghirigori dai colori tenui in pastello e acqua a richiamare i cancelli e le grate dei cantieri,  lungo lo scalone in “pendant”  con i grandi fiori sull’altro scalone – secondo Collicelli Cagol “sovverte gli intenti celebrativi di quella tradizione”, identificati nella “cultura della pittura murale italiana degli anni Trenta”.

La lingua batte…. dato  che,  secondo la scheda,  gli scaloni del palazzo non solo vanno visti come “elemento scenografico  di esaltazione retorica nelle  Quadriennali degli anni Trenta” –  e questa sarebbe una ovvia constatazione –  ma altresì “recano nella loro magniloquenza la tensione tra la propaganda fascista di supporto all’arte e l’istituzionalizzazione del lavoro artistico”.

Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, “Pays Barbare”, 2013, # 2, fotogramma video

Come demistificarlo? “Le sue opere sono destinate ad essere cancellate e a non lasciare alcuna traccia” in quanto i colori tenui molto diluiti in acqua sulle pareti sono tali da dissolversi; tuttavia  la pittura, anche se al termine della mostra “non lascerà tracce visibili, allo stesso tempo però essa impregna i muri di Palazzo delle Esposizioni”. Il tema del cantiere nelle sue recinzioni è declinato come metafora di tante ingiustizie, dal lavoro domestico femminile mal retribuito a quello disumano dei braccianti,  quindi il lavoro, allora esaltato in termini magniloquenti, ora “si fonde a un immaginario apparentemente domestico”.

D’accordo sulla metafora, però ci sembra eccessivo dire che “Polazzo ribalta  gli assunti propagandistici degli anni Trenta  richiamando per contrappasso l’articolo 1 della Costituzione italiana ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’”. Anche i regimi  esaltano il lavoro, lo faceva quello fascista e quello comunista con il “Realismo socialista” nell’arte,  in termini magniloquenti, sì, ma non è  magniloquente, però  in modo giusto, aver  fondato sul lavoro la nostra Repubblica democratica?

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DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, “Ente di decolonizzazione, Asmara”, 2019

Si torna nel presente dopo la demistificazione del passato, sempre in chiave ideologica, leggendo nello scritto di Collicelli Cagol  che le  pareti della sala espositiva “vengono letteralmente fatte a pezzi nel video di  Monica Bonvicini“, la quale si  serve di  varie forme espressive, oltre al video, disegno e fotografia, performance e architettura. Si legge nella scheda che, “in particolare, il lavoro di Bonvicini osserva il modo in cui  architettura e corpo umano si compenetrano, assumendo l’architettura come una delle migliori rappresentazioni delle ideologie del potere”.

Non basta, l’inquadramento ideologico  parla di “un processo di decostruzione di un modello patriarcale e maschilista, colpito nei propri simboli e negli immaginari tramite un lavoro di sovversione che, con fare umoristico, mette in questione il ruolo passivo tradizionalmente attribuito alla donna”.  Può essere evocato dalla performance ”Give me the pleasure”  dell’installazione “3nd Act Never Die for Love”  del 2019,  due gabbie cilindriche per il 3° atto della “Turandot” di Puccini con la donna che cerca di uscirne: “Le gabbie diventano armature  che proteggono e delimitano uno spazio interiore in cui l’identità femminile è in grado di autodeterminarsi e di muovesi liberamente  in un ambiente normato dal desiderio maschile”.

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DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, “Ente di decolonizzazione. Borgo”, 2020

Vediamo, sempre della Bonvicini, anche 5 partiture musicali numerate “From the Series Bind Me! Torture me!” 2019 con sovrapposte scritte nelle quali “la rabbia femminista si tramuta in un potere vitale e costruttivo”: leggiamo “women’s desire” ed “erotic love”, fino alla domanda cruciale “what does woman want?”.  Se invece di “woman”  fosse scritto il nome dell’artista forse qualche visitatore potrebbe cimentarsi nel dare una risposta, oltre a quella della scheda.

Lorenza Longhi  viene collocata con gli artisti definiti della tendenza ”glam”,  il “glamour” cui Collicelli Cagol  attribuisce “l’associazione ai poteri seduttivi di una donna”, tanto più  “in una società intrisa di maschilismo”,  con lei anche altri come il già citato Vetrugno.  Vediamo “Virtual Hell” 2019 e varie “Untitled” del 2018, con le specifiche “Brocki”, “Food Narrations”, “Table 1”.  Secondo la scheda, quelli dell’artista “si atteggiano a USM Haller, tipiche scaffalature da ufficio standardizzate dal rigore svizzero, sembrano neon bianchi, presentano serigrafie di giganteschi moduli da compilare e pubblicità da riviste patinate…”.

Amedeo Polazzo, “Studio per dipinto a muro”, 2020, # 1, dettaglio

Sono realizzate con una “manualità artigianale” ottenendo “pezzi unici, irriproducibili”. Precisamente, “Longhi personalizza  così i mobili, svelandone le potenzialità espressive  attraverso il gioco delle possibilità combinatorie”. E il significato? “Con gli interventi sull’architettura e sugli arredi della sede espositiva, Longhi ne commenta la magniloquenza e il retaggio del sistema di potere di cui è portatrice”. Ed ecco come: “Lo fa travestendo, sporcando e parzialmente celando i simboli di rappresentanza per  rivelarne in maniera ancora più chiara la logica nascosta”. Magniloquenza e retaggio di potere del Palazzo, altro che “damnatio memoriae”! Un’ossessione che si perpetua.

Nelle  sculture  e nei disegni di  Isabella Costabile, secondo Collicelli Cagol, “si muovono personaggi ispirati  agli immaginari dell’afrofuturismo, della cultura giamaicana  e italiana tra le quali è cresciuta”. L’afrofuturismo è un movimento sorto negli anni ’70 con l’intento di sostenere le lotte per i diritti civili degli africani: la scheda lo considera  “come strumento di riappropriazione speculativa della capacità di immaginare il futuro, proiettando narrative ottimistiche e  costruendo situazioni ideali”. Sono figure fantastiche  extraterrestri, realizzate con materiali di scarto e oggetti tra i più disparati – “utensili esauriti, elementi organici e artificiali come bambole, posate, gusci di uova e chiodi arrugginiti” – impegnate in riti  magici in paesaggi lunari.

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Amedeo Polazzo, “Studio per dipinto a muro”, 2020, # 2, dettaglio

In tal modo l’artista “decostruisce” con la “defamiliarizzazione”, e in tal modo “garantisce il distacco tra l’oggetto e il suo ambito di provenienza”. Vediamo , del 2016 “High Priestless”, del 2018  “Santa Maremma”, “Frustone”, “Al pascolo”, nei quali l’artista interviene sui “giocattoli usati” con vari materiali, anche forchette, cucchiai, scarti di metallo e simili. 

E  raggiunge questo risultato: “Costabile traduce tali disposizioni in un’etica processuale che indaga la metafisica dei corpi, siano essi persone e oggetti:  le espanse potenzialità di alcune forchette, le nuove utilità dei barattoli di latta diventano attualità e sono pretesti tramite cui, come l’artista sottolinea, ‘possiamo capire molto su noi stessi’”. A noi non è riuscito, sarà ancora un nostro limite.

Monica Bonvicini, “Give Me the Pleasure” da “3nd Act Never Die for Love”, 2019

Anche Nanda Vigo  va su piani virtuali galattici, ricorda Collicelli Cagol, “per tutta la vita ha progettato strumenti per entrare in contatto con altre dimensioni oltre al visibile che abitiamo quotidianamente”.  La ispirano i  viaggi che sono stata la sua passione e il suo alimento culturale e vitale, e nonostante la loro limitazione terrestre le hanno aperto gli occhi sull’incommensurabile. Nella scheda si legge che “l’intento della sua ricerca estetica è quello di  sondare la possibilità di creare stimoli sensoriali attraverso  l’impiego di materiali industriali e la creazione di spazialità  che inglobino e avvolgano il visitatore”. 

Ed ecco i suoi motivi ispiratori: “Per l’artista,  un cronotopo è un ‘tempo-spazio’ che conduce il visitatore verso dimensioni altre, non ancora esplorate, alla ricerca di una vera  e propria a-dimensionalità”.  Così “Exoteric Gate” 1976, ispirato ai luoghi dove sono nate le più antiche civiltà, Egitto e Iran, Nepal e India, Messico, una serie di figure geometriche semplici ed essenziali rievocano l’”Alfabeto cosmologico” del 1972. “L’ambiente creato, attraverso specchi e neon, si configura attraverso un altrove sospeso nel tempo, su cui si aprono dei portali, passaggi che conducono verso una realtà ignota, quello spazio-tempo relativo da lei  immaginato”. Un cronotopo provvidenziale libero da ogni riflesso ideologico, ci piace aggiungere.  

Monica Bonvicini, “From the Series Bind Me! Torture me! # 2″, 2019

Riconducono al tempo “che non può più essere pensato lineare” Agudio e Marcon – presenti nel 2016 alla 16^ edizione – “ci spingono a tornare sui nostri passi, per immergerci tra visioni di pittura espansa e desideri erotici”, dato che  “i palazzi storici italiani sono macchine del tempo”, osserva Collicelli Cagol.

Alessandro Agudio , si legge nella scheda, “non concepisce i propri lavori come opere ma come oggetti colti nel pieno dell’esaurimento della propria funzione”. In pratica utilizza oggetti di arredamento per le case della borghesia lombarda “come degli idoli da salotto, oggetti seducenti da esporre in bella vista”. Così “evoca un’immagine  archetipica dell’identità italiana creata dall’arredamento diffuso  nelle case della media borghesia degli anni Ottanta”. Il suo interesse al dettaglio e  alla superficie degli oggetti esprime “la propria natura artificiosa e stimolante”, e lo spazio così “arredato” appare come “un’impalcatura teatrale”. 

Lorenza Longhi, dalla mostra “Visual Hell”, 2019

Nelle opere concepite da Agudio per la Quadriennale, “l’elemento del corpo come unità di misura è centrale”, tanto che impiega “attrezzi da palestra” e in particolare “quattro forme usate per l’allenamento delle dita in sospensione dei climber” , a parte “Un angolo (torcia) 2019. Sono del 2018 “Un angolo (Tipo vespasiano)” e due oggetti forse da palestra separati da uno spazio, fissati al soffitto e al pavimento da due corde con ganci, il lunghissimo titolo è “Hello, I Know It Might Sound Weird but I Am Wondering if It Is Possible to Make Sure that the Surface of of the Item Is Homogeneous as Possible. Many Thanks”, 2018. “Nei cavi e nella sospensione si annida un erotismo violento… suggeriscono un’atmosfera erotica soffusa eppure esplicita, la stessa che si respira nei club finitess”.

Non basta, non ci eravamo accorti che l’atmosfera creata da Agudio “invita a toccare, a infilare le dita a giocare con le forme, a spiare i corpi degli altri nella relazione con gli attrezzi, nell’atto dello sforzo fisico”. Se lo scrivono sarà così, anche se personalmente confessiamo di non sentire un simile impulso…

Lorenza Longhi, Untitled (Table 1)”, 2018

Pur se accomunato nei “desideri erotici”, Diego Marcon – presente anche alla 16^ edizione del 2016 – presenta opere ben diverse, innanzitutto in quanto si tratta di film e video, poi perché riguardano il mondo dell’infanzia “non più in termini di purezza o innocenza: quello che interessa l’artista è la sua natura ambigua”, per cui lo spettatore viene  ad assumere “un punto di vista sentimentale e allo stesso tempo opaco, straniante nei confronti di un mondo in cui trasparenza e positività diventano ideali consunti e triti”.

Le parole della scheda sull’opera di Marcon evocano  una metafora della condizione umana considerata patetica dall’artista “tenendo insieme due dimensioni, quella del dolore e quella della comicità, che spesso si intrecciano nella sua opera”. L’opacità è espressa dal buio, irrompono “rumori fuori scena”, ci sono gli adolescenti come “presenze inquietanti”, immobili o addormentati, su cui incombono minacce indistinte.

Isabella Costabile, “Santa Maremma”, 2018

“Il buio di  “Monelle”  – il titolo del film di Marcon del 2017 – non è un buio vuoto o silente: la visione delle immagini, così repentina e fugace, carica lo spettatore di una fame dello sguardo, una frustrazione derivata dalla difficoltà di trattenere l’immagine e il desiderio di interrogare lo schermo nero”.  Si intitola “Monella” il film di Tinto Brass del 1998, con l’adolescenza inquieta e inquietante, sarà una coincidenza?

L’intento di  Diego Gualandris  ”che vede i suoi quadri come  dispositivi di seduzione”,  secondo Collicelli Cagol  è di “risvegliare l’eccitazione sessuale attraverso il giardino pittorico creato per FUORI”. Già ci sfuggivano l’erotismo violento dei cavi che sorreggono gli attrezzi e  i desideri erotici riferiti da Marcon ad adolescenti nel buio, vediamo se ora possiamo sentire l’eccitazione sessuale data dagli “effetti psichedelici con il potere di attrarre e re-incantare nonostante la repulsione che provocano”,  provocati da frammenti umani, vegetali  e microorganismi “che emergono attraverso le velature e le campiture”.

Isabella Costabile, “Frustone”, 2018

Il curatore spiega da dove trae origine e alimento la “seduzione” evocata per Gualandris : “La capacità di ammaliare, incantare si riassume in una parola che racchiude una dimensione molto presente nell’immaginario collettivo italiano e sull’Italia”, la parola è il “glam”, l’abbiamo già citata, un termine prima “associato a  incantesimi e magia”, poi divenuto più ampio,  “riferito a qualcosa che strega, irretisce, affascina e conquista”.

E non manca l’inquadramento ideologico: “In una cultura intrisa di maschilismo, l’associazione ai poteri seduttivi  di una donna è immediata”, del resto è uno dei “leit motiv” dichiarati della mostra. Sarà colpa nostra se continuiamo a non sentire questo effetto sessuale. L’opera di Gualandris, realizzata per la “Quadriennale”, è il trittico “Edera” 2020, sull’’Eden immaginario, con tre grandi tele collegate , “Terza testa del Galloleone”, “Casa dei sogni di un ragno violino”, “Digerire una tigre” , tra il 2018 e il 2020.

Nanda Vigo, “Strigger of the Space”, 1974, # 1

Un  “uso psichedelico dei colori” sarebbe tipico anche di Salvo, derivato dalla musica psichedelica degli anni ’60 di cui era appassionato, tradotto nel “reincantamento dei paesaggi urbani, montani, marini e campestri”- nelle parole di Collicelli Cagol –  esso pure improntato al “glam”, espresso nel trattato dello stesso Salvo “Della pittura”. Ci troviamo di fronte, questa volta,  a un artista concettuale di  alta levatura  che nella pittura si esprime attraverso soggetti e cromatismi di grande effetto negli  esterni con lampioni e paesaggi, negli interni con architetture e ambienti di sogno.

Attraverso un uso sapiente dei colori – è scritto nella scheda –  l’artista ripensa i generi della pittura italiana  tradizionale, come il paesaggio e la natura morta, immergendo lo spettatore in trip cromatici inaspettati”. Vediamo realizzati, tra il 1986 e il 1988 “Undici luci” e “La città”, “Casa con lampione” e “Al cinema”; nel  1992 e 1999 “Ottomania“  e “Roma”, nel 2014 “Il passaggio del numero 1”.

Nanda Vigo, “Strigger of the Space”, 1974, # 2

“Reincantare  il mondo e aprire le porte della percezione (per parafrasare il famoso libro di Huxley)  sembra essere la risposta a chi considerava la pittura  spacciata di fronte all’immaterialità (e semplificazione) delle ricerche concettuali divenute tendenza”. Evviva per questo ritorno a parlare di arte dopo tanta ideologia passata e presente che trova, sì, i suoi riflessi nell’arte di cui spesso è ispiratrice, ma non può essere  così dominante fino a sembrare ossessiva.   

“La stessa rigorosa matrice concettuale e demiurgica di Salvo ispira Gennari  nella scelta dei materiali come viatico per esprimere la propria dimensione, che si (s)materializza in gin, vetri e superfici liquide che rifrangono  luci e immagini, marmi e metalli che con la loro allure  attirano i visitatori”, così Collicelli Cagol presenta  Francesco Gennari.

Alessandro Agudio, “Un angolo (torcia)”, 2019

La scheda su Gennari parla di “una radice minimalista che si accompagna a un’emotività straripante, creando una dicotomia inedita tra metafisica e minimalismo”. E’ “autorappresntazione” la sua con “la percezione dell’esistenza di un doppio , un altro con cui relazionarsi: nella stessa persona esistono due Gennari, uno che pensa e l’altro che esegue”.

Vediamo in mostra, di Gennari, “Tre colori per presentarsi al mondo, la mattina” 2013, due  “Autoritratto su menta (con camicia bianca)” 2018 e 2020, il primo un triangolo di sottili tubi di vetro  di Murano fusi a mano, gli altri due evanescenze verdi a getto d’inchiostro su carta, molto più spettacolari del primo, sembrano di due autori diversi.  Nel triangolo c’è  “il tentativo di una presentazione di sé che l’artista fa al mondo”; nelle evanescenze “un’immagine di sé incorporea, animalesca e quasi mostruosa”. In queste opere  il visitatore vede tutto fuorché un vero autoritratto.

Alessandro Agudio, “Hello, I Know It Might Sound Weird but I Am Wondering if It Is Possible to Make Sure that the Surface of of the Item Is Homogeneous as Possible. Many Thamks”, 2018

Franceschini, De Luca, Stucchi  utilizzano display, vetrine e scenografia per “ammaliare o giocare con linguaggi in grado di irretire, per sovvertire le apparenze, giocare con gli stereotipi  e rivelare quanto  di artefatto popola gli immaginari collettivi”, osserva Collicelli Cagol.   

Anna Franceschini – un ritorno il suo dopo la partecipazione alla 16^ edizione del 2016 – si concentra “sugli oggetti e sul loro potenziale narrativo, in relazione alle persone e al loro vissuto. Il suo lavoro è tutto teso ad animare l’inanimato”, recita la scheda. E’ una “architettura visiva” che vuole coinvolgere lo spettatore strappandolo dalla consueta posizione passiva e si esprime anche nel linguaggio cinematografico, il movimento ne è una componente importante. E’ esposta  una sua installazione  del genere “screenless animation”, con il “cinema senza schermo”, il movimento è dato da un macchinario che muove parrucche bionde utilizzate negli spettacoli  “drag”.

Diego Marcon, “Monelle” 2017, # 1, fotogramma di film

“Villa Straylight” 2019 è intitolata l’opera della Franceschini ispirata alla fantascienza., “il movimento immaginato dall’artista somiglia  a una danza in cui desiderio e inganno si confondono, una danza di cui non riusciamo a individuare la successione delle figure, l’ordine degli strumenti, l’inizio e la fine”.

Questo per il movimento, e il resto? “La parrucca allude a un immaginario erotico che pone al centro corpi non normati, eccedenti… I capelli delle parrucche di Franceschini ondeggiano  sinuosi trasportati dalle carrucole, mettendo in scena un corteggiamento, un’ipnosi incantevole”. Di nuovo  dobbiamo confessare che corteggiamento e ipnosi non li abbiamo sentiti, sarà ancora colpa nostra…

E De Luca e Stucchi, gli altri due artisti “ammaliatori”? Ne parleremo prossimamente descrivendo gli ultimi 11 artisti dei 43 espositori nella mostra.

Diego Marcon,“Monelle”, 2017, # 2, fotogramma di film

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. . www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”,   Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo.  Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, i primi 2 articoli sono usciti in questo sito il 1° e 2 marzo, gli ultimi 2 usciranno il 4, 5 marzo 2021.  Cfr. i nostri articoli, in questo sito, sulla mostra:  per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  20 luglio, 13 marzo 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati nel sito web www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016; per gli artisti citati,  in questo sito, De Chirico, 2019: settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13,  15; 18, 20, 22; 25, 27, 29;  nello stesso sito www.arteculturaoggi.com  De Chirico 2016: 17 dicembre e 21 febbraio, 2015: 1° marzo, 2013: 20, 26 giugno, 1° luglio,Tinto Brass 5 marzo 2016, 12 aprile 2014, Deineka (Realismi socialisti)  26 novembre, 1, 16 dicembre 2012;  in cultura.inabruzzo.it,  Realismi socialisti 3 articoli 31 dic. 2011, De Chirico, 2010: 8, 10,11 luglio,  2009:  22 dicembre, 23 settembre, 17 agosto,  in fotografia.guidaconsumatore.com Rodcenko, 2 articoli il 17 dicembre 2011  (gli ultimi due siti  non sono più raggiungibili, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su altro sito). Su De Chirico,  a stampa nei semestrali della Fondazione Giorgio e  Isa de Chirico  “Metafisica” e   “Metaphysical Art” (edizione in inglese) n.11-13 del 2013.  

Diego Gualandris, “Terza testa del Galloleone”, 2018

Photo
Le immagini delle singole opere dei 43 artisti espositori, come le panoramiche delle sale espositive – queste ultime inserite nel 1° e 5° nostro articolo sulla mostra – sono state messe a disposizione dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata fornendo anche il prezioso Catalogo; altrettante immagini delle opere illustrano il 2° e 4° articolo, anch’essi dedicati alla galleria dei 43 artisti. Sempre sono state inserite immagini di 2 opere per ogni artista, tutte “courtesy l’artista” e in taluni casi anche “courtesy Collezione” o “courtesy Galleria”; a loro, e a tutti i titolari dei diritti, il nostro più vivo ringraziamento. Anche per illustrare ogni artista con 2 opere, in aggiunta alle immagini fornite dall’Ufficio stampa ne sono state inserite altre tratte dal Catalogo, in questo articolo le n. 1, 5, 7, 9, 12, 19, 21, 23, 24, 26, 28, 29; quindi, si ringrazia anche l’Editore con i titolari dei diritti. Sono tutte inserite nell’ordine di citazione nel testo, con l’avvertenza che la 2^ opera di Alessandro Pessoli e le 2 opere di Sylvano Bussotti, commentate nel 2° articolo sono riportate all’inizio di questo; e che le 2 opere di Salvo, di Francesco Gennari e di Anna Franceschini, commentate in questo articolo, sono riportate nel 4° articolo. In apertura, Alessandro Pessoli, “Ritratto di Zucca” 2013; seguono, Sylvano Bussotti, “Il tappezziere” 1953, e “Arlequin Poupì” 1955; poi, Giuseppe Chiari, “Lontani indipendenti… ” e “Se questa è arte…” 1999; quindi, Romeo Castellucci, Societas, “Uso umano di esseri umani. Un esercizio in Lingua Generalissima” 2014, # 1 e # 2, due momenti della “performance”; inoltre, Lisetta Carmi, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno 1966, # 1 e # 2 stampe; ancora, Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, “Pays Barbare” 2013, # 1 e # 2 fotogrammi di video; continua, DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, “Ente di decolonizzazione. Asmara” 2019, ed “Ente di decolonizzazione. Borgo” 2020; poi, Amedeo Polazzo, “Studio per dipinto a muro” 2020, # 1 e # 2 dettagli; quindi, Monica Bonvicini, “Give Me the Pleasure” da “3nd Act Never Die for Love” e “From the Series Bind Me! Torture me! # 2″, 2019 ; inoltre, Lorenza Longhi, dalla mostra “Visual Hell, New Location” 2019, e “Untitled (Table 1)” 2018; ancora, Isabella Costabile, “Santa Maremma”, e “Frustone” , 2018: continua, Nanda Vigo, “Strigger of the Space” 1974 # 1 e # 2; poi, Alessandro Agudio, “Un angolo (torcia)” 2019, e “Hello, I Know It Might Sound Weird but I Am Wondering if It Is Possible to Make Sure that the Surface of of the Item Is Homogeneous as Possible. Many Thaks” 2018; quindi, Diego Marcon, 2 fotogrammi del film “Monelle” 2017, in chiusura, Diego Gualandris, “Terza testa del Galloleone” 2018, e “Casa dei sogni di un ragno violino” 2019.

Diego Gualandris, “Casa dei sogni di un ragno violino”, 2019